indice n.150

sul progetto neocoloniale francese ed europeo in africa
aggiornamenti dai campi di internamento per immigrati
Cosa succede in Tunisia?
I piani NATO in Europa
EMILIO IN CARCERE. APPELLO ALLA SOLIDARIETA’
LETTERA DAL CARCERE DI CREMONA
Carcere, le ambiguità del ministero sulle riforme
LETTERe DALLA SEZIONE FEMMINILE DEL CARCERE DI UTA (CG)
Lettera dal carcere di Siano (CZ)
da una lettera dal carcere di verona
Lettera dal carcere di Milano-Opera
da una Lettera dal carcere di Pavia
Notizie dal carcere di Spini di Gardolo: pestaggi e soprusi
31 dicembre: Presidio sotto le mura del CARCERE di UDINE
milano: 8 MARZO SOTTO IL CARCERE DI SAN VITTORE
Presenza solidale fuori dalle carceri
sul processo per le violenze a Santa Maria Capua Vetere
Sabato 26/02 – CORTEO! CONTRO il GREENPASS e OLTRE
Insorgiamo con i lavoratori GKN
LORENZO VIVE, È TEMPO DI RISCATTO
Solidarietà al comitato di lotta per casa del giambellino (mi)



sul progetto neocoloniale francese ed europeo in africa
Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una accelerazione delle tensioni diplomatiche, politiche ed anche militari tra
alcuni Stati dell’Africa Occidentale e l’Unione Europea, in particolare attraverso il suo pivot militare rappresentato
dalla Francia, la quale conta poco meno di 5.000 militari in tutto il Sahel.
Mali, Guinea e Burkina Faso sono entrati in “rotta di collisione” con quelli che erano i piani decisi per loro a
Bruxelles e Francoforte, ed in parte a Washington. Il Mali, in particolare, che era il centro della strategia militare
francese, nonché il paese che “ospitava” più della metà di tutti i suoi effettivi nell’area, è venuto ai ferri corti con
Parigi, ma non solo, dopo il secondo “colpo di stato” avvenuto l’estate dello scorso anno.
In altri Paesi lo status quo neo-coloniale scricchiola a causa delle macerie prodotte da un modello di sviluppo che ha
devastato i paesi divenuti la periferia integrata alle catene del valore occidentale già prima della fine del mondo
bipolare e la “vittoria” della globalizzazione neo-liberista.
I due giorni di vertice tra UE ed i paesi dell’UA svoltisi il 17 e 18 febbraio a Bruxelles confermano la volontà europea
di investire 150 miliardi in Africa in alcuni settori strategici con una strategia che si poggia prevalentemente sui
traballanti leader politici filo-occidentali nell’area.
Parigi è stata per così dire l’ariete nei territori del suo antico dominio coloniale – su cui non ha mai voluto mollare
la presa della sua grandeur – per conto della UE, ma anche gli altri Stati europei – compresa l’Italia – hanno
contribuito con gli “stivali sul terreno”. Recentemente, il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, ha
dichiarato che il Sahel rappresenta “il vero confine meridionale dell’Europa”, sostanziando di fatto le pretese
espansionistiche e le influenze politiche dell’imperialismo dell’Unione Europea.
L’Italia, è sempre bene ricordarlo, impiega 250 uomini e otto elicotteri, nella task-force Takouba, la missione
multinazionale di truppe speciali prevalentemente europea a guida francese che conta all’oggi circa 900 effettivi,
pensata in piena crisi della missione Barkhane, e che aveva all’inizio trovato la disponibilità di 5 Paesi (Belgio,
Danimarca, Estonia, Olanda, Portogallo) per poi allargarsi, comprendendo una quindicina di Stati, tra cui il nostro,
senza che ci fosse da noi nemmeno lo straccio di un dibattito politico pubblico sul senso della missione.
La Germania – secondo la DW – ha il suo più grande contingente all’estero, circa 1.300 uomini, proprio in Mali,
all’interno di due differenti missioni: 1.000 su 15.000 effettivi della missione delle Nazioni Unite MINUSMA, iniziata
nel 2013, e più di 300 su circa 1.100 nella missione di Addestramento della UE, EUTM-Mali. La Spagna – Secondo EL PAIS –
ha 530 effettivi nella missione EUTM-Mali. Complessivamente le forze “esterne” nella regione, ammontano a 25 mila unità,
riferisce FRANCE 24.
I super-Stato europeo in formazione sta incontrando diversi ostacoli alla sua affermazione in quello che pensava potesse
essere il proprio cortile di casa: temibili competitor come Russia e Cina, ma anche Turchia e Petrol-monarchie del
Golfo, militari “patriottici” che destituiscono i terminali politici locali della Françafrique e che dimostrano una
certa indipendenza di giudizio, nelle scelte che operano e soprattutto movimenti politico-sociali di massa che vogliono
continuare il loro percorso di liberazione lì dov’è stato bruscamente interrotto dall’Occidente.
La presenza militare francese attraverso l’operazione Serval, poi divenuta Barkhane, nel Sahel è stata intrapresa nel
2013 con l’intento propagandato della “lotta al terrorismo”. Una narrazione tossica – quella della guerra al terrorismo
islamico – che è servita da strumento ideologico per giustificare i nove anni della più lunga ed estesa operazione
militare francese dalla Seconda Guerra Mondiale (a parte l’operazione contro-insurrezionale in Algeria dal 1954 al ’62),
in maniera non dissimile dalla “war on terror” propagandata da Washington dall’Afghanistan in poi.
In realtà, più che a difesa delle popolazioni civili minacciate e vittime delle violenze perpetrate da gruppi armati
jihadisti nella regione (allora alleati con le milizie Touareg), l’obiettivo della Francia è stato fin da subito la
tutela dei suoi interessi economici e la prosperità dei profitti delle sue multinazionali che depredano e saccheggiano
le risorse del Sahel (Total, ex-Areva, Bolloré ed altre ancora).
Sotto il profilo prettamente militare se qualche dirigente jihadista è stato eliminato, l’insorgenza islamica si è
diffusa a macchia d’olio e lambisce ormai gli Stati del Golfo di Guinea (Benin, Togo e Costa d’Avorio, Ghana), e sembra
saldamente ancorata in luoghi dove non era mai riuscita a impiantarsi prima.
La complicità e la subordinazione di alcuni governi dell’Africa occidentale al neo-colonialismo francese ha trovato una
dimensione stabile ed istituzionalizzata non solo attraverso alcune figure politiche molto rappresentate in Occidente,
come Macky Sall in Senegal o di Alassane Ouattara in Costa d’Avorio, dentro la gabbia di strutture sovra-nazionali come
la CEDEAO e il coordinamento militare del “G5 Sahel”, entrambe entità subordinate agli interessi imperialistici
occidentali. Francia ed Unione Europea hanno usato un approccio “due pesi, due misure” nei confronti dei leader locali,
condannando alcuni “golpisti” e legittimandone altri come in Ciad.
La CEDEAO è responsabile, insieme all’UEMOA, delle sanzioni economiche e finanziarie comminate recentemente al Mali che,
di fatto, hanno imposto un embargo dall’impronta decisamente neo-coloniale.
Il piano di ridimensionamento dell’operazione Barkhane annunciato a luglio scorso dal presidente francese Emmanuel
Macron non aveva come intento quello di un “ritiro delle truppe” dal Mali – come erroneamente scritto dai media
mainstream – ma una sua riorganizzazione e ridefinizione attraverso la “europeizzazione” dell’intervento militare nel
Sahel. La missione Takuba prevede proprio l’impegno delle forze speciali della Francia e dei suoi alleati europei (ed il
Canada) e rappresenta un ulteriore passo nella costruzione di quell’esercito di difesa europeo identificato come uno dei
pilastri della “autonomia strategica”, di cui la Strategic compass è uno dei principali strumenti.
L’allargamento e lo sviluppo della missione Takuba, che secondo i piani di Parigi e di Bruxelles doveva avvenire in buon
ordine, hanno conosciuto forti resistenze e mobilitazioni popolari tra le popolazioni di vari paesi dell’Africa
occidentale. Il braccio di forza deciso dalle autorità maliane sul dispiegamento di nuovi contingenti militari europei
della missione Takuba – che aveva già portato al ritiro di alcuni contingenti tra cui quello danese – cerca di invertire
le relazioni internazionali che finora hanno determinato un meccanismo di dominio e soggiogamento da parte delle potenze
occidentali nei confronti degli Stati africani.
Il 16 febbraio si è tenuto a Parigi un vertice dei capi di Stato dell’Africa occidentale e dell’Europa coinvolti nella
Task Force Takuba, durante il quale Emmanuel Macron ha annunciato la partenza delle forze francesi dal Mali e il loro
spostamento nei paesi confinanti, verso il Niger (dove ha già una base aerea ed un notevole dispiegamento di uomini,
nonché una base per i droni statunitensi dell’AFRICOM), e il Burkina Faso. Una “ritirata disordinata” di fronte
all’incertezza e alla paura crescente che il Sahel possa diventare in prospettiva “l’Afghanistan dell’Unione Europea”
(con tutte le differenze del caso). In quattro-sei mesi, secondo le dichiarazioni dell’Eliseo, verrà completato il
ritiro dal Mali, ma non dal Sahel dove continueranno a stazionare tra i 2.000 e 3.000 soldati. Parigi, continuerà a dare
il proprio supporto aereo e medico alle altre missioni, ma è chiaro che senza la Francia le missione della UE, EUTM e
EUCAP, e quella ONU, MINUSMA saranno fortemente penalizzate.
Insieme al Niger, è la Costa d’Avorio il presunto punto di forza franco-europea nella regione, con la sua base militare
più grande di tutta la regione, che ospita un migliaio di soldati francesi ed ha fornito un supporto logistico
fondamentale alla regione e dove è stata recentemente inaugurata l’Accademia Internazionale della Lotta Contro il
Terrorismo.
L’Africa occidentale sta sfuggendo di mano agli “apprendisti stregoni” che hanno concorso alla destabilizzazione della
Libia nel 2011 prima scatenando le forze jihadiste, che sono successivamente esondate in tutta l’area, e poi
intervenendo militarmente attraverso la NATO. La diffusione delle forze islamiste è servita come pretesto per occupare
militarmente una vasta zona, con un notevole impiego di effettivi, da parte in primis della Francia, perpetuando la
propria politica neo-coloniale fatta di espropriazione di materie prime, dipendenza economica, “signoraggio” monetario
con il Franco CFA e subordinazione politica attraverso una élite politica corrotta.

19 febbraio 2022, liberamente tratto da retedeicomunisti.net

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Mohamed Bazoum presta il fianco alla ricolonizzazione del Niger
Il Coordinamento Nazionale di Tournons La Page (TLP) ha preso atto con stupore e stupefazione della decisione dei capi
di Stato della CEDEAO e dell’Unione Europea di giovedì 17 febbraio 2022 che annuncia il ridispiegamento delle forze
Takuba e Barkhane in Niger.
Questa decisione è tanto più sorprendente quanto più è inaccettabile perché non viene dal presidente della Repubblica
del Niger, ma dai capi di stato della CEDEAO e dell’Unione Europea.
Un altro fatto inquietante è la seguente dichiarazione di Emmanuel Macron: “con l’accordo delle autorità nigerine,
elementi europei saranno riposizionati a fianco delle forze armate nigerine nella regione di confine del Mali”.
TLP-Niger si interroga sulle modalità di un tale accordo da parte delle autorità nigerine, sapendo che la Costituzione
del Niger prevede all’articolo 169 che: “I trattati di pace e di difesa non possono essere ratificati che dopo una legge
che ne autorizzi la ratifica”.
È chiaro che questo accordo non è stato oggetto di alcun dibattito nel Parlamento nigerino per discuterne i meriti, e
tanto meno per ratificare una legge che lo autorizzi.
Questo accordo impopolare viola gravemente la Costituzione nigerina, il che lo rende totalmente illegale, oltre ad
essere illegittimo.
Di fronte a questa situazione, inadeguata rispetto allo Stato di diritto, TLP-Niger:
– condanna fermamente e decisamente questo accordo colonialista che autorizza il dispiegamento di queste forze di
occupazione sul territorio del Niger;
– deplora la sudditanza dei capi di Stato africani che li porta a firmare accordi, spesso illegali, in spregio al popolo
africano;
– esorta le autorità nigerine a dissociarsi incondizionatamente da questo accordo che non è voluto dal Niger e dal suo
popolo;
– invita tutti i nigerini preoccupati e bramosi della sovranità nazionale a rimanere mobilitati a sostegno delle
prossime azioni.
Niamey, 18 febbraio 2022
da tournonslapageniger.org, in contropiano.org

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Anche a Milano l’Africa manifesta contro il colonialismo di sempre
In contemporanea a molte altre città nel mondo anche a Milano sabato 22 dalle 11 alle 15 si è svolto un vivacissimo
presidio in favore dell’autodeterminazione del Mali. Almeno 200 persone, quasi interamente africane, hanno seguito con
grande partecipazione quello che gridavano con forza e coraggio coloro che si alternavano al microfono. Una piazza
colorata, con bandiere, striscioni, cartelli, alcuni manifestanti in abiti tradizionali.
Obiettivo principale di interventi e slogan gridati soprattutto in francese: le sanzioni contro il Mali, la guerra
presente in buona parte del suo territorio, operata da “un pugno” di terroristi che tengono in scacco l’intero Paese
mentre i militari di altre nazioni (con in testa la Francia) fanno ben poco e i manifestanti li invitano ad andarsene.
Oggi i volti di queste persone, in gran parte giovani uomini, sono pieni di rabbia e fierezza: non si tirano indietro se
chiedo loro di parlare davanti ad un microfono, dicono senza problemi il loro nome. Sono arrabbiati soprattutto con la
Francia che, come scrivono anche nel loro volantino, tiene il ginocchio sul collo del Mali e di altre nazioni africane,
proprio come quel poliziotto statunitense che uccise George Floyd. La Francia, come le altre potenze europee, che ha
sostenuto dittatori, che ha prelazioni sulle risorse, che addestra i militari nelle sue basi, tiene legati mani e piedi
a questi enormi Paesi.
Discutono animatamente tra loro, si ascoltano e si rafforzano, si mettono in posa e si lasciano fotografare con grande
orgoglio. E non sono davvero solo del Mali, parlo con alcuni di loro: vengono dalla Costa d’Avorio, dal Senegal, da
altri Paesi africani: oggi in piazza si lotta in nome di un panafricanismo che l’Europa coloniale ha spaccato con
confini inventati.
Ricordano da dove vengono, lo schiavismo, il passato coloniale, le tremende ricchezze spogliate alle loro terre, la
prepotenza francese che impose una lingua e da tanti anni così come una moneta fabbricata in Francia (CFA Franco
COLONIALE Francese d’Africa).
Ricordano la bellezza, la ricchezza dell’intero continente, l’amore per la loro terra che hanno dovuto lasciare date le
condizioni di miseria e violenza in cui è stata ridotta dallo strapotere europeo. Ricordano i rischi del loro viaggio,
nei barconi, per approdare in Europa. Vogliono la libertà e l’indipendenza. Sembra davvero di tornare ad immagini degli
anni ’50, ’60, quando un continente intero si rivoltò e cacciò le potenze europee: queste non sono mai andate via. Ora
si torna a pretendere libertà, autodeterminazione, indipendenza. Lo gridano con forza: “Non abbiamo bisogno di aiuti!
Basta che ve ne torniate a casa, la vostra potenza (pensando soprattutto alla Francia, ma non solo) dipende dalla
spoliazione continua delle nostre risorse”.
Rimango colpito. Oggi quei ragazzi che spesso vediamo a testa bassa o correre in bici con un cubo sulla schiena hanno lo
sguardo fiero, esprimono rabbia e gioia, forza ed energia. Pochissimi i bianchi presenti. Grazie ragazzi, prima o poi
queste città europee, vecchie, sonnacchiose e presuntuose, si accorgeranno di voi, e dovranno iniziare col chiedervi
scusa.
23 gennaio 2022, da pressenza.com


aggiornamenti dai campi di internamento per immigrati
"Usato sicuro" dei dottori ATS al Cpr di Milano. Viene indetto dall'ATS un concorso per 2 dottori destinati alle visite
d'idoneità per l'ingresso dei trattenuti nel CPR di via Corelli da effettuarsi per conto della questura e per le visite
richieste dal gestore del centro, e tra migliaia di dottori se ne candidano solo due - padre e figlio -, e proprio gli
stessi già in carica nello stesso ruolo l'anno passato. E ovviamente, con deliberazione del direttore generale di ATS
Lombardia n. 103 del 3 febbraio 2022, sono loro a risultare vittoriosi, ci sarebbe molto da dire della legittimità e
trasparenza di questa procedura che ha conferito 2 incarichi per libera professione mettendo a disposizione circa 79.000
euro (di denaro pubblico) per 10 mesi. Sono confermati nell'incarico medici che hanno certificato per un anno, per
l'ingresso e per la prosecuzione del trattenimento, l'idoneità di centinaia di persone le cui condizioni di estrema
fragilità è arduo dire fossero compatibili con il trattenimento (anche se mai un essere umano può essere considerato
idoneo ad una reclusione, tantomeno se non ha commesso un reato), in un centro nel quale - come abbiamo più volte detto
e come denunciato penalmente chiedendone il sequestro - per un anno non erano presenti le misure base per poter
garantire una idonea tutela della salute delle persone trattenute, in assenza dei Protocolli tra Prefettura e ATS per
garantire l'accesso a cure mediche specialistiche. Il diritto alla salute, nei CPR, anche in quello di via Corelli, è un
optional, e circa 35 morti (dei quali 6 dal 2019 e 2 nel solo dicembre 2021) ne sono la prova. (Tratto da Mai più lager
- NO ai CPR)

