indice n.147
dai campi di internamento per immigrati
in ricordo di sante notarnicola
LETTERE DAL CARCERE DI BUSTO ARSIZIO (VA)
LETTERe DAL CARCERE di TORINo
LETTERA DAL CARCERE di GENOVA
A Genova, lavoratori portuali nel mirino della procura
Sardegna: appello delle madri di 45 militanti anti-militaristi
Lecce: processo No Tap, aggiornamenti e qualche riflessione
Solidarietà al movimento No Tav dai paesi baschi
LETTERE DAL CARCERE DI REGGIO EMILIA
LETTERE DAL CARCERE DI MILANO-OPERA
NOTIZIE DALLE CARCERI
DOVE STA ANDANDO LA SCUOLA PUBBLICA?
NO AL CONTRATTO PILOTA DI JUST EAT
Per il Tribunale di Milano uccidere i lavoratori non è reato
dai campi di internamento per immigrati
Morti sospette nei Cpr. Cinque morti sospette negli ultimi due anni all’interno dei
Cpr. Condizioni materiali e sanitarie indecenti. Numerosi fatti di violenza. Le
proteste e le ribellioni degli ospiti. Il Garante dei detenuti accusa, il Viminale
rassicura. Vakhtang Enukidze, un cittadino georgiano di 38 anni è deceduto
all’ospedale di Gorizia il 18 gennaio 2020. In seguito a una rissa scoppiata
all’interno della struttura di Gradisca D’Isonzo, era stato portato prima in carcere
e, dopo un giorno e mezzo di reclusione, di nuovo all’interno del Centro per i
rimpatri. Dentro aveva ripreso a star male e, successivamente, era stato trasferito in
ospedale, dove il 18 gennaio era deceduto. Sei mesi dopo, il 14 luglio, un altro
decesso avviene all’interno di Gradisca d’Isonzo. Si tratta di un cittadino albanese
che vi era entrato soltanto sei giorni prima, viene trovato riverso in stato di
incoscienza all’interno della cella di isolamento. L’estate precedente era stata la
volta di Harry, ventenne nigeriano con disturbi psichiatrici che si era tolto la vita
impiccandosi all’interno del Cpr di Brindisi-Restinco. E ancora: un cittadino
bengalese di 32 anni fu trovato morto negli stessi giorni “per cause naturali” dopo
aver trascorso 15 giorni in isolamento nel Cpr di Corso Brunelleschi, a Torino.
Infine, Aymen, un cittadino tunisino di 32 anni anche lui morto per cause naturali,
come aveva stabilito il medico legale che lo aveva visitato dopo il decesso avvenuto
all’interno del Cpr di Caltanissetta il 12 gennaio del 2020. (Da Osservatorio
repressione)
Sciopero della fame sulla nave quarantena gnv a Lampedusa. Alcune persone recluse
sulla nave quarantena GNV a Lampedusa (che hanno anche rilasciato una testimonianza
video) il 4 aprile hanno annunciato di essere in sciopero della fame contro le
deportazioni e contro le condizioni di detenzione a cui sono costrette. A un anno
dall'istituzione di queste prigioni galleggianti, ancora centinaia di persone sono lì
recluse. In un anno sono morte tre persone, durante la detenzione a bordo della nave o
in ospedale dopo essere state ricoverate d'urgenza. Le proteste e le resistenze a
bordo delle navi sono state tante e continue, ma spesso rimaste senza voce. Di seguito
la traduzione del video: “Qui abbiamo un fratello che si chiama Abdu, lo stanno
obbligando alla nutrizione forzata mentre sta facendo lo sciopero della fame. Stiamo
facendo lo sciopero della fame qui dentro per far sentire la nostra voce, ma la nostra
voce ancora non arriva. Stanno facendo affari su di noi, commerciano gli esseri umani
e ci stanno lasciando morire uno per uno come al nostro compagno lì dentro (Abdu).
Siamo bloccati qui in mare. Ci mettono sulle barche di deportazione, ci mandano ai
nostri paesi e così finisce perché nessuno sa niente. Il consolato tunisino che sta a
Palermo fa le pratiche per rendere possibili queste deportazioni, maledetto.
