indice n.148
Mali: Colpo di Stato a Bamako
COLOMBIA: SCIOPERIAMO PER AVANZARE!
USA: il razzismo di stato ammazza anche i proletari bianchi
Aggionamenti dai campi di internamento per immigrati
LETTERA DAL CARCERE DI SULMONA
LETTERe DAL CARCERE DI milano-OPERA
LETTERA DAL CARCERE DI REGGIO EMILIA
LETTERA DAL CARCERE DI VIBO VALENTIA
Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Solidarietà a Natascia in sciopero della fame
CARCERE di S. M. Capua Vetere: violenze torture morti
41 BIS=TORTURA: ALCUNI COMPAGNI E COMPAGNE A PROCESSO
Vivere e morire nel carcere di Uta (CA)
Contro i licenziamenti superare le divisioni
Stop al blocco degli sfratti: l'emergenza abitativa a milano
Da un insegnante di una scuola della periferia milanese
Mali: Colpo di Stato a Bamako
Chissà cosa racconterà il governo Draghi in Parlamento per giustificare l’ennesima debacle della diplomazia politico-militare italiana in
terra africana: due missioni ufficiali di altissimo livello in poco meno di 40 giorni a Bamako (la prima con il ministro degli Esteri
Luigi Di Maio, poi quella del ministro della Difesa Lorenzo Guerini) e l’avvio in gran segreto dell’operazione Takuba con i reparti
d’élite delle forze armate italiane a fianco delle truppe francesi e dei generali golpisti in Mali. Nel Paese del Sahel dove si assiste
all’ennesimo confuso rovesciamento istituzionale da parte di una fazione delle forze armate, l’Italia ha apertamente flirtato con gli ex
golpisti oggi spodestati, il presidente della giunta militare di transizione Bah N’Daw (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica
militare ed ex ministro della Difesa, oggi agli arresti) e il vicepresidente colonnello Assimi Goita, a capo dei militari che il 18 agosto
2020 hanno deposto l’allora presidente Ibrahim Boubacar Keïta, sciolto il Parlamento e rinviato sine die l’organizzazione di nuove
elezioni.
Con loro Luigi Maio si era incontrato a Bamako l’8 e 9 aprile scorsi in vista del “rafforzamento della collaborazione in materia
migratoria e di sicurezza” tra Italia e Mali, come riporta il comunicato stampa emesso dalla Farnesina. “Partner strategico dell’Italia su
molti dossier prioritari come la Libia, la gestione dei flussi migratori e la stabilità del Sahel, la missione in Mali del ministro Di
Maio si colloca nel quadro della priorità che tutta l’Africa riveste per il nostro Paese, come dimostrato anche dall’attenzione speciale
che sarà dedicata al Continente africano dalla Presidenza Italiana del G20”, concludeva la nota degli Esteri.
Lo scorso 20 maggio è stato invece il ministro Guerini a recarsi in visita in Mali, in compagnia del Capo di Stato maggiore della Difesa,
generale Enzo Vecciarelli e del Comandante del C.O.I. (Comando Operativo di Vertice Interforze), generale Luciano Portolano. A Bamako la
delegazione italiana ha incontrato ancora una volta il vicepresidente-colonnello Assimi Goïta e l’allora segretario generale della Difesa,
generale Souleymane Doucoure, poi ministro per un giorno prima di essere arrestato anch’egli nel golpe del 24 maggio e successivamente
condotto nella base militare di Kati, nei pressi della capitale, la stessa da cui era partita la sollevazione militare del 18 agosto 2020
contro il presidente Ibrahim Boubacar Keïta.
“Un’azione sinergica della Coalizione per il Sahel, dell’UE e dei Paesi, europei e non, impegnati in questa regione è quanto mai
indispensabile per raggiungere quegli obiettivi di sicurezza necessari alla tutela dei nostri comuni interessi (…) L’Unione Europea è uno
dei principali promotori della stabilità e della sicurezza dell’intero Sahel, ma il suo impegno può e deve fare un salto di qualità,
integrando lo sforzo nel settore della sicurezza con le proprie capacità di supporto economico e sociale. La nostra strategia per questa
parte del Continente Africano si sta sviluppando all’interno di un immaginario triangolo, i cui vertici congiungono quadranti tra loro
distanti ma interconnessi: a sud-ovest c’è il Golfo di Guinea, a sud-est il Corno d’Africa, e al vertice nord, sulle sponde del
Mediterraneo, la Libia”, aveva dichiarato il ministro Guerini a conclusione della missione in Mali.
La partecipazione delle nostre forze armate alla task force è stata decisa e finanziata dal Parlamento il 16 luglio 2020 ma ha preso il
via solo nei primi giorni di marzo 2021. Ad oggi sono top secret le attività militari e le regole d’ingaggio autorizzate; le uniche
informazioni ufficiali sono quelle contenute nella scheda predisposta dal Servizio Studi del Dipartimento Difesa alla vigilia del voto
parlamentare. “La missione si inserisce nel nuovo quadro politico, strategico e operativo ribattezzato Coalizione per il Sahel, che
riunisce sotto comando congiunto la forza dell’Opération Barkhane a guida francese e la Force Conjointe du G5 Sahel, al fine di coordinare
meglio la loro azione concentrando gli sforzi militari nelle tre aree di confine (Mali, Burkina Faso e Niger)”, riporta il Servizio Studi.
Lanciata ufficialmente dal presidente francese Emmanuel Macron nel gennaio del 2020 in occasione del vertice G5 Sahel di Pau, la Task
Force Takuba (Spada in lingua tuareg), oltre a Francia e Italia vede la presenza militare di Belgio, Danimarca, Estonia, Germania, Grecia,
Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Spagna e Svezia. Lo schieramento militare italiano in Mali dovrebbe
essere completato entro la fine del 2021: è previsto un numero massimo di duecento soldati, venti mezzi terrestri e otto elicotteri.
Null’altro è specificato relativamente ai reparti e ai sistemi d’arma che saranno impiegati e sulla loro destinazione operativa finale.
“Le forze speciali della Task Force sono quotidianamente impegnate in attività di addestramento e assistenza delle forze locali”.
“L’addestramento si sostanzia nella condotta di poligoni e di esercitazioni sull’impiego degli strumenti di primo soccorso, sull’impiego
dei principali veicoli militari e sulle tecniche di movimento sul terreno. Le truppe della Task Force, tuttavia, non si limitano alla
fornitura di assistenza e di addestramento. La missione creata dai francesi, infatti, è quella di consigliare, assistere ed accompagnare
in combattimento le forze armate maliane. Proprio quest’ultimo compito rappresenta l’attività più rischiosa per le forze speciali di
Takuba. Le forze che Roma ha inviato e invierà in Mali proverranno prevalentemente dai reparti speciali dell’Esercito (9° col Moschin, 4°
reggimento alpini paracadutisti, 185° reggimento RAO), della Marina Militare (GOI), dell’Aeronautica (17° stormo incursori) e, forse,
anche dei carabinieri (i paracadutisti del Tuscania)…”, spiega l’ufficiale dell’Esercito italiano Matteo Mazziotti di Celso. Una vera e
propria missione di guerra dunque, la cui estrema pericolosità è rilevata dallo stesso analista. “A giudicare dall’elevato livello della
minaccia – Parigi ha subito 55 morti dal 2013, anno in cui ha avuto inizio l’operazione Serval, mentre la Task Force Takuba, in circa un
anno di operazioni, è stata impegnata in almeno venti scontri a fuoco – i militari italiani inviati in Mali potrebbero trovarsi coinvolti
in violenti combattimenti con le forze jihadiste”. “L’impiego dei nostri nella condotta di operazioni ad alto rischio potrebbe segnare un
notevole cambio di passo per le forze del nostro Paese, che da anni si dedicano a tutt’altro tipo di operazioni […] La rimodulazione
attualmente in atto della nostra presenza militare in Africa, specialmente nel Sahel, si inserisce infatti a pieno titolo in quello che
sembra essere sempre di più il nuovo focus di Roma verso la regione del Mediterraneo Allargato, l’area dove si giocano le partite
geopolitiche più importanti per il nostro paese”. Nessuna parola per chiarire l’identità degli “interessi italiani” da difendere con le
nuove e pericolose operazioni militari in terre africane. Basta però dare un’occhiata al quadrante geostrategico per rendersi conto che il
bottino conteso riguarda innanzitutto le immense risorse energetiche del continente – petrolio e gas – ma anche (in Sahel) l’uranio per
le centrali e le testate nucleari. Per comprendere le cause e le finalità degli innumerevoli golpe, delle guerre fratricide, delle stragi
di civili e delle missioni di “pace” internazionali in questa martoriata regione del pianeta non bisogna purtroppo fare grandi sforzi di
analisi…
25 maggio 2021, liberamente tratto da africa-express.info
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Report incontro “Boicottiamo la guerra”
Il 30 giugno si è tenuto l’incontro “Boicottiamo la guerra” organizzato dagli Antimilitaristi Campani. Oltre alle realtà che compongono la
rete campana (Comitato BDS Campania, Comitato Pace, Disarmo e Smilitarizzazione del Territorio – Campania, Napoli Città di Pace, Rete
campana contro la guerra e il militarismo) erano presenti i rappresentanti dei lavoratori portuali del CALP di Genova e del CLP di Napoli,
il comitato sardo “Madri contro la repressione”, Cagliari social forum, Stop RWM, No Muos Catania, No Muos Palermo, No Muos Ragusa, Rete
Antirazzista Catania, Coordinamenta Femminista e Lesbica, antimilitaristi di Ghedi e Livorno, attivisti singoli o appartenenti a realtà
politiche. L’incontro voleva essere un primo momento di confronto sulla necessità di rilanciare l’opposizione alla guerra e al militarismo
a partire dal sostegno concreto alle azioni dei portuali contro la movimentazione e il transito di armi nei porti italiani e alle
mobilitazioni dei comitati contro tutte le basi militari. Tutti gli interventi hanno sottolineato l’importanza del rifiuto da parte dei
lavoratori dei porti di Genova, Livorno, Ravenna e Napoli a caricare armi dirette nelle zone di guerra, del loro schieramento netto dalla
parte degli immigrati e dei popoli oppressi e, soprattutto, dell’impegno che questi lavoratori stanno mettendo in direzione di un
coordinamento internazionale tra i porti al fine di rendere ancora più incisivi e coordinati blocchi e scioperi futuri. La stessa nascita
dell’osservatorio Weapons Watch rappresenta uno strumento fondamentale per il monitoraggio del movimento delle armi attraverso i porti
europei e per la messa in rete delle informazioni finalizzate a stimolare l’azione degli antimilitaristi e di sempre più lavoratori, sia
quelli che fabbricano che quelli che movimentano le armi, e anche a salvaguardare la loro sicurezza. Il neo-coordinamento ha già
cominciato a darsi scadenze unitarie. Il compagno del CALP di Genova ha ricordato che per il 16 luglio è stata chiamata una “Giornata
contro le armi nei porti” che vedrà un primo confronto internazionale tra le realtà portuali. Egli ha fortemente sottolineato la necessità
della solidarietà e della partecipazione attiva alle loro lotte per rafforzarle, ma anche per rispondere alla repressione già abbattutasi
sui portuali liguri. Cinque di loro, infatti, sono indagati dalla procura per associazione a delinquere finalizzata a reati che vanno
dalla resistenza, all’accensione di fumogeni e bengala (“dispositivi modificati in modo da renderli micidiali”), al lancio di oggetti
pericolosi e, perfino, all’attentato alla sicurezza pubblica dei trasporti. La solidarietà e la partecipazione sono tanto più necessarie,
dicevano i lavoratori del CLP di Napoli, quando questo tipo di lotta è solo agli inizi e si inserisce in un complesso contesto di vertenze
aziendali, come nel caso del porto napoletano. Proprio sulla lotta unitaria contro la repressione hanno insistito le attiviste del
comitato “Madri contro la repressione”. L’Operazione Lince, inchiesta avviata nel 2014 dalla procura di Cagliari nei confronti dei
movimenti in lotta contro l’occupazione militare della Sardegna, contro le basi e le esercitazioni militari, ha portato a processo 45
antimilitaristi con accuse che vanno dall’imbrattamento fino, per alcuni di loro, all’associazione con finalità di terrorismo. La prossima
udienza si terrà il 14 settembre. Questa potrebbe essere una prima occasione per un’iniziativa unitaria. Una proposta è stata ripresa
dagli altri interventi. Tutti, infatti, hanno convenuto sul fatto che l’unica concreta arma contro la repressione è la solidarietà attiva
insieme alla ricostituzione di un forte movimento contro il militarismo e, più in generale, contro le politiche del governo. Questo vuol
dire superare le attuali debolezze. Oggi, come testimoniato da molte realtà, troppo spesso sui territori si fa fatica a mobilitare. E’
necessario ridare slancio alla lotta e superare la frammentazione anche alla luce di quanto alcuni evidenziavano: 1) una preoccupante
corsa agli armamenti sul piano mondiale, che non si è fermata nemmeno durante la pandemia; 2) l’acuirsi dello scontro tra grandi potenze;
3) nuovi fronti di guerra che si aggiungono a quelli di Siria, Libia, Yemen, Iraq, ecc.; 4) una gestione militarizzata della pandemia che
ha reso ancora più invasiva la presenza ed ha legittimato il ruolo delle forze armate anche in settori civili; 5) il crescente
interventismo militare dell’Italia, come confermato dal rinnovo delle missioni all’estero già in atto e dal varo di altre due nuove
missioni. Durante la discussione sono stati toccati molti altri temi: l’ampliamento della fabbrica di bombe RWM Italia di Domusnovas
(Sardegna); il transito di navi e sommergibili a propulsione nucleare nei nostri porti e la mancata diffusione dei piani sicurezza
previsti in caso di incidenti; l’ampliamento del personale e dell’azione di Frontex – dispositivo chiave delle politiche contro gli
immigrati e per la militarizzazione delle frontiere europee – contro cui è partita la campagna Abolish Frontex (abolishfrontex.org); il
prezzo più alto pagato al militarismo e alla guerra dalle donne (a partire dallo stupro usato come arma); la necessità di portare la
tematica del militarismo in tutti i contesti di lotta (ambiente, femminismo, migranti, lavoro); il ruolo di Israele nell’escalation
militare e come modello per la sicurezza e la militarizzazione interna della stessa Italia e la necessità di avviare le campagne per
l’abolizione dei trattati di cooperazione militare Italia-Israele e per il boicottaggio e il disinvestimento.
Temi su cui bisognerà tornare e per agire insieme. Tutti, infatti, hanno espresso la volontà di dare un seguito a questo primo confronto.
In questa direzione ci si è impegnati a consolidare i contatti e la trasmissione di informazioni con una mailing list e ad accogliere,
diffondere e sostenere le iniziative già messe in campo dalle singole realtà. In particolare:
16 luglio, “Giornata contro le armi nei porti” lanciata dal coordinamento porti
17-24 luglio “Caravana Canarias 2021”
7 agosto, giornata di mobilitazione a Niscemi
14 settembre, iniziativa contro la repressione coordinata su tutti i territori
5 luglio 2021, da Facebook Rete contro la guerra e il militarismo - Campania
COLOMBIA: SCIOPERIAMO PER AVANZARE!
Dopo decenni di conflitto armato e violenza paramilitare, in Colombia i movimenti di protesta sono riapparsi in tutta la loro forza
nell’ultimo anno e mezzo. Le grandi manifestazioni della scorsa settimana vanno ben oltre la sollevazione nazionale di novembre e dicembre
2019. In risposta, il governo più armato dell’America Latina sta attuando una brutale repressione. La pandemia di Covid-19 e le sue
conseguenze sociali ed economiche hanno colpito duramente la Colombia e il paese è arrivato a un punto di rottura mentre la classe
dirigente cerca di spremere le ultime gocce di profitto da una popolazione già sofferente tenuta in riga da un’intensa violenza della
polizia. Ovunque, la pandemia ha intensificato le disparità di ricchezza, potere e accesso ai mezzi di sopravvivenza, servendo come scusa
per aumentare la repressione statale.
La richiesta del presidente della Colombia Ivan Duque al congresso colombiano di ritirare il disegno di legge sulla riforma fiscale,
avvenuta il 2 maggio, ha scatenato proteste in tutto il paese. Questo ricorda la vittoria che un movimento sociale simile ha ottenuto in
Ecuador nell’ottobre 2019, ispirando rivolte in Cile e altrove. Tuttavia, ad oggi, le proteste in Colombia continuano - soprattutto nella
città di Cali, epicentro delle manifestazioni - perchè quella legge fallita è solo la misura più visibile in un pacchetto di riforme che
include anche la privatizzazione della sanità. Qui presentiamo una traduzione di un rapporto di Medios Libres Cali, un’organizzazione
mediatica indipendente di Cali.
Nonostante gli accordi di pace firmati dal governo e dalle FARC-EP (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia-Esercito Popolare) nel
2016, che avrebbero dovuto mettere fine al conflitto armato in Colombia, il paramilitarismo e il narcotraffico continuano ad alimentare la
guerra. El Centro Democrático (il partito dell’ex presidente Álvaro Uribe e dell’attuale presidente Iván Duque) è responsabile della
prosecuzione della guerra; concentrando le energie nell’affermazione del suo controllo politico e finanziario del paese.
Dal febbraio 2021, 252 ex guerriglieri delle FARC che hanno smobilitato per firmare un accordo di pace sono stati assassinati. Oggi,
quattro anni dopo la firma dell’accordo di pace, il governo ha implementato meno del 75% dell’accordo, e non ha intrapreso alcuna azione
su aspetti sostanziali di esso che avrebbero dovuto affrontare le cause strutturali del conflitto, come l’accesso, la ridistribuzione e il
possesso della terra - che è stata storicamente una delle cause della profonda disuguaglianza all’interno del paese. Questa disuguaglianza
si è intensificata con l’arrivo della pandemia. Ora, mentre la Colombia sta vivendo il suo terzo picco di Covid, la nazione sta
affrontando un’ondata ancora peggiore di violenza, povertà e corruzione, in cui la fame è uno dei problemi peggiori. La guerra sta
inondando di sangue il nostro territorio. Nei primi mesi del 2021 sono stati assassinati almeno 57 influenti attivisti dei movimenti
sociali, 20 dei quali indigeni, la maggior parte dei quali della provincia di Cauca. Inoltre, ci sono stati 158 femminicidi nei primi tre
mesi dell’anno e diversi altri massacri.
La Colombia è il paese delle esecuzioni extragiudiziali. Un rapporto della Giurisdizione Speciale di Pace (JEP) ha documentato 6.402
omicidi illegali di civili tra il 2002 e il 2008, che l’esercito e la polizia hanno disonestamente spacciato come “uccisi in
combattimento”. Queste uccisioni hanno raggiunto un picco nel 2007 e 2008 durante la presidenza di Álvaro Uribe Véles. In Colombia la
gente non si chiede più chi ha dato gli ordini per queste uccisioni. Sanno che gli ordini venivano da Uribe, e non hanno più paura di
dirlo ad alta voce. La Colombia ha perso la paura.
Nel mezzo di un terzo picco di infezioni da Covid-19, migliaia di persone sono scese in strada per partecipare allo sciopero generale del
28 aprile. Cosa potrebbe far superare alla gente la paura del virus e occupare le strade di fronte al governo più sanguinario dell’America
Latina? La gestione corrotta e negligente della crisi generata dal Covid-19 da parte dell’amministrazione Duque ha gettato il paese in una
spirale di impoverimento che cresce in maniera esponenziale.
Il governo non è riuscito ad attuare una proposta di reddito di base come mezzo per sostenere le famiglie con più bisogno. Al contrario,
si è concentrato sul sostegno alle banche, assicurando la loro liquidità finanziaria attraverso fondi trasferiti direttamente dal Fondo
Mitigazione dell’Emergenza (FOME) creato sulla scia della pandemia. Gli esperti hanno dichiarato che, solo attraverso trasferimenti noti
come “Reddito di solidarietà”, le banche avrebbero intascato almeno 6,3 milioni di dollari presi direttamente dal tesoro pubblico. Questo
“Reddito di Solidarietà” non ha mai raggiunto le persone che ne hanno veramente bisogno. Niente di tutto questo è nuovo. Con il pretesto
di ridurre il deficit che aveva creato con l’ultima riforma, l’amministrazione Duque ha avuto la terribile idea di aumentare il costo
della vita in uno dei paesi più diseguali del mondo. E’ scioccante che nel mezzo di una crisi, il governo colombiano decida di aumentare
le tasse sul cibo per le classi medie e basse. Non ha senso aumentare il prezzo del cibo quando la popolazione soffre la fame.