Gli affari del Covid. Sono passati ormai due anni dall’inizio dell’emergenza legata alla diffusione del virus COVID-19 e
le misure adottate nella gestione della pandemia, in Italia come altrove, hanno mostrato come gli unici obiettivi dello
Stato siano sempre stati la salvaguardia dell’economia globale ed un controllo sempre più pervasivo.
Certi corpi sono sacrificabili ai fini della produzione. Da un lato gli operai mandati al macello nelle fabbriche, mai
chiuse nonostante la cessazione di ogni tipo di libertà se non quella produttiva, come successo nei primi mesi di
pandemia. Dall’altro le persone migranti ingabbiate nelle maglie detentive, scomode in libertà, sono esse stesse merce e
fonte di profitto atte ad alimentare un sistema razzista, un business di detenzione ed espulsione che non vuole essere
fermato. È lo stesso corpo di chi è recluso nel CPR a essere infatti fonte di profitto poiché le aziende, che lucrano
sulla gestione di quei centri, necessitano della presenza di un numero minimo di persone per dichiararsi produttive e
alimentare i loro guadagni. Non a caso da Marzo 2020 dinanzi alla chiusura di alcune frontiere, l’ingranaggio detentivo
non è mai stato disattivato mostrando palesemente il venire meno alla retorica della sua funzionalità ai soli fini
espulsivi. Durante tutta la pandemia le persone senza documenti europei sono state portate nei centri nonostante
l’impossibilità a rimpatriare. Alcune volte la reclusione è stata prolungata altre volte, allo scadere dei termini
legali della detenzione, sono stati emessi dei fogli di espulsione dal territorio. Parallelamente i rimpatri forzati
validano gli investimenti messi in campo negli accordi fra Stati per la sicurezza delle frontiere. Per esempio l’accordo
Italia-Tunisia dell’estate 2020 prevede lo stanziamento da parte dell’Italia di 11 milioni di euro per il controllo
delle coste e per il rimpatrio di 80 persone alla settimana. Questa visione dei corpi reclusi come merce di scambio
all’interno degli flussi economici internazionali si è resa ancor più palese durante la pandemia. Di fatto durante le
svariate ondate, vi è stato un totale e volontario disinteresse rispetto alla salute delle persone detenute e alla
prevenzione dal contagio. Gli strumenti diagnostici, non usati al fine del contenimento dell’epidemia, sono stati
utilizzati unicamente in modo coatto al fine di rimpatriare, garantendo il numero minimo di espulsioni necessario ad
alimentare il business fra Stati. Fuori dalle mura il disciplinamento attraverso il vaccino è il metro con il quale si
scandisce l’accesso alla vita sociale, lavorativa e la possibilità di accedere a certi mezzi di trasporto. Mentre le
persone recluse all’interno del CPR non possono scegliere se accedere o meno al vaccino, poiché esso non viene loro
fornito. Questo perché la produttività di un corpo recluso, all’interno del sistema razzista e coloniale, è tale solo in
quanto merce dunque non vi è nessuna utilità economica a vaccinare. Le già orribili condizioni di vita nel CPR non fanno
altro che peggiorare con la consueta assenza di terapie e prevenzione rispetto al contagio da Covid-19.
Anche dal carcere di Torino, Lorusso e Cutugno, ci arrivano notizie sul crescere dei contagi, sull’assenza di strumenti
di protezione individuale per i detenuti e sulla mancanza di cure per i malati. In entrambi i centri, così come in
altri, la dinamica è sempre la stessa. L’evidente trascuratezza e negligenza con cui viene affrontata la questione
pandemica, nonché della più generale salute dei reclusi, non è una semplice casualità. Essa è piuttosto una delle forme
materiali che assume la violenza punitiva del sistemi detentivi. E mentre fuori qualcuno si arricchisce sulla pelle
delle persone, dentro le condizioni di vita sono, come sempre, spaventose. Infatti ad oggi tutte i reclusi all’interno
del CPR di Corso Brunelleschi sono in quarantena nelle uniche tre aree agibili e il garante regionale delle persone
private della libertà personale Bruno Mellano ha impiegato tre anni a rendersi conto della totale mancanza di un
presidio sanitario valido all’interno del centro, sotto gestione di GEPSA fino a Febbraio. È recente la notizia che
varie aziende stanno concorrendo per la gestione del CPR di Corso Brunelleschi. Non sarà un cambio gestione o una
maggiore attenzione sulle cure sanitarie a rendere più umano un luogo del genere. Ma solamente la distruzione dei centri
di detenzione amministrativa e l’abbattimento di ogni frontiera. (Tratto da NoCpr Torino)

Processo per la rivolta al CAS ex caserma Serena del giugno 2020. Ieri a Treviso si è tenuta un’altra udienza del
processo che vede imputati per devastazione e saccheggio e sequestro di persona tre detenuti identificati come capi
della protesta. Quello di cui Amadou, Mohammed e Abdourahmane sono accusati è di aver lottato contro le condizioni di
vita imposte dentro il centro di accoglienza, la reclusione e la gestione iper violenta della situazione sanitaria da
parte della cooperativa Nova Facility, gestionaria del Cas. Era l’estate 2020, e in tutti i luoghi di reclusione per
migranti, dalle navi quarantena agli hotspot, dai centri di accoglienza ai CPR e alle carceri, si susseguivano proteste,
rivolte, resistenze individuali e collettive da parte delle persone costrette a viverci e ammalarsi. Rivolte che
peraltro continuano, nonostante spesso rimangano isolate e senza eco né solidarietà anche di fronte alla repressione. A
seguito della rivolta all’ex Caserma, il carcere ha ucciso Chaka, un fratello arrestato insieme a Abdou, Mohammed e
Amadou. La prossima udienza sarà il 30 giugno. Continuare a sostenere gli imputati è doveroso, per non lasciarli soli,
per ricordare Chaka e per continuare a lottare contro Nova Facility e il sistema di accoglienza, lo Stato, i suoi
confini, le sue leggi razziste e le sue prigioni. (Tratto da Comitato Lavoratori delle Campagne)

Un altro morto fra Italia e Francia. Domenica 16 gennaio ci siamo ritrovate tutte insieme a Claviere. Ci siamo prese lo
spazio pubblico per dare finalmente voce alla storia di Fathallah, ucciso da questa frontiera. Fathallah, un ragazzo
marocchino di 31 anni era arrivato in Francia attraverso l’Italia tra il 29 dicembre e il 1 gennaio, ed è stato trovato
morto il 2 gennaio nel bacino del Freney, a valle di Modane. L’ottava persona morta su questa maledetta frontiera di cui
si ha notizia in 3 anni. (Da passamontagna.info)

Dal lager di Gradisca di Isonzo (GO). Il 19 dicembre 2021, ci siamo ritrovate assieme a compagni e compagne da tutta la
regione sotto il lager di Gradisca. La morte di B.H.R. pochi giorni fa, la terza da quando il CPR ha riaperto il 17
dicembre di due anni fa, non poteva rimanere sotto silenzio. Come sempre uno degli obiettivi dell’iniziativa era farsi
sentire dai reclusi per comunicare loro la nostra solidarietà e vicinanza. Nonostante la questura avesse come sempre
relegato il presidio al lato opposto della strada, un cospicuo gruppo di partecipanti al presidio si è spontaneamente
spostato davanti al lager urlando slogan e ricevendo una risposta da dentro. Le voci gridavano: libertà!
Mentre cercavano di comunicare con l’esterno, alcune persone recluse sono state minacciate di venir denunciate se
avessero continuato a comunicare con i solidali. Oggi abbiamo scoperto che dentro al CPR, ci sono diverse persone in
sciopero della fame. Da dentro, chiedono di condividere fuori la notizia del loro sciopero; la rivendicazione è la
libertà, tutti vogliono uscire da lì.
La notte tra il 5 ed il 6 dicembre 2021 avevamo diffuso la notizia di un giovane suicidatosi nel CPR di Gradisca di
Isonzo. Si pensava inizialmente si trattasse di un marocchino. Si tratta invece di un cittadino tunisino di 44 anni. Il
suo nome è Anani Ezzeddine. La famiglia è stata informata prontamente dalle autorità competenti; anche loro chiedono di
comprendere le ragioni del suicidio. In questi giorni sempre nel CPR di Gradisca diverse sono state le segnalazioni di
persone che hanno tentato il suicidio, che sono state salvate e sostenute dai compagni di cella. Nel caso di Anani non
c’è stato nulla da fare.
In queste ultime ore, da dentro il CPR di Gradisca escono storie di violenza, autolesionismo e mancato soccorso. Un
video pubblicato su un gruppo facebook di persone tunisine in Italia mostra due persone a terra, in mezzo al sangue,
dopo essersi procurate dei tagli.
L’autolesionismo è una pratica di resistenza spesso utilizzata dai reclusi, che sono privati di ogni altra maniera di
denunciare la propria situazione e rivendicare il proprio desiderio di libertà. Dentro è un inferno, i reclusi ci
raccontano che vengono trattati di merda, non escono mai dalle gabbie e non vengono portati in ospedale neppure quando i
medici che li visitano nel CPR dicono che dovrebbero andarci. In questo caso, si è dovuta aspettare più di un’ora per i
due uomini che stavano perdendo molto sangue. Per ora, le voci su cosa sia successo non sono confermate. Il deputato
tunisino Majdi Karbai, che spesso ha raccontato la situazione dei tunisini in Italia, ha scritto oggi in un post di aver
contattato il Garante per i diritti delle persone detenute e dei funzionari del ministero della Giustizia al fine di
aprire un’indagine su quanto è successo ieri a Gradisca.
Intanto, pochi giorni fa è stato il secondo anniversario della morte di Vakhtang Enukidze, morto a un mese dalla
riapertura del CPR, dopo un pestaggio poliziesco. Dopo di lui, dentro la galera etnica di Gradisca, sono morti anche
Orgest Turia, nell’estate 2020, e Ezzedine Anani, il mese scorso. Ezzedine, tunisino, se non fosse morto, sarebbe stato
deportato direttamente in Tunisia, come avviene con tutti i suoi concittadini che da Gradisca, bisettimanalmente,
vengono rimandati nel luogo dal quale hanno scelto di andarsene. (Tratto da nofrontierefvg)

Polonia, cariche e arresti al corteo contro i centri di detenzione. Sabato 12 febbraio si è tenuto a Vengen un corteo
internazionale promosso dalla rete No Border polacca. Il corteo, cui hanno partecipato anche no border tedeschi, ha
cercato di raggiungere la prigione dove sono rinchiusi i migranti, ma è stato più volte attaccato dalla polizia con
manganelli e gas lacrimogeni. Al termine della giornata diversi erano i feriti, due dei quali ricoverati in ospedale.
Dieci persone sono state arrestate con l’accusa di aver attaccato la polizia. Questo reato in Polonia è sanzionato con
la reclusione da uno a dieci anni. I compagni e le compagne hanno mantenuto un presidio fuori dalla caserma dove sono
stati portati i manifestanti presi dalla polizia. In serata sono stati liberati tre compagn*, gli altri sette sono stati
rilasciati lunedì sera. Ai fermati è stato impedito di avere un colloquio privato con il proprio avvocato: tutti sono
stati oggetto di violenze fisiche e verbali. Un compagno vegano è stato preso in giro per aver richiesto del cibo senza
carne o prodotti animali. I migranti reclusi hanno sentito la manifestazione e hanno dato segnali di apprezzamento.
Anche all’interno di questi centri cresce la protesta. Dalla mattina del 9 febbraio, nel campo di concentramento di
Wędrzyn i migranti hanno cominciato uno sciopero della fame. 130 persone di uno dei blocchi, si sono chiuse nelle loro
camere ed hanno appeso all’esterno dei cartelli con la scritta “libertà”.
Scioperi della fame e proteste sono partite anche in altri centri. Muri, filo spinato, barriere, finestre sbarrare e,
fuori, carri armati, spari ed esplosioni. Li chiamano centri, ma sono campi di concentramento. Centinaia di persone sono
state trattenute per mesi in queste prigioni, senza avere informazioni sul loro destino, senza avvocati, con un
trattamento da vero lager, dove sono considerati numeri e non persone. La conseguenza sono stati tentativi di suicidio,
crolli nervosi, peggioramento delle condizioni di salute. (Da radioblackout.org)

***
Non è consentito accamparsi al freddo tra sporcizia e auto
Per la terza volta nel giro di pochi mesi si è ripetuta la stessa scena: il Comune di Milano ha cacciato le persone che
dormono, in queste notti freddissime, sotto i tunnel attorno alla stazione centrale. Si erano già visto a dicembre Amsa
e Polizia Locale impegnate sotto quei tunnel a buttare coperte, tende ed effetti personali delle persone che lì
dimoravano, spaventandole e mettendole in fuga. Il problema ancora una volta è di ordine pubblico, infatti è gestito
dall’Assessorato alla Sicurezza e non al Welfare e Salute. Le parole di Marco Granelli, assessore, evidenziano questa
posizione con una chiarezza spudorata. "Dopo gli interventi di dicembre, non è mancata la costante presenza
dell'Amministrazione comunale nei tre tunnel Sammartini, Mortirolo e Lumiere. Con passaggi continui, come quello di
questa mattina della Polizia locale (durante il quale i marciapiedi sono stati ripuliti da spazzatura e vetri rotti), si
ricorda alle persone senza fissa dimora accampate al freddo, tra la sporcizia e le auto parcheggiate o in corsa sulla
carreggiata, che la permanenza non è consentita e che potrebbero essere allontanate nel rispetto della loro dignità e
incolumità e per consentire l'utilizzo delle aree da parte di tutti i cittadini."
L’accostamento tra senza fissa dimora e sporcizia è da evidenziare come pure l’invito a rivolgersi ai servizi comunali.
L’associazione Naga ha subito risposto: "Tutti i giorni ai nostri servizi, deputati a fornire assistenza legale e
sanitaria, si rivolgono parecchie persone che provano a rivolgersi al Centro Sammartini per chiedere un posto letto e ne
vengono respinti con la motivazione che ‘i posti sono tutti pieni’, ricevendo tutt'al più l'invito a entrare per farsi
una doccia: non per una specie di capriccio, ma per necessità queste persone tornano perciò a ripararsi dove possono."
Sere dopo, le persone accampate in piazza San Babila si sono trovate tutte prive delle loro coperte perché l'Amsa aveva
le aveva requisite e buttate. (Milano, febbraio 2022)

***
31 marzo 2022: sciopero degli immigrati e delle immigrate in tutta Italia!
L’Italia ha bisogno degli immigrati, lo dice anche il governo. Senza di loro l'economia italiana crollerebbe, lo abbiamo
visto bene in questi anni di pandemia!
Ma le leggi sull’immigrazione gli rendono la vita sempre più difficile moltissimi sono senza documenti anche se lavorano
in questo paese da anni; chi ha il permesso di soggiorno fa fatica a rinnovarlo e le pratiche rimangono spesso bloccate
in questura per tempi lunghissimi. Chi arriva in Italia è costretto a viaggi lunghi e pericolosi, e poi a una lunga
attesa in centri che assomigliano a prigioni.
Facciamoci ascoltare dai responsabili di queste leggi razziste: il 31 marzo non lavoriamo e usciamo a manifestare in
tutta Italia!
Al governo chiediamo:
- permesso di soggiorno incondizionato per tutti, non legato al contratto di lavoro né alla residenza;
- cittadinanza per tutti i bambini nati in Italia;
- abolizione di tutti i decreti sicurezza;
- fine degli abusi e dei lunghi tempi di attesa nelle questure;
- azzeramento dei costi dei permessi;
- chiusura dei centri di detenzione (CPR) e fine dei rimpatri;
- permesso di soggiorno valido in tutta l'Unione Europea.
La lotta per i documenti riguarda tutti, immigrati e italiani; perché le discriminazioni alimentano divisioni e
sfruttamento.
Lottiamo insieme per documenti per tutti/e, repressione per nessuna/o!

febbraio 2022, da campagneinlotta.org

***
Tra decreti e sanatorie: lo sguardo corto dei governi
Sono passati oltre sessant’anni, ma il modo di ragionare della classe politica di questo paese sulla necessità di
lavoratrici e lavoratori stranieri e sulla loro regolarizzazione non è cambiato. Perché se è vero che la pianificazione
degli ingressi degli immigrati nasce ufficialmente nel 1998 con il primo decreto flussi, è anche vero che il sistema di
regolarizzazione degli accessi dei lavoratori stranieri risale ai primi anni ’60.
Anni in cui l’Italia è ancora più un paese di emigrazione che immigrazione, ma già sono presenti nello stivale delle
avanguardie pioniere di un fenomeno migratorio destinato ad aumentare di numero e a determinare delle vere e proprie
sostituzioni tra autoctoni e stranieri in determinati ambiti occupazionali.
Uno fra tutti, quello delle collaboratrici domestiche e familiari, allora principalmente etiopiche, filippine e
capoverdiane che, dalla prima ricerca Api Colf del 1976, risultano essere, rispettivamente 12mila, 7mila e 6mila. Poche
migliaia, vero, ma già capaci di diffondere l’utilizzo di un termine che diventerà sinonimo di un’occupazione:
“filippina”=“donna di servizio”.
Inizia in questo tempo una modalità protezionistica e di contenimento dei flussi da parte dei governi che prevede che lo
straniero stipuli un contratto con il datore di lavoro ancor prima della sua partenza, e che questo contratto debba
sottostare a due step: il nullaosta penale della questura e l’autorizzazione all’occupazione da parte dell’ufficio
provinciale del lavoro, che dovrà prima vagliare l’indisponibilità di manodopera italiana a quella richiesta. Nonostante
la procedura della regolarizzazione a chiamata risulti fittizia già negli anni Sessanta (la persona straniera spesso si
trovava già in Italia e il datore di lavoro l’aveva già fatta lavorare, ndr), la modalità è destinata a perdurare e a
segnare gli anni avvenire fino a oggi. Fino a questo dicembre 2021, in cui dovrebbe essere varato l’ennesimo “decreto
flussi” che regolerà 81mila persone, scostandosi nettamente dal blocco dei 30.850 ingressi degli ultimi sei anni.
Con la cancellazione del decreto del 2018 dell’ex ministro dell’interno Salvini, infatti, è di fatto saltato quel
vincolo che non teneva conto delle necessità di manodopera, ma intendeva calmierare il numero degli ingressi per meri
fini elettorali, obbligando i governi a non superare la quota prevista nell’anno precedente.
Il decreto flussi 2022 sforerà dunque i 30mila ingressi, senza arrivare ai dati del 2010, quando furono quasi 100mila le
persone regolarizzate tramite la pianificazione dei flussi.
Per decreto, verranno stabilite quote (45mila per lavoro stagionale, 30mila subordinato, cui si aggiungerà l’autonomo) e
tipologie di lavoratori senza che, ancora una volta, si tenga conto di alcuni dati oggettivi: quello dell’Istat che
stimava, ancora a fine settembre, 400mila posti di lavoro vacanti, e il recente studio di WeBuild, la prima azienda del
settore costruzioni in Italia che, qualche settimana fa, lanciava l’allarme che, per spendere i 200 milioni stanziati
dal Recovery fund, e far così partire le grandi opere previste, mancano 90mila figure di operai per i cantieri e 10mila
qualifiche superiori.
A sottolineare il fallimento di questo tipo di approccio, caratterizzato ancora una volta da una rincorsa emergenziale a
rispondere a una richiesta di lavoro che rimane disattesa nella sua complessità, è la realtà che viene descritta da chi
continua a occuparsi di lavoro irregolare. Come l’Osservatorio Placido Rizzotto e la Caritas che, quest’estate,
denunciavano 180mila vittime del caporalato, su oltre 2,6 milioni di lavoratori irregolari.
Una manovalanza sfruttata, che vale un totale di 79 miliardi di euro, proprio in quel settore agricolo cui spetta la
maglia nera dell’economia illegale italiana, e dove, secondo l’Annuario dell’agroalimentare italiano curato dal Crea (il
Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), nel 2020 i lavoratori stranieri
rappresentavano il 18,5% del totale dei lavoratori agricoli.
A tutti questi dati si aggiunge, non ultima, la sanatoria dell’estate 2020, di cui tanto abbiamo scritto, che, a metà
dicembre, secondo le stime della campagna Ero straniero, aveva sanato solo il 26% delle 230mila domande presentate per
la regolarizzazione. Consegnando appena 60mila permessi di lavoro.
Numeri che si sommano a coloro che nella sanatoria non erano riusciti a entrare: si stima che il numero delle persone
che svolgono lavoro irregolare, senza permesso di soggiorno, oscillerebbe tra le 300 e 600mila unità. [...]