Le decisioni che determinano la direzione del paese e il futuro di milioni di persone sono prese esclusivamente dalle elite politiche,
militari ed economiche. Passano leggi a favore degli imperi bancari e degli allevamenti, leggi a favore degli interessi finanziari
nordamericani, asiatici ed europei, leggi per garantirsi l’immunità dopo aver rubato le risorse di tutti, leggi per mantenersi al potere
sia a livello locale che nazionale.
Queste leggi sono approvate a porte chiuse, senza dibattito pubblico. Uno degli esempi più evidenti di questo è la riforma che apporterà
modifiche al sistema sanitario colombiano. Introdotta il 16 marzo 2021, non è ancora stata approvata dal Congresso, ma i suoi sostenitori
nella legislatura hanno fatto manovre segrete la notte del 26 aprile per cercare di farla passare mentre l’attenzione era fissata sulla
riforma fiscale. Questa riforma sanitaria potrebbe essere peggio dello stesso Covid-19. Essenzialmente è destinata ad attuare la completa
privatizzazione del sistema sanitario colombiano. Dovremo pagare spese di copertura per le patologie o l’EPS (l’assicurazione sanitaria
pubblica della Colombia) ci negherà l’assistenza medica. Le persone che hanno bisogno di cure mediche attraverso l’EPS dovranno dimostrare
che si stanno prendendo cura di se stesse e che non hanno fatto nulla per causare la loro malattia o lesione; se un assicuratore di parte
dimostrerà il contrario, potrà negare la copertura, costringendole a pagare di tasca propria.
Questa riforma permetterebbe alle multinazionali e alle aziende farmaceutiche transnazionali di imporre prezzi e regole di mercato per
l’assistenza sanitaria in Colombia. Porrebbe fine agli sgravi dell’assicurazione sanitaria per coloro che esercitano professioni come
l’istruzione, l’industria manifatturiera e le forze armate. Gli ospedali dovranno rendere conto dei risultati ottenuti, una proposta
macabramente simile ai “risultati” che il governo Uribe richiedeva all’esercito che ha portato a più di 10.000 falsi positivi, la pratica
di esecuzione extragiudiziale in cui il governo e i militari hanno rapito e ucciso giovani, poi falsamente riportati come combattenti
delle FARC-EP per riempire le quote. Allo stesso modo si stima che l’attuale legge sanitaria che ha privatizzato il sistema sanitario nel
1993 ha portato a un milione di morti per mancanza di attenzione medica o per negligenza, infliggendo ancora più vittime del conflitto
armato.
Dall’inizio della pandemia, i più poveri hanno affrontato la scelta crudele tra stare a casa per evitare il virus e lavorare per
sopravvivere. A poche settimane dal suo inizio, i fazzoletti rossi hanno cominciato ad apparire alle finestre delle case nei quartieri
emarginati, a significare che la famiglia stava soffrendo la fame. Ben presto, se ne potevano vedere a migliaia. Per questo, un anno dopo
l’inizio della quarantena, quando il governo ha proposto una riforma fiscale che avrebbe colpito più duramente le classi medie e basse, la
gente non ha esitato a scendere in piazza. In quel momento di crisi, non c’era più nessuna scelta possibile, solo rabbia e frustrazione.
Era il momento di fermare la Colombia in difesa della dignità umana. Non c’erano leader, solo una data proposta dai sindacati - il 28
aprile - e questo è stato sufficiente perché famiglie, amici, vicini e quartieri si siano auto-organizzati attraverso le reti sociali. La
gente è confluita in un grande fiume di comunità che ha marciato verso i principali punti di raccolta e le entrate delle città. Questo è
stato un modo efficiente per rendere reale lo sciopero, assicurando che nessuno potesse entrare o uscire.
Il primo giorno è stato pieno di grida, discorsi, canti e balli in strada. Questo è il modo in cui siamo a Cali: felici e coraggiosi,
dignitosi e festosi, ballerini e guerrieri. La gente tornava a casa quella sera, stanca ma con il sorriso consapevole di chi ha fatto
qualcosa di importante. Nei giorni seguenti, i blocchi si sono moltiplicati e il numero di partecipanti si è ingrossato, ispirato dagli
esempi di resistenza per superare la paura della repressione. Ma anche il governo ha la sua esperienza, particolarmente violenta e
paramilitare. Ha cominciato ad arrestare, uccidere, far sparire e violentare le giovani. Questo ha solo aumentato l’intensità della
resistenza nelle strade. Mentre le misure restrittive erano ancora in vigore in alcune città colombiane, il governo ha dichiarato il
coprifuoco a partire dalle 8 di sera del 28 aprile nel tentativo di interrompere la continuità della mobilitazione. Alle 10 del mattino
successivo, avevano già modificato la misura in risposta al malcontento nelle strade, usando il pretesto di cercare di prevenire
situazioni di folla per fare pressione sulla gente attraverso il coprifuoco.
Il 30 aprile, terzo giorno di sciopero, le autorità sono passate a una strategia di terrore di stato, lo stesso che hanno usato in altre
occasioni per paralizzare le comunità. A questo punto, le manifestazioni si sono svolte in più di 500 città in tutto il paese. La nostra
memoria di altre lotte difficili, tramandataci dai nostri genitori e nonni, ci ricorda che non c’è potere più trasformativo del popolo
quando si unisce.
La città di Cali si è prodigata nell’ondata di proteste, organizzandosi in modo da favorire l’incontro tra le persone. La gente si è
riversata nei principali luoghi di raggruppamento con una creatività stupenda. Il cibo è sempre al centro di questi spazi - pasti diversi
e deliziosi distribuiti da pentole comuni. Lì vi è la prima linea, e altre linee sono quelle di cura e di difesa da parte dei giovani
della resistenza. Molte zone della città sono state rinominate: La Loma de la Cruz, ora si chiama La Loma de la Dignidad, “Collina della
Dignità”; El Paso del Comercio, ora si chiama El Paso del Aguante, “Passo della Resistenza”. Il Ponte dei Mille Giorni è ora il Ponte
delle Mille Lotte e la Porta del Mare è ora la Porta della Libertà. Tuttavia, la repressione continua quotidianamente. Facendo eco alla
frase “Mi ricorderò sempre di quando ho lanciato una pietra per la rabbia e il governo repressivo ha risposto con delle pallottole”, la
gente ha vissuto giorni intensi di resistenza difendendo almeno sette presidi permanenti in tutta la città.
La popolazione di Cali ha protestato in gran numero e con determinazione fin dal primo giorno delle mobilitazioni. Nella maggior parte dei
luoghi di raduno, la gente è stata provocata dalle forze di polizia, con scontri tra manifestanti e i reparti antisommossa (ESMAD). Il
governo cittadino del sindaco Jorge Iván Ospina ha assegnato il compito di vigilare sulle manifestazioni al Gruppo di Operazioni Speciali
(GOES) della Polizia Nazionale. Attacchi indiscriminati sono stati segnalati nei luoghi di protesta Paso del Aguante, Calipso e Puerto
Resistencia. La polizia ha approfittato della notte per attaccare i punti più vulnerabili delle proteste del 1° maggio. Ci sono state
segnalazioni da tutta la città di civili armati che sparavano nei quartieri vicini a queste zone. Questa notte è stato dichiarato lo stato
di “Emergenza Militare” per legalizzare la militarizzazione delle città dove continuava la mobilitazione e la resistenza civile contro la
riforma fiscale.
E’ stato difficile trovare informazioni sulle spese militari da fonti ufficiali. Sembra che si voglia nascondere la verità sulle spese del
governo per il materiale bellico. La Colombia spende attualmente circa 40 miliardi di pesos colombiani (10,5 milioni di dollari) per il
ministero della difesa ogni anno. Il budget militare è sempre stato storicamente alto, dato che il conflitto interno è continuato e si è
intensificato per diversi decenni. Nonostante gli sforzi per stabilire colloqui di pace, oggi il conflitto si è diversificato e inasprito
in molte parti del paese, e le spese per la difesa costituiscono oggi circa l’11% della spesa pubblica della Colombia, una percentuale
elevata per un paese con un’economia indebolita. Questo pone la Colombia al 25° posto nella classifica mondiale delle spese per la difesa
pubblica, molto al di sopra di paesi come la Francia (con il 3,3%), la Spagna (2,9%), o anche il Brasile (3,86%). L’ESMAD (Escuadrón Móvil
Antidisturbios, la Squadra Mobile Anti Sommossa), una divisione dell’apparato di polizia nazionale, è stata creata nel 1999 per reprimere
le mobilitazioni nel paese. Doveva essere una forza speciale temporanea, ma esiste ormai da più di 20 anni e si è rafforzata attraverso i
governi successivi. Oggi consiste di 3.876 ufficiali con un budget di 490 miliardi di pesos (131 milioni di dollari). Nel corso del suo
mandato, lo squadrone ha assassinato almeno 20 civili utilizzando il cosiddetto “uso eccessivo della forza”. Oggi, il governo Duque-Uribe,
estraniato dal popolo e prevedendo un forte malcontento popolare derivante dalle suddette misure, ha stanziato milioni per rafforzare il
suo apparato di sicurezza. Il governo si sta preparando da tempo a usare la repressione per affrontare i disordini. La presenza militare
nelle strade aumenta la possibilità di atti di guerra durante le manifestazioni, perché lo stato affronta la situazione da una prospettiva
militare...
Il popolo colombiano si è riunito ad ogni angolo, bloccando tutte le città. I quartieri sono scesi in strada per rifiutare la riforma
fiscale sotto lo slogan “Se non ci uniamo, affonderemo”. La Colombia è diventata un fiume di persone. Un grande fuoco di solidarietà si è
diffuso in onore di coloro che hanno dato la loro vita. La loro perdita ci ferisce profondamente ma la loro morte non deve essere vana. Le
voci di tutto il paese si sono fatte sentire e una moltitudine di proteste ha diffuso la voce della resistenza. La Colombia si è scrollata
di dosso la paura. Non abbiamo più niente da perdere.
A PARAR PARA AVANZAR! SCIOPERARE PER AVANZARE!
5 maggio 2021, liberamente tratto da crimethinc.com
USA: il razzismo di stato ammazza anche i proletari bianchi
Hunter Brittain di 17 anni è stato ucciso da un sergente di polizia durante un traffic control di routine durante la mattina presto del 23
giugno. Il giovane Hunter Brittain era disarmato e non aveva alcun atteggiamento “sospetto” quando il suo camion è stato fermato dalla
macchina della polizia sulla statale Arkansas 89. Il sergente di polizia, senza alcun avvertimento o richiesta di mani in alto (hands on)
gli ha sparato al collo immediatamente uccidendolo. Hunter guidava il suo camion per recarsi la mattina presto al cantiere edile dove
lavorava come operaio, ma che per prestare il suo lavoro doveva usare il suo camion come strumento. Durante tutta la notte ha lavorato sul
suo camion che aveva problemi alla trasmissione aiutato da un suo amico di 16 anni. Completare la riparazione era necessario per non
perdere una giornata di salario. L’amico Jordan King era con lui sul camion al momento del blocco della polizia e durante l’uccisione di
Hunter. Quando l’auto della polizia li ha costretti a fermarsi sulla Arkansas 89 sulla strada un po’ scoscesa, il pesante veicolo
rischiava di scivolare lentamente all’indietro e urtare l’auto della polizia. Per questo motivo Hunter è sceso dal camion con una piccola
tanichetta d’olio da posizionare dietro le ruote del camion e bloccare lo scivolamento all’indietro. In quell’esatto momento il sergente
Michael David senza pronunciare alcuna parola ha sparato a morte il giovane operaio edile di 17 anni. Immediatamente dopo è arrivata
un’altra pattuglia della polizia che ha sbattuto faccia a terra l’amico sedicenne, ammanettato e chiuso per tre ore nel retro della
seconda vettura della polizia. Da alcuni giorni gli abitanti e soprattutto i giovani abitanti e ragazze della piccola contea di Lenoka in
Arkansas protestano davanti il locale distretto di polizia, intonando lo slogan che sentiamo ripetere da anni dalle piazze degli sfruttati
neri negli USA, ogni volta che un giovane nero viene ucciso dalla brutalità della polizia, la cui violenza è il prodotto determinato del
capitalismo razziale fondato sulla oppressione di classe intimamente legata con l’oppressione basata sulle linee del colore: “NO JUSTICE,
NO PEACE!” Cosa c’è di straordinario in tutto questo?
Hunter Brittain negli ultimi 5 anni era cresciuto con la nonna e nella terra della Arkansas, tra gli stati del Missouri ed il Mississippi,
lavorava come operaio già da un anno ma con lavori stagionali secondo le necessità degli appalti delle costruzioni.
La cosa “nuova” è che Hunter non era un nero, era un giovane operaio bianco, che la comunità di Lenoke ed i suoi giovani abitanti che in
queste ore esprimono la loro rabbia davanti al locale distretto di polizia sono bianchi. L’89% della popolazione della piccola contea è
bianca e fa parte di quella classe operaia bianca della Rust Belt che fin qui ha vissuto meglio in virtù della società capitalistica
basata sul privilegio della bianchezza assicurando migliori lavori ai bianchi. Ma così non è più o lo è sempre meno per i giovani e
giovanissimi proletari bianchi. Nel video in fondo (pubblicato da un media alternativo espressione della classe media nera), viene
raccontata la storia dell’omicidio di questo ragazzo lavoratore, commentando correttamente che se anche i “bianchi” finalmente cominciano
a protestare contro la brutalità e la violenza della polizia, allora c’è speranza. Ma per la black middle class ed i democratici liberali
la speranza è riposta nella riforma della polizia. La speranza c’è, esiste, ne vediamo le prime materializzazioni da una profonda crisi
sistemica dei rapporti di produzione e di tutte le relazioni sociali, ma essa vive e si manifesta da un’altra parte. La polizia uccide
senza alcun motivo i neri non perchè non è addestrata! Non si tratta di eredità dell’epoca del Far West da civilizzare. La polizia e gli
sceriffi nascono negli USA come forza armata a proteggere la principale proprietà privata dei borghesi e capitalisti delle piantagioni:
gli schiavi. Addestrata a catturarli quando scappavano. E poi come istituzione a difesa della proprietà privata e della oppressione di
classe intrecciata sulla oppressione basata sulle linee del colore della pelle, è permeata dalla struttura razzista del capitalismo, che
per esercitare la sua oppressione e divisione tra sfruttati neri e contrapporre a loro gli sfruttati bianchi, sono 400 anni che ha
sedimentato e prodotto una psicologia sociale di massa dove l’uomo nero è in ogni caso un sospetto, un uomo pericoloso.
Cosa sta cambiando allora? Che la crisi generale sta facendo scricchiolare la base materiale per cui i lavoratori bianchi negli ultimi 200
anni e nei primi anni del nuovo secolo hanno difeso se stessi e le proprie condizioni di vita e lavoro nel solco del suprematismo bianco,
come elemento naturale del capitalismo, come legge suprematista inviolabile. Ma per le nuove generazione proletarie bianche non è più
così, anche essi ridotti a proletari senza riserve, costretti a lavorare come operai dai 16 o 17 anni di età e privi di garanzie e
certezze sul proprio lavoro e sul proprio salario. Lo abbiamo visto durante la rivolta per George Floyd dove ai giovani neri coraggiosi
che bruciavano le auto ed i distretti di polizia, un numero crescente di proletari bianchi si è unito a loro.
A Portland, città dove la comunità nera è solo il 6%, proletari neri, sostenuti, fiancheggiati da altrettanti proletari bianchi sono stati
fianco a fianco per più di cento giorni consecutivi a sfidare con i loro corpi le truppe della locale polizia e di quella federale.
30 giugno 2021, da noinonabbiamopatria.org
Aggionamenti dai campi di internamento per immigrati
Torino. La morte di un ragazzo della Guinea di 23 anni all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi a
Torino pone pesanti interrogativi sulle condizioni di vita all’interno dei centri di detenzione italiani. È la sesta morte avvenuta in un
Cpr dal 2019 ed è particolarmente scandalosa perché Moussa Balde era stato vittima di un violento pestaggio solo qualche settimana prima a
Ventimiglia. Il ragazzo, accusato di aver rubato un telefono, era stato aggredito da tre italiani all’uscita di un supermercato con tubi
di plastica e spranghe. L’aggressione era stata ripresa da una passante con lo smartphone. La donna gridava: “Lo ammazzano, lo stanno
ammazzando”. Il video ha permesso di identificare gli aggressori e incriminarli per lesioni. Moussa Balde è stato ricoverato all’ospedale
di Bordighera ma una volta dimesso, invece di essere curato, è stato trasferito nel Cpr di Torino e messo in isolamento. Il ragazzo aveva
infatti il permesso di soggiorno scaduto e un decreto di espulsione. (da internazionale.it)
I racconti dei ragazzi che abbiamo sentito in questi giorni testimoniano con rabbia la convinzione che, quello che è avvenuto nella notte
tra il 22 e il 23 maggio 2021 al loro compagno, non è un suicidio ma è stato provocato dalla polizia che è intervenuta mentre Moussa,
all’interno di una cella di isolamento, chiedeva disperatamente l’intervento di un medico per essere soccorso. Ci hanno comunicato che
hanno interrotto lo sciopero della fame anche se spesso, organizzati in piccoli gruppi, cercano di rifiutare il più possibile il cibo che
gli viene consegnato digiunando per uno o due giorni massimo.
Le proteste sono motivate principalmente dalla presenza, all’interno degli alimenti, di medicine [droghe molto potenti, ndr] che provocano
sonnolenza e perdita di lucidità. Medicine che vengono somministrate quotidianamente ai reclusi senza che nessuno sappia quale tipologia
di sostanze vengono utilizzate e in quali quantità. Abbiamo sentito ieri al telefono un ragazzo dopo pranzo che con difficoltà riusciva a
parlare come se avesse appena subito una forte dose di psicofarmaci. Dopo la morte di Moussa nessuno dei reclusi ha avuto la possibilità
di vedere un avvocato per fornire la propria versione dei fatti. [...]
Due giorni fa un ragazzo ci ha raccontato che quotidianamente avvengono perquisizioni all’interno delle stanze con l’obiettivo di
provocare i ragazzi e trovare un banale pretesto per manganellare qualcuno. Ci hanno raccontato inoltre che le guardie continuano a
battere con i manganelli contro le grate che dividono le aree del centro per minacciarli gridando: “Da qui non uscite vivi!”. Le
provocazioni delle guardie avvengono, secondo le testimonianze dei reclusi, molto spesso sotto gli occhi della direttrice del Cpr a
dimostrazione del fatto che chi gestisce questi luoghi è responsabile e complice delle violenze subite dai detenuti. Un ragazzo
proveniente dal Marocco ci ha raccontato che tra una settimana dovrebbe terminare il suo periodo di detenzione e che ieri l’ispettore di
polizia di turno voleva costringere lui e altri due ragazzi ad andare in isolamento senza una motivazione chiara. Lui si è rifiutato da
subito e a quel punto l’ispettore lo ha afferrato al collo per provocare una sua reazione ed avere un movente per portarlo in carcere. Le
sue continue proteste hanno evitato il suo trasferimento in cella di isolamento ed è quindi ritornato all’interno dell’area insieme ai
suoi compagni.
A distanza di una settimana dalla morte di Moussa Balde all’interno del Cpr di Torino non è cambiato nulla, anzi secondo molti reclusi le
condizioni di detenzione sono peggiorate. Abbiamo chiesto ad un ragazzo proveniente dalla Tunisia di raccontarci cosa ne pensa del
servizio sanitario all’interno del Cpr. La sua risposta è stata: “Qui non esiste nessun servizio sanitario!”. Questa è la normalità
descritta da chi è convinto che quello che è accaduto a Moussa non sia una fatalità o un episodio. All’interno dell’area Rossa, dove sono
detenute circa trenta persone, la settimana scorsa un ragazzo egiziano si è arrampicato su di una cancellata per protestare contro il suo
imminente rimpatrio e le condizioni in cui era costretto quando all’improvviso è scivolato cadendo al suolo da un’altezza di quattro metri
sbattendo violentemente la testa. I suoi compagni ci hanno raccontato che è rimasto per circa 45 minuti per terra privo di conoscenza, con
un’evidente emorragia cerebrale, senza ricevere nessun soccorso da parte del personale medico del Cpr nonostante le loro richieste di
intervento. Dopo l’arrivo dell’ambulanza non hanno avuto più notizie del loro compagno. Il ragazzo dovrebbe ancora essere in coma
all’interno di un ospedale qui a Torino ma al momento non abbiamo informazioni certe. […]
Torniamo sotto le mura del CPR di Torino! Vogliamo lottare contro queste galere per senza documento finché non ne rimarranno che macerie.