21 dicembre 2022, da nigrizia.it


Cosa succede in Tunisia?
Segue un intervista ad un ricercarore, Andrea De Lotto, realizzata dal blog pressenza.org, e ideatore del video-
documentario “La via del ritorno” andato in onda su Rai News 24.
Come mai sei finito in Tunisia?
Ho una formazione come storico e già nel 2016 ho fatto una tesi sul processo costituzionale tunisino, avvenuto tra il
2011 e il 2014. Sono sempre stato interessato al Nord Africa e al Medio Oriente. Già nel 2011 ero molto interessato ai
movimenti avvenuti in quest’area, ma ero lontano. Negli anni seguenti sono venuto sempre più spesso. Oggi mi trovo in
Tunisia, in questo momento è uno dei pochi Paesi dove si può approfondire questa parte di mondo. Il 25 luglio 2021 in
Tunisia c’è stato il colpo di forza del Presidente della repubblica Kaïs Saïed, che ha congelato il parlamento e sciolto
il governo sulla scia di una crisi politica ed economica strutturale. Questo ha creato un duro dibattito, soprattutto
qui a Tunisi dove mi trovo. Per qualcuno è stato un colpo di stato, per altri un colpo di forza, per altri ancora una
mossa costituzionale per preservare i fragili equilibri del Paese. Il prossimo 25 luglio verranno votati importanti
emendamenti alla Costituzione. Il 17 dicembre del 2022 ci saranno le elezioni anticipate: una data non casuale, visto
che sarà il dodicesimo anniversario del giorno in cui Mohamed Bouazizi si diede fuoco, dando il via alla Rivoluzione
tunisina. Lo scenario è incerto e complicato e le prossime elezioni potrebbero essere una conferma del potere
dell’attuale presidente.
Nel frattempo i tunisini, seppur in minima parte, stanno votando sia online che in presenza per raccogliere opinioni
sulla nuova forma istituzionale e politica che dovrà avere il paese. La partecipazione per ora è bassa, ma Saïed sta già
dicendo che i tunisini vogliono un regime presidenziale e una riforma della giustizia a cui nel frattempo ha già messo
mano, e che il parlamento ha perso credibilità. Tutto questo secondo Saïed.
Effettivamente la classe politica dopo le rivolte del 2011 non ha riguadagnato la fiducia della popolazione, tanto che
quando il 25 luglio scorso Saïed ha esautorato il parlamento non ci sono state reazioni di piazza, se non in segno di
approvazione alla mossa di Saied. In effetti in questi anni la crisi economica e sociale non è stata mai affrontata
seriamente e lo scontento è grande.

L’impressione generale, qui in Italia, è che le primavere arabe abbiano ottenuto dei risultati immediati, ma sul medio
periodo abbiano visto poche modifiche sostanziali e abbiano lasciato parecchia delusione: è così?
Bisogna contestualizzare: la crisi che scoppia nel 2011 arriva quanto meno dalla crisi economica mondiale del 2007-8. Il
venditore ambulante Mohamed Bouazizi, dopo che gli viene sottratta la merce, si dà fuoco a Sidi Bouzid, una città
dell’interno, in province dove davvero non ci sono grandi opportunità. La popolazione era esasperata da condizioni di
vita durissime e da un regime – quello di Ben Ali – che aveva un controllo assoluto di tutto quello che succedeva in
Tunisia. Già negli anni precedenti c’erano state manifestazioni (nel bacino del fosfato di Gafsa), represse nel sangue.
Il malcontento covava da tempo. Quindi l’esplosione della protesta sociale nel 2011 vede sia un versante socioeconomico
che politico, per una maggiore libertà e democrazia. Nel corso degli ultimi 10 anni dal punto di vista delle libertà
individuali e di espressione la situazione è migliorata parecchio; dal punto di vista economico e sociale i progressi
sono stati davvero esigui e la disillusione è stata grande. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) è intervenuto almeno
tre volte e anche la prossima legge finanziaria del 2022 dipenderà da un contributo – non ancora certo – del Fmi di 4
miliardi di euro che provocherà una forte riduzione della spesa pubblica (che è il settore più importante della
Tunisia).
Diciamo che dopo un momento rivoluzionario in cui, tolto il despota Ben Ali, si pensava ci potesse essere un cambio
strutturale, questo non c’è stato e il deterioramento sociale è continuato drammaticamente.

Eppure, ci fu un periodo a metà ‘900 in cui gli emigrati in Tunisia erano italiani e francesi. La terra era fertile e si
arricchirono, e hanno poi dovuto lasciarla a malincuore.
Ancora oggi qui ci sono oltre 800 imprese italiane, ma la ricchezza finisce nelle mani degli imprenditori e la
manodopera è a basso costo. Anche la fiorente industria del turismo porta ben poco nelle casse dello stato, non vi è la
redistribuzione della ricchezza ottenuta. Il turismo è stato comunque fortemente colpito dagli attentati del 2016: a
Tunisi, al museo nazionale del Bardo, e a Sousse nei grandi resort sul mare. Il Covid ha fatto il resto. La popolazione
tunisina chiede, con forza e legittimità, un miglioramento delle sue condizioni sociali. Le manifestazioni ci sono state
e ci saranno.
Quale ti sembra il grado di coscienza politica della popolazione?
Credo che la popolazione sia ben cosciente di quello che avviene, il dibattito è aperto. Pochi giorni dopo il gesto di
forza di Saïed, l’87% della popolazione era d’accordo con lui. Ciò fa capire almeno in parte le motivazioni del
presidente rispetto ad una situazione che gli stessi tunisini giudicavano insostenibile. Considera che il 25 luglio 2021
cade in piena quarta ondata di pandemia Covid, con la gente che moriva per strada per mancanza di ossigeno, una
situazione terribile. Sicuramente a Tunisi il dibattito ha anche un versante “politico”. Nella provincia i bisogni sono
talmente impellenti, materiali, immediati, che si va più al sodo. L’obiettivo è quello di migliorare le proprie
condizioni di vita.
Se dopo il 25 luglio 2021 il Presidente aveva raccolto un buon seguito, questo sta lentamente scendendo. La retorica sul
“salvatore di turno” sembra non bastare più a risolvere i problemi e pare che i soldi non ci siano.
Vediamo invece chi ha partecipato alle manifestazioni contro questo presunto colpo di stato di cui si accusa Saïed.
Queste iniziano a settembre-ottobre ’21 auto-organizzate da un movimento che si dice spontaneo e che si definisce
“cittadini contro il colpo di stato”. Uno dei suoi leader è un docente universitario, Jahouar Ben M’barek, collega in
università di Kaïs Saïed con il quale discuteva, nel 2011, su quali forme avrebbe dovuto prendere la nuova democrazia
tunisina. Le manifestazioni inizialmente hanno visto una partecipazione abbastanza scarsa di alcune centinaia di
persone, che a mano a mano sono cresciute. Chi vi partecipa? Molti sono simpatizzanti di Ennahda, partito di ispirazione
islamica, nemici di Ben Ali, protagonisti della gestione del Paese dal 2011 ad oggi e quindi già sfiduciati dalla
popolazione, accusati di non aver fatto le riforme promesse. Sinistra, attivisti, sindacati, società civile non erano in
piazza. Queste importanti componenti sono rimaste alla finestra, ma quando di recente hanno cominciato a chiedere a
Saïed come pensa di proseguire, questi non ha ritenuto di dover render conto a nessuno.
Ho intervistato Ben M’barek, che si definisce uomo progressista e di sinistra, e mi diceva: “Io non posso vietare agli
islamisti di Ennahda di venire in piazza, quello che mi stupisce è che non scenda la sinistra.” Insomma, la situazione è
piuttosto confusa. Arriviamo così allo scorso 14 gennaio, anniversario della cacciata di Ben Ali nel 2011, quando la
manifestazione (dopo un divieto promulgato due giorni prima causa pandemia) viene comunque annunciata dal partito
Ennahda, ma anche da diversi altri partiti socialdemocratici e di sinistra. La risposta della polizia è brutale:
idranti, arresti sistematici, pestaggi con manganelli e bastoni. Ai giornalisti viene impedito di documentare i fatti.
Anche un collega di Liberation, Mathieu Galtier, viene gasato, picchiato e portato in commissariato.
Quello che è avvenuto è proprio un cambio di atteggiamento, per avere smentite o conferme dovremo aspettare la prossima
manifestazione.

Tutto ciò che hai descritto fino ad ora è collegato al recente aumento delle partenze via mare verso l’Europa?
Si, il numero negli ultimi due o tre anni è aumentato considerevolmente. Ognuno ha la sua storia personale, per partire
o meno, ma a grandi linee sono giovani che cercano in Europa migliori condizioni di vita, un futuro più dignitoso
rispetto a quello che avrebbero in Tunisia. Coloro che partono sono tanti, ma sono comunque una minoranza: nel 2020 le
partenze sono state circa 15mila. I giovani sanno che l’Europa non è più quel “miracolo” di diversi anni fa, ma ci
provano ugualmente, rimane un’occasione di cambiamento. Qui le prospettive sono davvero poche. Molti si indebitano per
partire. Da qui partono anche moltissimi che provengono da altre parti dell’Africa. Dal 2019 le partenze sono proprio
cresciute, la crisi è forte, si tocca con mano. C’è da dire che siamo alla seconda o terza generazione di immigrati
arrivati in Europa; quindi, molti hanno un parente al di là del mare.

Nei CPR italiani e fra i rimpatriati, i tunisini sono in una percentuale molto alta.
Si, questo è frutto degli accordi tra i due governi: molti giovani si fanno domande, vogliono sapere, capire. Chi viene
rimpatriato può essere anche maltrattato dalla polizia; di base, se vieni rimpatriato dovresti essere perseguito
penalmente: uscire dai confini senza permessi è un reato penale, ma di norma lasciano andare. Quello che è forte è il
trauma psicologico e personale: dopo aver faticato tanto per risparmiare, pagare la traversata, speso tanto
economicamente e psicologicamente, l’essere rimpatriati è una vergogna enorme, difficile da superare.
Ho parlato con giovani che sono passati nei CPR di Trapani, Roma, Potenza… Le condizioni sono del tutto simili ad un
carcere, con l’aggravante che non sai e non capisci quali siano i tuoi diritti. Il più delle volte non vengono informati
sul tipo di domanda di protezione internazionale che avrebbero potuto fare.

Sono coscienti i tunisini di avere questa condizione “eletta” di essere tra i pochi rimpatriati?
Si, ce l’hanno eccome e giustamente si chiedono: “Ma perché noi?”. Nello stesso periodo del 2020 i tunisini sono stati
10 volte di più degli egiziani rimpatriati. Ti farò vedere le tabelle, sono incredibili. C’è la volontà del governo
tunisino di accettare questo tipo di accordi. Ecco che il discorso si ricollega a quello che dicevamo prima: il governo
tunisino cerca di accreditarsi presso l’Europa per avere maggiori finanziamenti. Si tratta di uno dei pochi capitoli
dove Tunisi sembra avere potere negoziale.
Un’ultima nota su tutto ciò: nell’autunno scorso il portavoce di Macron, Gabriel Attal, esce pubblicamente con
affermazioni del tipo: “Siamo stufi degli algerini, marocchini e tunisini che non accettano i rimpatri che dobbiamo fare
e quindi taglieremo i visti!” Dai governi algerino e marocchino vi è stata un’alzata di scudi, da parte del governo di
Kaïs Saïed (reduce dal recente colpo di forza del 25 luglio) silenzio e, a detta di molti, ennesima ricerca di sostegno
all’estero.

19 febbraio 2022, liberamente tratto da pressenza.org

Le tabelle sopra citate sono del Ministero dell’Interno – Direz. Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle
frontiere e riportano il totale degli espulsi, divisi per nazionalità, nei mesi di novembre e dicembre 2020 che sono
rispettivamente di circa 600 e 300 persone espuse fra cui vi sono, rispettivamente, 516 e 232 tunisini.


I piani NATO in Europa
La NATO ha preparato lo stazionamento di nuovi “Gruppi di battaglia” nell'Europa sudest. Già da tanto tempo nel Mar Nero
è disposta una “Presenza Avanzata Migliorata”, come già accaduto per prendere posto in Polonia e negli stati baltici. Le
spedizioni sono state compiute alla fine del 2021. Il più recente conflitto con la Russia adesso fornisce una
conseguente legittimazione. Il fulcro delle attività della NATO nella regione è apertamente eseguito nella Romania, dove
la Francia vuole condurre un “Gruppo di battaglia” composto da 1.000 soldati. Sempre in Romania, la NATO ha disposto
accanto alla “Brigata Multinazionale Sud-Est” un'unità rumena che dispone anche di commandos.
Al centro delle più recenti trattative, riguardo a una soluzione dei conflitti con la Russia, gli USA e la NATO
inaspriscono le tensioni. Il presidente USA Biden ha nuovamente esortato i cittadini del suo paese ad abbandonare
l'Ucraina. Alla questione postagli, se in caso di una invasione russa sia necessario inviare militari per evacuare
cittadini Usa, Biden ha risposto con un “no” affermando che “se americani e russi iniziano a combattersi, la situazione
potrebbe rapidamente sfuggire ad ogni controllo. Nella guerra con la Russia si avrebbe a che fare con uno dei più grossi
eserciti del mondo.” In proposito, già il ministero estero degli Usa ha espresso di “non essere nella condizione di
evacuare cittadini Usa dall'Ucraina nel caso dovessero affrontare in quel paese truppe russe.”
Contemporaneamente l'aviazione Usa ha inviato in Europa diversi aerei bombardieri “B-52” e “F-15”. Quattro di quegli
aerei hanno preso posto nella base britannica di Fairford. Sono aerei che possono lanciare anche bombe atomiche. In
seguito allo scoppio del conflitto in Ucraina nel 2014, numerosi caccia-bombardieri Usa hanno preso posto non solo in
quel paese: dall'escalation nel 2014 del conflitto in Ucraina, regolarmente bombardieri Usa “F – 15”- già atterrati in
Polonia, raggiungono quel paese.
Di nuovo, la NATO ha concretizzato i suoi piani riguardo all'estensione della presenza delle sue truppe nell'Europa est
e sud. Allo stesso tempo la NATO procede a formare suoi gruppi come ha già praticato in Polonia e stazionato negli stati
baltici. La Germania conduce uno di questi gruppi a Rukla, città della Lituania. Una conferma formale delle decisioni è
stata presa in questi giorni negli incontri dei ministri della difesa della NATO. Il blocco complica le trattative con
la Russia che, inoltre, è penetrata dalla presenza della NATO nell'Europa dell'est e del sud.
In concreto, gli Usa rafforzano le loro truppe nell'est dell'Europa a cominciare dall'Ucraina, mentre il segretario
della NATO Stoltenberg assieme al capo dello stato della Romania, Klaus Johannis, afferma che “...la Romania non è sola
e che la presenza delle truppe NATO segnala l'unità dell'alleanza … che lo stazionamento dei 1.000 soldati Usa rafforza
l'unità transatlantica …” assieme alla Polonia anche la Slovacchia si è impegnata all'alloggiamento di truppe militari.
La Spagna, anch'essa parte della Nato, nei giorni scorsi ha inviato in Bulgaria, nella base aerea di Graf, quattro
aerei-bombardieri, 130 soldati.
12 febbraio 2022, da jungewelt.de


EMILIO IN CARCERE. APPELLO ALLA SOLIDARIETA’
Venerdì 3 dicembre 2021 un nostro compagno, Emilio Scalzo, è stato estradato dall’Italia alla Francia e rinchiuso nel
carcere di Aix-Luynes. Emilio, ex pescivendolo di 67 anni, storico attivista NoTav e dall’inizio impegnato a portare
solidarietà ai migranti di passaggio tra la Valsusa e il Brianconnese è accusato di violenza contro pubblico ufficiale
in seguito alla manifestazione del 15 maggio 2021 tra Claviere e Monginevro, giornata pubblica organizzata in risposta
allo sgombero della Casa Cantoniera, il Rifugio Autogestito per migranti di Oulx. Quella manifestazione, parte di una
tre giorni di campeggio contro le frontiere era stata quasi subito “bloccata” da decine di CRS che avevano sbarrato la
strada e inseguito il corteo lungo i sentieri per impedirgli di passare, sparando lacrimogeni, “grenade” (tipo di armi
in dotazione alla polizia francese) e distribuendo manganellate. Emilio era rimasto un po’ indietro data la sua protesi
ad un ginocchio e il secondo in attesa di operazione; da seduto è stato attaccato da un gendarme che prima gli ha
lanciato addosso una granata, e poi ha cercato di colpirlo con una manganellata. Emilio si è difeso. Il poliziotto di
quarantacinque anni più giovane, se n’è andato con un braccio dolorante. Manganello contro un legno trovato in terra.
Il 15 settembre Emilio è stato arrestato; agenti della polizia italiana in borghese l’hanno letteralmente rapito per
strada, e per molte ore nessuno ha avuto sue notizie. I mandanti sapevano quanto Emilio è amato nella valle in cui vive
e dunque lo hanno sequestrato nell’ombra. Il 23 settembre gli sono stati dati i domiciliari, finché il 1 ottobre i
giudici della Corte d’Appello di Torino hanno concesso l’estradizione richiesta dallo stato francese. Il 1° dicembre,
dopo due mesi e mezzo di arresti domiciliari, Emilio è stato arrestato di nuovo dalla Digos di Torino (polizia
politica), che ha usato una quantità enorme di celerini per bloccare le strade intorno alla sua casa, scavalcando e
forzando il cancello e procedere all’arresto. E’ stato portato al carcere delle Vallette di Torino, nonostante fosse già
ai domiciliari da due mesi. Perché? Per la “troppa solidarietà” del movimento, in presidio permanente davanti alla casa
di Emilio per stargli vicino fino all’arresto e non lasciarlo solo. In pratica avevano paura di non riuscire a
consegnarlo in tempo e fare brutta figura coi gendarmi francesi. Il 3 dicembre è stato estradato in Francia, e rinchiuso
dopo una finta udienza/interrogatorio -in cui avevano già deciso di non concedergli nessuna misura alternativa- nel
carcere di Aix-Luynes, vicino a Marsiglia. I gendarmi e la Paf (police aux frontières) controllano questa frontiera
portandosi dietro una scia di morte e violenza. Già 5 sono i cadaveri ritrovati su queste montagne, tutti in fuga o
respinti dalla polizia di frontiera francese. Molti i feriti, i dispersi per giorni, infiniti i respinti, maltrattati,
minacciati.
Decine di persone senza il buon documento ogni giorno cercano di attraversare questa frontiera scappando guerre,
povertà, discriminazioni, alla ricerca di una vita migliore. Emilio, per loro, c’è sempre stato. Chi è il violento? Chi
va a caccia dei migranti giorno e notte, respingendo decine di persone al giorno, o chi si è sempre battuto per aiutare
chi di passaggio a non morire su queste montagne? Chi è il violento, chi picchia a comando, chi butta lacrimogeni e
bombe stordenti, chi manganella o chi, semplicemente, ha provato a difendersi da questa violenza?
Noi siamo al fianco di Emilio. Tutti abbiamo ben presente la violenza della polizia francese; tutti ricordiamo i feriti
tra i Gilets Gialli, gli occhi e arti persi e i pestati a sangue. I morti delle banlieu e nelle manifestazioni. I CRS
che sparano ad altezza uomo lacrimogeni e granade de esencerclement. La procura di Gap sta cercando di farla pagare a
Emilio per tutto ciò che è stata la lotta alla frontiera, utilizzando la retorica del “violento” per isolare e
allontanare la solidarietà. Questa volta non acusano di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, anche se Emilio in
Italia è sotto processo anche per le occupazioni dei due rifugi autogestiti. Per presunta “violenza”, è più facile
accusare, e condannare. Soprattutto se la parola di chiunque contro la testimonianza di un gendarme non vale niente. Lo
vogliono far passare per uno dei leader del “movimento No Border”, solo perché in qualche immagine reggeva uno
striscione ed è uno dei più vecchi del corteo. Lo stanno facendo passare per un terrorista. Quando l’hanno estradato gli
hanno messo un cappuccio in testa, ed è stato portato via in elicottero. E’ nelle carceri francesi da oltre un mese, e
hanno concesso solo ieri alla moglie le visite richieste da tempo. Fino ad oggi non gli hanno riconsegnato nemmeno gli
occhiali senza la quale non riesce neanche a leggere. Anche la scelta della prigione è indicativa: Aix-Luynes è lontana,
vicino a Marsiglia. Hanno così deciso di allontanarlo dalla valsusa, dalla frontiera, per allontanarlo dai suoi cari e
dalla solidarietà ben forte presente in questo territorio. Come fecero ai tempi con Eleonora, Théo e Bastien, arrestati
per favoreggiamento all’immigrazione clandestina nella giornata del 22 aprile 2018 e trasferiti da Gap a Marsiglia per
“motivi di sicurezza” dopo la chiamata per un presidio sotto il carcere. Non lasciamo Emilio solo. Scriviamogli,
facciamoci sentire, attiviamoci sui diversi territori per portare solidarietà. Ognuno a suo modo, tutti i modi sono
benvenuti. La solidarietà non si arresta! Emilio libero!
febbraio 2022, da passamontagna.info

Abbiamo ricevuto la notizia che l’11 febbraio 2022 Emilio è stato scarcerato. Per ora resterà comunque in Francia, con
obbligo di dimora e firma settimanale. Una notizia lieta che ci riempie il cuore nel sapere che Emilio non è più dietro
a quelle maledette sbarre. Vogliamo Emilio completamente libero di tornare nella sua amata Valsusa.