I Cpr vanno distrutti e, con loro, tutta la politica di gestione e controllo dei flussi migratori. Ricordiamo chi sono i responsabili
delle condizioni cui sono costretti i reclusi dentro il Cpr di corso Brunelleschi di Torino e quindi i responsabili della morte di Moussa
Balde la notte tra il 22 e 23 maggio 2021:
- la multinazionale francese GEPSA, appartenente al gruppo Engie Energia, che da anni lucra sulla pelle dei detenuti in tutta Europa, è
l’ente gestore.
- Chi dovrebbe valutare se le condizioni di salute dei reclusi sono compatibili con la detenzione è l’Asl territoriale di via Monginevro e
l’Asl Città di Torino di via San Secondo che sistematicamente chiudono gli occhi sulla condizione di salute dei reclusi non intervenendo
mai.
- Lo Stato è responsabile delle condizioni dei reclusi in tutti i luoghi di detenzione e di tutte le morti nelle frontiere create con
l’obiettivo di selezionare, dividere ed eliminare le persone ritenute indesiderabili e non produttive da quest’ordine sociale.
I ragazzi dentro il Cpr hanno bisogno di tutta la nostra forza e complicità. Non facciamo cadere l’attenzione su ciò che accade
quotidianamente dentro quelle mura. Dobbiamo continuare a lottare contro questi luoghi infami, al fianco dei reclusi, cercando il più
possibile di dare voce a chi non la ha.
Vogliamo far sentire la nostra solidarietà alle persone ancora rinchiuse nei Cpr!
(maggio/giugno 2021, Compagne e compagni di Torino)
Gradisca D’Isonzo (GO). Dal CPR di Gradisca ci arrivano notizie di continui soprusi. Ferite non curate o curate male, minacce e
intimidazioni. Durante una visita di una donna al proprio compagno recluso, sono stati sequestrati i documenti di lui e lei è stata
minacciata di non poter fare altre visite. Non sappiamo chi abbia preso quei documenti, se si sia trattato della polizia o di qualche
operatore della cooperativa gestrice, la ex-EDECO ora TUCSO, sempre con sede a Battaglia Terme (PD), che nella sua storia di gestione
dell’immigrazione vanta tre morti ed è finita a processo accusata da un lato di maltrattamenti e abusi verso gli “ospiti”, dall’altro di
accordarsi con le Prefetture per vincere i bandi di gestione ed evitare i controlli. Il Cpr di Gradisca continua a essere l’hub informale
per i respingimenti a caldo dalle navi quarantena. Grazie agli accordi Italia-Tunisia presi dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese
a Tunisi nell’agosto 2020, atti a «contrastare il traffico di migranti», l’Italia deporta, senza permettere la richiesta di asilo,
centinaia di giovani e giovanissimi scampati al naufragio e arrivati sulle coste italiane. In breve, le persone che sopravvivono alla
rotta del Mediterraneo centrale vengono immediatamente rimpatriate, perché intraprendano il viaggio un’altra volta.
La procedura della deportazione, secondo le informazioni raccolte finora, funziona così:
1. sbarcate a Lampedusa o Pantelleria, le persone vengono portate sulle navi quarantena;
2. né qui, né in alcun momento successivo viene loro permesso di perfezionare una richiesta di asilo;
3. dopo il periodo di quarantena, vengono trasportate in modo coatto al Cpr di Gradisca, in zona blu, isolate dal resto dei detenuti;
4. qui, in generale, non hanno la possibilità di usare il telefono per avvisare le famiglie, non viene fornita loro una sim card e spesso
non hanno la possibilità di comunicare con alcun avvocato;
5. il martedì e il giovedì mattina all’alba, gruppi di dieci o venti persone vengono caricati su degli autobus della polizia e trasportati
solitamente fino a Milano; né loro né eventuali avvocati vengono informati con anticipo;
6. da qui prendono un volo, secondo alcune voci si tratta di aerei della compagnia spagnola Vueling, che le porta a Palermo;
7. a Palermo un console dà l’autorizzazione per la deportazione, dopo averli sommariamente identificati come cittadini del proprio Paese;
8. nel caso avvengano errori di identificazione, per esempio se vengono trasferite a Palermo persone tunisine con una richiesta d’asilo in
corso, cioè giunte prima che questo meccanismo venisse messo in moto o arrivate in altro modo, allora questa procedura si interrompe: ci
sono casi di persone che, una volta arrivate a Palermo, sono state infatti rispedite a Gradisca.
L’Italia sta attuando deportazioni seriali che, oltre a favorire chi specula sui traffici di persone, mettono a rischio la vita di persone
obbligandole a intraprendere una seconda volta il viaggio. Sembra un meccanismo ad hoc perfezionato per effettuare respingimenti illegali,
come quelli che avvenivano a Trieste verso la Bosnia, respingimenti immediati che non garantiscono alle persone la possibilità di chiedere
asilo.
A Gradisca, come in tutti i Cpr e come abbiamo scritto spesso, le condizioni sono degradanti, disumanizzanti, umilianti: ci sono recenti
video testimonianze. Invitiamo vivamente a guardarle, anche se ci stiamo assuefacendo alla miseria, nessuno/a dovrà poter dire di non
sapere. Si vedono i letti senza materassi, i bagni putridi, i pavimenti insanguinati e (non l’avevamo mai visto prima) un cappio, lasciato
legato alle inferriate sopra a una porta.
Che le voci che si stanno levando per Moussa Balde non sfumino con alcuni articoli di giornale. È già avvenuto per Vakhtang e non può
risuccedere.
Il Cpr uccide strutturalmente, il Cpr crea un mondo terribile per tutte e tutti, il Cpr serve a far guadagnare cooperative con le mani
sporche di sangue e a ricattare persone fragili sul lavoro. Il Cpr va distrutto. Per Musa Balde, per Orgest Turia, per Vakhtang Enukidze,
per Faisal, per Majid el Khodra e per tutti coloro che con il Cpr sono stati ammazzati. (27 maggio 2021, da nofrontierefvg.noblogs.org)
Milano. Il Centro per i rimpatri (Cpr) di Milano è gestito dalla Cooperativa Versoprobo insieme alla coop Luna, a settembre 2021 cambierà
l’appalto. Il cibo è fornito da Mirasole della Fondazione Progetto Arca. Dall’apertura di settembre 2020 le rivolte si sono susseguite
senza tregua portando alla chiusura di due sezioni. Ci sono state fughe tentate o riuscite, materassi bruciati, pestaggi, arresti e
tentativi di suicidio. Non esistono registri in cui figurino le guardie di turno presenti, e da testimonianze interne si sa che vengono
picchiati dove le telecamere non ci sono. Nelle ultime due settimane di giugno ci sono stati due TSO, come da protocollo firmati dal
sindaco Sala, e dato che dentro non sono ammessi i cellulari la comunicazione è difficile.
I centri per immigrati sono presenti in tutto il mondo, come anche le proteste di chi vi viene rinchiuso, non per aver commesso un reato,
ma per il solo fatto di non avere i documenti. Da oltre 40 giorni, più di 450 persone “sans papiers” sono in sciopero della fame in tre
diverse occupazioni della città di Bruxelles: “Le nostre domande di regolarizzazione si trascinano per degli anni. Decisioni molto
importanti concernenti la nostra vita sono trattate in maniera arbitraria. Quando una domanda è respinta, la ragione spesso non è chiara.
Quando facciamo appello la procedura dura di nuovo degli anni”.
Il collettivo Punto di rottura di Milano ha incontrato un giovane uomo uscito da qualche giorno dal Cpr di via Corelli. Alla domanda “Cosa
puoi dirci di quel Centro?” la risposta è stata “è un posto da chiudere”. A seguire il suo racconto.
“È un posto a cui non augurerei a nessuno di doverci stare. Si sta male, troppo male. Mi hanno portato lì dopo una condanna in carcere, da
vent’anni sono qui e non ho mai visto il Cpr, è la prima volta. Un posto brutto che non auguro a nessuno. Per chi arriva dal carcere i
giorni da fare sono 45, per i marocchini, e 75 per gli altri paesi, se si arriva da fuori 90, ma dipende dal paese da cui vieni. Per i
marocchini sono quelli i giorni, 90, per altri 120 o più. I tunisini vengono rimpatriati quasi subito, però nel tempo in cui sono rimasto
dentro non ho visto deportazioni, so che devono aspettare ci sia l’aereo. Gli altri che non riescono a rimpatriare perché non sono sicuri
di saper da dove vengano escono con il foglio di via. Chi non vuole essere rimpatriato rifiuta il tampone così non possono metterlo sugli
aerei, ma so che al Cpr di Roma lo fanno con la forza.
A Torino è morto un ragazzo che era stato picchiato a Ventimiglia e un ragazzo tunisino ha tentato il suicidio qui. Ho sentito quando
siete venuti. Ora dentro sono in 48 in due sezioni, le altre sono state bruciate. Sono cinesi, egiziani, pachistani, srilankesi,
marocchini, algerini, tunisini, sudamericani del Cile. C’è anche un ragazzino di 19 anni. C’è tensione tra chi è dentro, ma di più contro
la polizia. Ti trattano molto male, niente soldi, non hai niente. Quando si entra prendono i cellulari e per telefonare ti mandano in uno
stanzino, ti danno il tuo con la telecamera chiusa e con loro presenti. Chi lavora lì sono solo stranieri della cooperativa, alcuni buoni
altri cattivi. La polizia, ci sono tutti carabinieri, finanza, esercito, picchia per qualunque cosa, anche se sbagli a parlare, in
particolare mentre fanno le perquisizioni. Ho visto tanti con lividi e ferite. Danno cibo sempre scaduto il giorno prima e se non lo mangi
subito devi buttarlo. È tutto confezionato e te lo danno aperto. Se non hai qualcuno da fuori come me, ma tanti non hanno nessuno, non
mangi abbastanza. I bagni sono sporchi e aperti come pure le docce che non funzionano, come in questura. I materassi sono sporchissimi,
c’è sangue ovunque anche perché chi sta dentro per poter uscire si fa di tutto, tutti i giorni. Si rompono le gambe per poter essere
portati in ospedale e poi, visto che le stampelle non si possono tenere perché potrebbero essere un’arma, sanno che li devono fare uscire.
Si rompono mani e piedi e si fanno tagli. Dentro non ci sono medici e infermieri, l’unica possibilità è essere portati in ospedale, al
Niguarda.
Se stai male durante la notte non c’è nessuno, nemmeno si può fumare dato che non lasciano l’accendino che devi chiedere ogni volta a chi
lavora lì. Se vuoi fumare di sera, o all’una o alle due di notte non puoi. Danno solo psicofarmaci in grandissima quantità, molto pesanti.
Ho visto ragazzi collassati che abbiamo dovuto trascinare nei letti.
Niente altro, se non ti portano in ospedale. Nessuna informazione legale. Non ti fanno nominare un tuo avvocato fino a che non c’è la
convalida dell’arresto così poi non si può fare più nulla per evitarlo e gli avvocati d’ufficio fanno il gioco loro, per avere le
convalide. Chi riesce poi a chiedere l’asilo resta lì dentro anche per 6 mesi, 8 mesi. Non può essere un posto così, molto peggio del
carcere, io ho detto fatemeli fare in carcere i 45 giorni, là non si capisce nemmeno come sia regolato, da non augurare a nessuno, è
troppo. Siamo tornati al tempo di Hitler.” (Milano, luglio 2021)
***
SALUZZO (CN): SIAM MICA L’ALABAMA... DICIAMO BASTA ALLO SFRUTTAMENTO!
Scendiamo in piazza per il salario, la casa e i documenti!
Prosegue la raccolta della frutta nelle campagne saluzzesi: ci avviciniamo al momento il cui avremo il culmine di manodopera impiegata
nella raccolta. Terminati mirtilli e piccoli frutti, recentemente impiantati sul territorio, è il momento delle mele e delle pesche.
La musica si ripete da anni: si lavora tutto l’anno, migrando da sud a nord e poi se non si riesce a trovar di meglio di nuovo a sud, dai
ghetti ad altri alloggi di fortuna, senza sussidi o protezioni, continuamente ricattati.
Il contratto nazionale e quello provinciale vengono continuamente disattesi, le paghe arrivano anche ad un paio di euro in meno l’ora
rispetto ai già risicati minimi. Le giornate segnate in busta paga, così come la durata dei contratti, sono molto inferiori di quanto
lavorato. Senza le giornate in buste paga non si può accedere alla disoccupazione agricola, nè si può richiedere il bonus per gli operai
agricoli, previsto dall’ultimo decreto Sostegni. Magari, quando le giornate in busta coincidono con quelle lavorate, il lavoratore è
costretto a ridare indietro parte del salario. Senza giornate in busta paga è spesso anche più difficile rinnovare il proprio permesso di
soggiorno. Perdipiù, i lavoratori delle campagne sono ancora in attesa di una risposta alle domande di Sanatoria del 2020, e vista
l’emergenza sanitaria, anche di un vaccino. Non esistono in Italia protocolli uniformi per garantire a chi è sprovvisto di tessera
sanitaria (e magari anche di permesso di soggiorno) la copertura vaccinale, e anche laddove si approntano campagne di immunizzazione per i
lavoratori agricole, queste sono demandate al “buon cuore” delle aziende presso cui sono regolarmente ingaggiati, con le ovvie conseguenze
del caso.
Il territorio agricolo che ha Saluzzo come suo centro principale si riconosce, come altri in Italia, per la diffusa emergenza abitativa
che si ripete ogni anno nel periodo di raccolta. Le gelate di marzo hanno ridotto l’arrivo di manodopera ma non lo hanno impedito. Proprio
nel comune di Saluzzo si concentrano gli stagionali senza dimora. I posti li conosciamo: il parco di villa Aliberti, uno dei pochi luoghi
di dimora e socialità concesso ai lavoratori stagionali, assieme allo spiazzo antistante il cimitero e il retro del Penny Market. Lo
scorso anno, in risposta alla manifestazione dei braccianti del parco, fu firmato un protocollo tra i governi locali, le associazioni
datoriali e le forze dell’ordine per un progetto di accoglienza diffusa tra tutti i Comuni. Il 28 di Giugno di quest’anno il protocollo è
stato rinnovato. Il progetto è finanziato dal Ministero dell’Interno con 498.000 euro e prevede l’apertura e la realizzazione di strutture
per l’accoglienza degli stagionali senza dimora, in un’azione coordinata anche con Prefetto, Forze di Polizia e dell’Esercito per il
“controllo del territorio”.
Al momento sappiamo che l’Associazione Papa Giovanni XXIII accoglierà a Saluzzo 9 lavoratori, e 4 a Verzuolo. Altre strutture sono in
corso di ristrutturazione a Verzuolo, ma non si conosce nè la data di apertura nè il numero di persone ospitabili. Una struttura a
Lagnasco, gestita dalla cooperativa Armonia, ha dalla settimana scorsa 36 posti operativi. Un po’ di persone in meno per strada, ma basta
fare un giro a Saluzzo dopo le 18 per capire quanto poco sia. Nessun protocollo, dal 2011 ad oggi, ha mai garantito una copertura completa
per tutti i lavoratori senza casa. Rispetto agli anni passati però, questo protocollo è anche un ulteriore passo indietro. Basti pensare
che il PAS, chiuso nel 2020 (a detta delle autorità a causa del COVID), garantiva circa 400 soluzioni. La proposta del protocollo di
quest’anno ne promette 180. Il problema non è solo quantitativo ma qualitativo, e riguarda il modello di gestione dell’intero sistema di
alloggiamento dei lavoratori. Le imprese usufruiscono dei finanziamenti pubblici, contribuendo in minima parte alla risoluzione del
problema. Coloro che generano la domanda di manodopera, e che assumono quella straniera per comprimere il costo del lavoro e aumentare i
profitti, dovrebbero avere l’onere di garantire l’intera copertura economica del sistema alloggiativo. I protocolli coinvolgono le
autorità locali o le associazioni del terzo settore, con piani in continuità con le esigenze padronali. Ne è un esempio la distinzione tra
stagionali con contratto e quant’altri senza, questi ultimi non considerati meritevoli di accedere alle strutture di accoglienza. O magari
idealmente accolti nel breve periodo, prima di essere “invitati ad andarsene” con le buone o le cattive. Come se vivere in campi
container, o tende che si voglia, fosse un lusso o un privilegio, in un sistema in cui l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non
avviene attraverso il collocamento pubblico obbligatorio, ma per passaparola, obbligando le persone a rischiare la disoccupazione e la
strada per sperare di trovare un lavoro stagionale. Il diritto ad abitare un territorio non può essere legato alla presenza o meno di un
contratto di lavoro, e sembra incredibile doverlo sottolineare.
L’immagine di Saluzzo come una nuova Alabama, che ha avuto una grossa risonanza mediatica in questi giorni, ha il merito di essere di
forte impatto. Tuttavia, vogliamo provare a fare uno sforzo ulteriore, e superare l’immaginario passatista dello schiavismo per
ricollocare il problema all’interno delle contraddizioni dei giorni nostri. Perchè Saluzzo non è un caso isolato in Italia e nel mondo, è
lo specchio del presente, del governo delle migrazioni e della forza lavoro, della segregazione razziale di matrice ‘democratica’, della
securitarizzazione degli spazi, del capitalismo agricolo post-fordista. Questo i lavoratori lo sanno bene, vivendolo quotidianamente sulla
loro pelle. Per questo hanno deciso, anche quest’anno, di organizzarsi per reagire a questo sistema. Questo venerdì, 16 di Luglio, saremo
con loro in sostegno a questa giornata di mobilitazione. Le motivazioni per le quali scenderanno in piazza sono quelle riassunte dalle
frasi precedenti: vogliamo dei contratti di lavoro in regola, un salario migliore, vogliamo un piano di accoglienza che possa coinvolgere
tutte le persone senza dimora, a prescindere dalle tipologie dei contratti, vogliamo un collocamento pubblico obbligatorio e vogliamo
delle risposte per i nostri documenti, per la sanatoria e per chi aspetta ancora un rinnovo. Scendiamo in piazza a sostenere la lotta auto
organizzata dei lavoratori. BASTA OPPRESSIONE, BASTA SFRUTTAMENTO. VOGLIAMO CASA,
SALARIO E DOCUMENTO! MANIFESTAZIONE 16 LUGLIO, ORE 9, PARCO DI VILLA ALIBERTI
12 luglio 2021, da facebook.com braccianti in lotta Saluzzo
un COLPO DI SPUGNA sulla strage di modena
Da poco più di un anno dalla strage del carcere di Sant’Anna il tribunale di Modena deciso di archiviare le indagini inerenti le cause di
morte di ben otto sulle nove vittime di quella terribile giornata. L’archiviazione è stata richiesta dalla procura, proprio nel marzo
appena trascorso, nonostante numerose incongruenze tra gli elementi di interrogazione. Quando vuole, la Giustizia italiana si rivela
alquanto celere nonché senza vergogna nel permettersi di dichiarare che ad essa, nonché agli addetti penitenziari che la rappresentano,
“non si può addebitare alcuna responsabilità” Come già per i continui casi di suicidio nelle carceri, ora persino rispetto ad una strage
di tale portata, l’unica cosa che possono, evidentemente, gli organi di Giustizia statale, è l’arrogarsi di svincolarsi dalla realtà del
proprio coinvolgimento sulle sorti di chi reprime.
Insomma, motivi per non insabbiare l’inchiesta ve ne sarebbero in abbondanza, se sulla bilancia della “giustizia” non si soppesassero da
un lato le vite di detenuti, proletari e migranti, dall’altro l’impunità dello Stato e dei suoi apparati. Con la coscienza che la verità
storica non la scrivono i tribunali, schierarsi contro lo sfregio dell’archiviazione è un atto di rispetto dovuto a quei morti, torturati,
umiliati.
Volantino distribuito a Roma nel quartiere Rebibbia
Il 7 giugno 2021 un giudice di Modena ha deciso di archiviare il fascicolo delle indagini aperte sui responsabili della strage avvenuta
durante la rivolta dell’8 marzo 2020: 9 i morti tra i detenuti rinchiusi in quel carcere. 14 in totale in Italia. Lo Stato non processa
chi gli è fedele. Nel frattempo, tanti i processi iniziati contro i detenuti ritenuti responsabili dei seri danneggiamenti all’interno
delle galere. Per questi processi nessuna richiesta di archiviazione è stata mai avanzata dalle procure.
Come dimenticare quel marzo 2020? Quel costante susseguirsi di notizie di contagi, ammalati e morti da Covid. Chi è detenuto/a, conosceva
bene le gravi mancanze già esistenti del sistema sanitario penitenziario e sapeva che nessun governante avrebbe mosso un dito per mettere
in salvo dal contagio chi è rinchiuso dentro le galere. In quei giorni, l’unica decisione presa dal Ministero di Giustizia e dal DAP è
stata quella di chiudere l’ingresso del carcere a tutti coloro che non lavorano all’interno. Decisione che come si è visto, e come era
ovvio, non ha certo fermato i contagi. Alla notizia della chiusura dei colloqui con i familiari, la miccia si è accesa.
Chi ha deciso di ribellarsi ha avanzato richieste a difesa della propria e altrui salute, all’interno di un luogo già di per sé malsano e
sovraffollato. Ha deciso di agire per far sì che qualcuno si accorgesse della drammatica situazione degli istituti carcerari di questo
Paese. E, infatti, qualcosa seppur minima è stata ottenuta. C’è chi è riuscito ad ottenere delle misure alternative, di detenzione
domiciliare e prolungamento di permessi e licenze. Nulla di risolutivo, certo. Ma chi rinuncia a lottare ha già perso.
Il 30 giugno nell’aula bunker a pochi passi da qui si aprirà il processo di primo grado contro i 46
detenuti di Rebibbia accusati di devastazione e saccheggio, violenza, sequestro e altro. Tutti reati che prevedono pene molto pesanti. È
la necessità di scongiurare nuove proteste a scatenare questa pesante vendetta dello Stato. Le giuste rivendicazioni vengono messe a
tacere con la violenza più feroce. E le morti durante le rivolte parlano chiaro. Raccontano quello che lo Stato è disposto a farci:
governare con la paura, ribadire la sua arroganza se alziamo la testa, impedire la solidarietà e vicinanza.
Sì, lo Stato non rinuncia alle sue galere, a quelle mura e a quelle sbarre così alte che hanno un effetto su milioni di esistenze, anche
quelle “libere”. Le condizioni di vita di ognuno di noi, se non reagiremo, peggioreranno di giorno in giorno, fatta eccezione per quella
strettissima minoranza che continua a far profitto speculando e passando sopra i corpi di tantissime persone. Questo, ad oggi, dovrebbe
essere chiaro a tutte e tutti. E quelle galere sono lì apposta, perché servono da avvertimento: “Abbassa la testa e tira avanti”. Lo
dicono a noi qui fuori, utilizzando come monito migliaia di vite isolate dal resto del quartiere. Per questo il carcere non può restare un
qualcosa di distante dalle nostre vite, una bolla separata da chi abita la città.
Per questo non possiamo permetterci di girare le spalle a chi è imprigionato/a. Per noi le accuse per cui saranno a processo i 46 detenuti
non sono reati ma atti di dignitosa rabbia. L’unica sicurezza è la libertà!
Parenti e solidali delle persone detenute - Roma, 28 giugno 2021
***
Erano tossici e immigrati e il caso è chiuso!
Una categoria sociale spregevole per i più quella del tossicodipendente che in provincia i/le giovani proletarie subivano già nel secolo
scorso, anni ‘80 per capire, molto meno accettata socialmente rispetto all’alcolista, poiché drogarsi è bello come bere ma soprattutto è
illegale. Anche se non funziona allo stesso modo per tutte le classi sociali, tanto è vero che se sei ricco non ci muori di droga visto
che puoi avere quella buona, e ancor meno i tossici ricchi sono stati mai disprezzati dalla società o criminalizzati dallo stato, balza in
mente il vecchio tossico Agnelli padrone della Fiat e del Paese intero, per esempio! Poi è arrivato il ‘virus più bastardo al mondo’ verso
la metà degli anni ‘80, e di conseguenza ci sono state le morti delle giovani proletarie/i definite tossiche /i morte di aids. La sanità e
lo Stato da subito hanno messo in atto un dispositivo violento e atroce: è stata una tra le tante bacchettate catto-cielle-moralista che
andava contro un’attitudine che avevano acquisito le ragazze attraverso la libera sessualità, la determinazione come donne non allineate
ai ruoli classici imposti dalle Famiglie, dal Capitalismo e dallo Stato. E’ da sempre lo stesso sistema di attacco utilizzato contro le
umiliate e offese del mondo (che magari si vogliono pure divertire): oppressione, sfruttamento, repressione e carcere. Ma in quei tempi
dove la coscienza era senz’altro più fresca, c’era un ideale di libertà più radicale più critico, un’abitudine a pensare con la propria
testa per riconoscere sempre chi opprime e chi sfrutta in nome del Potere e del Profitto. Ed è così che attraverso le lotte e le pratiche
di un movimento più vasto e più consapevole e il fatto di aver elaborato da subito in tante che al dunque con questo virus dell’hiv
sarebbe stato più difficile viversi le libertà già conquistate con le lotte dalle compagne femministe radicali. Illegale poi era ormai una
parola giustamente privata di significato: una cosa o era giusta o era sbagliata solo questo contava, ma soprattutto contava la libertà di
amare e di vivere la propria sessualità ognuna come si voleva, così come prendersi la libertà di inebriarsi: non ci siamo ‘cascate nel
baratro del virus Hiv’ insomma, non abbiamo creduto alla propaganda del ‘distanziamento sessuale’ fatta dallo Stato, dalla scienza e dai
perbenisti. Infine si poteva andare in un ospedale qualsiasi e fare il test Hiv senza appuntamento e quando si voleva, in modo
assolutamente anonimo e gratuito, era il minimo ottenuto per tutte le persone. Per quanto riguardava la cura invece i così detti
retrovirali i medici stessi li davano come pochissimo sperimentati, si conoscevano gli effetti collaterali nefasti se non mortali di tali
farmaci, tante persone malate decisero di non prenderli o comunque si poteva scegliere, ancora.
E’ per tutto questo che per la strage avvenuta durante le rivolte nel carcere di Modena c’è stata una facile liquidazione del caso: la
colpa per Dio-Stato-Capitale-Famiglia è solo la loro, erano dei tossici tanto più immigrati e segregati in un carcere di provincia, e poi
ancor peggio: si sono rivoltati e non sono risultati vittime per nessuno. Vittoria completa dello Stato italiano, il caso è archiviato:
nessun responsabile per le morti dei prigionieri durante le rivolte di marzo 2020, mentendo sancisce così il giudice del tribunale di
Modena Andrea Salvatore Romito il 7 giugno 2021, accettando la richiesta di archiviazione della Procura, e per la Giustizia i garanti
nazional-regional-comunal e le svariate associazioni al seguito contano come il ‘due di picche a briscola” e già si poteva sospettare. Ma
non è andata veramente così: poiché subito saltano in mente (in questo ultimo anno) i ragionamenti e le proteste portati avanti dalle
prigioniere del carcere di Trieste, di Torino e di Vigevano, le rivolte dei ribelli del carcere di Modena, Ascoli, Varese, Rebibbia,
Velletri, Opera, San Vittore, Pavia, Poggioreale, Salerno, Foggia e di tante altre prigioni della terra intera. Ed è proprio attraverso le
loro lettere però che si comincia a leggere qualcosa di veramente intelligente rispetto alla campagna autoritaria-militare-sanitaria-
globale subita per via del virus Covid-19, ma soprattutto cominciano a scrivere della sua messa in discussione. Sanno bene loro e ci hanno
fatto capire anche a noi persone libere che: “se vaccinassero tutte non uscirebbe di galera più nessuna, vaccino sì, vaccino no vogliamo
decidere liberamente… quando ci ammaliamo vogliamo essere curate.” rivendicano le detenute. Ma soprattutto sanno bene che anche in galera
ci si ammala di virus covid o di virus non covid, anzi di più e da sempre vengono negate le cure, semmai ti danno gli psicofarmaci e
quanti ne vuoi: droghe potentissime e legali. La morte ha le distanze più corte per i proletari e le proletarie di tout le monde. Appunto:
nel carcere di S. Maria C.V. di che cosa è morto Hakimi Lamine di 28 anni? Sapendo di certificare il falso lo scriverà il “dottor”
Raffaele Stellato. [inchiesta su Repubblica 07/07/2021] Al dunque di che cosa stiamo parlando? Di dover morire per malattia e/o per
violenze in carcere senza che i medici e i sanitari sappiano nulla? Per mano dei carcerieri? Per mano dello Stato? Per mano del padrone?
Per mano di tuo marito? Niente di nuovo sotto il sole trabattone.
Tante sono le mani che hanno assassinato i prigionieri definiti come una tra le più miserabili delle categorie sociali: tossici e pure
immigrati! Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu e Abdellha Rouan sono morti
perché hanno rubato il metadone all’infermeria del carcere dicono tutti, del resto è droga legale. Umiliati e offesi fino alla fine gli
otto detenuti uccisi nel carcere di Modena, il caso è chiuso. Ma non è una novità nemmeno quella che in galera (a volte) le questioni per
cui lottare e per cui ribaltare le carceri si conoscono e intravedono meglio e così si capiscono al volo, magari perché le si vive
direttamente sulla propria pelle? (Milano, 28 giugno 2021)
LETTERA DAL CARCERE DI SULMONA (AQ)
Carissimi compagni, vi scrivo queste poche righe per farvi avere mie notizie e per informarvi che ho ricevuto l'opuscolo con i libri e
altro materiale che ho letto con piacere e che ci aiuta a sentirsi liberi e non isolati, perché è importante per un carcerato sentire il
sostegno e la solidarietà che arriva dalla libertà – la solidarietà fra gli esseri umani è fondamentale perché questa dà forza e aiuta a
lottare e non perdere la speranza e il coraggio che rafforza i rapporti umani fra le persone che lottano per la vita e per la libertà, e
per quei diritti che sono di tutti gli uomini liberi. Vi voglio ringraziare per tutto quello che fate e per la solidarietà che manifestate
verso i carcerati. Tanti cari saluti a tutti con affetto, Antonino.
24 maggio 2021
Faro Antonino, P.le Vittime Del Dovere, 1 – 67039 Sulmona (L'Aquila)
LETTERe DAL CARCERE DI milano-OPERA
[...] Qui ancora non si può andare in palestra, se ne parla il prossimo mese. Quello che mi dici è molto giusto, ma pensarci bene e vedrai
che lentamente avremo più indipendenza di oggi e anche più libertà specie la libertà morale non si ha tante costrizioni sociali che poi ti
schiavizzano. Qui si parla di fare uno sciopero, che io critico il fatto che vengono messe insieme tante cose disparate, e questo nuoce
alla sua riuscita. Generalmente si deve prendere una cosa, la più importante, e si avvia una lotta, altrimenti la controparte si trova
davanti a una situazione di difficile soluzione, per non parlare dell’opinione pubblica che non è in grado di capire tutte le motivazioni.
Prendiamo per esempio l’indulto e devi pensare che fuori dal carcere, le persone non sono per niente contente. Che pensano con quale
criterio far uscire della gente solo perché non ha una pena lunga? Per loro questo significa anche che una marea di extracomunitari che
riparte subito con azioni di piccolo sabotaggio, e questo per chi sta fuori non sembra giusto. Ormai siamo a metà dell’anno, ora si vedrà
se l’Unione europea mantiene quello che ha detto… Invece si dovrebbe fare qualcosa per la sanità che sarebbe una cosa per la quale valeva
la pena puntare tutte le forze, anche perché mi sembra ci sia stata una legge, come al solito non applicata, in questo senso.
Sempre dal mio punto di vista, tenere semplicemente priva di libertà una persona che ha commesso un reato e trascorso il tempo stabilito
rimandarla fuori senza chiedergli che cosa farà è una cosa priva di senso. Il carcere deve assolutamente rieducare, e per me il lavoro
dovrebbe essere per tutti. Invece ora almeno qui farsi i corsi di imbianchino muratori, e sartoria, di otto ore al giorno ma è un lavoro
che io ho rifiutato di fare, ma molti hanno accettato per la paura del rapporto che vengono tolti i 45 giorni di liberazione anticipata.
Così vogliono solo gente che fanno i volontari, mi mandano fuori lo faccio lì il volontario. Come lo facevo quando stavo a Bollate, sono
uscito una 50ina di volte fuori come volontario, a volte a imbiancare, a volte a pulire i parchi ecc ecc.
Nel 2018 sono andato a fare babbo natale all’ospedale nel reparto dei bambini a portare dei doni, è stata una bella esperienza. Se invece
uno dimostra di essere un pericoloso per la società, deve essere messo nella condizione di capire che ha fatto degli errori e dargli
ovviamente la possibilità controllabile che si può fidare di lui, se lo si lascia libero. E qui si sono ritirati indietro per lo
sciopero. Perché pensano che fanno qualcosa con la nuova riforma della giustizia. Che devo dire i tempi sono cambiati. Per il resto si va
avanti per il meglio possibile. E ringrazio per tutto quello che mi hai mandato. Salutami tutti gli amici. Un caro abbraccio ciao. (27
maggio 2021)
***
Qui [in sezione] siamo tutti vaccinati, quelli con Pfizer abbiamo fatto entrambe le dosi; gli AstraZeneca la seconda dose la faranno il 3
luglio; poi sarà da vedere come si comporteranno con le aperture; la direzione è per aprire e il DAP è per la prudenza. Come al solito ci
troviamo ad ascoltare e a subire le decisioni e le opinioni sul da farsi tra molti galli […]. Per ora ciò che conta è che siamo vaccinati,
quindi ci siamo armati di anticorpi per contrastare l’epidemia, per il resto, faremo le solite lotte per riprenderci i nostri diritti,
perché su questo la suonata è sempre la stessa, infatti, possono cambiare i maestri di musica, i componenti della banda, ma la suonata è
sempre la stessa.
In quanto a chi ha effetti collaterali dei vaccini, tranne qualche compagno nessuno ne ha avuto e da quello che ho sentito dai media ora
il governo italiano sta rinunciando ad AstraZeneca, una decisione un po’ tardiva e in ogni caso, io sono del parere che su questa storia
dei nomi non c’è altro che la solita storia del business. Infatti ci sono molti miliardi in palio, almeno si spera che i vaccini di
AstraZeneca vadano a finire nei paesi africani, nell’india che lì sta accadendo un eccidio giornaliero. Se ne servano in qualche modo,
perché è giusto che tutti abbiano il vaccino, non solo chi è uno stato ricco, ma soprattutto quelli poveri.
In quanto a Cartabia, in questo stato non conta chi sei, ma ciò che fai quando entri nella stanza del potere. L’anima democratica
garantista della Cartabia è rimasta fuori dalla stanza del potere certo, ma ora l’occasione per dimostrare ciò che è realmente, viste le
tante riforme che deve fare e soprattutto quella sul C.S.M... È questa la riforma più onerosa che deve affrontare, non quella del Codice
penale o civile, e ne tanto meno quella sul 4 bis impostagli dalla corte costituzionale. È lo smantellamento della corrente e il potere
dei magistrati che vive in questo stato che deve spazzare via con la riforma. Sono i magistrati che comandano l’Italia, credi che glielo
lasciano fare? Io ho i miei dubbi. Vedremo comunque cosa accadrà nei prossimi mesi, anche se l’attualità non dice bene visto non solo la
richiesta fatta sugli arresti in Francia di brigatisti più che vecchietti, ma la pressante richiesta della loro estradizione, e solo
perché vogliono farli morire nelle patrie galere. Un atto vendicativo e non di giustizia come lei ha espresso in una sua incarcerazione
pochi giorni fa. No! Qui davvero viviamo il paradosso delle personalità.
L’altro giorno Salvini addirittura ha dichiarato in tv di aver sposato le battaglie dei radicali. Alleandosi con loro per dei referendum.
Questo il giorno prima vuole ammazzarci tutti in queste schifose mura, il giorno dopo diventa garantista affiancando i radicali. Il tutto
sono facciate ipocrite perché la sostanza sta nella stanza del potere dove il pollice è sempre verso il basso per i nostri diritti e in
alto per il loro potere. […] Per ora mi soffermo qui in attesa di buone nuove saluto tutti i compagni/e che lottano per un mondo (12
maggio 2021).
***
Qui ritornando regione bianca non è che sia cambiato molto nella gestione. I colloqui sono sempre limitati a un'ora al mese, e le persone
sono sempre due che possono entrare. Hanno tolto solo il limite di età che non c'è più; un minore adulto con solite precauzioni di
mascherina, guanti, vetro divisorio. In quanto alle attività interne man mano stanno aprendo ma per pochi gruppi. Tutto comunque si svolge
in maniera condizionata dal Dap, virologi e direzione. In quanto a me in queste nuove aperture la direzione mi ha messo a disposizione un
locale per aprire un laboratorio di mosaici in marmo. In settimana dovrei iniziare a realizzare le mie opere ma di questa apertura nei
miei confronti l'ho percepita più come un loro interesse che il mio. (14 giugno 2021)
***
Certamente sarai più aggiornato di me sulla bomba che è scoppiata a S. Maria su questi infami picchiatori di secondini. Una volta ti
parlai dell’omertà tra i giudici i responsabili del D.A.P. e le guardie. Un’omertà invidiabile. E ti professai che solo con dei pentiti
avrebbero fatto saltare tutta questa egemonia di potere che con gli anni questi avevano conquistato. Credo che sia arrivato questo momento
e se lasceranno indagare così come sembra che stia accadendo anche le altre procure d’Italia dove l’anno scorso sono accadute le stesse
cose di S. Maria sarà un vero scatafascio di quel potere indegno che hanno esercitato per anni in questi posti, e non solo con le loro
rappresaglie con i manganelli contro le persone indifese, ma anche sulle loro ruberie.
Tra i secondini a S. Maria c’è già qualcuno che inizia a dare segno di collaborazione e sono certo che sarà un fenomeno che si spanderà
lentamente come una macchia d’olio. Certo che sta uscendo fuori una grande vergogna, la vergogna di questo stato, la vergogna di politici
come Bonafede, o questo stupido di Salvini che per una manciata di voti non sa se è carne o pesce. Una vergogna per il mondo intero
soprattutto qui in Europa, dove l’Italia si è sempre padroneggiata con orgoglio di essere una società di diritto, democrazia, ma si sta
rivelando con queste immagini di essere peggio del terzo mondo. No non mi dimentico che siamo in Italia uno stato che ha tra i suoi nativi
degli infami opportunisti. Facce toste che non esitano a difendere l’indifendibile ma io non me la prendo con questi parassiti, queste
sono nullità dell’essenza umana, io me la prendo con chi da possibilità a questi dementi di esprimere la loro opinione assurda,
mistificata dal falso e indegna per una società civile. […] Dico questo perché ho appena letto sul corriere le assurdità di Saviano.
L’intera Italia è indignata per quello che stanno vedendo su cosa è successo e succede nelle carceri e il Corriere che fa? Dà
l’opportunità all’unico cretino di difendere l’indifendibile, fa scemare la gravità di cosa sia successo nel dire, ma si è successo, ma i
camorristi e i colletti bianchi non sono stati toccati. Che stupidaggine dice questo scimunito? Nel carcere di S. Maria sono ospitati solo
detenuti di media sicurezza, lì gli associati non ci sono […]. Per ora mi fermo qui, ci sentiamo alla prossima, saluto calorosamente
tutte/i. (5 luglio 2021)
LETTERA DAL CARCERE DI REGGIO EMILIA
Compagne e compagni dell'opuscolo Olga, il 17/03/'21, la dottoressa Caterina Aloisi, magistrato di sorveglianza dell'ufficio di Reggio
Emilia, mi ha concesso 4 ore di permesso da passare in città. Chiaramente accompagnato dal prete. Quando sono tornato sapevo già che avrei
dovuto passare 10 giorni all'isolamento dell'Antares. Isolamento preventivo sanitario. Il giorno stesso ho effettuato il tampone risultato
positivo. Così, asintomatico, da 10 giorni sono passato a 21 giorni. Dopo il secondo tampone svolto intorno al 3 aprile il ventunesimo
giorno, l'ufficio sanitario di R.E. ha dichiarato la mia guarigione. Nel frattempo ho potuto constatare le numerose contraddizioni della
macchina statale, insieme a quella del sistema carcere. E' noto che qui alla Pulce ce la siamo vista molto male e qualcuno a momenti ci
lasciava le penne. Quello che però più di tutto mi ha colpito è stato il completo disinteresse da parte del Ministero della Giustizia.