LETTERA DAL CARCERE DI CREMONA
Di seguito una lettera di Luca, arrestato nel maggio del 2018 in Svizzera, dopo che era fuggito per evitare l'ingresso
in carcere per scontare una condanna definitiva a 8 anni di carcere per le giornate di luglio 2001 a Genova. Come per
altri manifestanti condannati a molti anni di distanza dai fatti l'accusa per cui è stato perseguito è quella di
"devastazione e saccheggio", un vecchio detrito giuridico del Codice Rocco fascista che permette di comminare pene molto
alte per azioni rivolte contro la proprietà privata in contesti di tumulti o manifestazioni pubbliche.
Insieme Luca sono stati altri 9 i manifestanti condannati a pene durissime il 13 luglio del 2012 dalla Cassazione, pene
che hanno il sapore della vendetta. Vincenzo Vecchi si è visto condannare a 13 anni e 3 mesi, rendendosi irreperibile
per poi essere individuato in Francia nell'agosto del 2109 non è stato ancora estradato: sarà la Corte d'Appello Europea
a decidere sul suo futuro, al momento si trova in libertà sul territorio francese. Chi ha scontato la sua pena è invece
Alberto Funaro condannato a 10 anni. Pene molto alte erano state inflitte anche a Francesco Puglisi, 14 anni, e Marina
Cugnaschi 12 anni e tre mesi.
Nel maggio dell’anno scorso gli è stato revocato il permesso per stare in comunità e così è tornato in carcere a
Cremona. In una sua lettera del 2 febbraio ci informa che lì è tornato il Covid e che si è ribloccato tutto, i colloqui,
i corsi e lo sportello giuridico.

Ciao a tutti, tutte, cani e gatti. Spero che questa mia vi trovi bene. Innanzi tutto grazie mille per il volume su
George Floyd e, mi sa, anche per la scarceranda che ricevetti a inizio carcerazione. Sinceramente non conosco la vostra
associazione ma credo voi conosciate il P. che io conobbi nel mio ultimo periodo in comunità; giusto per la cronaca mi
tolsero la disponibilità, riaprendomi le porte del carcere, per il mio comportamento divenuto troppo polemico, da parte
mia posso dire solamente che è un posto che funziona solo per incamerare i profitti che la regione elargisce per il
percorso di disintossicazione di noi drogati, non facendo un granché all’atto pratico.
Ormai sono sette mesi che sono qui ed, a oggi, mi manca un anno al fine pena, quattro e più ne ho già fatti e,
sinceramente, se dovessi fare un bilancio del totale, non posso dire che ci siano stati periodi tanti bui; certo, non è
stato facile, ma del resto non sono stati solo questi quattro anni e rotti, tutto questo per me dura dal 2001 e quindi
credo anche questo mi abbia aiutato, e mi stia aiutando a mantenere l’equilibrio necessario ad affrontare una situazione
come questa. Quello che potrebbe essere un problema è il fatto che manco dall’Italia e tra la latitanza carcere e
comunità e di nuovo il carcere è il rientro a casa che sinceramente un po’ mi spaventa, o almeno mi risulta un po’
arduo, anche se alla fine risolverò anche questo.
Qui sono in un padiglione nuovo o almeno di nuova costruzione, con la doccia in cella, in cella con due italiani con
molti anni fatti ed altrettanti da fare, gente di galera, come si dice, e con le quali mi trovo bene, visto che il fatto
di essere qui reclusi esclude qualsiasi tipo di discussione sul posto in cui ci troviamo; allo stesso tempo svolgo
volontariato presso lo sportello giuridico, e anche se, il leitmotiv gira intorno a questo posto dimenticato da dio
(anche se di dio, la maggior parte, si ricorda solo una volta entrato qui), riesco a prendere il tutto in maniera
distaccata, datosi che mi trovo dall’altro lato della scrivania. Per il resto non ho molte novità, ho presentato domanda
di grazia al Sergio (anche se non credo proprio verrà accettata) e, a conti fatti, con la liberazione anticipata e forse
il sovraffollamento dovrei uscire o a luglio o a settembre 2022. Questo è quanto, vi ringrazio ancora del supporto e
della solidarietà e vi mando i soliti abbracci.

Cremona, 14 dicembre 2022
Luca Finotti, via Palosca, 2 - 26100 Cremona

***
Sulla richiesta di estradizione per Vincenzo aggiornamenti dall’Europa
Vincenzo Vecchi è stato arrestato l’8 Agosto 2019 in Bretagna, colpito da due Mandati d’Arresto Europei (MAE) a causa di
due condanne a 13 e 4 anni di prigione in Italia.
Il MAE emesso per la condanna relativa alla manifestazione antifascista di Milano nel 2006 è illegale, falso e, quindi,
scorretto, visto che la pena è già stata scontata. Allo stesso modo è stato dimostrato che il MAE per la manifestazione
contro il G8 di Genova del 2001 è incompleto e non conforme alla legge.
Di ritorno dall’udienza che si è tenuta pochi giorni fa, uno dei partecipanti alla delegazione del Comité de Soutien ci
racconta le ultime novità e ci sprona a intervenire dentro le contraddizioni che la solidarietà ha aperto in quel
recinto ancora in cantiere chiamato “spazio giuridico europeo”.
Il 20 gennaio c’è stata l’udienza orale per il caso di Vincenzo richiesta dalla Corte di Cassazione francese che ha
fatto appello alla Corte di Giustizia europea per avere lumi rispetto alla situazione legata al reato di Devastazione e
saccheggio per il quale Vincenzo è stato condannato in Italia, non previsto dalla legislazione francese.
L’Italia, la Francia e i nostri avvocati hanno deposto una serie di questioni scritte poi la Corte ha deciso che per
approfondire il dibattito bisognava dare udienza orale. Presenti c’erano una decina di persone del Comitato francese di
sostegno a Vincenzo. Per noi ha parlato l’avvocato cassazionista francese, ma utilizzando il grande lavoro di analisi
relativo al reato di Devastazione e saccheggio fatto dagli avvocati italiani Losco e Straini.
I rappresentanti dell’Italia non si sono fatti vedere in udienza, forse perché è una legge che non si può difendere. La
rappresentante europea ha detto che c’è un dilemma, che è una situazione inedita in cui non sanno cosa fare. Il dilemma
riguarda il fatto che Francia, Italia e Comunità europea vorrebbero che il MAE venisse eseguito come pura formalità, ma
il mandato di arresto per Vincenzo non è valido, si tratta della cosiddetta doppia incriminazione. Per il MAE ci sono 32
casi in cui si applica senza ostacoli, ma quando un reato non è compreso tra questi, la legge per cui si è stati
condannati, come in questo caso, in Italia deve essere riconosciuta anche dalla Francia. Il reato di Devastazione e
saccheggio non rientra in questi casi e quindi non si può procedere in automatico con la doppia incriminazione.
Non riescono quindi a trovare un equilibrio: la legge di devastazione e saccheggio non è riconosciuta fuori dall’Italia
e il MAE non può essere eseguito in automatico, diventerebbe illegale per una legge completamente liberticida. Qui siamo
abituati, quasi nessuno si scandalizza per una legge di derivazione fascista e così liberticida. La Francia può
accettare una legge così? Sarebbe come accettare una legge, mettiamo polacca, contro l’aborto.
L’udienza è durata quasi due ore e mezza. È molto importante perché la battaglia è lì, queste leggi non possono
travalicare i confini mentre in Italia non sembra ci siano le condizioni per eliminare leggi come questa riprendendo la
fiaccola per combattere. L’Italia non si era nemmeno preoccupata di formulare bene la richiesta di estradizione pensando
che tutto si sarebbe risolto semplicemente attraverso i rapporti tra i vari giudici, i vari magistrati, i vari
poliziotti, i vari servizi ecc. che si incontrano, si vedono, mangiano insieme e quindi tutto si poteva risolvere così,
in accordi tra loro in questo spazio giuridico europeo, che sono accordi di repressione.
In questo momento di luna di miele tra Francia e Italia, la Francia non sa bene come fare a non dare questa
estradizione, non sanno come spiegare all’amico che non possono pienamente soddisfarlo. Siamo noi che invece non
riusciamo a mettere in campo questa complicità. Siamo in un momento così e noi del comitato abbiamo cercato di far leva
contro questa complicità. Il 31 marzo alle 9.30 il procuratore presenterà in udienza pubblica in Lussemburgo le sue
conclusioni, dopo di che ci saranno due o tre mesi prima che la Corte della Giustizia europea presenti le conclusioni.
Grosso modo andremo al mese di giugno, a quel punto tutte le possibilità sono aperte e sarà il momento più delicato, più
difficile. Bisogna assolutamente prepararsi, quando la Corte di Giustizia europea darà il suo verdetto bisognerà sapere
cosa fare.
Da un punto di vista è una battaglia intellettualmente molto appassionante, si è arrivati al punto in cui una Corte di
Giustizia deve fare giustizia, ma ti rendi conto che fare giustizia non è rispettare la legge, è permettere all’apparato
repressivo di continuare a funzionare. Dopo di che noi fin dall’inizio abbiamo scelto come tattica di andare nelle
contraddizioni diciamo legali riuscendo a bloccare una serie situazioni individuando tutti i cavilli necessari con gli
avvocati. Ma il nostro impegno non è intellettuale, noi non andiamo per questo, ma per difendere Vincenzo. Fin dalla
prima riunione del comitato, in cui eravamo 50/60 nel paesino, la prima cosa che ci siamo promessi è che la nostra
azione, il nostro solo fine è di tenere Vincenzo libero per cui quello che ci spinge a continuare a cercare di mettere
in piedi questa intelligenza collettiva, lo spirito che ci spinge è che Vincenzo resti libero.
Facciamo un appello a chi è animato da questa specie di febbre che ti impedisce quasi di dormire, di cominciare a
immaginare come aiutare a vincere questa battaglia. Nel comitato abbiamo sempre lavorato secondo l’idea che, dal momento
in cui tu sei d’accordo sul fine ultimo di mantenere libero Vincenzo, tutte le azioni sono possibili e sono giuste. Per
cui è un appello a tutti quelli che sono d’accordo su questo modo di funzionare: pensate, parlate, riflettete intorno a
voi e vedete cosa è possibile fare per andare avanti e allargare questa contraddizione che siamo riusciti ad aprire.

febbraio 2022, da radiocane.info

***
CHI SI RIBELLA NON È MAI SOLO/A
Il 15 ottobre 2011 resta impresso nella testa di chi l'ha vissuto come una boccata d'ossigeno: vale la pena svegliarsi
la mattina e vivere per lottare. A distanza di 11 anni sappiamo che quella fiammata di rabbia ha un riverbero anche tra
chi oggi è giovane e l'ha vissuta nei racconti di chi non ha mai smesso di autorganizzarsi nelle lotte.
Ribellarsi resta una possibilità perché c'è chi lo ha fatto, lo fa e lo rifarà. Non c'è altro modo per dimostrarlo e non
bastano le parole, le esortazioni o gli slogan.
La repressione ha colpito duramente: arresti in piazza, condanne pesanti anche per devastazione e saccheggio, carcere.
Il monito è rivolto a tutte e tutti noi.
Il 15 febbraio 2022 arriviamo all'udienza conclusiva, quella in corte di Cassazione, per chi è già stato/a condannata/o
in secondo grado nell'ultimo troncone processuale. Se le condanne verranno confermate, alcune delle persone imputate
entreranno in carcere. I risarcimenti richiesti dalle parti civili ammontano a centinaia di migliaia di euro.
La solidarietà che abbiamo dimostrato sin dal primo momento ai/alle manifestanti colpiti/e dallo stato è la stessa che
ci guida in tutte le lotte ed è motore delle nostre relazioni. Martedì 15 febbraio saremo davanti la corte di
cassazione, dalle ore 10, in presidio solidale per chi entrerà a processo e per tutte e tutti noi.
Vi invitiamo a partecipare perché non possiamo restare in silenzio. LIBERI TUTTE


Carcere, le ambiguità del ministero sulle riforme
Le proteste esplose nelle carceri italiane nella primavera del 2020 avrebbero potuto rappresentare un punto di rottura
rispetto alla stasi in cui è bloccato l’universo penitenziario. Peccato che, fatta eccezione per un rumoroso clamore
iniziale, nulla sembra essere cambiato. Le poche innovazioni introdotte (possibilità di effettuare videochiamate,
ipotesi di un termine massimo delle licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, permessi
premio in deroga al regime ordinario, detenzione domiciliare “eccezionale”) sono state prorogate fino al prossimo 31
marzo, ma non possono in alcun modo rappresentare una soluzione organica per problemi annosi. Come in altre occasioni,
anzi, le istanze di cambiamento, la necessità di ammodernare i sistemi istituzionali, le evidenti fratture con lo status
quo non hanno fatto altro che cristallizzarlo e rinforzarlo: le preoccupazioni relative alla diffusione del Covid 19, il
sovraffollamento, le difficoltà della magistratura di sorveglianza nel gestire le richieste e le ipotizzate soluzioni,
non sono riusciti a costituire una base per uno slancio in avanti. Anzi, sin da subito si è tentato di far credere che
le rivolte fossero state causate dalla ingestibilità dei detenuti, dalle troppe occasioni di socialità, da ordini
provenienti dagli apparati camorristici, senza essere in grado di leggere cause ed effetti del presente.
Il tentativo di mettere la polvere sotto il tappeto è stato evidente. Se da un lato, una volta accantonata l’iniziale e
discutibile presa di posizione dell’allora ministro Bonafede, si è scelto di condannare i comportamenti degli agenti
intervenuti non certo solo per sedare le rivolte, dall’altro, sotto traccia, si sono fatti strada provvedimenti che
andavano in ben altra direzione.
Il riferimento è alla circolare del Dap denominata “Bozza circolare del circuito Media Sicurezza – Direttive per il
rilancio del regime penitenziario e del trattamento penitenziario”, elaborata con l’obiettivo di intervenire su
un’enorme parte del corpo detentivo, dato che la maggioranza della popolazione detenuta è reclusa proprio nei circuiti
di media sicurezza.
Attualmente l’organizzazione degli istituti penitenziari si caratterizza per la presenza di un doppio regime: aperto,
riservato a quei pochi ristretti nelle sezioni a “custodia attenuata”, e chiuso, previsto per le persone detenute nelle
sezioni di “alta sicurezza”. Se si escludono le poche centinaia di persone nelle sezioni a custodia attenuata e qualche
migliaio di persone ristrette nelle sezioni di alta sicurezza, si possono calcolare, secondo Antigone, circa
trentacinquemila detenuti che sarebbero interessati dalle innovazioni della circolare, il cui principale intervento
riguarda la distinzione tra le sezioni ordinarie e le cosiddette sezioni “a trattamento intensificato”.
Nelle sezioni ordinarie, secondo la bozza, andranno collocati i detenuti ai quali non sarà più applicata la sorveglianza
dinamica, introdotta con una circolare del Dap del 14 luglio 2013. È evidente come questa modifica sia finalizzata a
riproporre una modalità di reclusione esclusivamente punitiva, dove la vita detentiva è caratterizzata dall’apertura
delle stanze esclusivamente per “assicurare” le ore di socialità, la permanenza all’aria aperta, le attività
trattamentali. Chi viene ritenuto inidoneo a ricevere un trattamento “avanzato” sarà dunque obbligato a restare in
cella, nella maggioranza delle situazioni tutto il giorno, senza potersi spostare; una possibilità che incide fortemente
sul vivere quotidiano della popolazione detenuta, fondata su scelte dell’amministrazione del tutto discrezionali e senza
alcuna possibilità di intervento da parte della magistratura di sorveglianza.
La circolare, se approvata, introdurrebbe – come accennato in precedenza – apposite sezioni, nelle quali assegnare i
detenuti che assumono comportamenti tali da richiedere “particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da
possibili aggressioni o sopraffazioni”. È con questa mossa che la circolare scopre le sue carte: stabilisce, infatti, la
necessità di prevedere in ogni istituto sezioni ad hoc, individuate valutando il numero di detenuti che, per tipo di
comportamento e necessità di tutela della comunità penitenziaria, si riterrà necessario assegnarvi; all’interno di
queste sezioni è prevista una chiusura addirittura maggiore rispetto al “nuovo” modello detentivo ordinario: a essere
garantito sarebbe esclusivamente il tempo di permanenza all’aperto previsto dai limiti di legge, e cioè con durata non
inferiore a quattro ore al giorno, riducibili a due “per giustificati motivi”.
Sul contenuto della circolare si sono espressi i sempre attivi sindacati della polizia penitenziaria: il Sappe,
evidentemente non soddisfatto della stretta securitaria, ha ritenuto necessaria un’integrazione alla bozza, prevedendo
l’assegnazione automatica alle sezioni chiuse per i detenuti che abbiano compiuto anche in una sola occasione delle
aggressioni al personale; secondo il sindacato sarebbe necessario, inoltre, senza alcun tipo di valutario, che il
detenuto passi per una sezione ordinaria prima di poter accedere a una a trattamento avanzato, in un percorso che
dovrebbe quindi durare almeno un anno.
Se ancora non fosse chiara la sua posizione su sorveglianza dinamica e regime aperto, il sindacato autonomo di polizia
sottolinea in maniera sprezzante che “in occasione delle rivolte di marzo 2020, in oltre dieci istituti anche i detenuti
ristretti nel circuito alta sicurezza vivevano in regime di stanze aperte”. Il significato è chiaro: sono gli spazi di
socialità dati ai detenuti, e non le chiusure a oltranza, o le condizioni di sovraffollamento, o quelle igienico-
sanitarie, ad aumentare il rischio che si verifichino episodi di violenza. Eppure, al netto delle sollevazioni da parte
dei detenuti, gli episodi più gravi accaduti tra marzo e aprile 2020 – questo ci si guarda bene dal sottolinearlo – sono
avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e in quello di Modena, quando le forze di polizia hanno messo in atto
azioni tra le più gravi mai verificatesi nelle carceri nella storia del nostro paese.
Va sottolineato, infine, che, parallelamente all’iter che sta seguendo la circolare, il ministro ha nominato una
commissione “per l’innovazione del sistema penitenziario” che si è impegnata a immaginare, vent’anni dopo l’ultima
riforma, e con delle legittime incertezze in termini di una sua possibile attuazione solo “parziale”, una serie di
interventi in grado di impattare sull’emergenza carceraria. Un doppio binario che potrebbe finire per essere il classico
colpo dato al cerchio e alla botte, se non fosse che questa ambiguità rischia di lasciare irrisolte delicatissime
questioni dalle quali dipende il vissuto di migliaia di persone.
11 Febbraio 2022, da napolimonitor.it
LETTERe DALLA SEZIONE FEMMINILE DEL CARCERE DI UTA (CG)
Seguono tre lettere ricevute dalla campagna contro il carcere e la repressione "Kontra is presonis nishunu est solu".