Sovraffollamenti, Covid 19, hanno creato un clima intestino memorabile. La legge speciale, promulgata durante l'emergenza pandemica, con
la quale chi afflitto da patologie pregresse ed importanti non solo non sono state applicate, ma hanno messo in serie probabilità, a chi
veramente già incompatibile con il regime carcerario, la vita dei reclusi che fanno parte di questo panorama.
In via Arenula, dove si trova il palazzo del Ministero della giustizia, magari qualcuno ha pensato che un gesto di clemenza fosse inutile
e che ci avrebbe pensato la SARS COV 2 ad effettuare uno svuota carceri. Ora, in questo momento di transizione tra l'incompetenza di
Alfonso Bonafede e la neo ministra Marta Cartabia, nei 256 lager di Stato tutti si aspettano che avvenga qualcosa di buono per tutti i
galeotti. Quello che però mi chiedo è come mai non vengono fornite le stime dei decessi all'interno dei lager di stato? E' possibile che
non ve ne siano stati? In tv e nei mezzi stampa si è parlato solo della riapertura dell'infamia dei decessi durante le rivolte di un anno
fa.
Antigone e i famigliari delle vittime degli aguzzini di Stato chiedono la verità su quelle morti. Hanno venduto la notizia che sono morti
di overdose da metadone. Come se un tossicomane non sappia il dosaggio che può reggere. A questo punto se non li hanno ammazzati a
bastonate, gliel'hanno fatto ingerire gli sbirri. Non vedo altre ipotesi. Comunque, tornando alla Pulce, ora è commissariato dal DAP e
questo per la gestione immonda messa in opera da Lucia Monostero. Direttrice reggente ma sopratutto una incompetente totale. Vorrei
concludere lanciando un messaggio a tutti i reclusi e recluse. Fin quando non ci avranno vaccinato tutti non aspettatevi gesti di clemenza
da quei farabutti dello Stato. Il loro intento, visto che il progetto carceri è fallito, è quello che meno ci salveremo e meno dovranno
giustificarsi con parenti e società. Prendiamo coscienza di questo. Noi siamo banditi e loro l'ordine. Notasi quante brave persone fanno
parte del CSM. Pagheranno caro pagheranno tutto. Contro le galere e i loro aguzzini. Assassini autorizzati. A pugno chiuso, Marco.
8 giugno 2021
Marco Ricci, Via Settembrini, 8 - 42129 Reggio Emilia
LETTERA DAL CARCERE DI VIBO VALENTIA
Volevo dire due cose. Se quando ci troviamo prigionieri, noi anarchici e ribelli, non sproniamo gli altri detenuti alla lotta, regna oltre
che la rassegnazione, la collaborazione con l’istituto penitenziario. Più passa il tempo, più ci sono persone che hanno rapporti
confidenziali con il carcere, ormai è diventata normale amministrazione per ottenere qualche infame eventuale beneficio. Quindi per noi
anarchici in galera e anche per tutti quei detenuti ribelli che sono stati pestati e puniti per le rivolte, bisognerebbe gettare molta più
benzina sul fuoco della lotta per evidenziare maggiormente lo Stato assassino che attua ricatti, pestaggi, violenza e morti. Io nonostante
la mia condizione combatto su tutto sempre a testa alta, accumulando continue denunce e rapporti. Anche per il fatto che qui si possano
avere al massimo due libri, e invece io ne ho una ventina più altrettante riviste e nonostante le perquisizioni continue non mi toccano
niente perché loro sanno che se mi toccano qualcosa è guerra. Infatti per come la vedo, è necessario aumentare la conflittualità sia
dentro che fuori, con azioni concrete, in modo che si dia risonanza ai fatti in questione. Se nelle AS2 regna la calma, a parte i compagni
combattivi, regna la calma anche nelle AS3 nei comuni ecc ecc… Nonostante molti detenuti aspettino maggiori benefici, non viene data loro
alcuna risposta dai magistrati di sorveglianza, quindi abbiamo anche una tortura psicologica. Facciamoci sentire uniti in una guerra
contro la galera, dando una risposta alla violenza poliziesca!
Sempri Ainnantis! A Konka Arta! Davide Anarchico Sardo Prigioniero Deportato
Delogu Davide - Contrada Cocari, 29 - 89900 Vibo Valentia (VV)
17 giugno 2021, da sardegnaanarchica.wordpress.com
Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Carta della consapevolezza (parte 5)
LA DEMOCRAZIA. L’uso e consumo che ne fanno i detrattori politici di questa parola così serie quando parlano di diritti negati amici e
amiche cari, popolo rincoglionito. Che cosa è la democrazia nella sua forma più alta e veritiera. La democrazia è un sistema politico in
cui la sovranità appartiene ai cittadini che la esercitano direttamente o mediante rappresentati liberamente eletti (pensate alle elezioni
in Italia con le liste chiuse e già vi potete rispondere da soli). A tanti di voi poco interesserà la parola democrazia, ma rammentate che
la parola democrazia espressa nei suoi più alti valori vuol dire diritti e rispetto dei diritti, senza distinzione di sesso, razza, ceto
sociale, diversità di pensiero, diritto di parola, diritto a un giusto processo e ad essere giudicati da un giudice imparziale e non che
si è venduta l’anima alla procura per uno scatto di carriera (leggasi Palamara). […]
La parola democrazia racchiude in sé questi vincoli, si badi bene, non deve essere il politico, il giudice, il giornalista, oppure la
piazza a determinare il diritto non sono loro a concederlo, loro devono farlo se accettano di vivere in un paese dove esiste la democrazia
e una costituzione che si riporta a tali alti valori, cioè, al rispetto dei diritti umani. […]
Tanti di voi adesso mi diranno: ma allora perché non lo fanno? Il motivo è molto semplice, chi ci rappresenta in questo paese e che
dovrebbe rappresentare la costituzione democratica a cui si ispirarono i padri costituenti che la redissero e che pagarono un terribile
tributo di sangue per ottenerla, ha il suo serbatoio elettorale e se quel serbatoio elettorale la mattina gli dice di belare come un a
pecora, lui o lei deve farlo, automaticamente fanculo la democrazia e i diritti. Noi detenuti abbiamo dei nostri rappresentanti in questa
democrazia di eletti a trucco? No! Noi siamo un serbatoio elettorale coeso e presente affinché qualcuno possa sfruttarlo e pretendere
diritti anche per noi? No! […] Quando ti calpestano il diritto di essere umano, il diritto di esistere, il diritto a rivendicare
criticamente il tuo passato in modo da poterti costruire un futuro migliore, ciò significa che da quelle persone non devi aspettarti
niente, non ti vogliono punto. […] Fino ad oggi non avevo affrontato il problema della democrazia e del diritto, in quanto, vivendo
questo periodo storico (pandemia); onestamente sembrava un po’ irrispettoso e inadeguato, ma cosicché nel carcere dove mi trovo detenuto
(Catanzaro) è scoppiato un consistente focolaio epidemiologico il quale vede coinvolti una settantina di detenuti, una ventina di agenti,
qualcuno della sanità e si sono verificati 2 morti interni ed uno che era stato scarcerato da pochi giorni per farlo morire a casa,
ritengo doveroso aprire una parentesi su ciò che è accaduto nelle carceri a seguito di questa maledetta pandemia. Si dice che nella vita
una situazione non ti tocca affinché non la vivi di prima persona, in codesto istituto abbiamo vissuto un anno di covid quasi da
spettatori, certamente non sono mancati i disagi, non poter vedere i tuoi cari, le regole che ti dai per evitare il peggio, ma poi accade
quello che accade sempre all’essere umano, ci si abitua alla circostanza e si abbassa la guardia, ti dimentichi che il mostro sta ancora
mietendo vittime, qualche demente parla di complotto tipo SPECTRE, altri addirittura dicono che il fatto non esiste, […] poi però ci penso
e sinceramente mi rendo conto che la stupidità fa e farà sempre pare di questo mondo e non potrai cambiare le cose. […]
È anche il momento di affrontare la tematica delle rivolte che si sono verificate in alcuni carceri di questo nostro paese, una pagina
nera e infame per un paese che parla a tutto il mondo di democrazia e diritti di coloro che diritti non hanno. Partiamo dai numeri, si
sono verificati 14 morti nel corso delle rivolte o a seguito di esse, più altri morti per il decreto che impediva la scarcerazione degli
ammalati a rischio, le due azioni sono collegate e guai a chi lo nega, l’unica differenza è il fatto che i primi sono morti in seguito ad
una battaglia, mentre gli altri sono stati lasciati morire in carcere per puro calcolo e debolezza politica. Ricordate Zagaria? Gli
rimaneva praticamente un anno, oggi è libero, non mi risulta che al momento della scarcerazione gli abbiano costruito una cuccia e gli
abbiano legato una catena al collo fuori alla porta carraia in modo che non potesse allontanarsi. […] In sostanza una politica inutile e
sterile, fatta da qualche personaggetto che aveva bisogno di ravvivarsi sulla scena ormai in declino. Le vite non valgono nulla quando si
tratta di fare share, ciò che più mi urta in tutta questa vicenda è il particolare che poi queste stesse persone si definiscono a giorni
alterni garantisti, non sopporto una meschinità così subdola, sei un giustizialista? […] Vanne fiero e dichiarati, come si sul dire: sono
ciò che sono e se mi volete guardare sappiate a priori chi state guardando. Ora veniamo alle analisi delle rivolte che si sono verificate
in alcuni istituti penitenziari. Quando si verificarono questi eventi gli esperti del niente puntarono il dito contro la criminalità
organizzata, tutto sapevano loro, avevano la verità sotto al cuscino, poi c’erano addetti ai lavori, i quali reprimevano le rivolte in
ogni modo possibile e immaginabile, non importava se avevi partecipato attivamente in quella vicenda, quello era il momento di sfogarsi e
chi se ne fotte se si dovevano pagare delle conseguenze era giusto che le pagassi anche chi nulla aveva posto in essere per pagarle.
Quello che però fa più male in questa storia indegna di un paese che si definisce civile, è che si sono verificati uccisioni fuori dal
campo di battaglia, è come accanirsi sui feriti dopo che sono stati sconfitti, quante volte lo avete visto in televisione e vi siete
arrabbiati perché il vostro senso di umanità vi porta a marchiare tale azione come un’azione vile e codarda, bene, sappiate che quello che
è successo in quei carceri non era finzione ma solida realtà e voi perbenisti e umanisti non vi siete scalfiti di un millimetro nel vostro
animo, ecco il valore che ha un detenuto per la società. Ritornando alla regia della criminalità in questa vicenda, quanti pseudo boss
avete visto coinvolti nelle rivolte? ZERO. Ma allora perché è successo tutto ciò? Semplice, per mancanza di professionalità da parte di
tutta la filiera di comando, comunicare a delle persone private della libertà impauriti per ciò che si sta verificando, dirgli che non
espleteranno più colloquio, significa accendere una miccia di una bomba sopita da tempo, questo è ciò che si è verificato, tutto il resto
è pure e semplice orgasmo mentale. Ora ci sono le inchieste della magistratura, le conosciamo certe inchieste che non portano mai a
niente, la morte di un detenuto è solo un incidente di percorso, cosa vuoi che sia un criminale in meno, e se poi quell’uomo o quella
donna risultassero innocenti? Come lo chiameremmo, incidente accidentale con dispiacere di colpa? […]
2 giugno 2021, il perseverante
Solidarietà a Natascia in sciopero della fame
“Lucidamente consapevole della strategia punitiva che sta ponendo in essere il DAP nei miei confronti, e contemporaneamente offuscata di
rabbia e disgusto, ho deciso che, se non ho mezzi per interpormi concretamente alle loro logiche vendicative, ho perlomeno la possibilità
di non lasciarglielo fare con la mia collaborazione. Alla notizia del mio ritorno a S. Maria, alle h. 18.00 del 16.06.21, ho
immediatamente comunicato l’inizio di uno sciopero della fame a tempo indeterminato. So che queste decisioni non competono alla direzione
del carcere, ma io in questo posto di merda non intendo più mangiare un boccone”.
Con queste parole Natascia, prigioniera anarchica, è entrata in sciopero della fame il 16 giugno per opporsi al trasferimento nel carcere
di Santa Maria Capua Vetere.
Dal momento del suo arresto nel maggio 2019 ha sopportato diversi trasferimenti punitivi, l’impossibilità di comunicare in maniera
adeguata con il proprio legale per riuscire a costruire una difesa processuale, processi in videoconferenza (che già di per sé
costituiscono una limitazione del diritto di difesa), oltre ad aver subito censura e trattenimenti arbitrari della corrispondenza, strette
sui colloqui, sull’ora d’aria, sulla musica, sui libri. Dal giorno del suo arresto, Natascia non ha mai subito passivamente tutte queste
angherie. E’ chiara la volontà di giudici e carcerieri di allontanarla e isolarla dalla solidarietà di chi la sostiene da fuori e di
stremare la sua forza e determinazione.
Natascia si trova in carcere da oltre due anni, inquisita nell’ambito dell’Operazione repressiva Prometeo, accusata assieme ad altri due
compagni, Beppe (anche lui imprigionato da oltre due anni) e Robert, dell’invio di buste esplosive all’ex direttore del DAP, Santi
Consolo, e a due pm torinesi particolarmente dediti all’accanimento giudiziario nei confronti di compagne e compagni, Rinaudo e Sparagna.
Quest’ultimo trasferimento assume una valenza ancor più vendicativa poiché è avvenuto in prossimità dell’inizio del processo.
“Dal giorno in cui mi hanno trasferita qui, 3 mesi fa, non ho più potuto comunicare decentemente con il mio avvocato: i colloqui sono
stati riaperti, quindi niente video chiamate né chiamate su richiesta del legale, le telefonate sono 1 mensile di 10 minuti, anche per gli
imputati e anche per chi sta a 1.000 chilometri dalla sede del processo o da casa. Se è in vena, il direttore può concederne una seconda
straordinaria nel corso dello stesso mese, ma ovviamente, in quanto concessione, non ha nessun obbligo di farlo, e in ogni caso è fuori
discussione superare le due mensili. 20 minuti al mese, in una stanzetta soffocante, e nell’orario e giorno prestabiliti, augurandosi che
il tuo difensore quel giorno sia in studio. 20 minuti al mese, da un mese e mezzo prima che iniziasse il processo, sino ad oggi, che il
dibattimento è sostanzialmente giunto al termine. Ci restano 2 udienze, prima della requisitoria, 2 udienze in cui si sarebbe dovuto
ragionare di dichiarazioni spontanee, esame e controesame, ma a quanto pare mi toccherà ragionare in solitaria. A pensar male, sembra
quasi che si faccia di tutto per impedire una difesa “dignitosa”… anzi: una difesa qualunque… Dei 20 giorni trascorsi a Vigevano, 15 li ho
trascorsi in isolamento sanitario ed 1 in udienza, altri due a fare i bagagli tra andata e ritorno… insomma, nemmeno questa è stata
un’occasione per parlare con l’avvocato, visto che gli isolati non possono ricevere visite. Inutile aggiungere che ora sono di nuovo in
quarantena…”
L’allontanamento territoriale di Natascia dal suo contesto di vita ha una chiara connotazione punitiva, oltre che per le limitazioni che
impone, anche per il carcere a cui è stata destinata. Le condizioni di detenzione a SMCV sono sempre state durissime e ne è solo un
esempio l’assenza, da sempre, di acqua potabile per il mancato allaccio idrico.
Il carcere di S. Maria Capua Vetere è quello noto alle cronache per i brutali pestaggi e per le torture subite e testimoniate da diversi
prigionieri e che ebbero luogo nell’aprile del 2020, la cosiddetta “mattanza della Settimana Santa”: il giorno dopo le proteste contro le
inesistenti misure di prevenzione per il contagio da Covid 19, oltre 300 poliziotti penitenziari in assetto antisommossa e a volto coperto
hanno dato vita ad una spedizione punitiva. I detenuti sono stati fatti uscire dalle celle, spogliati e picchiati selvaggiamente fino a
procurargli gravi lesioni, trauma cranici, denti e ossa rotte.
6 luglio 2021, da ilrovescio.info
Aggiornamento del 12 luglio 2021: nel suo 24esimo giorno di sciopero della fame Natascia è stata finalmente trasferita. Al momento si
trova nel carcere di Rebibbia.
CARCERE di S. M. Capua Vetere: violenze torture morti
Quello che sta emergendo dal carcere di S. M. Capua Vetere non è una novità per chiunque ha avuto a che fare con il carcere. Le violenze,
le torture, le morti (avvenute in aprile 2020) non sono frutto di qualche poliziotto su di giri. È una prassi sistemica che viene portata
avanti dall'istituzione carcere e protetta e avallata dal Ministero di Giustizia. Una crepa, però, si sta aprendo grazie ai detenuti e le
detenute che non hanno abbassato la testa ed in quei giorni hanno fatto girare video di denuncia dei pestaggi subiti. [Il primo video dei
pestaggi a S. Maria C.V. è uscito on line sul quotidiano Domani il 29 giugno 2021, ndr]
52 misure cautelari (77 da ultimissime). Oltre 100 indagati. Prima la mattanza. Poi Trasferimenti. Blocco di colloqui e chiamate.
Isolamento. Falsi. Calunnie. Depistaggi. Omertà. Non è la mafia. E’ la Polizia penitenziaria! Non è un caso. Non è una fatalità. Non solo
mele marce. È malato tutto l'albero. Il carcere è tortura, aboliamolo!
Sì, lo STATO siete voi!
Cosa aggiungere sul feroce e sistematico pestaggio dei prigionieri attuato da un centinaio di agenti penitenziari nel carcere di Santa
Maria Capua Vetere? Cosa dire che le immagine ampiamente diffuse non urlino da sole? Le frasi pronunciate o scritte dagli agenti
esplicitano senza veli la funzione di quel pestaggio. Prima dell’operazione: “li abbattiamo come vitelli” e “domate il bestiame”; a
operazione completata: “quattro ore di inferno per loro”, “non si è salvato nessuno”. Ma la verità più completa è racchiusa in queste
parole gridate dai secondini: “Lo Stato siamo noi!”. Sì, avete dato una dimostrazione plateale – proprio perché il terrore sarebbe dovuto
rimanere nascosto tra quelle mura – di che cos’è lo Stato. E di quale abominio etico possono raggiungere i suoi servitori nell’eseguire
gli ordini ricevuti. Perché questo hanno fatto, quei signori in divisa. L’ordine del provveditore (con il beneplacito della direttrice del
carcere), l’ordine del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, l’ordine del Ministero. Un ordine eseguìto con altrettanta
brutalità in tutte le operazioni condotte dalle guardie nei giorni e nelle settimane successivi alle rivolte e alle proteste di marzo
2020. Un ordine impartito da una precisa catena di comando. A sparare contro i detenuti di Modena, infatti, c’erano anche i carabinieri, a
ulteriore conferma del coinvolgimento di tutti i corpi dello Stato. Perché la magistratura – tanto zelante nell’archiviare l’inchiesta sui
nove prigionieri morti a Modena quanto solerte nel rinviare a processo centinaia di detenuti in varie parti d’Italia per le rivolte di
quel marzo – stia “sacrificando” i 77 agenti campani; perché il locale nucleo dei Carabinieri – i cui colleghi di Modena hanno sparato ad
altezza d’uomo contro i prigionieri – abbia sequestrato i filmati dei pestaggi; perché i media li abbiano diffusi, non ci è dato sapere. E
non ci interessa molto. Certo non è un caso che nel frattempo sia cambiato il ministro della Giustizia. Le chiacchiere sulla Costituzione
violata, sulle inaccettabili violenze che macchierebbero quelle onorevoli divise non avrebbe potuto pronunciarle il ministro in carica
durante la strage di marzo 2020 – e durante i pestaggi avvenuti in decine di carceri. Ammettere una piccola parte di quelle manganellate,
e scaricare qualcuno dei loro responsabili, serve forse a rifarsi il trucco. Tanto il messaggio ai carcerati è arrivato. E i processi
contro i rivoltosi sono lì a rinnovarlo. Ma per dare a quei rivoltosi tutta la solidarietà che meritano e di cui hanno bisogno. Per non
farci scandalizzare da scandali che durano una settimana. Per alimentare in noi stessi l’umano e insopprimibile desiderio di vendetta –
secondo un proverbio arabo, la vendetta non ripara l’ingiustizia, ma impedisce che altre vengano compiute –, non bisogna guardare solo gli
ultimi, infami anelli della catena. Bisogna riconoscere la verità di quell’affermazione: “lo Stato siamo noi” […]
6 luglio 2021, da ilrovescio.info
***
le denunce da Torino a Santa Maria Capua Vetere (Ce)
Non solo Santa Maria C.V. e la mattanza nel carcere casertano, il carcere dell’ultimo scandalo. Torture e abusi e omissioni sono stati
denunciati da persone detenute in altri istituti distribuiti in mezza Italia, prima e dopo le rivolte di marzo e aprile 2020.