Ti disturbo perché le cose in questo carcere sono assurde e vorrei che se fosse possibile potessi far sapere al di fuori
cosa succede qui dentro.
In primis siamo detenute presso il femminile, il quale è tutto positivo al covid e la struttura carceraria non è in
grado a tutt'oggi di sostenere la situazione e garantire le condizioni sanitarie necessarie. Il potenziale penitenziario
è praticamente dimezzato. E sono tutte senza guanti. Ogni cosa ti viene passata senza essere igienizzata. Non essendoci
lavoranti poiché siamo solo in 10, stanno facendo fare a quelle poche rimaste mansioni per le quali poi non vengono
nemmeno pagate. A me per esempio mi stanno facendo pulire due sezioni insieme e invece di zone canoniche ne faccio molte
di più e solo 5 giorni dai contagi mi hanno munito di appositi sostegni sanitari anti contagio. Nella zona telefono vi
hanno messo uno spray tipo sgrassatore, neanche dell'amuchina. Gli stracci con cui lavo dovrebbero essere igienizzati o
dati dei nuovi. Non ci forniscono ne mascherine ne calzari adeguati se entriamo in area covid. Il mangiare ci viene
passato dal maschile con pentoloni e non sappiamo se essi possano essere infetti, mentre dovrebbero essere dati in
porzione con piatti monouso da gettare. I medici non vengono mai, ne medici di primo soccorso ne psicologi ne psichiatri
e siamo chiuse nelle celle dai primi di Gennaio. Le porta vitto oltre a portare il vitto, devono scendere in cucina a
lavare le pentole da rendere al maschile. Tutto questo gratis. Nel mese precedente ci hanno dimezzato le ore poiché non
vi erano fondi e continuano ad aumentare i prezzi del sopravvitto. Situazioni ancora più gravi come tenere una detenuta
con richiesta di divieto d'incontro una notte con quella stessa detenuta per cui aveva richiesto di essere spostata,
perché minacciosa e pericolosa essendo e avendo già avuto precedenti violenti per cui ha ottenuto già da altre detenute
divieti e denunce. Tutto questo perché non poteva stare sola in camera poiché a rischio suicidale. Gli avrebbero dovuto
dare il piantonamento.
Non vi sono riabilitazioni di nessun genere, ne da parte dei Sert, ne da parte delle stesse educatrici che non vediamo
mai, siamo lasciate a noi stesse e stiamo ammalandoci sia fisicamente che psicologicamente. Sicuramente abbiamo
sbagliato nella nostra vita ed è giusto pagare, ma a volte si sbaglia non perché di indole delinquenti e vorremmo che il
carcere in primis sia una struttura dove si possa capire e poter rinascere ricreandoci una nuova vita, perché anche se
erranti siamo comunque Donne, mamme e mogli che fuori da questa porta carceraria, vogliamo tornare con la voglia di
migliorarsi e tornare dai loro cari con speranze e con degli scopi per non varcare più questa maledetta porta di ferro,
dove tutto accade ma nessuna sa. Dove tutti muoiono, ma il tutto viene taciuto, dove nessuno parla tutto rimane
all'interno di queste fredde mura che ci stanno spezzando e degradando giorno dopo giorno.
Ma dentro di noi c'è un grido forte d'AIUTO e spero che queste grida possano oltrepassare queste mura e farsi sentire
per poter cambiare tutto ciò. Chiediamo almeno durante questa gravissima situazione incontenibile ed ingestibile di
essere mandate ai domiciliari, la cosa sta veramente degenerando e noi non vogliamo morire qui dentro per la negligenza
di un'amministrazione che non è capace di gestire una cosa così pesante e gravosa. Ti ringraziamo e speranzose
attendiamo un VERO AIUTO

Uta, 25 gennaio 2022
le Detenute

***
CODICE ROSSO... FEMMINICIDIO... MALTRATTAMENTI FAMILIARI, MA LA GIUSTIZIA
DOVREBBE SOLO GIUDICARE O CAPIRE, ANALIZZARE E RIABILITARE?
A volte si pensa che le violenze familiari e i femminicidi siano dovute a matrimoni sbagliati, magari con
extracomunitari rabbiosi, barbari o a mariti pericolosi o ancora a figli tossicodipendenti... Per me questi sono solo
stereotipi sbagliati pericolosi, perché impediscono di capire o meglio comprendere le vere tragedie familiari o ciò che
porta a scelte o vite sbagliate.
Quello che ho potuto analizzare da ciò che io stessa ho vissuto e sto vivendo è la violenza che vivi o hai vissuto
all'interno della famiglia cosiddetta natale, che porta poi a tragici episodi. Ma a volte, anzi molto spesso, far
emergere la violenza domestica in tutte le sue declinazioni è attività delicata quanto problematica, proprio perchè chi
ne è vittima tende ad avere paura ed assecondare chi gli provoca violenza, nella convinzione che siano giustificate,
soprattutto quando si è bambini e ancora di più se il carnefice fa parte della propria famiglia più stretta, come una
madre o un fratello. Una lettera di Oriana Fallaci nel libro da lei scritto nel 1975 “Lettera di un bambino mai nato”
dice:- “Forse dovrei raccontarti un mondo di innocenza e felicità ma sarebbe come attirarti in un inganno, sarebbe come
indurti a credere che la vita è un tappeto morbido sul quale si può camminare scalzi e non una strada di sassi, sassi
contro cui si inciampa, si cade, ci si ferisce. Sassi contro cui bisogna proteggersi con scarpe di ferro, ma neanche
questo basta, perché mentre proteggi i piedi c'è sempre qualcuno che raccoglie una pietra per tirartela in testa”.
Ecco! Penso che in queste righe si esprima che in certi casi ci vorrebbe un giudice che adempia a tre importanti
condizioni: essere signore della storia, conoscere il segreto dei cuori e operare per la riconciliazione e non per la
distruzione. Giustizia, vendetta, ragione, potere, rispetto... sono concetti che si intrecciano alla ricerca di in
qualcosa che sembra avere le sembianze della tela di un ragno, in cui restano intrappolati solo alcuni e troppo piccoli
insetti. Troppo pochi per riparare ai torti che la vita riserva alle persone.
Nella mitologia greca, la dea Temi, che era la dea della giustizia, teneva con la mano sinistra la spada e con la destra
la bilancia. Con la bilancia soppesava il giusto e l'ingiusto; questa bilancia ancora oggi è il riferimento primigenio
dei giudici, per garantire un diritto “giusto”. Ma negli anni ha avuto dei cambiamenti in seguito ai mutamenti sociali,
morali e di pensiero e tutto ha cominciato a cambiare. Una volta si guardavano solo i “diritti” ed erano diritti imposti
dalla legge, cioè non vi erano posizioni diverse o valutazioni psichiche o morali. Nel tempo, poi, la dea Temi è stata
rappresentata, in seguito a tali mutazioni, in due modi diversi. La prima rappresentazione venne scolpita a Roma con
nella mano le tavole della legge, poi durante il regime fascista ci fu la seconda, rappresentata con nella mano uno
scettro, come se evocasse il potere assoluto, quindi spada da una parte e scettro dall'altra. Ma il potere non è mai un
valore assoluto e la legge dei codici, se applicata in modo incoerente o pregiudicante, quindi senza conoscere le radici
genera “ingiustizia”; quell'ingiustizia intesa come violazione dei “diritti altrui”, siano essi sanciti dalla legge o
semplicemente riconosciuti dalla ragione e dalla morale del proprio contesto sociale e familiare.
La famiglia è caratterizzata da affetti tanto positivi quanto negativi, ma quando quello che dovrebbe essere ambiente di
protezione diviene teatro di impensabili violenze allora tutto cambia. Oggi anche io ricerco la giustizia nelle aule
giudiziarie, ma spesso non la trovo. Si continua a sentire nei notiziari, giorno dopo giorno, tragedie familiari e oggi
esiste il cosiddetto “CODICE ROSSO”, che prende in considerazione anche i reati di tipo psicologico, ma cosa è
cambiato...? Intanto la violenza familiare e un fenomeno di origini decisamente remote, sviluppatasi in forme
differenti, come prevaricazione psicologica, sociale, sessuale, fisica e persino economica da parte di un soggetto
dominante nei confronti di un individuo (della famiglia stessa a volte) in una posizione di debolezza.
Tuttavia si parla di passato dove non esisteva il codice rosso, in quel passato dove regnava l'idea di una famiglia
quale oasi di pace, isola felice, ove la violenza era bandita e se veniva denunciato qualcosa, come l'illecito abuso di
un fratello o una violenza psicologica di una madre, quella persona veniva considerata una scheggia impazzita che
frantumava la serietà e l'equilibrio familiare, con tutte le ripercussioni vergognose che in un contesto di famiglia
patriarcale, vi erano allora, ove tali situazioni venivano sistemate da quella figura parentale detta “cuscinetto”, che
agiva appunto per porre rimedio ai conflitti o ai problemi interni al nucleo familiare; oggi si può denunciare si!
Vero!! Però soprattutto nella giustizia, intesa come virtù morale, privata e non codificata, in base alla quale si
dovrebbero osservare regole comportamentali riferite al passato ai traumi che riguardano la persona, nei doveri e nelle
aspettative, oggi questo, secondo me non avviene.
Giustizia morale, intesa come senso di onestà, correttezza e solidarietà, riconoscere proprio quello che
contraddistingue una famiglia, intesa come cellula primigenia della società, dove si dovrebbe creare un contesto di vita
unico, protezione, amore e lealtà, all'interno del quale si dovrebbe sviluppare la crescita e la personalità dei propri
figli. Ma proprio in quella famiglia dove vieni cresciuta con valori di lealtà, morali, di buona educazione e di
giustizia, il progetto fallisce proprio perché è già marcio dall'interno e tutto si disgrega. Tutto quello che aveva
sorretto la famiglia, si perde. E così ecco che si sbocca in un mare di rabbia e di dolore; non c'è più patto morale,
nessun progetto, l'unica necessità, in quel momento è “sopravvivere”, soprattutto per un bambino, che non è tutelato,
perché non ha coscienza, ma soprattutto pensa che ciò che viene fatto dai genitori abbia un senso e che sia giusto e
morale, perché lo dice la persona che gli insegna a crescere e di cui si fida di più... la sua mamma.
Oggi si può trovare protezione nelle aule giudiziarie, contro la violenza di regole di giustizia morale, privata,
intima... ma ad essere giudicata è proprio quella bambina ormai diventata donna... ma ormai... troppo tardi! Si
giustizia chi ha subito! Così inizia l'autodistruzione o la distruzione.
Non importa se quella donna, da bambina, ha subito violenza fisica, psicologica, morale dalla mamma, non importa se ad
11 anni il fratello ha abusato sessualmente di lei, ed il tutto tenuto nascosto per vergogna, non importa se proprio la
sua mamma la svalorizzava e degradava, demotivandola giorno dopo giorno, fino a quando quella bambina ha trovato la
fuga, non importa se è dovuta crescere per forza di cosa un'ingiustizia morale e psichica solo perché all'ora si poteva
nascondere. I cosiddetti “panni sporchi si lavano in casa” e questi allora non erano in “codice rosso” ma ragazzate,
quisquilie, problemi da risolvere in famiglia e nessuno doveva sapere, “CHE VERGOGNA”!!
Quindi se quella bambina, ormai cresciuta e diventata donna sbaglia, perché fa uscire quell'irrefrenabile rabbia
repressa su qualcuno oppure rifugia le sue paure, per scappare (perché non riesce ad affrontare per demotivazione
pregressa poiché come detto svalorizzata), nella maledetta vita da tossicodipendente, tutto ciò che è stato prima non
rientrerà nella valutazione di un giudice.
Ma l'aspetto più crudele è che, nel momento in cui si profila la crepa di una crisi infantile, intanto si cresce e si
cresce non concependo che il nemico non è altro che colui o colei che credevi che fosse la persona che doveva
proteggerti, quella di cui dovevi essere “l'amore della sua vita”... la tua mamma o il tuo fratellone quello che gioca
con te con le costruzioni. Violenza che può essere sottile, subdola e tagliente come una lama, ma non hai mai potuto
chiedere aiuto, la tua anima urlava, ma nessuno la sentiva. Un girone infernale, si associa così ad una richiesta
d'aiuto o giustizia (che, dalla stessa famiglia, veniva nascosta), negata perché poterne parlare diventava “vergogna”.
Ecco!! Così quella bambina cresce e diventa donna e come tante donne attraversano la vita, in mondi e vite diverse, chi
diventa operaia, chi manager, chi escort, contadina che però diventano psicotiche nonostante abbiano una vita dalle
sembianze appagante. Tutte vittime di traumi di matrice familiare da emarginazione o frustrazione, subite per anni che
poi si aprono come un vaso di pandora. Queste donne poi, vanno a cercare, magari nel proprio partner, il nemico con cui
hanno convissuto la loro tragica infanzia, favorendo con la propria condotta l'evoluzione della violenza subita. Io sono
l'esempio pratico di tutto questo... La così chiamata crisi familiare, cellula primigenia per crescere ed educare i
figli, nonostante io abbia cresciuto mia figlia con buoni valori morali, dignità ed educazione in un contesto di
solidarietà matrimoniale. Purtroppo il passato mi ha segnato, e non solo ho perso l'affettività che lega le persone ed
il rispetto verso il proprio compagno, ma è entrato anche un sentimento egoistico che nemmeno io riconosco. Dunque in
una sola subdola, se così si può pensare, vita infantile normale e in una sola vicenda di violenza familiare, si possono
raggruppare tutti i tipi di violenza che, paradossalmente sono provocati e recati da quella bambina, ormai persona, ma
precedentemente violentata che, svegliandosi e capendo di aver subito ogni sorta di sopruso per anni senza poterne mai
farne nemmeno parola con nessuno, diventa lei stessa la carnefice. Io penso e credo fermamente che in tutte queste
“violenze”, bisognerebbe soffermarsi, riflettere e aiutare queste donne come me, che arrivano ad essere quello che non
sono, ma ciò che sono dovuti diventare per dover continuare a sopravvivere? Forse! Ma deve esserci una luce, una
rinascita per poter risalire la china, elaborando gli errori della sottomissione e cercare di comprendere come la forza
e l'energia che c'è dentro ognuna di noi possa rifluire, per poter dare un senso alla propria vita e a quella dei figli
generati, perché non soffrano ciò che abbiamo dovuto vivere noi. Altrimenti ci si richiude in se stessi, la serenità va
scemando fino al dolore più profondo, fatto di solitudine e depressione e se queste donne pensano finalmente di aver
trovato la felicità,
costruendo una loro famiglia... credendo nei valori di “Biancaneve, nelle favole... e vissero felici e contenti”, ogni
motivo, anche il più futile, come per esempio:- non riporre lo spazzolino al proprio posto, parlare qualche secondo di
troppo, scriversi con una persona non gradita dall'altro-, può fare esplodere la miccia dell'aggressività, giungendo
così a casi più estremi piccolezze che sfociano in drammi familiari che oggi vengono puniti ma al contempo, chi viene
punito e lei stessa la prima vittima; e quella vittima ormai stremata perché ancora incompresa e addirittura ancora
punita, non ha più voglia di combattere e comincia a sentirsi sola e si lascia andare giorno dopo giorno; perde
l'equilibrio... ed ecco è proprio qui che bisogna unire “GIUSTIZIA CON COMPRENSIONE E
AIUTO” e questa donna dovrebbe essere ascoltata con un atteggiamento di puro supporto e non giudicante, cosa che spesso
non avviene, dentro e fuori alle aule giudiziarie. Tutto questo è molto delicato, lo so! Ma dovrebbe coinvolgere da
subito aspetti psicologici che gli operatori del diritto, siano essi giudici, avvocati o assistenti sociali dovrebbero
cogliere con empatia, confidenzialità e vero supporto. Penso sia la formula vincente per dare un vero ed essenziale
aiuto, quindi abbinare interventi legali, da subito, a quelli di supporto di tipo psicologico, cognitivo
comportamentale, che la galera sicuramente non dà e non risolve. Per lo meno in questi casi dove ancora non si è
arrivati al dramma e quella persona può essere salvata e riequilibrata. Perché quel trauma può trasformare quella
bambina, che aveva tanti sogni e condurla ad atti estremi, accecati da sentimenti di odio e vendetta. Ma a prescindere
da tutto un essere umano che ha subito e, continua a subire violenza, può diventare ciò che non sarebbe diventato e
soprattutto non avrebbe diventare mai, deve avere la possibilità ed un necessario aiuto per potersi rialzare,
rivalorizzarsi e aiutarlo significativamente a trovare quella forza, per non piegarsi ad eventi negativi e così
finalmente trovare quella motivazione, quell'impulso positivo per farsi una vita, una vita semplice, normale,
valorizzante.
Fargli ricordare che questa vita che ha sempre visto negativa non lo è affatto, non è piccola, non è stretta e inutile o
senza motivo, non è limitata e senza uscita e soprattutto non è solitaria, ma può essere meravigliosa, piena di
speranza, sogni e persone migliori, che c'è sempre una luce alla fine di un tunnel.
Questo mio pensiero, in conclusione, non vuole avere un significato nascosto e non vuole essere solo una chiacchiera dal
rumore vuoto ma uno strumento per riflettere sui drammi famigliari, della vita familiare, nel vortice patologico che
colora l'emotività delle persone e che si, è vero, c'è anche il pazzo che uccide o violenta perché nato cattivo, ma a
volte c'è ben altro sotto un dramma di maltrattamento e va valutato con criterio, guardando tra le righe. Perché la
rabbia sul viso, i pugni chiusi, il rumore di quell'imbarazzo, non trasformino più dei bambini che potrebbero vivere una
maturità normale. Ma soprattutto aiutarli, ascoltarli e valorizzare la loro storia e non punirli ancora; per me è questo
ciò che si dovrebbe fare... intrecciare tutti questi fili in un telaio che possa creare una tela forte e sana per
cambiare il metabolismo della vita.

Uta, 10 febbraio 2022

***
Ciao …, intanto ti ringrazio per avermi risposto e di aver fatto uscire le nostre problematiche. Credimi qui si sta
morendo, c'è gente che sta tentando il suicidio e se qualcuno è entrato sano, qui si ammala psicologicamente ed in modo
grave.
- noi chiediamo sostegno riabilitativo continuo da poterci dare la possibilità di avere misure alternative;
- le 6 ore ministeriali previste per i contatti con i propri familiari nel rispetto del piano Covid;
- educatrici presenti poiché io sono da 4 mesi che dovrei avere una videoconferenza con l'assistente sociale della
tutela minori la quale e da 2 mesi che cerca di contattare il carcere di Uta e non le risponde nessuno. Ed io con
svariate domande e richieste interne ho risposte del tipo che me la stanno assegnando. Io sono 4 mesi che non ho notizie
di mia figlia per colpa di UTA;
- videochiamate al pari di un colloquio visivo almeno 30 o 45 minuti come in altre carceri
- abuso di potere da parte degli agenti graduate con rapporti facili per ogni minima cosa;
- non abbiamo un garante dei detenuti e una commissione interna dove esporre le nostre problematiche;
- tutta la sezione del femminile ha preso il Covid e alle poche detenute hanno fatto fare più lavori non retribuiti
rischiando anche il contagio;
- gli agenti ci passano fogli, penne, spese, qualsiasi cosa a mani libere ma noi non possiamo toccare i nostri parenti
con Green Pass rafforzato, ai colloqui, e di questo siamo davvero al limite ci manca il minimo rapporto d'affetto con il
familiare;
- chiamate per richiedere appuntamento per colloquio, impossibile, si arriva a fare 500 chiamate e quando si trova
libero non rispondono. In altri carceri usano le e-mail;
- indulto soprattutto con questa situazione di pandemia e gravi contagi ed il centro medico non si avvicinava neanche
allo stabile (né psicologi, né medici, né psicologi, nessuno);
- avere un regolamento penitenziario che qui è mancante;
- concludiamo dicendo che siamo abbandonate dal carcere e non veniamo seguite in una seria riabilitativa formazione e il
nostro stabile è lasciato da un lato come un pallone non funzionante. E auspichiamo che si possa al più presto rendere
ammissibile la proposta nelle riforme della giustizia, di scarcerazione anticipata (75 giorni retroattivi) a tutte le
tipologie di reato e un indulto.