Da Opera a Palermo, da Torino a Melfi, passando
per Ferrara, Firenze, Viterbo, Lucera. Morti anomale, rubricate come suicidi, overdose, decessi per cause naturali. Pestaggi di massa,
come nella casa circondariale ora diventata un simbolo. O punizioni individuali, mirate. In alcune procure le indagini marciano a ritmo
serrato e scandagliano in profondità, approdate alle prime condanne (appellabili e dunque non definitive) e anche per tortura. In altre
procure gli accertamenti restano in superficie, avviati verso l’archiviazione.
Detenuti poco credibili? Il potere delle immagini. La differenza, nell’accertamento della verità, sembrano farla le immagini. I detenuti
che raccontano di botte e manganellate vengono creduti quando i video immortalano aggressioni e scene pulp. Dove le telecamere non ci sono
oppure risultano disattivate, o le se riprese vengono cancellate per scelta o per prassi, le speranze di ricostruire i fatti (e le
responsabilità) si assottigliano. E rischiano di azzerarsi quando la (presunta) vittima di vessazioni e violenze è un detenuto con
atteggiamenti aggressivi o ribelli. La sola associazione Antigone in una manciata di anni ha promosso o contribuito a promuovere 17
inchieste e le sta seguendo come “persona offesa”. Questo ruolo non le è stato riconosciuto dal giudice di Modena che si è occupato di 8
dei 13 decessi contati nei giorni delle sommosse e dei trasferimenti di massa. Anche il Garante nazionale dei detenuti è stato estromesso
dal procedimento emiliano, nel silenzio generale.
Milano-Opera e le denunce di violenza dei parenti. Madri, sorelle, compagne di detenuti rinchiusi a Opera, 8 persone, dopo le violente
azioni di protesta dell’8 marzo 2020 si rivolsero ad Antigone per raccontare quello che avevano saputo da familiari e congiunti. I parenti
parlavano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche carcerati anziani e malati di cancro e che avrebbero portato a
mascelle, setti nasali e braccia rotte. Antigone inviò un esposto alla magistratura. La denuncia cumulativa, lo spiega ad Osservatorio
Diritti il procuratore aggiunto milanese Alberto Nobili, «non ha avuto seguito, perché non sono stati trovati riscontri alle dichiarazioni
riportate e alle presunte lesioni indicate». Si è invece conclusa l’inchiesta sui reati commessi dai rivoltosi, 17 dei quali condannati a
febbraio.
Polizia penitenziaria e violenze: «Indagini da riaprire». Gaspare G., anche lui detenuto ad Opera, una denuncia l’ha scritta di suo pugno
e l’ha presentata attraverso l’avvocato di fiducia, Eugenio Losco. Un paio di settimane dopo la rivolta di marzo 2020, alla quale ha preso
parte, in reparto ha litigato con alcuni poliziotti penitenziari per questioni legate all’acquisto del vitto allo spaccio interno. Quattro
o cinque agenti poi lo avrebbero raggiunto in cella, insultato e malmenato. Secondo il personale, invece, sarebbe stato lui ad avventarsi
contro gli operatori in divisa. Il medico che lo ha visitato ha riscontrato un arrossamento della cute sulla fronte e gli ha dato zero
giorni di prognosi. Il pm Giovanni Polizzi, ricostruiti il curriculum e i procedimenti disciplinari collezionati, ha ritenuto le
dichiarazioni del denunciante contraddittorie e insufficienti a sostenere l’accusa contro i poliziotti. Così ha chiesto al gip di
archiviare tutto. L’avvocato Losco si è opposto e ha rilanciato, chiedendo di fare quello che la procura ha omesso: interrogare il
detenuto e sentire tutti i possibili testimoni oculari, i compagni di cella e di raggio. Nella sezione le videocamere di sorveglianza ci
sono e c’erano. Ma le immagini del bisticcio sono state sovrascritte da altre immagini, come succede ogni 7 giorni e tutela della privacy,
come almeno scrive il pm. Il giudice deciderà a settembre.
Violenze in carcere: Melfi come Santa Maria Capua Vetere? Antigone, sempre dopo le sommosse del 2020, è stata contattata anche dai
familiari di persone rinchiuse nel carcere di Melfi. La notte del 17 marzo 2020, riferiscono i parenti in prima linea, sarebbe scattata
una ritorsione per la sommossa scoppiata il giorno 9. Un “prequel”, un antefatto, di Santa Maria Capua Vetere. Una squadra di agenti
sarebbe entrata nelle celle dell’alta sicurezza e avrebbe umiliato e vessato una settantina di detenuti, fatti inginocchiare, denudati,
picchiati a mani nude e con manganelli, presi a sputi e insulti e poi messi in isolamento o trasferiti altrove. Non solo. I poliziotti del
penitenziario potentino avrebbero fatto firmare false dichiarazioni alle persone ferite, costringendole a sostenere di essersi procurate
le lesioni cadendo accidentalmente.
I racconti dei carcerati di Melfi sono finiti agli atti. «Gli agenti ci hanno legato i polsi con fascette da elettricista, lungo il
tragitto che ci portava al pullman ci urlavano di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano
con calci nel sedere e in altre parti del corpo». «C’erano agenti incappucciati e altri col passamontagna». «Sono entrati nella cella e
hanno pestato mio zio, che è cardiopatico e ha due stent». Il 3 maggio 2021 la procura ha chiesto al gip l’archiviazione, contro cui il 3
giugno ha presentato opposizione Antigone. Laddove le violenze hanno avuto un riscontro sanitario, secondo la pubblica accusa, «le vittime
non sono state in grado di riconoscere gli autori».
Nel carcere di Pavia «umiliazioni, abusi, trasferimenti arbitrari». A Pavia, sempre per le ritorsioni post rivolta, si muovono la solita
Antigone e il legale Pierluigi Vittadini. «A marzo 2020 – racconta l’avvocata dell’associazione, Simona Filippi – veniamo contattati da
alcuni familiari di persone detenute. Denunciano violenze e abusi, nonché trasferimenti arbitrari posti in essere nei giorni successivi
alla protesta, sorta a seguito dell’interruzione dei colloqui, all’applicazione di altre misure restrittive per far fronte alla pandemia
di Covid 19 e ad omissioni nell’adeguamento dell’istituto alle misure di prevenzione. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato alcune
persone detenute, colpendole, insultandole, privandole di indumenti e lasciandole senza cibo. Ai reclusi trasferiti non sarebbe stato
permesso di portare alcun effetto personali né di avvisare i familiari». Il 20 aprile 2020 Antigone deposita un esposto contro la polizia
penitenziaria. Le indagini, a quel che risulta all’avvocata Filippi, sono in corso.
L’avvocato Vittadini porta avanti le denunce di altri 5 detenuti “pavesi” coinvolti nella sommossa 2020 e nelle successive “punizioni”,
tutte da dimostrare. Vengono aperti singoli fascicoli per singoli illeciti. Il procuratore aggiunto Mario Venditti, diversamente da quanto
fanno i colleghi di altre città, non ipotizza il reato di lesioni dolose o torture, ma quello di percosse. Condotte di gravità minima,
insomma. Roba da giudice di pace. Non risultano esserci approfondimenti, non si identificano i responsabili. Per quattro inchieste si
arriva direttamente alle archiviazioni, poi annullate grazie al reclamo presentato dal legale. Ora sembra che la procura sia intenzionata
ad andare a fondo.
Dal penitenziario di Voghera voci di raid punitivi e abusi contro i detenuti. Una onlus calabrese dopo i giorni delle sommosse rilancia la
registrazione di una drammatica testimonianza, la voce di un detenuto del Sud rinchiuso nel carcere di Voghera. I detenuti preoccupati e
insistenti, dopo la scoperta di un caso di contagio e le richieste di poter contattare e tranquillizzare i parenti, sarebbero stati
pestati. «Ieri sera – dice l’uomo – sono saliti un grosso numero di agenti penitenziari provvisti di manganelli ed hanno iniziato ad
inveire contro di noi detenuti che eravamo spaventati, in quanto avevano portato via quattro detenuti con la febbre. Abbiamo richiesto di
poter effettuare il tampone per riscontrare un’eventuale positività al Covid-19. Si sono accaniti quattro agenti penitenziari su di me con
i manganelli, percosse su tutto il corpo». Non è dato sapere se e come la denuncia abbia avuto corso.
Pestaggi nel carcere della strage di Modena e ad Ascoli. Il gip di Modena, spiazzando legali e familiari, a metà giugno 2021 archivia
l’inchiesta sulla morte di 8 detenuti del Sant’Anna, spirati nel corso delle rivolte, nelle ore successive e durante e dopo il trasporto
in altri istituti. Nella cittadina emiliana restano aperti altri due fascicoli. Una riguarda i reati commessi dai reclusi, l’altra i
pestaggi di massa denunciati da più persone e in tempi diversi. Dall’inchiesta madre, inoltre, sono emerse notizie criminis che potrebbero
essere sviluppate (omissioni di atti d’ufficio, almeno una firma non riconosciuta dalla persona che corrisponde al nome, risposte diverse
su aspetti simili).
Ad Ascoli la procura ha ereditato le indagini sulla fine di un nono detenuto “modenese”, Salvatore Sasà Piscitelli. Qui la differenza
potrebbero farla due denunce iniziali, le segnalazioni raccolte da una giornalista e l’esposto presentato da cinque compagni di cella e di
viaggio. Altre ritorsioni, altre botte e manganellate, altre umiliazioni, altri ritardi nei soccorsi. I detenuti – testimoni ignorati per
mesi – finalmente sono stati sentiti e risentiti, è stata disposta una rilettura dell’autopsia sulla base dei fatti segnalati.
Violenze in carcere a Torino: inchieste pre-rivolta. Le denunce per illegalità in carcere, sulla pelle dei detenuti, non sono emerse solo
dopo le rivolte 2020. A Torino, ad esempio, è aperto un procedimento per decine di episodi di violenza consumati tra il 2017 e e il 2019 e
portati all’attenzione della magistratura dalla garante dei detenuti Monica Gallo. L’inchiesta coordinata dal pm Franceso Pelosi coinvolge
l’allora direttore del carcere, Domenico Minervini (rimosso dall’incarico), l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni
Alberotanza (idem), i sindacalisti Leo Beneduce e Gerarado Romano. Avrebbero coperto o informato delle indagini gli autori delle
vessazioni, poliziotti penitenziari violenti e maneschi. Ad essere presi di mira, stando ai racconti e agli accertamenti, furono in
particolare i detenuti più fragili, quelli che dimostravano qualche scompenso psichico. «Picchiavano e ridevano», scrive la procura nel
capo d’imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni, sputi. Un detenuto venne insultato e costretto a ripetere: «Sono un pezzo di merda». A
un altro urlavano «figlio di puttana, ti devi impiccare» e gli ruppero il naso e un dente.
La prima condanna per tortura nel carcere di Ferrara. A Ferrara, a gennaio 2021, c’è stata una condanna per tortura, la prima da quando il
reato nel 2017 è entrato nel nostro codice penale. Il giudice ha comminato 3 anni di pena (non definitivi) ad un agente, mandato a
giudizio per aver agito «con crudeltà e violenza grave» contro un giovane detenuto del carcere di via Arginone, dentro per un omicidio. Il
ragazzo fu oggetto di un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona», denudato, messo in ginocchio e percosso.
Violenze in carcere e ministero come parte civile. Nell’ottobre 2018 un detenuto tunisino ha subito pestaggi nel carcere di San Gimignano
(Si), durante un trasferimento coatto, con alcune scene riprese dalle videocamere di sorveglianza. La procura di Siena, un anno dopo, ha
contestato la tortura e altri crimini a 15 agenti della casa di reclusione. Il 17 febbraio 2021, al processo celebrato con il rito
abbreviato, in 10 sono stati condannati per il nuovo reato e per lesioni aggravate. Gli altri 5 torneranno in aula il 13 luglio, al
processo ordinario. Il ministero di Giustizia, innescando una selva di critiche e attacchi da destra, nel secondo troncone si è costituito
parte civile. Un sindacato ha protestato in piazza. Il leader leghista ed ex ministro Matteo Salvini, come è successo a Santa Maria Capua
Vetere, è andato nel carcere senese per portare solidarietà al personale.
5 Luglio 2021, da osservatoriodiritti.it
41 BIS=TORTURA: ALCUNI COMPAGNI E COMPAGNE A PROCESSO
Giovedì 20 maggio si terrà, in una delle aule del Tribunale di Roma, un processo contro cinque compagni e compagne per il reato di
manifestazione non autorizzata. Il “gravissimo atto illecito” è stato compiuto il 13 maggio 2016 davanti alla sede del DAP (Dipartimento
di Amministrazione Penitenziaria) e ha fatto parte di una serie di iniziative proposte dalla campagna “Pagine contro la tortura”.
Intenzione di quella iniziativa era lasciare dei libri ai responsabili del trattamento delle persone detenute e della gestione delle
carceri. Un gesto simbolico, quindi, accompagnato da interventi al microfono in cui veniva manifestato tutto il nostro disprezzo per chi,
comodamente seduto dietro lucide scrivanie, assume decisioni che incidono pesantemente sulla vita (e sempre più spesso ne ossono provocare
anche la fine) di chi è dentro le galere.
La campagna “Pagine contro la tortura” si aprì nel 2015 a seguito della notizia, divenuta pubblica per altro con notevole ritardo, che già
dal 2011 chi è ristretto nelle sezioni di 41bis non può più ricevere tramite corrispondenza e colloqui con parenti e/o avvocati libri,
riviste né qualsiasi altra stampa. Unica possibilità: acquistarli previa autorizzazione del direttore del carcere in cui si trovano
ristretti. Per chi conosce il carcere, anche indirettamente attraverso la detenzione di un proprio caro, sa bene quanto importante sia
l’accesso alla lettura e allo studio. Per chi è detenuto in 41bis, poi, può diventare l’unica possibilità di “”evasione” da una crudele
quotidianità.
Ricordiamo in cosa consiste quella quotidianità:
– L’assegnazione della persona presso un carcere lontanissimo dal luogo di residenza dei familiari.
– Isolamento per 22 ore al giorno (soltanto nelle due ore d’aria è possibile incontrare altri/e prigionieri/e e comunque in gruppi di
massimo 4 persone e solo con questi è possibile parlare);
– Il colloquio (un’ora al mese) è autorizzato esclusivamente con i soli familiari diretti ed impedisce per mezzo di vetri, telecamere e
citofoni ogni contatto diretto;
– Una telefonata al mese di soli 10 minuti e solo se non si effettua il colloquio. Il familiare, autorizzato al colloquio telefonico,
riceverà la telefonata presso un istituto penitenziario prossimo alla propria abitazione;
– All’interno delle sezioni è di servizio il Gruppo Operativo Mobile (GOM), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, tristemente
conosciuto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;
– Il processo in videoconferenza: l’imputato detenuto non può accedere in aula ma deve seguire il processo da una cella del carcere in cui
è rinchiuso e tecnologicamente attrezzata per il collegamento audio e video gestito a discrezione da giudici. Una pesantissima limitazione
della difesa e della critica;
– La censura-riduzione nella consegna di posta;
– L’impossibilità di avere accesso ai benefici di legge salvo che non decida di collaborare con l’autorità giudiziaria.
Intenzione di chi partecipa alla campagna è non solo quella di sensibilizzare alla partecipazione ad una lotta contro la decisione di
attuare quel drastico limite di accesso alla lettura, ennesima vessazione dello Stato nei confronti dei suoi ostaggi detenuti nelle
galere, ma anche quella di aprire uno squarcio visibile sulle condizioni di vera tortura quotidiana che le persone in 41bis e i loro
familiari (non dimentichiamolo) sono costretti a vivere. Tra le analisi prodotte dalla campagna c’è sempre stata quella per cui le leggi e
le norme di natura emergenziale (quali quelle che hanno visto la realizzazione del regime di carcere duro) col passare del tempo, si
estendono: ogni restrizione adottata nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle sezioni di Alta Sicurezza
e in quelle “comuni”. E non c’è nessuna soddisfazione nel verificare la giustezza di quella profetica riflessione. L’attuale gestione
delle carceri, da marzo dello scorso anno, ne è la più evidente dimostrazione. Pensiamo al plexiglass di separazione durante i colloqui e
alla riduzione se non cancellazione degli stessi, alle telefonate in loro sostituzione, al rafforzamento dell’autonomia delle singole
direzioni nelle decisioni assunte, all’estensione dei processi in video conferenza. Per non parlare poi, tornando strettamente alla
questione che ha determinato la realizzazione della manifestazione per cui oggi i compagni sono a processo, dell’estensione ad altre
sezioni della riduzione del numero di libri che è possibile tenere in cella oltre che all’autorizzazione discrezionale del direttore alla
loro lettura, fatta sulla base dell’argomento trattato. A questo aggiungiamo quanto la chiusura totale all’ingresso di persone, diverse da
chi all’interno vi lavora, abbia potenziato la già precedentemente scarsa mancanza di notizie dall’interno e l’opacità di quelle mura.
E infine, ma certamente non per importanza, dobbiamo ricordare che l’anno scorso c’è stato un avvicendamento ai vertici del DAP che oggi
vede la presenza di due rappresentanti di spicco della direzione antimafia e antiterrorismo. Quindi persone la cui carriera si è costruita
sulla base della cosiddetta “guerra alla criminalità organizzata”, a colpi di operazioni ed arresti. Persone formate nella prospettiva del
“carcere duro” e del “buttare la chiave” e che, oggi, si ritrovano ad esercitare uno tra i massimi poteri dello Stato: la gestione delle
carceri, cioè la sua logistica e il trattamento delle persone detenute. Dire tutto questo non significa, così come spesso gli organi di
informazione scrivono, essere “complici dei mafiosi”. Siamo contro lo Stato e contro tutte le manifestazioni del suo tentacolare potere.
Non siamo certo noi a sostenere comportamenti sopraffattori, arrivisti, sprezzanti della dignità e avidi di profitti. Ed è per questo che
siamo contro il carcere che è nient’altro che l’emblema di tutto questo. E davvero ci domandiamo se, a fronte della mostruosità che il
carcere ed in particolare il 41bis rappresentano, possa essere una manifestazione non autorizzata davanti al DAP a significare un problema
per la società e non piuttosto il fastidio che ha arrecato agli zelanti impiegati di quegli uffici. Solidali con le compagne e i compagni
sotto processo e una certezza: non ci ridurrete al silenzio né vi permetteremo di nascondere le vostre infamie dentro armadi blindati.
Compagne e compagni di Roma, 19 maggio 2021
Il 20 maggio 2021 durante il processo, sono stati ascoltati due testi, editori che hanno aderito alla campagna pagine contro la tortura.
La loro deposizione ha dato elementi sulle condizioni di detenzione in 41bis e sul drastico limite di accesso alla lettura e allo studio.
Hanno anche deposto in merito alla loro adesione alla campagna. L'udienza è stata rinviata al 14 dicembre alle ore 11.