Uta, 10 febbraio 2020


Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Ciao OLGa, spero che l'istante vi giunge sempre trovandovi in splendida forma e grazie per la voce che date a noi
dimenticati. Nella mia ultima missiva, vi parlai di Michele Carosiello e della morte per cattiva sanità a cui è stato
sottoposto.
Bene, la sanità calabrese non si smentisce mai, la sua macchina fatta di negligenza, menefreghismo e strafottenza non ha
limite. Infatti sabato 11/12/2021 è morto Giuseppe Cozzolino un uomo di 66 anni affetto da 13 patologie, di cui tre che
lo facevano al soggetto a rischio di morte.
Qualcuno potrebbe obiettare che un soggetto del genere può morire anche in esterno ma io desidero spiegarvi l'iter che
lo hanno portato alla morte e come sempre lascio a voi il verdetto di chi è la colpa.
Come ho detto poc'anzi, Giuseppe Cozzolino era affetto da 13 patologie di cui tre gravissime. Alcuni giorni orsono lo
portarono in ospedale per togliergli una vena che porta al cuore, viene dimesso dall'ospedale con il cosiddetto bollino
rosso, cioè, doveva essere monitorato 24 ore su 24, giunto qui in istituto viene ubicato in una cella del quarto piano
AS3 con termosifoni che vengono accesi due ore al mattino e due ore la sera, quando ci sono i termosifoni accesi di
mattina non puoi usufruire dell'acqua calda per la doccia, l'ascensore rotto, nessun defibrillatore sul piano, nessuna
bombola d'ossigeno e nessun presidio medico in un reparto con più di 200 detenuti.
Cozzolino subisce un collasso cardiaco nella mattinata di sabato, le infermiere che si trovavano ai piani inferiori
corrono in breve tempo, i medici devono arrivare invece dall’infermeria centrale che dista circa 400 m e devono farsi
quattro piani di scale a piedi perché l'ascensore non funziona, parole povere, quando giungono in sezione ormai non
possono fare altro che constatare la morte di Cozzolino. Vi ricordate che vi ho accennato al fatto che il Cozzolino
doveva essere monitorato 24 ore su 24?
Bene sappiate che in questo istituto risulta esserci un centro clinico che sulla carta è ritenuto uno dei migliori in
Italia, nei fatti, è un centro clinico di 26 posti letto per capienza massima, eppure in questo istituto continuano a
giungere persone da altri istituti con patologie gravi che tecnicamente dovrebbero essere ubicati al centro clinico,
invece si trovano nelle sezioni con sedie a rotelle stampelle eccetera eccetera…
il responsabile della sanità dell'istituto ha dichiarato candidamente che Cozzolino era in pericolo di vita permanente
eppure nessuno ha fatto nulla per salvarlo, se non è strafottenza, negligenza e incompetenza questa, allora cosa lo è?
Mi trovo in codesto istituto da un anno e 11 mesi in questo lasso di tempo sono morti sei detenuti, 5 di mala sanità e
uno impiccato, decidete voi se sono troppi, io il mio giudizio già l'ho dato e non è positivo.
Anche oggi amore e rispetto per la morte di un altro dimenticato dal mondo, che cosa siamo mai per questi?
Una volta si diceva che eravamo solo un numero, oggi invece io sono convinto che siamo solo il loro stipendio alla fine
del mese e chi se ne frega se qualcuno muore, tanti altri prenderanno il suo posto e forse a chi tocca.
Cari amici di Olga grazie per lo sfogo concessomi e mi scuso se non invio auguri a nessuno, ma ritengo che ci sia ben
poco da festeggiare. Cari saluti.

17 dicembre 2021


da una lettera dal carcere di verona
[…] Il 13° giorno che ero qui si è impiccata una ragazza qua in sezione e poi è di pochi giorni fa l’episodio in cui una
ragazza del piano 1° si è presa con una guardia che ha finito col metterle le mani addosso e ora la ragazza vuole far
partire la denuncia… come è successo questo fatto, le ragazze della sezione han fatto sciopero del carrello per 3
giorni. Noi qua l’abbiamo saputo dopo, per cui non si è fatto in tempo ad accodarci… ma io credo comunque che molte non
l’avrebbero fatto ugualmente… come nella maggior parte dei femminili non c’è unione purtroppo. Poi poco fa il maschile
ha iniziato a sgavettare (ora già rientrato) per il fatto che ci sono molti positivi al covid e la situazione è
esasperante. (Gennaio 2022)


Lettera dal carcere di Milano-Opera
Qui il covid non dà tregua e sorprendentemente, la direzione forse spronata dal DAP ha cambiato politica sulle
restrizioni, ha lasciato inalterata la loro posizione e così continuiamo le nostre attività nell’istituto, tra cui i
colloqui con i familiari (anche se sono solo due ore al mese) Skype 2 e 6 videochiamate e 12 telefonate al mese. L’unica
decisione di questi giorni è quella di bloccare le attività dei volontari esterni. È difficile affermarlo, ma c’è poco
da contestare alla gestione di questo periodo covid qui all’interno. Certo che stiamo sempre attenti ai soprusi che
qualche farabutto ne potrebbe approfittare, ma fondamentalmente nessuno si azzarda a farlo e con quelli della media
sicurezza si stanno comportando bene, forse anche perché dopo le cattiverie di due anni fa e per questo sono andati
sotto inchiesta, si guardano bene di fare cazzate e per altro periodicamente arrivano ispezioni da parte del ministero.
Comunque per ora c’è una calma al quanto sorprendente e concedendoci tutto quello che è possibile per fare coltivare gli
affetti familiari e tutto il resto.

10 gennaio 2022


da una Lettera dal carcere di Pavia
[...] Mi chiedete perché in alcuni carceri non accettano il vaglia, non li accettano perché hanno creato il modo che le
famiglie fanno il bonifico, è più veloce e meno complicato. Qui mi hanno dato questa spiegazione e mi hanno detto che
qui accettano ancora il vaglia. Per i colloqui non so io non li faccio. [...]
Attendo vostre notizie e nel mentre vi mando un forte abbraccio. Mi sono commosso leggendo quelle parole ed umanità.
Grazie ancora.

19 dicembre 2021
Papandrea Nicolas Via Vigentina, 85 – 27100 Pavia


Notizie dal carcere di Spini di Gardolo: pestaggi e soprusi
Il 9 gennaio, durante un saluto al carcere di Spini di Gardolo, siamo riusciti a comunicare con alcuni detenuti e quanto
segue è ciò che ci hanno raccontato sulla situazione attuale in carcere, che la direzione e le autorità locali si
guardano bene dal diffondere.
Un detenuto ci ha chiesto di far arrivare al garante dei detenuti (per la PAT, A.Menghini) la sua versione dei fatti
rispetto a un episodio che, nei giorni scorsi, un sindacato della penitenziaria ha spacciato sui media per “aggressione
ai danni dei secondini”. Il detenuto sostiene di essere stato brutalmente picchiato dalle guardie, le quali in un
secondo momento gli hanno anche sequestrato le stampelle. Dopo il pestaggio non è stato neanche visitato adeguatamente e
non è stato trasportato in ospedale.
Un detenuto giovanissimo ha riferito di trovarsi in carcere da più di due settimane senza sapere quando potrà vedere il
magistrato. Non ci sorprende perché da anni il carcere di Spini pullula di persone in attesa di giudizio le cui udienze
non vengono mai fissate nei termini previsti dalla legge, condannando detenuti/e ad un limbo fatto di indeterminatezza e
vessazioni: infatti a questo ragazzo sono state negate le telefonate ai parenti, che nulla sanno della sua condizione,
ed è stato posto in isolamento punitivo, senza asciugamani, biancheria intima, beni di prima necessità. Solo attraverso
uno sciopero della fame e la minaccia di atti di autolesionismo peggiori gli hanno fatto ottenere questi beni basilari.
Purtroppo, sempre più spesso i detenuti sono costretti a queste proteste lesive della propria salute e integrità:
infliggersi tagli alla gola, ingoiare batterie sembrano essere gli unici modi per ottenere cose fondamentali, come ci
hanno raccontato. E i problemi nella struttura si ripropongono uguali o aggravati negli anni: posta stracciata e/o
impropriamente censurata da parte dei secondini, cure mediche ridotte a distribuzione di tachipirina e psicofarmaci,
celle chiuse e nessuna attività formativa o ricreativa, costanti angherie da parte delle guardie. Un detenuto ha persino
gridato: “vogliono vaccinarci!!!”, lasciando intendere che dentro li stiano obbligando a trattamenti sanitari che
obbligatori non sono, almeno sulla carta.
Uno dei detenuti ci ha chiesto di entrare in carcere con le telecamere per documentare quanto penosa sia la vita là
dentro ma noi sappiamo bene che chiunque entri a Spini come in altre galere italiane come visitatore vedrà sempre e solo
la faccia più presentabile di questi luoghi. Non c’è da stupirsi che la polizia abbia intralciato un presidio solidale
nella sera di capodanno, tenendoci alla larga dalle mura e impedendoci di comunicare con i detenuti. Quest’ultima volta
non è andata così, ed è importante che le informazioni che siamo riusciti a raccogliere abbiano eco perché sempre più si
sappia quanto sia opprimente e insostenibile la realtà del carcere di Spini di Gardolo, impropriamente spacciato come
“struttura modello”.
Non lasciamo soli detenuti e detenute, continuiamo a mantenere un filo con le persone ristrette, facciamoci sentire
fuori visto che la loro voce è costantemente zittita!!!

Anarchiche e anarchici
13 gen 2022, da ilrovescio.info
31 dicembre: Presidio sotto le mura del CARCERE di UDINE
Da molti anni cerchiamo di fare da cassa di risonanza alle voci dei prigionieri del carcere udinese che ci parlano di
una grave situazione di incuria igienica e di malasanità che, per chi si trova ristretto, equivale ad una forma di
tortura e di distruzione della propria dignità e integrità psico-fisica. Per noi è importante sostenere i detenuti che
si ribellano a questa situazione di malasanità perché la lotta per la tutela del proprio corpo, è il presupposto per
ogni forma di possibile lotta di liberazione.
I detenuti di via Spalato ci hanno parlato di un carcere infame, di condizioni di sovraffollamento insostenibili, di
mancanza di qualsiasi forma di dialogo empatico con il personale sanitario, di diagnosi fatte consultando google, di
eccessi di prescrizioni di psicofarmaci: ricordiamo che dal 2002 ad oggi, nel carcere udinese, sono morte 9 persone,
l’ultimo in ordine di tempo, Ziad Kritz, morto il 15 marzo 2020 per presunta overdose di psicofarmaci e metadone.
La stessa causa di morte, subito sostenuta dallo Stato anche per i 14 detenuti massacrati dalle manganellate e dagli
spari di polizia penitenziaria e carabinieri intervenuti per sedare le imponenti rivolte che tra l'8 e il 9 di quel
marzo esplodevano in tante galere nel momento in cui il virus cominciava a dilagare in maniera incontrollata in spazi
sempre più blindati e sovraffollati, a fronte di misure di contenimento quasi nulle.
Virus che ha da subito fornito ad ogni governo il pretesto per cercare di applicare all'intera società la gestione
carceraria, in un crescendo di misure oppressive e repressive che non accenna ad arrestarsi. La gestione stabilmente
emergenziale all’interno dei penitenziari è sempre più sinistramente simile a quella imposta al di fuori, dove la vita
libera è sempre più vita ristretta, per tutti e non solo per chi si ribella e rivendica autodeterminazione.
Attualmente (le ultime notizie ufficiali risalgono al 10 dicembre), il carcere di via Spalato si trova nuovamente in
quarantena, con una ventina di detenuti positivi al covid 19, costretti a stare in segregazione assoluta al piano terra,
mentre tutti gli altri sono costretti a stare al primo e al secondo piano, chiusi nelle loro celle sovraffollate tutto
il giorno. Inoltre risultano sospesi i colloqui con familiari e persone care e tutte le attività formative e gli
incontri con esterni.
Questi sono anche i giorni dell’udienza preliminare del processo in cui sono imputati 108 tra agenti della polizia
penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere e funzionari del Dap per le torture a scopo di rappresaglia cui hanno
sottoposto i prigionieri il 7 aprile 2020. Staremo a vedere come andrà a finire, in tutti i casi risulta difficile
pensare che lo stesso Stato che non esita a compiere massacri quando si sente minacciato, poi si auto-processi e tanto
meno si auto-condanni.
Ricordiamo anche i prigionieri dei CPR-lager per migranti che sono morti pochi giorni fa. A Roma, un uomo morto dopo
giorni di contenzione all'interno di un ospedale dove era stato portato dal CPR di Ponte Galeria e a Gradisca d'Isonzo,
dove un uomo si è tolto la vita all'interno del locale lager dopo che era stato messo in isolamento a causa del covid
19. Alla fine dell'isolamento il suo destino era di essere rimpatriato forzatamente.
Solidarietà con i/le prigionieri/e e con tutti/e i rivoltosi/e nelle
carceri e nei CPR. LIBERI TUTTI! LIBERE TUTTE!

Assemblea permanente contro il carcere e la repressione - liberetutti@autistiche.org



milano: 8 MARZO SOTTO IL CARCERE DI SAN VITTORE
Due anni fa, la mattina del 9 marzo, eravamo in tanti sotto san Vittore. Dopo una notte passata nelle vie intorno al
carcere di Opera dove era appena scoppiata la rivolta, causata in primo luogo dalla sospensione dei colloqui, era
arrivata la notizia che anche a san Vittore stava succedendo qualcosa. Due sezioni erano state messe a fuoco e alcuni
prigionieri erano saliti sui tetti del terzo e quinto raggio. Non si vedeva una scena simile dagli anni settanta. La
diffusione del corona virus era partita e, come immediata misura, il carcere era stato chiuso a tutte le visite, non
certo alle guardie che entravano e uscivano senza alcuna protezione.
Coraggiosamente i prigionieri avevano preso la decisione di ribellarsi: fuori la propaganda istigava alla paura del
contagio mentre dentro nessuna salvaguardia era presa in considerazione, per loro. La solidarietà dall’esterno si fece
sentire e gli scambi con chi era sul tetto toccarono momenti intensi, familiari e amici presenti riuscivano a fare
arrivare messaggi direttamente ai loro cari.
Le rivolte interessarono tante altre carceri, e non si fermarono a quei primi giorni, così come le proteste e le
rivendicazioni portate avanti dalle prigioniere del carcere di Trieste, Torino e Vigevano.
Le condizioni nelle carceri erano difficili da sopportare, da prima, da sempre. Sovraffollamento intollerabile, cibo
scarso, prezzi inammissibili per i prodotti da acquistare, prestazioni sanitarie a dir poco inadeguate, servizi igienici
quasi ovunque sporchi e malconci, educatori spesso assenti e con il potere di condizionare le decisioni, con i loro
pareri arbitrari, su permessi o misure alternative, posta rallentata o bloccata, pacchi e soldi difficili da recapitare
con regole sempre diverse e quindi complicate da seguire. Il lavoro interno disponibile per pochissimi, con una paga
irrisoria, le attività come scuola o corsi non sempre assicurate. Abusi delle guardie, squadrette punitive, richiami,
ammonizioni, isolamento, trasferimenti per chi mantiene la testa alta. Violenze delle guardie che poi, durante e nei
giorni successivi alle rivolte, abbiamo conosciuto con prigionieri uccisi a Modena, pestaggi con teste e braccia rotte a
Opera, a Varese e purtroppo in tante, tante carceri. Non quindi solo a Santa Maria Capua Vetere, che è assurta agli
“onori” delle cronache di regime. La mattanza è avvenuta in modo esteso. Le carceri dovevano tornare alla “normalità” e
al silenzio. Innumerevoli i processi contro i presunti rivoltosi con condanne già comminate, quelli contro le guardie
andranno a finire in nulla, come sempre è accaduto in passato.
Le condizioni dentro le carceri dopo le rivolte e in corso di pandemia sono ovviamente peggiorate. Al 31 dicembre 2021
erano 54.134 i detenuti, con il 32% di stranieri e circa il 30% per violazione della normativa sulle droghe. Per furto o
rapina sono in carcere in più di 30.000. Dati che la dicono lunga sulla composizione di classe all’interno delle carceri
italiane. Le difficoltà già esistenti negli ultimi due anni si sono accentuate, con colloqui sempre più difficili da
ottenere e da svolgere, dietro barriere di plexiglass, a due metri di distanza e dovendo urlare per farsi sentire. È
stato reso obbligatorio il vaccino sia per i familiari sia per i prigionieri e rimane costante preoccupazione che
possano essere di nuovo sospesi, come è successo in quest’ultima ondata di gennaio. Le telefonate sono concesse con
criteri sempre più arbitrari come per i pacchi e i vaglia. Lo stesso vale per tutte quelle attività interne che rendono
meno pesante la quotidianità, come diceva un prigioniero di Opera “qui si sta solo fra guardie e ladri”. La storica
scarsa presenza dei medici in questo periodo pandemico diventa più grave. Sono innumerevoli le testimonianze sulla
mancanza di cura per le patologie non legate al covid: “La sanità? In questi luoghi latita con l’epidemia o senza non
cambia nulla. Per la società libera non sono all’altezza di garantire delle sane cure, come possono garantirla a noi qui
dentro”.
“Senza le rivolte delle persone recluse probabilmente oggi tutti noi saremmo di fatto completamente isolati nelle
carceri, senza la possibilità di contatto con i nostri cari, con i nostri affetti, persino con i/le nostri/e avvocati/e.
Per tutti questi motivi rinnoviamo la nostra solidarietà a chi si ribella e che lotta, tanto dentro le carceri quanto
nel mondo intero.”

OLGa (è Ora di Liberarsi dalle Galere) – olga2005@autistici.org

Apprendiamo dalla stampa che 4 detenuti sono stati condannati per la rivolta che scoppiò a San Vittore il 9 marzo del
2020. Altre 5 persone sono state invece assolte. La decisione è arrivata il 18 febbraio nella nona sezione del Tribunale
di Milano.
In totale 9 detenuti erano imputati con le accuse di sequestro di persona, devastazioni, lesioni personali e rapina. Il
pm Paola Pirotta aveva chiesto condanne per tutti, ma soltanto 4 di loro hanno ricevuto pena fino a 5 anni e 4 mesi. In
una precedente udienza gli imputati avevano spiegato di aver protestato salendo sul tetto, spaventati dai contagi e dai
decessi associati al covid, e contro la sospensione dei colloqui che era stata disposta. I detenuti sono stati accusati
anche di aver chiuso alcuni agenti di polizia penitenziaria nelle stanze del carcere.