Vivere e morire nel carcere di Uta (CA)
La testimonianza di un prigioniero
Sono stati mesi di apertura mentale, di conoscenza sia di un tipo di criminalità, ma in particolar modo di conoscenza dei servi dello
stato. In tutti questi anni di carcere il mio pensiero principale è stato quello di denunciare (è un brutto termine lo so!) le merdate, le
vigliaccate, o chi più ne ha più ne metta, di questi esseri inutili in divisa… Ma non solo in divisa, perché le schifezze le fanno tutte e
tutti che si sentono partecipi di questa società verticale: il carcere. Mi limiterò a parlare del carcere circondariale Ettore Scalas di
Uta, come invito chiunque abbia soggiornato nelle prigioni sarde a raccontare con dovizia di particolari tutto ciò che fuori nessuno ha
mai conosciuto. Parto dalla vicenda di Doddore Meloni di Terralba, ucciso nel carcere di Uta, durante uno sciopero della fame lungo più di
sessanta giorni, ebbene la vita di Doddore si è giocata tra il menefreghismo dell’area sanitaria, con la consapevole complicità dell’area
securitaria (secondini), il beneplacito dell’area educativa/psicologica, ed il sigillo della direzione. Quando si è deciso di aprire
un’indagine giudiziaria sull’anomala (il termine è mio) morte di Doddore, tutte quelle componenti fecero quadrato sulla morte di Doddore,
scompigliarono le carte giocando sporco sul resoconto della sua morte, inizialmente nell’elenco dei testimoni c’erano anche i due
prigionieri che lo assistevano nel suo calvario, successivamente i due prigionieri spariscono dall’elenco dei testimoni, con il connubio
del PM di turno, perché forse avrebbero raccontato sulle negligenze e complicità che avrebbero portato alla sua morte, oppure avrebbero
raccontato sulla “preoccupazione” dei medici se Doddore mangiava di nascosto, e questo anche negli ultimi giorni della sua esistenza.
Un’altra morte anomala è stata quella di Mamadou Sow (spero che si scriva così), un prigioniero senegalese al termine della sua
carcerazione, pronto a riassaporare quella libertà perduta tempo addietro. Purtroppo in questo lasso di tempo ebbe uno scontro verbale con
alcuni secondini, da ciò venne poi un suo pestaggio lo stesso giorno sempre ad opera dei secondini. Di quei momenti si ricordano le ben
famose parole urlate sovente dentro la cella: “fuori ci sono le telecamere”. La sera Mamadou è morto impiccato, gli mancavano poco meno di
tre mesi per uscire. Meritano vendetta altri suicidi per la negligenza ed il menefreghismo di tutte le componenti (direttiva, securitaria,
sanitaria, educativa, psicologica) del carcere. Ricordo ben bene il dramma di un prigioniero bielorusso, che sin da quando arrivò da un
carcere della Puglia, diede vita ad azioni che denotavano un disagio mentale molto importante, cercato di attenuare con una cascata di
psicofarmaci ed intingoli vari, finché un giorno tentò di impiccarsi alla grata della finestra del cucinino. In quella occasione fu
salvato dal provvidenziale intervento dei suoi compagni di cella, subito dopo sparì e finì in CDT (Centro Detenzione Temporanea) e quando
ritornò in sezione,sempre nella stessa cella, era un automa... E ricordo anche il commento di un secondino che disse: “Con quello che gli
hanno fatto giù, è sicuro che non ci riprova con il suicidio”. Fatali parole... Il giorno dopo Aleksandr riprovò ad impiccarsi e stavolta
i suoi compagni si accorsero del suo gesto con notevole ritardo, fu un accanimento terapeutico il tentativo di far ripartire il suo cuore,
certo non fu fatto per salvargli la vita, visto che il cervello per lunghi interminabili minuti non ebbe nessun tipo di ossigenazione, ma
per il preciso motivo di evitare che dal carcere uscisse un cadavere. Infatti svariate volte ho assistito, o mi è stato raccontato, di
suicidi “riusciti” che miracolosamente vengono sventati grazie all’utilizzo del defibrillatore, salvo che tra l’arrivo del personale
sanitario e l’utilizzo del macchinario, il cuore degli sventurati era fermo da almeno una dozzina di minuti, con tutto quello che ne viene
per la salute/vita del cervello. Di fatto questo accanimento sanitario non era/è dovuto alla necessità/volontà di salvare una vita, ma è
dovuto al malevolo bisogno di fare in modo che chi esce dal carcere ne esca da “vivo”, cioè nessuno deve morire suicida nel carcere Ettore
Scalas, poi se esce da vegetale cavoli suoi. In questo “manicomio” una cosa che risalta è il silenzio assordante di tutti gli elementi che
compongono l’area educativa su tutte queste “brillanti” situazioni che viviamo, di fatto tutti questi elementi sono soltanto degli
scherani del direttore, e/o per viltà o per menefreghismo innanzitutto non sputano nel piatto dove mangiano, pertanto si piegano ai voleri
del direttore o addirittura sono più realisti del re e si prendono delle “licenze” che sicuramente non sono prese a pro del prigioniero.
Emblematico è il caso di un ragazzo irakeno che a meno di sei mesi alla fine dell’espiazione della sua carcerazione, con il nostro aiuto
riesce ad ottenere il consenso per essere ospitato in una comunità dell’oristanese, per poter usufruire di un permesso premio. Quando il
tutto finisce nelle mani della sua educatrice, lei dolosamente non consegna il famigerato foglio dell’accoglienza al magistrato di
sorveglianza, che prontamente rigetta il permesso premio proprio perché mancava un luogo di accoglienza. Con queste “perle” i prigionieri
fanno i conti giornalmente, come fanno i conti dei selvaggi pestaggi che sono finiti con l’isolamento in CDT al primo piano della
struttura. È quello che è successo ad un prigioniero sardo che fu pestato selvaggiamente al II piano della struttura da un ispettore e
svariati suoi scherani e successivamente isolato nel CDT per 45 giorni, affinché nessuno di noi si potesse relazionare con lui. Che dire
di un altro prigioniero anch’esso selvaggiamente pestato da una mezza dozzina di secondini, in cui il medico rifiutò di fare una visita
per certificarne i danni subiti. Non rimane che parlare del pestaggio razzista, fatto sempre da un nutrito numero di secondini, che il
direttore lasciò passare sotto silenzio “comprando” la sua giusta riprovazione con un misero posto di lavoro. Mi rimbombano nella testa le
urla del prigioniero tunisino, non ricordo il suo nome, forse Mohammed, che per aver richiesto che la sua roba e il suo denaro gli fossero
trasferiti dal carcere di Opera, da dove lui si era volatilizzato durante un ricovero in ospedale, a quello di Uta, ma chiamiamola
burocrazia sa esser bastarda e vigliacca perché gli scherani di questo carcere chiedevano al tunisino di fare un telegramma al carcere di
Opera per richiedere il tutto, ben sapendo che il prigioniero non aveva il becco di un quattrino. Le urla di, chiamiamolo Mohammed, erano
dovute ai ripetuti pestaggi notturni con notevole utilizzo degli idranti, probabilmente i secondini andavano al di là del “loro
consentito”, tanto che un bel po' di volte Mohammed venne portato in ospedale per accertamenti, e che io sappia in quelle occasioni fu
accusato anche di un tentativo di evasione. Era l’Estate del 2018. Voi pensate che nel tempo le cose siano cambiate? Per niente, anche al
reparto femminile queste “chicche” di comportamento sono all’ordine del giorno, ragazze letteralmente trascinate per tutta la sezione in
maniera brutale per un cambio di cella, oppure alluvionate con idrante perché richiedevano ciò che gli spettava, o era di loro
proprietà... Tutto questo nel 2021. In ultimo il dramma di Osvaldo Olla, che entrato a cavallo del 2020/2021 in carcere, con una frattura
ad un piede tra l’altro operato, richiedeva alla visita medica di poter utilizzare una carrozzina, cosa che il medico accordava. Però, c’è
sempre un però nelle cose, una guardia si metteva di traverso e non gli faceva consegnare la carrozzina “perché non dovuta”. Poco male,
Osvaldo riprovava con il medico nel chiedere le stampelle, il medico approvava ma la stessa guardia non gliela faceva avere “perché non
dovute”. Al che Osvaldo sbottava nel minacciare denunce per ottenere quello che gli spettava, mai lo avesse fatto, la guardia in questione
gli diceva “BRUTTA CAROGNA” e, non contento, continuava ad urlargli il suo odio e il suo livore chiamandolo ripetutamente al citofono
“BRUTTA CAROGNA”. Non contento di ciò informava gli altri prigionieri della sua sezione che il tipo (Osvaldo) era una brutta carogna e che
se loro avessero dato una lezione ad Osvaldo, lui (il secondino) non avrebbe mosso un dito. Tanto ha fatto che i prigionieri della sezione
volevano picchiarlo, ma non lo hanno fatto per la evidente menomazione del prigioniero. Il secondino non felice della situazione che si
era creata nei confronti dello zoppo, mentre quest’ultimo era fuori dalla cella, è entrato nella cella insieme al suo socio (due esseri
inutili in divisa) e ha distrutto il tavolo che c’era in cella accollandolo al prigioniero e redigendo un falso rapporto disciplinare.
Tutte queste magagne sono venute a galla, ed un sottufficiale ha parlato con Osvaldo chiedendogli se avesse dei problemi in sezione e con
chi. Osvaldo si è confidato con il brigadiere e questi lo ha esortato a fare una relazione scritta, ed ha anche disposto il trasferimento
del prigioniero nella sezione CDT (quindi sotto il controllo di un altro gruppo di guardie diverso da quello di prima). Dopo un po' di
giorni il prigioniero è stato convocato dal direttore, il comandante delle guardie, un medico, un educatore e psicologo che gli hanno
assicurato che queste angherie sarebbero finite, che avrebbero preso i provvedimenti del caso e dicendogli di non fare menzione di questa
storia con nessuno. Osvaldo lo ha raccontato a me. La sua storia è finita in maniera tragica, Osvaldo si “sarebbe” suicidato tra il 10 e
il 12 Aprile scorsi, tagliandosi la gola con una lametta. Sarà possibile un cambio di situazione, riusciremo a non perdere la nostra
incolumità, la nostra salute, la nostra dignità?Certo non con l’aiuto dell’area educativa e quella sanitaria, che succubi se non complici
di tutte queste schifezze che avvengono nel carcere di Uta, e non sarà neanche possibile con “l’equilibrato” comportamento del direttore,
stante la totale copertura che lui da all’area securitaria del carcere, e non aspettiamoci nulla di buono neanche da parte del tribunale
di sorveglianza di Cagliari, che con la sua furia giustizialista ha un comportamento omissivo sulle bestialità commesse dai secondini di
Uta, nonché un comportamento notarile sulle varie richieste di attenuazione della custodia in carcere. L’unica ancora di salvezza che
abbiamo noi prigioniere/i sta nella nostra unione e solidarietà, e nella denuncia sistematica verso l’esterno di tali problematiche,
saltando il filtro della burocrazia carceraria.
Un prigioniero del carcere di Uta maggio 2021
17 maggio 2021, da maistrali.it
Contro i licenziamenti superare le divisioni
E’ proprio una calda estate… non certamente dal solo punto di vista meteorologico, ma per quanto riguarda l’occupazione, lo sblocco dei
licenziamenti, l’offensiva padronale contro tutta la classe i cui effetti abbiamo davanti.
1 luglio 2021: 153 lavoratori sono stati licenziati alla Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto (MB), il 9 luglio alla GKN di Firenze altri
450 hanno trovato i cancelli della fabbrica sbarrati e la notizia della chiusura con effetto immediato. La notizia è stata comunicata con
una mail, nel più totale disprezzo per le vite e il futuro dei lavoratori e delle loro famiglie, il metodo preferito dell’era digitale
Draghi. Questa è la violenza dello Stato borghese che si va a sommare al tentativo di fermare le lotte, reprimendo i lavoratori davanti ai
cancelli attraverso fogli di via, ricatti sul permesso di soggiorno, denunce o per manu militare (come alla Texprint di Prato, alla FedEx
e con l’assassinio di Adil) esercitata non solo da polizia e carabinieri ma utilizzando squadre di bodyguard al soldo dei padroni, fino
ad arrivare all’assassinio del compagno del SI Cobas, Adil durante un picchetto davanti alla Lidl di Biandrate (NO); la stessa violenza
che esercita attraverso lo sblocco degli sfratti che inasprirà le già precarie condizioni di vita dei proletari, degli immigrati per
favorire ed incrementare speculazioni e il mercato dei grandi gruppi immobiliari, per arrivare a procedimenti come quello a carico di
Eduardo Sorge, sindacalista del Si Cobas di Napoli, accusato di associazione a delinquere, per il suo noto e riconosciuto impegno
militante.
Per far fronte a questo quadro complessivo diverse sono le sigle del sindacalismo conflittuale che si stanno raggruppando, dal patto
d’azione per il fronte unico anticapitalista al Coordinamento lavoratori/trici Autoconvocati/e (CLA) e alla recente proposta di una
costituente del sindacalismo di classe. Di seguito riportiamo il testo di indizione dell’assemblea dei lavoratori combattivi a Bologna
dell’11 luglio 2021 del SI Cobas nazionale che ripercorre alcuni passaggi di questi ultimi mesi e il resoconto di un incontro fra gli
operai della Stellantis.
Le intense giornate di sciopero e di mobilitazione di piazza di venerdì 18 e sabato 19 giugno, l’immediata, larga reazione all’assassinio
del nostro compagno Adil Belakhdim, hanno dato ulteriore slancio alla proposta di arrivare, nei tempi necessari, ad un grande sciopero
generale contro i licenziamenti, contro la repressione, contro Confindustria e il governo Draghi – una proposta già avanzata
dall’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi e da altri consessi. La forza propulsiva di questa iniziativa viene dalle
realtà operaie e proletarie in lotta, grandi e piccole, in primo luogo dalle lotte della logistica e dei trasporti. E l’abbiamo vista
positivamente in azione nei giorni scorsi nello sciopero del 18 giugno, diventato lo sciopero dell’intero sindacalismo di base (Usb, Adl,
Cub e Slai Cobas – una cosa del genere non accadeva da anni), proprio sotto la spinta della strenua resistenza dei licenziati FedEx di
Piacenza e dei lavoratori TNT-FedEX organizzati con noi. Dopo l’uccisione di Adil e le aggressioni di stampo mafioso/squadristico ordite
da FedEx-Zampieri a san Giuliano Milanese e Tavazzano, avvenute tutte sotto la protezione delle “forze dell’ordine”, dopo una sequenza di
azioni repressive ad esse paragonabili (compiute anche dalla magistratura), l’organizzazione dello sciopero generale ha assunto anche un
evidente significato di denuncia del ruolo svolto dal governo Draghi nel processo di strisciante messa fuori legge dello sciopero – in
modo sostanziale o, nella logistica, in modo formale con il ricorso all’art. 146. Su impulso di queste e altre lotte proletarie (nei porti
e all’Alitalia ad esempio), e territoriali (con la ripresa della mobilitazione del movimento No Tav e le proteste per il diritto
all’abitare), possiamo puntare ad allargare il perimetro della preparazione dello sciopero generale molto al di là del settore logistica e
trasporti. Oltre a coinvolgere la più vasta area possibile del sindacalismo “di base”, l’organizzazione di questo sciopero dovrà
raggiungere i tanti/e iscritti ai sindacati confederali sconcertati e scontenti per la politica di subordinazione ai padroni e al governo
di Cgil-Cisl-Uil, e i tantissimi/e giovani senza sindacato, precari, disoccupati. A consentirlo sono proprio gli attacchi in gestazione
dell’asse padronato/governo, per quanto Draghi&Co. stiano facendo un’incredibile demagogia sulla “ripartenza” – mentre già ci sono i segni
sanitari, economici e politici che la mettono in discussione. Nell’assemblea dell’11 luglio dovremo affrontare di petto le questioni che
il padronato e il governo Draghi hanno messo all’odg per i prossimi mesi: i licenziamenti di massa dei tempi indeterminati, l’attacco al
diritto di sciopero e – più in generale – la sistematica repressione delle lotte, la liberalizzazione degli appalti e dei sub-appalti, la
riforma degli ammortizzatori sociali, l’assegno unico familiare, il contratto di scivolamento, lo “smart working” e la didattica a
distanza, l’impatto sull’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e la riduzione dei posti di lavoro dell’industria 4.0. Dovremo
nello stesso tempo denunciare che l’attenuazione della pandemia sta servendo non a mettere in discussione le politiche di smantellamento
della sanità pubblica e territoriale, ma al contrario all’ulteriore espansione della sanità privata e della commercializzazione del bene-
salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Quale che sia la durata e la portata della “ripresa”, è certo l’aumento della
disoccupazione e di una precarietà che si acuisce passando dai contratti a termine al lavoro intermittente e a forme crescenti di lavoro
totalmente gratuito. Ciò rende l’esperienza di lotta dei disoccupati di Napoli una fonte a cui attingere per le iniziative di resistenza e
organizzazione di precari, intermittenti e disoccupati a scala nazionale. La messa a fuoco di queste tematiche da un punto di vista di
classe, fatta con l’apporto di quanti hanno studiato a fondo le questioni, serve anche per contrastare le declamazioni e le false
soluzioni avanzate da Cgil-Cisl-Uil, capaci – tutt’al più – di ridurre in modo contingente i danni gettando, però, le premesse di danni
ancora maggiori, nella misura in cui favoriscono il radicamento nei proletari di una mentalità aziendalista, concorrenziale e, spesso,
razzista. Un’analisi approfondita della “politica sociale” anti-proletaria del governo Draghi e dell’Unione europea, sul modello di quanto
abbiamo fatto nell’assemblea del 17 aprile in materia di autodifesa della salute, è indispensabile per fissare su basi solide una nostra
piattaforma di rivendicazioni immediate che si contrapponga all’attacco padronale-governativo in atto. Questa piattaforma non può non
avere al primo punto il principio “il posto di lavoro non si tocca, lo difenderemo con la lotta” – che esprime il rifiuto operaio e
proletario di giustificare qualsiasi licenziamento – e la rivendicazione del salario medio operaio garantito a tutti i/le precari/e e
disoccupati/e, finanziato con l’aumento delle imposte su profitti e rendite, ora inferiori a quelle sui salari. In questo anno e mezzo di
crisi pandemica, abbiamo visto da un lato la crescita della disoccupazione, dall’altro l’intensificazione dello sfruttamento nei luoghi di
lavoro certificato dall’aumento dei morti sul lavoro: a fronte di questa doppia, intollerabile distruzione delle energie vitali della
classe lavoratrice, siamo chiamati a rimettere in campo, con forza, l’obiettivo della riduzione generale e drastica dell’orario di lavoro
a parità di salario, nella prospettiva di ridurre il tempo di lavoro sociale al solo lavoro socialmente necessario. E a fronte di un’area
crescente di lavori scandalosamente sottopagati e della continua erosione del potere di acquisto dei salari, ci sembra urgente
l’introduzione di un salario di sussistenza non inferiore al salario medio operaio garantito, e di una indicizzazione dei salari. L’azione
di contrasto alla repressione delle lotte e all’attacco al diritto di sciopero che è conquistato con grandissimi sacrifici dal
proletariato, comporta, per noi, la lotta per l’abolizione dei decreti-Salvini, degli altri decreti-sicurezza e di tutta la legislazione
anti-sciopero. Questo è il nostro orientamento di massima, fermo restando, però, che il nostro invito è un invito a discutere nel merito
questi e altri punti, in un confronto che deve servire a realizzare la partecipazione attiva più ampia possibile alla preparazione dello
sciopero, con l’obiettivo comune di favorire la ripresa delle lotte e la ricomposizione del fronte di classe. Dobbiamo coinvolgere in
pieno le lavoratrici, i lavoratori e i compagni/e che già oggi si riconoscono in questo nostro appello, e gli altri/e che si vorranno far
coinvolgere, e rivolgerci con argomenti forti e chiari, fondati su fatti precisi e circostanziati, alla massa della classe lavoratrice con
un’attività di agitazione e di propaganda svolta sulla scala più larga possibile. Anche nelle scuole, con la loro prevista riapertura,
potremo trovare anzitutto nei figli della classe lavoratrice gli interlocutori naturali di questa prospettiva di lotta anti-capitalista.