Presenza solidale fuori dalle carceri
Mentre nella società obblighi, restrizioni e controllo invadono la quotidianità, nelle carceri - da sempre punta di
diamante dei meccanismi repressivi – cadono anche gli ultimi veli dell’ipocrisia democratica: sovraffollamento e
isolamento sanitario, cure mediche inaccessibili e misure di contenimento del contagio che altro non fanno che impattare
su vita, attività e affettività di chi è rinchiuso. Negli organi istituzionali e sui media si fa un gran parlare di
riforma del sistema penitenziario, di carcere più giusto e meno afflittivo ma da parte nostra sappiamo, come sanno molti
detenuti, che ogni miglioria passata e presente è frutto di piccole e grandi lotte, nonché vere e proprie rivolte che
hanno scosso l’ordinario dietro quelle mura. Come le rivolte avvenute in molte carceri nel marzo 2020, e brutalmente
represse come a Modena – con 13 detenuti morti – e Santa Maria Capua Vetere. Per quanto il governo prometta di correre
ai ripari dopo le mattanze, la rabbia e la voglia di libertà – per le quali nessun miglioramento sarà mai abbastanza –
non possono placarsi. Combattere la discriminazione e rompere l’isolamento! In una società galera, dentro e fuori le
mura la libertà è nella lotta.
- domenica 20 febbraio 2022 BIELLA, ore 15
- domenica 27 febbraio CUNEO, ore 15
- domenica 20 marzo SALUZZO, ore 15
- sabato 26 marzo IVREA, ore 15

Cassa AntiRepressione delle Alpi occidentali


sul processo per le violenze a Santa Maria Capua Vetere
Il 15 dicembre scorso è cominciata l’udienza preliminare del processo sulle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria
Capua Vetere nella Settimana Santa del 2020. Per motivi di spazio e di ordine pubblico il tribunale ha deciso di
celebrare le udienze nell’aula bunker dell’istituto sammaritano. L’aula si trova di fianco all’istituto e si articola
come una costola di cemento che comunica con l’area detentiva attraverso un cortile. L’ingresso, per chi non è detenuto
o in servizio nel carcere, si raggiunge percorrendo una strada stretta e in parte sterrata che costeggia i campi
coltivati a friarielli che si distendono di fronte la discarica. Avvocati, giornalisti, imputati erano accalcati in
attesa della prima udienza in mezzo alle campagne; in una fila scomposta attendevano di consegnare i documenti per
oltrepassare il check point di guardie. […] Per accedere alle due grosse stanze si scendono alcune scale e poi si
percorre un corridoio sotterraneo, come quello degli stadi: in una prima sala, il tribunale compare fisicamente davanti
alle parti; nell’altra, invece, comunica in videoconferenza. Le gabbie di ferro si trovano alle spalle delle scrivanie
dove siedono gli avvocati.
La prima udienza si conclude con il deposito delle istanze di costituzione di parte civile delle persone offese: circa
un terzo dei detenuti e dei familiari individuati dalla procura della Repubblica ha chiesto di costituirsi nel processo.
Tra questi ci sono la madre, il padre e il fratello gemello di Lamine Hakimi, il ragazzo algerino morto un mese dopo i
fatti in una cella di isolamento del carcere. Secondo gli investigatori quel suicidio è stato causato dall’abbandono
colpevole dei dirigenti, dei secondini e del personale medico, che avrebbero dovuto curare il corpo e la mente di Hakimi
dopo il massacro ricevuto. Oltre ai detenuti e ai familiari, hanno chiesto di costituirsi parte civile il ministero di
giustizia, l’Asl casertana, il Garante nazionale delle persone private della libertà, il Garante regionale delle persone
private della libertà e quattro associazioni: Antigone, Acad, il Carcere possibile e Yaraiha Onlus. Il giudice ha
rinviato il processo all’11 gennaio 2022, momento in cui le difese degli imputati potranno discutere le proprie
eccezioni alle costituzioni delle persone offese.
Passa quasi un mese. I contagi sono cresciuti e la narrazione della pandemia è tornata a perforare i tessuti collettivi.
Nonostante gli impedimenti causati dall’epidemia che stanno paralizzando la pubblica amministrazione, l’udienza si
celebra. Dopo il consueto appello del giudice D’Angelo, la procura prende parola esprimendo parere favorevole per la
costituzione degli enti e di tutte le associazioni che ne hanno fatto richiesta. Le difese degli imputati si oppongono
fortemente perché le associazioni e i garanti non avrebbero la legittimazione per essere parte del processo. Altri
difensori eccepiscono difetti di forma dell’atto di costituzione di singoli detenuti. Alcuni avvocati si sono opposti
anche alla costituzione del ministero della giustizia e dai loro interventi si è intravista parte della strategia
difensiva. In particolare, il ministero si troverebbe in una posizione contraddittoria se entrasse nel processo come
parte civile perché risulterebbe contemporaneamente coinvolto, attraverso i propri quadri dirigenziali, come
responsabile (e fautore) delle violenze accadute. Tra gli schieramenti processuali stanno emergendo quindi, già in
questa fase preliminare, due forze opposte: da una parte, i dirigenti dell’amministrazione (non sappiamo se questo
processo riuscirà a delineare un coinvolgimento più ampio delle gerarchie amministrative) e dall’altra il braccio
esecutore rappresentato dal personale in divisa. I primi vorrebbero dimostrare che in quel frangente le bestie feroci
erano soltanto i poliziotti. Sul versante opposto della stessa barricata ci sono le divise, le quali, invece, hanno
l’intenzione di chiarire e di provare che gli eventi del 6 aprile 2020 e dei giorni seguenti sono stati il frutto degli
ordini e del disordine creati e voluti dall’alto. Inoltre, in una posizione estremamente delicata, ci sono i detenuti
che hanno subito le violenze e che dovranno muoversi tra gli spazi processuali per far emergere quanto accaduto nella
Settimana Santa. Molti tra questi sono ancora in carcere e troppi non hanno chiesto di costituirsi nel processo per
timore di subire ritorsioni. La prossima udienza è prevista per il 25 gennaio. In questi giorni i difensori della
famiglia di Hakimi sono riusciti a mettersi in contatto con i propri assistiti che vivono nella periferia di Annaba
(Algeria). La conversazione è stata difficile perché la connessione con il telefono non era stabile e per i difensori
non è stato semplice spiegare cosa sta accadendo in Italia. La madre di Hakimi ha ricordato gli ultimi contatti con il
figlio, avvenuti poco prima che venisse portato a Santa Maria Capua Vetere. Quasi un anno di silenzio, poi un’unica
telefonata la avvertì che il figlio era morto. L’interlocutore non aggiunse altro. Alcune briciole della storia della
morte di Hakimi la leggeranno sui giornali algerini.
La madre del ragazzo avrebbe voluto parlare ancora con i legali ma la voce le tremava. È determinata, vuole capire cosa
è successo e in questo momento sembra essere la più lucida della famiglia. Assordante il silenzio del padre.
In questi due anni l’attenzione mediatica nei confronti di quanto accaduto il 6 aprile nel carcere di Santa Maria è
diminuita progressivamente. La forza di quella storia che descrive ancora oggi il disastro permanente del sistema
dell’esecuzione penale, è stata lentamente assorbita dai nostri corpi stanchi e assuefatti all’era post-umana. Tuttavia,
il clima nell’aula bunker è sempre teso, l’ansia non si smaltisce con le sigarette fumate durante le pause trascorse nel
cortile delle mura del carcere perché i difensori delle parti continuano a studiarsi reciprocamente. Tutti guardano
tutto, il freddo mantiene lucidi.
Il 3 febbraio è proseguita l’udienza preliminare e il giudice D’Angelo, dopo aver riunito nel faldone principale alcune
posizioni inizialmente stralciate per difetti di notifica, finalmente ha sciolto la riserva sulla richiesta di
costituzione delle parti civili. I detenuti che ne hanno fatto richiesta sono stati ammessi, questo risultato era quasi
certo, soltanto per difetti formali degli atti di costituzione sarebbero stati estromessi. Il tribunale ha accolto anche
la richiesta degli enti: ministero di giustizia, Asl casertana, garante nazionale e regionale delle persone private
della libertà. Non era scontata l’ammissione delle associazioni, infatti con questa decisione il giudice ha anche
espresso il taglio da dare al processo, perché riconoscendo gli interessi e i diritti difesi dalle associazioni ha
evitato di restringere il rapporto processuale alle sole parti necessarie.
Il Carcere Possibile, Acad, Yairaiha Onlus e Antigone affronteranno insieme questo lungo processo, e il loro apporto
sarà necessario per affrontare da un punto di vista complessivo, non soltanto dalla prospettiva della singola vicenda o
del ruolo, l’interazione nella catena di comando, le fasi operative della “perquisizione straordinaria” e delle violenze
successive al 6 aprile.
Il processo è stato rinviato all’8 febbraio per permettere alle parti processuali di citare i responsabili civili. Prima
della chiusura dell’udienza, la procura ha depositato una richiesta di patteggiamento per trentadue imputati: il
procuratore aggiunto Milita ha precisato che riguardano posizioni marginali e condotte di minore gravità. Infine, le
persone offese che non hanno ancora depositato l’atto di costituzione di parte civile potranno farlo fino all’apertura
del dibattimento. Non è molto, ma c’è ancora un po’ di tempo per prendere coraggio e bilanciare i rapporti di forza tra
le parti nel processo.

4 febbraio 2022, da napolimonitor.it


Sabato 26/02 – CORTEO! CONTRO il GREENPASS e OLTRE
Manifestiamo contro:
Il Green Pass. L’introduzione del lasciapassare “sanitario” e la sua proroga illimitata (come da intenzioni del governo
Draghi) significano la realizzazione definitiva della società della sorveglianza: una società distopica dove il
controllo sugli individui diventa totale attraverso la digitalizzazione di ogni ambito e attività della vita e nella
quale i diritti e i servizi sociali vengono concessi solo se in possesso dei requisiti di “bravo cittadino” (non è un
caso che in Italia esso sia gestito dal ministero dell’economia…), sul modello del “credito sociale” cinese. Anche se
dovesse terminare lo stato di emergenza, la certificazione verde o una sua variante (vedi l’Identità Digitale Europea)
verrebbe mantenuta, se non ci opponiamo risolutamente: il Green Pass va respinto in toto, senza se e senza ma!
L’obbligo “vaccinale”. Hanno iniziato introducendo l’obbligo di inoculazione dei “vaccini” genici sperimentali “anti-
Covid” per alcune categorie lavorative (prima i sanitari, poi il personale scolastico, le forze dell’ordine e i
militari), poi l’hanno imposto per classi di età (per adesso gli ultracinquantenni). In primavera vogliono iniettare il
siero ai bambini da 0 a 5 anni, come dichiarato dal CTS (Comitato Tecnico Scientifico). Continua così la campagna
militar/vaccinale basata sul terrore e sui ricatti, altro che reale consenso informato.
Basta Trattamenti Sanitari Obbligatori o camuffati come volontari, ma sotto la minaccia di renderti la vita impossibile!
I tagli alla sanità pubblica. Dal 2010 al 2019 sono stati tagliati 37 miliardi di euro, chiusi 173 ospedali e 837
strutture di assistenza specialistica ambulatoriale, persi 70.000 posti letto e il personale sanitario è diminuito di
42.000 unità. L’incidenza del settore privato è cresciuta accentuando un criterio, già in atto, di una sanità sempre più
classista. All’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, per la Sanità sono destinati 7 miliardi per la
telemedicina (digitalizzazione delle strutture e dei servizi domiciliari) e 8,63 miliardi per finanziare la ricerca
medica (che da trent’anni, e oggi ancor di più, significa ingegneria genetica e nanotecnologie, con gli enormi rischi
per la salute ad esse connesse)…altro che potenziare la medicina del territorio. Inoltre vogliono chiudere altri
ospedali come quelli di Busto A. e Gallarate per aprire un ospedale unico a Busto A.
Continuano a speculare sulla nostra salute, lottiamo contro le politiche sanitarie di Governo e regione Lombardia!
Il carovita. L’inflazione ha raggiunto quasi il 4%, secondo i dati ISTAT, ma quella reale sembra molto più alta; gli
aumenti riguardano: elettricità +55%, gas +42%, benzina a più di1,80€/litro, latte +60%, pasta +60%, frutta +30%;
A tutto ciò dobbiamo aggiungere le spese extra per i tamponi e mascherine.
Lo Stato e la classe dominante hanno intenzione di farci pagare la crisi economica, accentuando sempre più il divario
sociale tra ricchi e poveri. Non siamo disposti a fare sacrifici e impoverirci per arricchire i soliti noti
(Confindustria, banche e boiardi di Stato)!
La scuola/azienda. La morte di Lorenzo Parelli, uno studente di 18 anni, avvenuta in una azienda a Udine l’ultimo giorno
di “alternanza scuola/lavoro”, è l’esito drammatico e prevedibile di quello che negli anni è diventato il mondo della
scuola. La scuola non è più, quand’anche lo sia stata in passato, un ambiente dove sviluppare il senso critico, la
curiosità e la conoscenza delle nuove generazioni, ma è un’istituzione atta alla creazione dei futuri
lavoratori/disoccupati che abitua fin da subito i bambini all’obbedienza e poi, da adolescenti, allo sfruttamento e alla
precarietà del lavoro. A questa situazione si sono aggiunte le disposizioni “anti-Covid” che limitano la socialità e
creano discriminazioni tra gli studenti (per esempio con la didattica a distanza attraverso le piattaforme di Google e
Microsoft o con le quarantene solo per i “non-vaccinati” alla faccia della lotta al bullismo di cui si riempiono la
bocca le varie agenzie educative…)
Abbasso la scuola dei padroni!
Licenziamenti, sospensioni, sfruttamento, morti sul lavoro e sfratti. Nel 2020 sono stati 558.000 i licenziamenti,
nonostante il “blocco dei licenziamenti”. Il 1° Novembre del 2021 è finito ufficialmente tale “blocco”e sono mezzo
milione i lavoratori che verranno licenziati, secondo le ipotesi del rapporto della Banca d’Italia. In tutta Italia sono
stati avviati licenziamenti collettivi come quelli alla Whirlpool di Napoli, alla GKN di Firenze e alla più vicina
Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto che ha visto 152 operai lasciati a casa da un giorno all’altro. Nell’estate 2021 sono
stati almeno 55.817 i lavoratori coinvolti nei 99 tavoli di crisi aperti al ministero dello sviluppo economico. Sempre
nel 2021 (nonostante il fermo di parte delle attività produttive per “l’emergenza Covid”) sono morti 1.404 lavoratori
per infortuni sul lavoro.
Dal 15 Ottobre il Green Pass è stato esteso a tutti gli ambiti lavorativi e si contano migliaia di persone sospese dal
lavoro senza retribuzione e senza alcun tipo di ammortizzatore sociale, e assistiamo ad un aumento considerevole del
precariato e dello sfruttamento; inoltre sono previsti almeno 32.000 sfratti in tutta Italia. Organizziamoci nei posti
di lavoro per fare picchetti e scioperi! Viva la solidarietà tra gli sfruttati!
Le nocività ambientali. Anche la questione ambientale e climatica viene strumentalizzata dall’industria e dalla finanza
capitalista per ricavare ulteriori profitti. La cosiddetta transizione ecologica consiste in realtà nello sfruttamento
di altre risorse naturali (oltre al petrolio e al gas) quali i metalli rari e le terre fertili, devastando immense aree
del pianeta; non viene assolutamente messo in discussione l’enorme e sempre crescente fabbisogno energetico legato alla
produzione industriale di merci e servizi. Il nostro territorio non è esente dalla presenza di nocività ambientali che
attentano alla nostra salute, per esempio il progetto di espansione dell’aeroporto di Malpensa con l’ampliamento dei
magazzini cargo e la costruzione della ferrovia T2-Gallarate che porterà al consumo di oltre 40 ettari di suolo del
Parco del Ticino o gli scarichi in deroga di diverse fabbriche nel fiume Olona che causano l’inquinamento delle acque e
dell’aria (da parecchi anni nelle zone di Castellanza, Olgiate Olona e Marnate si sentono delle puzze insopportabili
provocate dalle produzioni dell’azienda chimica Perstorp).
Basta nocività, basta devastazione del territorio!

Assemblea Popolare di Busto Arsizio 'contro il green pass e oltre'


Insorgiamo con i lavoratori GKN
Segue la dichiarazione del Gruppo di Supporto Insorgiamo in merito al “tenetevi liberi” lanciato dal Collettivo Di
Fabbrica - Lavoratori Gkn Firenze pubblicata il 4 febbraio 2022.

1. Tenetevi liberi. Più precisamente il 26 marzo.
2. A settembre un altro “tenetevi liberi” portò per le strade di Firenze un fiume di solidarietà e lotta. Allora la data
era dettata dalla controparte: era il 18 settembre e di lì a pochi giorni sarebbero scaduti i 75 giorni della procedura
di licenziamento imposta da Melrose dopo la chiusura di GKN del 9 luglio. Allora non c'era tempo. Ma proprio per queste
ragioni c'era adrenalina, tanta da prendere una città di peso e spostarla su quei viali e fino al Piazzale. Oggi invece
ci siamo conquistati l'entrata in scena di una nuova controparte e il tempo si è d'improvviso dilatato. Ora il nuovo
rischio è il lento logoramento della vertenza. Per questo non accetteremo nessuna soluzione finale per Gkn che non sia
una chiara reindustrializzazione con il mantenimento dei livelli occupazionali. Senza questo esito finale, infatti,
Melrose avrà comunque vinto. Spesso la cassa integrazione e i temporeggiamenti finiscono per fare evaporare una lotta. E
noi torniamo a dire: questa volta no!
3. Il “tenetevi liberi” di marzo quindi è una data uguale ma diversa rispetto a quel 18 settembre. È uguale perché
discende sempre dalla stessa domanda: “voi come state?” Oggi come allora ci siamo mobilitati, non per una fabbrica, ma a
fianco di una fabbrica, per il riscatto dei problemi di tutti. È una data diversa però. Non è imposta dalla controparte.
È una data nostra e questa è la sua forza. Il 26 marzo è il momento in cui, al di fuori di ogni ricorrenza, proviamo ad
andare a prenderci il cambiamento. Lo facciamo con la convergenza dei movimenti di lotta, oltre ogni ritualità, con
pieno protagonismo e autonomia. E questo è già di per sé qualcosa di nuovo.
4. Siamo ambiziosi. Saremo ambiziosi. Quasi presuntuosi nel voler costruire qualcosa che resti e che superi la propria
stessa data di scadenza. Saremo presuntuosi nel volare alto. Allo stesso tempo saremo umili nei rapporti e nelle
relazioni che svilupperemo.
La prima caratteristica di una lotta reale è basarsi sull’ascolto. La nostra lotta ha tenuto in vita una fabbrica. Ha
disinnescato la bomba della delocalizzazione. Ha strappato il miglior accordo possibile con la nuova proprietà nelle
condizioni date dai rapporti di forza esistenti. Ma rimane una lotta e una vertenza che si muove al pari di altre. Non
abbiamo lezioni da dare a nessuno ma abbiamo un'esperienza da raccontare, un esempio da portare e voglia di ascoltarne
tanti altri. Oggi come allora abbiamo i nostri limiti, le nostre debolezza e le nostre fragilità. E vi chiediamo di
portare le vostre. E solo così saremo invincibili.
5. In questi mesi, come prima cosa, abbiamo imparato che niente si costruisce a tavolino. Anche le forme organizzative
di cui ci siamo dotati rispondono alle esigenze e agli obiettivi della lotta. Per questo, dal 9 luglio, alla RSU, al
Collettivo di fabbrica, all’organizzazione sindacale si sono aggiunte altre strutture, prima fra tutte l'assemblea
permanente. Poi Il Gruppo Turni, che ha presidiato la fabbrica assieme agli operai in tutti questi mesi. Il Gruppo di
Supporto che ha catalizzato l'attivismo di centinaia di solidali e da cui sono nati tutti gli altri livelli
organizzativi. Il Gruppo Propaganda che gestisce l'uscita di articoli, comunicati, locandine, manifesti e video.
L'Ufficio stampa che, in costante relazione con la RSU, gestisce i rapporti con i media su ogni livello. La Segreteria
tecnica che assieme al Collettivo mantiene i rapporti e organizza la solidarietà a livello nazionale. Oggi abbiamo una
nuova “ristretta”, più corposa della sua prima versione, che si muoverà come direttivo per organizzare il “tenetevi
liberi” soprattutto a livello territoriale. Oggi le forme della nostra lotta guardano alla costruzione del 26 marzo:
organizzare una data così vuol dire non sottovalutare alcun aspetto. Vuol dire provare ad essere ovunque, dalle palestre
alle riunioni di condominio.
6. Mentre restiamo umili continueremo nella nostra presunzione di essere ciò che aiuta “il nuovo a nascere per
soppiantare il vecchio” a cui non dobbiamo essere affezionati: se da una parte rappresenta quei pochi equilibri che ci
tengono agganciati a qualcosa, sono pur sempre gli equilibri frutto di un esistente che dobbiamo non solo modificare, ma
ribaltare.
7. Per queste ragioni noi non scriveremo una piattaforma complessiva. Non spetta a noi. O almeno, non spetta solo a noi.
Noi, al pari degli altri, scriveremo la parte che ci compete perché sta nelle nostre corde, sta nel nostro dibattito, è
ciò che abbiamo affrontato e sviscerato in questi mesi. Scriveremo che questa è una manifestazione contro la precarietà,
i licenziamenti, gli appalti, i morti sul lavoro, contro le delocalizzazioni, per riprenderci ciò che ci hanno tolto.
Scriveremo che tutte le cause che hanno fatto partire le lettere di licenziamento in Gkn sono ancora in piedi e che non
esiste una fabbrica salva mentre tutto il resto del mondo del lavoro arretra. Altri, tutti gli altri, tutte le altre,
chiunque vorrà, scriverà la propria parte di quella piattaforma. E lo farà con le parole e soprattutto con la presenza.
Come ci ha detto un compagno disabile passato in questi giorni al presidio della fabbrica: “siamo troppo categorizzati.
Dobbiamo unirci. Ma non c’è bisogno che scriviate “disabilità” sulla locandina per avere la nostra presenza in piazza.
Noi ci saremo e ci saremo con la nostra lotta per l’assistenza e la sanità pubblica”.
E così sarà. Non scriveremo “scuola” perché si tengano liberi studenti, genitori, insegnanti e personale ATA. Non
scriveremo “sanità” perché si tengano liberi infermieri e barellieri. Non scriveremo “ambiente” perché si tengano liberi
i compagni e le compagne che si battono per la giustizia climatica. Non scriveremo “diritti civili” o “transfemminismo”
perché si tengano libere tutte coloro che già scenderanno in strada l'8 marzo. Non scriveremo “repressione” o “lotta
alla sorveglianza speciale” perché in piazza si manifesti la solidarietà. Non scriveremo “antifascismo” perché gli
antifascisti si mobilitino. Non lo scriveremo perché lo scriverete voi. Se lo facessimo noi finiremmo per renderli puri
slogan ripetitivi, mentre abbiamo conosciuto la vostra capacità di elaborare rivendicazioni, soluzioni, di padroneggiare
fin nei minimi dettagli le vostre aspirazioni e i vostri obiettivi. Abbiamo conosciuto la classe dirigente di quel
“nuovo” ancora tutto da conquistare.Di data in data, di incontro in incontro, di assemblea in assemblea, proveremo ad
incontrarci, a confrontarci, a conoscerci prima e a mettere ognuno la sua parola d'ordine in quella che sarà la
piattaforma scritta a mille mani e mille teste che ci porterà in strada insieme.
Solo così il 26 marzo non sarà pura sommatoria o coincidenza, ma sarà convergenza.
Sarà l'apertura di un nuovo spiraglio, forse più grande, attraverso cui si possa provare ad osare, a mettere in
discussione i rapporti di forza tra le classi che oggi sono così squilibrati e pesano così tanto sulle spalle della
classe lavoratrice in questo paese.
8. Questa è una data in cui vi chiamiamo a farvi pura volontà. Protagonismo allo stato puro. Il 26 marzo sarà un
processo di enorme responsabilizzazione collettiva o non sarà affatto. Responsabilizzazione nel convergere, nel
preparare, nel mobilitare e nel prenderci cura gli uni degli altri, di prenderci cura di questo fragile spiraglio che
abbiamo aperto. Prima che si richiuda, prima che svanisca. Questa volta non c’è la fretta delle lettere di
licenziamento. C’è la fretta del cambiamento. La fretta di uscire dal minoritarismo.
9. Noi non siamo concentrati su quella data ma sui giorni, tutti i singoli giorni, che ci separano da essa. Perché ogni
giorno è buono per un incontro, un'iniziativa, un'assemblea, un presidio, una manifestazione. E noi speriamo che questi
giorni siamo pieni di appuntamenti come questi. Alcuni saranno organizzati da noi. Anzi facciamo appello a contattarci e
a fissare in ogni città una data dell’Insorgiamo tour. Ad altri appuntamenti saremo invitati. In certe occasioni ci
presenteremo. In molti casi auspichiamo che ciò accada al di fuori di noi, della nostra presenza o consapevolezza di
quel momento. Ciò starebbe a significare che “il tenetevi liberi” inizia a diventare così come ce lo stiamo immaginando:
pura volontà collettiva.
10. INSORGIAMO!


LORENZO VIVE, È TEMPO DI RISCATTO
Lorenzo Parelli a soli 18 anni è morto in fabbrica a Lanuzacco durante l’ultimo giorno di stage nell’ambito del
programma di alternanza scuola-lavoro. Gli è caduta in testa una putrella di 150 kili in un momento interno alla sua
attività formativa. Lorenzo è stato un altro morto sul lavoro, nonostante fosse uno studente e al lavoro non ci dovesse
stare.
Lorenzo è stato ucciso da un sistema formativo classista che mette a disposizione, con la scusa di far esperienza,
manovalanza gratuita alle aziende. Lorenzo è morto di sfruttamento come altre 1.116 persone nel 2021.
In tanti hanno subito capito che i responsabili di questa strage sono Stato e Confindustria, molti cortei studenteschi
che hanno attraversato le strade di tante città italiane e altrettante scuole sono state occupate, non ha tardato ad
arrivare la violenta risposta repressiva contro chi ha osato alzare la testa. Condividiamo di seguito le parole degli
studenti che hanno indetto poi un partecipato corteo a Roma il 28 Gennaio.

Il movimento la Lupa domenica ha saputo rispondere con determinazione all'ennesima morte dovuta a un sistema basato sul
profitto e a un modello di scuola che non tutela e considera noi studenti e studentesse. Noi vogliamo molto di più e non
perdoniamo nulla. Vogliamo studiare in sicurezza, vogliamo diritto allo studio garantito a tutti i giovani, vogliamo
poter manifestare il nostro dissenso, senza il ricatto della repressione messo in atto dalle istituzioni, dai presidi e
dalla polizia.
Non saranno di certo la repressione, fatta con le manganellate in piazza e con le sospensioni nelle scuole, che sono le
uniche risposte che abbiamo dalle istituzioni, a fermare la nostra lotta contro l'Alternanza e contro questa scuola che
uccide: per questo, rilanciamo la lotta in tutti i nostri istituti e chiamiamo tutte le studentesse e gli studenti di
Roma di nuovo in piazza questo venerdì, ore 16.30, a piazza dell'Esquilino. Per Lorenzo, per il futuro di una
generazione che vuole costruire passo a passo il suo riscatto.
Estendiamo, così come fatto per il presidio al Pantheon, l'invito a partecipare a tutte le realtà sociali conflittuali
della città, che da sempre si mobilitano al fianco delle studentesse e gli studenti per una scuola migliore e da sempre
fanno parte della parte di città che dice NO allo sfruttamento, al precariato, alla repressione e ai silenzi delle
istituzioni.
Lo diciamo fin da subito: il nostro movimento non è disposto ad accettare nella piazza la presenza di tutte quei partiti
e sindacati (come la CGIL o le sue organizzazioni giovanili) che sono stati sempre conniventi e corresponsabili delle
decisioni prese dai governi sulla scuola negli ultimi anni e continua a difendere e legittimare l'Alternanza, chiedendo
miglioramenti e raccontando la favola della "Buona" Alternanza. L'Alternanza buona non esiste, la vostra scuola non va
migliorata, va rivoluzionata, e la morte di Lorenzo qualche giorno fa lo ha mostrato chiaramente a tutti.
Le scuole non sono aziende, i presidi non sono manager, il sapere non è profitto.
La Lupa non si ferma. È tempo di riscatto! (da Lupa_scuoleinlotta)

***
È morto un altro studente. Giuseppe Aveva 16 anni.
Era su un camion a lavorare per un’azienda termoidraulica.
Doveva essere a scuola.
Ancora una volta la scuola insegna normalizzare a lo sfruttamento e le morti sul lavoro. Abbiamo bisogno di una scuola
diversa. Ora.
Contro il vostro modello di scuola.
Scendiamo in piazza per Giuseppe, per Lorenzo e per tutte le morti di lavoro. Per il nostro presente ed il nostro
futuro.
Venerdì 9.30 Largo Cairoli.
Stay tuned. Stay rebel. (Da Coordinamento dei Collettivi Studenteschi)

***
SCUOLE OCCUPATE A MILANO
Sono dodici, da gennaio, le scuole superiori di Milano che hanno avuto un’occupazione. L’ultima in ordine di tempo è il
Virgilio (che comprende cinque corsi di studio: classico, scientifico, linguistico, scienze umane e Les, liceo economico
sociale). «Vogliamo rivendicare il diritto ad avere i nostri spazi: vogliamo che la presidenza ci ascolti quando diciamo
che non poter prendere nemmeno una boccata d’aria in cortile non ci fa bene, che ci ascolti quando diciamo che la
socialità è un diritto dell’adolescenza tanto quanto seguire le lezioni, che ci ascolti quando diciamo che i problemi
psicologici serpeggiano tra di noi come un’ epidemia» scrive il collettivo in una nota che annuncia l’occupazione.
Sulla scia delle lotte che in questi ultimi mesi hanno agitato il mondo della scuola, e dopo la grande mobilitazione
studentesca nazionale del 18 febbraio, la mattina del 20 febbraio anche gli studenti e le studentesse del Liceo Cremona-
Zappa hanno deciso di occupare l'istituto contro la scuola di Bianchi. Di seguito il comunicato:
“Oggi noi studenti e studentesse abbiamo deciso di occupare il nostro liceo, l’istituto Cremona-Zappa. La scuola sarà
quindi gestita da noi studenti per questa settimana: tutti e tutte sono invitati/e a venire a scuola e partecipare alle
lezioni alternative che abbiamo organizzato. Nessuno conosce meglio di noi cosa sono significati questi anni di
pandemia: buchi didattici, apatia, assenza di socialità, abbandono scolastico e aumento fortissimo del disagio
psicologico. Giriamo per una scuola che non è più nostra, ma solo un luogo in cui assorbire meccanicamente nozioni e
venire ricoperti di valutazioni prive di significato. Tutti i giorni entriamo in una scuola che dovrebbe formarci,
fornirci gli strumenti per crescere ed emanciparci, ma che invece non stimola il nostro pensiero critico e che sempre
più spesso insegue più le esigenze del mercato e del lavoro piuttosto che le reali necessità di noi studenti. Modello di
scuola che promuove la competizione tra di noi, coerentemente all'individualismo imperante di questa società.
Oggi, 21 febbraio, dopo la morte di due nostri coetanei in alternanza scuola-lavoro (di cui chiediamo lo stop
immediato), Lorenzo e Giuseppe, non possiamo più rimanere indifferenti davanti a un modello di scuola inaccettabile, non
possiamo più stare in silenzio davanti a una società che ci abitua fin da giovani a un mondo del lavoro precario e senza
tutele in cui essere sfruttati e svalutati. Lo diciamo a gran voce al ministro Bianchi e a questo governo, responsabili
dell'attuale situazione drammatica nelle scuole e che a pochi mesi dall'esame di maturità hanno aggiunto una seconda
prova che è uno schiaffo in faccia a tutti gli studenti di quinto che hanno passato due anni in dad. Dopo trent'anni di
tagli, inoltre, vogliamo essere noi studenti a decidere sui fondi del PNRR, per una scuola che sia realmente un luogo di
emancipazione collettiva e individuale. Ora ci riappropriamo di questi spazi. Ci diamo la possibilità di confrontarci e
informarci su temi a cui normalmente non viene dato spazio: inclusività, attualità, ambiente, politica, sessualità,
affettività. Ci autogestiamo rendendo gli studenti/esse protagonisti attivi! Questa settimana vuole essere l’occasione
di ricostruire un ambiente di socialità vero tra noi studenti e studentesse. Solidali con le altre occupazioni di questi
mesi, che dimostrano un malessere generalizzato non isolato. Per questi motivi oggi abbiamo deciso di rispondere alzando
la testa: la scuola è nostra e la gestiamo noi, dimostriamo di poterlo fare meglio di governi e ministri che in questi
anni l’hanno distrutta. Lo facciamo affianco a Lorenzo e Giuseppe, affianco alle decine di altre scuole occupate in
tutta Italia, affianco alle migliaia di studenti che da Milano a Palermo stanno scendendo in piazza: il presente è
nostro e ce lo riprendiamo!”. (Da FB Rete studenti Milano)


Solidarietà al comitato di lotta per casa del giambellino (mi)
Il 13 dicembre del 2018 il quartiere Giambellino e Milano tutta sono scossi dagli arresti nei confronti di 9
appartenenti al Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio.
Le accuse nei loro confronti sono di associazione a delinquere finalizzata all’occupazione e alla resistenza, oltre a
svariati episodi singoli di resistenza e di occupazione. Oggi, a 3 anni di distanza da quegli arresti, il primo grado
del processo nei confronti di quei 9 volge al termine. In vista di questo epilogo sempre più prossimo sulla vicenda
giudiziaria del comitato, alcuni di noi hanno pensato che sarebbe opportuno riparlarne collettivamente a livello
cittadino. Riteniamo infatti che le accuse contestate ai 9 siano accuse gravi, e che le probabili condanne debbano farci
riflettere su varie questioni non più rinviabili. Per ricentrare la questione occorre innanzitutto ricordare che, prima
degli arresti nei confronti del comitato, erano stati stanziati circa 80 milioni di euro (ora aumentati) per la
riqualificazione della zona. Più volte il Comitato aveva pubblicamente indicato questi investimenti, e la costruzione
della metropolitana (che solo nel quadrilatero compreso tra via Gelsomini e piazza Tirana conta ben 3 fermate), come
l’inizio della gentrificazione del quartiere. Appena effettuati gli arresti, e avendo di fatto smantellato il Comitato
con l’operazione poliziesca e militare (assieme agli arresti è stata sgomberata la Base di Solidarietà Popolare, sede
del comitato e luogo in cui erano ospitate numerose attività territoriali) unitamente alle minacce porta a porta (ti
togliamo la casa, ti togliamo i figli, ti togliamo i documenti) effettuate da carabinieri e ALER, ecco che sono infatti
iniziati gli abbattimenti dei palazzi. I lavori sono andati avanti e altri civici (fra cui quello che ospitava la Base)
sono poi stati abbattuti.
Inutile nasconderlo, gli arresti sono molto legati alla gentrificazione della zona. Non ci si può permettere che
qualcuno si metta di traverso al profitto, specialmente per preservare qualcosa come l’Edilizia Residenziale Pubblica –
che di profitto ne genera molto poco – e per questo, da decenni, è oggetto di smantellamento. Non per niente, se una
volta la gestione delle case popolari era considerata una problematica di Welfare, adesso viene invece trattata come una
questione di ordine pubblico.
Osservando le trasformazioni urbane che hanno coinvolto la nostra città negli ultimi anni, ormai sono molti i quartieri
"spariti", riconvertiti in zone alla moda che generano profitti incalcolabili (basti pensare a Isola, ex quartiere
popolare e ora costosa zona di movida, in cui localini e teatri per giovani hipster si alternano a loft e grattaceli).
Il prospetto per il futuro non sembra essere migliore: mentre sullo sfondo si staglia il mega-evento delle olimpiadi
invernali del 2026, ogni settimana un nuovo evento si prende con arroganza il centro e i quartieri in cui abitiamo, e i
progetti di riqualificazione ormai sono così tanti che è difficile starci dietro (San Siro, Baggio, Padova, Corvetto,
via Gola). Come ha recentemente dichiarato il sindaco "ogni zona può essere messa a valore". Quasi un monito a noi che
abitiamo quelle zone su cui vorrebbero mettere le mani. Non può non farci riflettere anche l’inasprimento repressivo
degli ultimi tempi. Dai decreti Salvini, che intensificano le pene per tutta una serie di pratiche comuni a chi lotta e
criminalizzano l’immigrazione, passando per i DASPO Willy, che a Milano sono stati comminati nei confronti di tanti
ragazzi di periferia, le possibilità repressive sono aumentate a dismisura. Anche nel nostro ambiente abbiamo assistito
a un moltiplicarsi di fogli di via, avvisi orali, richieste di sorveglianza speciale e multe Covid, tutto elargito
arbitrariamente dalla polizia. Sono poi ormai innumerevoli i processi penali che riguardano situazioni di lotta, e la
scure della repressione si abbatte con sempre più forza contro chi, all’interno della metropoli, prova a sfuggire alla
logica del profitto. Dagli operai caricati e processati, ai cortei circondati da centinaia di poliziotti, ai processi-
vendetta a distanza di 10 anni, abbiamo evidentemente un problema.
È per queste ragioni che vogliamo organizzare un incontro fra le tante realtà che sentono queste problematiche come
proprie, partendo dal Giambellino e cercando di organizzare una solidarietà intorno al processo: perché le accuse
avversate, e il contesto in cui sono maturate, fanno parte di un bagaglio comune di partiche di lotta e di vita, e
l’accelerazione repressiva contro di esso non può lasciarci indifferenti.
Abbiamo pensato di articolare la nostra proposta in tre momenti, in questo modo:
Un primo incontro di riflessione sulla "questione urbana, oggi", con alcuni interventi specifici di ospiti che abbiamo
individuato fra coloro che hanno approfondito il tema da diversi punti di vista professionali e di studio. L'incontro si
terrà DOMENICA 27 FEBBRAIO dalle ore 16:00 presso Casa Crescenzago (via Adriano, 2)
Un secondo incontro, a cui invitiamo le persone interessate a condividere esperienze di lotta, prospettive, idee, con
l'intenzione di muoverci insieme nella direzione di rompere l'isolamento repressivo e di rafforzare il nostro bagaglio
comune di conoscenze. La data dell'incontro è ancora da programmare, magari insieme, e prevediamo che si possa tenere a
inizio maggio. Un momento finale più leggero e conviviale, a chiusura di questo ciclo, durante il quale rilanciare
l'invito sotto al tribunale per l'udienza in cui si terranno le arringhe finali degli avvocati, subito prima della data
della sentenza e poi proseguire con un aperitivo benefit in sostegno delle spese legali.