La critica delle “politiche sociali” e sanitarie anti-proletarie del governo Draghi va insieme alla critica della sua azione nelle altre
materie (politica estera sempre più marcata in senso militarista, immigrazione, repressione, falso ambientalismo, etc.) e alla denuncia
degli indirizzi politici dell’Unione europea che se da un lato si presenta in modo mistificatorio come quella che ha aperto i cordoni
della borsa (aumentando il debito di stato), dall’altro già predispone il trasferimento di questo incremento del debito sulle nostre
spalle. Il governo Draghi e il governo dell’Unione europea sono composti di professionisti della divisione dei ranghi della nostra
classe, per cui non è il caso di illuderci che ci regaleranno le condizioni ideali per l’unità del nostro campo. Proprio perché, al di là
dell’ottimismo di facciata che oggi deborda, sanno bene che ci attendono tempi tempestosi, la loro azione, pur dovendo essere ferocemente
anti-proletaria, sarà ispirata all’obiettivo di dividere la classe e isolare l’avanguardia dalla massa. Per questo i proletari immigrati
restano il loro primo bersaglio, e la demagogia che fanno intorno alle donne e ai giovani, i più colpiti dall’uso capitalistico della
crisi, serve comunque a ostacolarne la mobilitazione intorno alla componente più organizzata della classe. Per noi l’assemblea dell’11
luglio, da tenere in presenza nella città di Bologna, è il primo passo del percorso verso l’organizzazione dello sciopero generale, a cui
ne dovranno seguire altri, dedicati alla vitale dimensione internazionale della nostra iniziativa e all’azione di contrasto, sempre più
urgente, alla repressione padronale e statale. Guardiamo avanti, convinti delle iniziative prese in questo anno di capitalismo pandemico,
e determinati ad andare oltre, molto oltre, vincendo la forza di inerzia del particolarismo e dello spirito minoritario. Ci auguriamo,
perciò, che questo nostro invito trovi la più larga adesione possibile. Per parte nostra siamo già al lavoro.
Domenica 11 luglio 2021 Assemblea nazionale a Bologna Ore 10,30- Sala Dumbo, via Casarini 19.
***
Sabato 22 maggio si è tenuta un'importante videoconferenza di operai Stellantis e indotti. Un incontro a cui hanno partecipato operai
Stellantis di Pomigliano, Termoli, Melfi, Cassino, Mirafiori, della Sevel di Atessa, degli indotti della Gkn di Firenze, di Melfi, di
Cassino, la testimonianza di compagni di Termini Imerese e della Piaggio di Pontedera, ed altri ancora. Un confronto durato quattro ore,
con più di venti interventi e la partecipazione di molti operai. Le testimonianze da tutti i luoghi di lavoro hanno confermato quanto la
destrutturazione messa in atto da Stellantis coinvolga ogni realtà produttiva. Non c'è un solo stabilimento che non stia pagando un prezzo
altissimo in termini di ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro e perdita salariale. Un futuro vicino messo pesantemente in
discussione, di questo ne hanno contezza innanzitutto i diretti interessati, i quali hanno ribadito la volontà di disinnescare ogni forma
di guerra tra stabilimenti, utile soltanto al padrone per dividere ed indebolire gli operai. Nessuno può pensare di salvarsi da solo,
ancora peggio pensare di salvarsi con il principio della "vita mea mors tua". Ed è partendo dalla consapevolezza che bisogna agire in
fretta che gli operai si stanno organizzando, anche tramite incontri come quello di sabato. Operai giovani e meno giovani hanno preso la
parola per descrivere quello che sta accadendo nei vari siti Stellantis. Da chi oggi si avvicina alla lotta per il mantenimento del posto
di lavoro è arrivato un appello all'unità degli operai, a prescindere dall'appartenenza sindacale e non.
Da Melfi a Pomigliano sono molti i ragazzi che concretamente stanno dando il loro contributo alla causa operaia, con la convinzione che le
esperienze di anni di lotta dei colleghi più esperti abbinata all'energia dei più giovani sia la ricetta giusta per arrestare il progetto
" lacrime e sangue" voluto dai vertici Stellantis. I contributi degli operai della Gkn e della Piaggio sono serviti a tracciare un
possibile percorso anche negli altri luoghi di lavoro, le loro testimonianze, con esempi concreti di lotte vincenti, sono la dimostrazione
di come partendo dall'unità dal basso si possano ottenere importanti risultati. Tutti hanno manifestato la volontà di avviare un percorso
di confronto che non si fermi alla sola videoconferenza di sabato, per questo si è deciso di organizzare un prossimo appuntamento,
possibilmente in presenza, da tenere nel mese di Giugno. Un occasione, la prossima, per definire eventuali azioni da mettere in campo
unitariamente, su obbiettivi comuni, in tutti gli stabilimenti Stellantis italiani. Un percorso, quello che attende gli operai Stellantis
e indotti estremamente complicato e duro, di questo tutti i partecipanti ne sono ben consci, ma oggi più che mai c'è la volontà e
necessità di agire. Agire con la consapevolezza che occorre lavorare per costruire un legame con la maggioranza degli operai in ciascuno
stabilimento, contrastando innanzitutto chiunque cerchi di tenere in piedi quegli steccati sindacali di bandiera che da sempre li hanno
divisi ed indeboliti.
Lunedì, 24 Maggio 2021. Operai Stellantis ed indotti in Italia
Stop al blocco degli sfratti: l'emergenza abitativa a milano
Dal 1° luglio è iniziata la prima delle tre fasi dello stop al blocco degli sfratti. La decisione del governo minaccia di trasformarsi in
un’emergenza sociale, ma le autorità locali continuano a gestire la situazione solo con strumenti punitivi
Con il ritirarsi della pandemia e la conversione in legge del decreto Sostegni è arrivato anche il via libera agli sfratti. La fine del
mese di giugno ha corrisposto alla fine del blocco dei licenziamenti, che è stato al centro di una dura contesa sociale tra il governo —
che ha sostanzialmente rappresentato Confindustria — e i sindacati. La fine blocco dei licenziamenti è stata giustamente definita da più
parti come “una bomba sociale,” mentre la fine del blocco degli sfratti, nonostante possa avere conseguenze gravi sulle condizioni di vita
di chi ne sarà colpito, è rimasto alla periferia del dibattito pubblico.
Le esecuzioni degli sfratti saranno divise in tre scaglioni: già dal 1° luglio sono tornati attuabili le richieste di sfratto depositate
prima del 28 febbraio 2020, ovvero prima dell’inizio della pandemia. Il secondo scaglione di sfratti attuabili partirà il 1° di ottobre e
riguarderà le richieste depositate dai proprietari dal 28 febbraio al 30 settembre 2020. L’ultimo blocco partirà dal 1° gennaio del
prossimo anno e renderà attuabili le richieste di sfratto depositate nell’ultima fase della pandemia, dal 1° ottobre 2020 al 30 giugno
2021.
Come riporta il Fatto Quotidiano, l’Unione inquilini ritiene che la situazione “rischia di diventare una vera e propria emergenza nel
corso dei prossimi 12 mesi.” Secondo la segretaria romana dell’Unione, Silvia Paoluzzi, “nella sola capitale ci sono state 50mila
richieste di contributo affitto Covid e che secondo il Tribunale di Roma, fino a settembre 2020, in media sono state depositate 500
richieste di sfratto a settimana.” Bisogna osservare che in realtà, nonostante il blocco degli sfratti, sono state effettuate anche
durante la pandemia operazioni di sgombero quantomeno controverse, come lo sgombero in forze di polizia di una palazzina occupata a
Milano, in piazzale Cuoco, a luglio del 2020.
Anche a Milano infatti la situazione abitativa è grave, e il sollevamento del blocco degli sfratti rischia di portare a una nuova ondata
di sgomberi oltre a quelli sommersi che sono avvenuti dall’insorgere della pandemia a oggi. L’ultimo si è verificato un paio di settimane
fa in Via Iglesias, lungo il naviglio della Martesana. Dopo tre anni di occupazione, dall’ex fabbrica al numero 27 vengono allontanate una
cinquantina di persone, 7 famiglie con bambini e diversi lavoratori precari. Come spesso accade, lo sgombero è stato messo in atto senza
tenere conto né delle condizioni delle famiglie sgomberate né della realtà costruita dagli occupanti nel corso degli anni.
“Si trattava di una palazzina che versava in stato di abbandono estremo da anni. Con l’impegno degli occupanti è stata recuperata e
riqualificata, dando un tetto a persone che vivevano in strada. Con loro questo posto ha ripreso a vivere, quattro bambini sono nati
durante l’occupazione,” ha dichiarato la rete solidale Ci Siamo, che ha accompagnato il gruppo molto unito di abitanti di Via Iglesias in
un percorso iniziato in realtà con altre occupazioni precedenti, l’ultima quella di Via Palmanova terminata nel 2018.
Dal momento dello sgombero, avvenuto il 24 giugno — dunque, anche in questo caso, prima dell’effettivo termine del blocco degli sfratti —
alcuni nuclei familiari sono stati ospitati tramite il comune al Koala Hostel, dietro Piazzale Loreto. I disagi però sono quotidiani:
“Vivere in 6, con quattro bambini, in una stanza d’ostello senza modo di muoversi, cucinare o lavare i vestiti è terribile. La situazione
è temporanea, ma il Comune deve darci in fretta un’altra soluzione che ci permetta di vivere con dignità” racconta una degli ex occupanti.
Da due settimane il gruppo si organizza in riunioni all’aperto che avvengono nella piazzetta di Via Liscate, accanto all’ex fabbrica
dietro la Martesana, o in due delle altre occupazioni in zona che stanno ospitando i senza casa, come quella di Via Esterle e la ex San
Carlo in zona Udine, a pochi chilometri da via Iglesias.
L’ex San Carlo è un’occupazione recente, figlia della pandemia, dove convivono stranieri e italiani che collaborano per rendere abitabile
uno stabilimento che come molti altri versa in stato di abbandono da anni. Dal 24 giugno, il giorno dello sgombero, si sono susseguiti
sit-in di protesta e riunioni in varie zone della città, tra la prefettura di Milano, Palazzo Marino e le periferie. Ma ancora non è
chiaro quale sarà il destino di queste 50 persone, nuovamente senza casa in un momento come quello che viviamo, che accentua e esaspera
ogni fragilità spesso fino alla disperazione: “Ancora una volta si preferisce spostare il problema piuttosto che trovare soluzioni
abitative per una comunità integrata nel territorio”, dichiara inoltre Ci Siamo, “Una comunità di famiglie e lavoratori che fanno parte
del tessuto produttivo di questa città. Ci sta bene che curino i nostri anziani nelle cliniche, che raccolgano frutta e ortaggi nei nostri
campi o che facciano le pulizie nei condomini, purché la notte poi scompaiano perché non c’è posto per loro in questa città.”
È fondamentale notare che trovare un posto dove stare per queste persone non significa ridare loro dignità. Aler e comune di Milano ad
esempio hanno trovato la scorsa settimana un’intesa per le persone fragili e sgomberate, firmando un protocollo per individuare strutture
per famiglie e individui in stato di necessità che occupano case popolari e sono dunque soggette a procedure di sgombero. Ovviamente non
verrà dato loro uno dei molti alloggi popolari ancora vuoti a Milano, ma verranno individuate e adattate strutture che consentiranno di
vivere in una sola casa a più famiglie, in condizioni più punitive rispetto a una casa popolare — secondo quanto riporta Fanpage,
“l’Amministrazione darà precedenza alle case che potranno dar la possibilità di costruire dei piccoli hub con servizi igienici e cucina da
condividere e delle stanze da letto riservate poi a ciascuna famiglia.”
L’emergenza abitativa, come molte altre cose, è stata inasprita dalla pandemia, che ha acutizzato le disuguaglianze sociali nel paese. Non
è un mistero che la pandemia e il lockdown abbiano avuto effetti gravi sul reddito e il tenore di vita soprattutto delle fasce sociali più
svantaggiate. Secondo dati Istat diffusi lo scorso 16 giugno, la povertà assoluta in Italia riguarda poco più di 2 milioni di famiglie e
5,6 milioni di individui — rispettivamente il 7,7% e il 9,4% del totale — in aumento di un milione rispetto al 2019: è il livello più
elevato dall’anno in cui sono iniziate le serie storiche, il 2005. Se si considera invece la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia
sono poco più di 2,6 milioni, in lieve diminuzione dal 2019, il 10,1% del totale.
Ovviamente la povertà non colpisce tutti allo stesso modo: l’incidenza è nettamente superiore tra gli stranieri (29,3% contro 7,5% dei
cittadini italiani), tra le famiglie con un maggior numero di componenti e tra le famiglie monogenitoriali, che registrano il
peggioramento più marcato dal 2019. A dimostrazione che l’Italia è un paese fondato sul welfare “informale” delle persone più anziane e
ostile al lavoro giovanile, la povertà familiare diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento: riguarda il 10,3% delle
famiglie con una persona di riferimento tra i 18 e i 34, il 5,3% di quelle con una persona di riferimento oltre i 64 anni. Le famiglie con
minori in povertà assoluta sono oltre 767 mila: in totale, 1 milione e 337 mila minori, il 13,5% del totale.
Nonostante l’evidente gravità della situazione, i sussidi a sostegno delle famiglie e dei cittadini più poveri e in generale tutto ciò che
è assistenza statale sono da mesi sotto l’attacco costante di una campagna di stampa che ignora sistematicamente il problema dei bassi
salari, della precarietà dei contratti e dell’irregolarità diffusa in questi settori, e porta all’attenzione del grande pubblico
prevalentemente gli interessi dei padroni. Anche il blocco degli sfratti non fa eccezione: il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani
Testa, ha commentato lo “scaglionamento” del blocco degli sfratti — ritenendolo un’ingiustizia verso i poveri proprietari — con parole
piuttosto oscure ma molto livorose: Il blocco dei licenziamenti – a carico dello Stato – si avvia alla conclusione. Quello degli sfratti –
a carico dei proprietari, senza reddito da almeno due anni e senza risarcimenti – è stato appena prorogato al 30 settembre e al 31
dicembre.
5 luglio 2021, da thesubmarine.it
***
Sullo sgombero della Foa Boccaccio 003 a Monza
Il 13 luglio 2021, l’occupazione di via Rosmini 11 è stata sgomberata dalle forze dell’ordine. Lasciamo questo luogo con molta rabbia:
eravamo consapevoli e pronte/i da tempo ad affrontare questo momento e rilanciare la sfida.
Dai primi del 2000, siamo già passati attraverso una decina di sgomberi. Uno sgombero è solo un contrattempo tra un’occupazione e quella
successiva. E quello di oggi non diminuisce la nostra forza: la forza di un collettivo numeroso e deciso, con alle spalle due decenni di
esperienze e lotte, dentro un’ampia collettività di individui e spazi complici e solidali. Sono molte le lotte e i percorsi a cui abbiamo
dato vita fuori e dentro lo spazio della Foa Boccaccio, nel tentativo di sperimentare altri modi di vivere, oltre casa e lavoro, famiglia
e produzione.
Oggi veniamo allontanate/i da un luogo che abbiamo occupato 10 anni fa quando era solo la carcassa di un vecchio centro sportivo in stato
di abbandono, riempiendolo nel tempo di progetti, idee, affetti e vita.
Chi ci allontana da qui ha nome e cognome: la sede monzese del Club Alpino Italiano e il locale Moss, con l’immancabile sostegno della
Questura di Monza.
Al posto della Foa Boccaccio, sorgerà la “Casa della Montagna” (o Quota 162), con annesso ristorante e maxi parcheggio. L’ennesima colata
di cemento a distruggere un luogo che in questi dieci anni abbiamo fatto vivere tra assemblee, concerti, festival, sport popolare,
autoproduzioni, lotte e progetti di solidarietà.
Ma è in realtà tutta la città di Monza che si riempirà di palazzi, parcheggi e infrastrutture: come documentiamo da mesi, molti sono i
quartieri coinvolti in processi di riqualificazione che muoveranno ingenti somme di denaro e diverse tonnellate di cemento. Una città
fatta di quartieri dormitorio, appartamenti di lusso e telecamere a ogni angolo. Sono questi gli orizzonti che ci apre la variante al PGT,
che la giunta Allevi sta approvando proprio in questo periodo. Dentro città sempre più costose, inaccessibili e controllate, c’è ancora
più bisogno di uno spazio autogestito e liberato: un bisogno che è desiderio e volontà politica.
Da 20 anni siamo la FOA Boccaccio 003 e lo saremo ancora. Non vi lasceremo in pace.
Al termine di un partecipassimo corteo che ha visto oltre 500 persone sfilare per le strade di Monza in risposta allo sgombero di Via
Rosmini 11, la FOA Boccaccio 003 ha occupato uno stabile abbandonato in via Timavo 12, dove fin da subito sarà data continuità
all’attività del centro sociale monzese.
Da un insegnante di una scuola della periferia milanese
Tempo fa arrivava sulla mail della scuola una circolare che invitava a informarsi sui danni arrecati dalle onde elettromagnetiche emesse
dai device digitali, ormai in uso durante lo studio da ogni alunno e insegnante. La comunicazione rimandava a link della regione Lombardia
che riportano testuali parole: “I dispositivi mobili di comunicazione come smartphone, tablet e pc connessi in wi-fi (se accesi e in
funzionamento: nelle telefonate, in fase di upload/download di dati, in chat, nella messaggistica), ma anche i telefoni cordless (senza
filo) utilizzano segnali a radiofrequenza (RF – onde radio). L’intensità di queste radiazioni può aumentare durante l’utilizzo degli
apparecchi anche in funzione della buona copertura della rete di Stazioni Radio Base (antenne fisse a supporto della telefonia mobile).
Smartphone, tablet e pc portatili, ci sono rischi per la salute? Il wifi è sicuro per la salute? Ci sono rischi? Comportamenti di
prudenza…”
Anche se la scienza non perde occasione per smentire connessioni dirette tra malattie gravi ed esposizioni prolungate a onde radio, circa
un anno fa la Corte d’appello di Torino confermava la condanna della Telecom per aver procurato un cancro al timpano a un suo dipendente
che trascorreva, per lavoro, in media 4 ore al giorno con il cellulare all’orecchio, adducendo “un nesso tra la prolungata e cospicua
esposizione lavorativa a radiofrequenza emesse da telefono cellulare e la malattia denunciata".
Quindi, se la scienza disincentiva comportamenti a rischio, la scuola educa a più sane condotte e la Giustizia bolla come dannose
determinate abitudini, che le onde elettromagnetiche siano nocive per la salute, soprattutto in dosi massicce, dovrebbe essere un dato
appurato. La prima domanda che sovviene, di tipo morale, è: ma se la tecnologia fa male perché ce la propinate? Risposta: potrebbe essere
che, in tempi di neopositivismo, qualche vittima, vedi vaccini, assurgerebbe a martire sacrificale, necessaria per spalancarci le porte
al glorioso futuro transumano che ci attende.
Altro quesito, questa volta attinente al piano della realtà: non vi siete accorti della contraddizione di aver imposto a svariati milioni
di insegnanti e alunni circa 6 ore medie consecutive al giorno di lezioni al pc, mentre ora, passata l’emergenza Covid, ci state dicendo
che troppo tempo al computer fa male? Motiverete voi che gli ultimi due anni non sono stati altro che un massivo corso di formazione
tecnologico su vasta scala, grazie al quale ci siamo definitivamente svecchiati da modelli culturali espressione di un ormai antiquato
immobilismo culturale. Quindi dovremmo interpretare che siamo finalmente pronti a dare la giusta lettura a informative che pongono dubbi e
critiche all’equazione tecnologia/progresso? Morale: nessun ripensamento, il corto circuito è solo apparente? Dovete capire, direte voi,
che, secondo le regole del pluralismo democratico, siamo informati su tutto di tutto, sulla nostra buona e cattiva sorte, il progresso
scientifico è oggettivo, la scienza non giudica. Il progresso, insisterete voi, passa anche sotto la lente di ingrandimento dell’excursus
storico. Non diamo niente per scontato noi, neanche dal punto di vista delle scienze sociali, d’altronde la Storia è anch’essa una
disciplina scientifica. In questa direzione è da leggere la strategia subliminale delle forze liberal-progressiste del paese, leggi del
sindaco Sala e Milano per rimanere in territorio lombardo, di sponsorizzare la green economy, attraverso cui i soliti noti colossi
industriali si stanno cambiando i connotati: da brutti, sporchi e cattivi per colpa del petrolio nel XX secolo, a belli, puliti e buoni
per aver scelto le rinnovabili nel terzo millennio. Ma come, il wi-fi provoca tumori! Eh, però il pc funziona grazie all’eolico. La
confusione è servita. La confusione è “libertà”. Ti dico tutto e il contrario di tutto. Mi stanno ammazzando, per migliorare me e il
mondo, e me lo stanno dicendo. Ora sono consapevole. Mi sento finalmente bene, con me stesso e con gli altri.
Sesto San Giovanni (Mi), 28 giugno 2021