Quest’affare è un commercio di esseri umani e il consolato ci guadagna soldi. Tra
Tunisia e Italia c’è un accordo di 4.000 euro per ogni persona deportata, invece di
darli per le deportazioni perché non li date a noi? Il consolato tunisino a Palermo ci
vede in mare e invece di tirarci fuori si prende questi 4.000 euro, non gli importa di
noi. [...] A chi si occupa di diritti umani, ascoltateci perché abbiamo iniziato a
fare lo sciopero della fame ma finora non abbiamo avuto nessuna risposta. Oggi (4
aprile) siamo entrati in sciopero, uno sciopero selvaggio, lo continuiamo fino a che
non ci rilasciano e se ci porta anche a lasciarci morire lo faremo insieme. Siamo 17
qui sulla GNV […] Chi comanda sulla nave viene a bussarci alla porta per deportarci,
questa è una chiamata di emergenza, una richiesta di aiuto al consolato […], ai
rappresentanti del popolo, il popolo ci deve dare una possibilità. La gente qui muore
perché la nostra voce non arriva fuori. Siamo stanchi, stanchi, ci siamo stufati, non
ne possiamo più di questo paese (Tunisia) dove poi ci vogliono riportare. [Si nominano
vari personaggi]: Parlate di noi, non siamo terroristi siamo giovani che stanno
cercando un’opportunità. Tutte le notti dormiamo con la paura che entrino a prenderci
per le deportazioni. Da dieci giorni siamo chiusi qui dentro, in mezzo al mare, non
vediamo luce né acqua, non dormiamo la notte, parliamo e piangiamo […] la prossima
volta moriamo in mare: è responsabilità vostra, del governo e del consolato. Il nostro
compagno [indicando una stanza chiusa] da tre giorni non mangia né beve nulla [si apre
una porta di una cuccetta dove ci sono tre medici in camice verde attorno a un letto
che impediscono di filmare]. Perché c’è quest’accordo solo con la Tunisia? Guardate
cosa stanno facendo. Da dieci giorni siamo in mare senza luce né aria né niente, ci
sentiamo i capelli che cadono, sentiamo la puzza dei nostri corpi, respiriamo l’uno
sull’altro, ci manca l’aria. Neanche un pezzetto di sole abbiamo visto. La Tunisia è
un paese corrotto, il presidente Kais Saied vuole fare diventare anche noi dei
corrotti. Voi politici litigate tra di voi invece di risolvere i nostri problemi. È un
paese dove non si sono i diritti, se vieni deportato può succedere che ti portino
direttamente in carcere, quando arrivi in aeroporto dopo la deportazione ti prendono a
schiaffi, questo sarebbe il benvenuto di un paese dove si può rimanere? In Italia
dicono che i giovani tunisini non vogliono lavorare, è una storia falsa, non sanno
come si vive in Tunisia, diecimila franchi non li puoi avere e non servono a niente,
con quelli non puoi neanche mangiare. Anche se lavori non è abbastanza per vivere, se
vai a rubare ti mettono in carcere, se vai a pregare anche ti mettono in carcere. In
questo paese non abbiamo capito come si fa a vivere. Tunisi ha fatto accordi con
l’Italia, perché c’è questa divisione tra qualcuno che può rimanere e non viene
deportato e a noi ci deportano? Alcuni possono entrare anche solo col passaporto, ma
per noi tunisini non conta, se anche hai il passaporto non vale. Questo sciopero lo
portiamo avanti, se porta risultati bene, se no ci buttiamo nel mare insieme. [...]
Cosa vi abbiamo fatto, perché ci dovete deportare, se vogliamo tornare indietro ci
torniamo da soli. Da dieci giorni siamo qua nel mare e non vogliono fare nient’altro
che riportarci in Tunisia. Cosa abbiamo fatto finora, non ci lasciano nemmeno arrivare
in Sicilia, non vediamo il sole e siamo chiusi dentro queste gabbie. Vogliamo che
arrivi la nostra voce, lasciateci in pace, vogliamo arrivare e ognuno prenderà la sua
strada. Tanto non ci date da mangiare, non ci date da bere, non dovete mantenerci,
lasciateci che ognuno di noi è indipendente e si può arrangiare. Tanto non chiediamo
niente, ce ne stiamo andando perché in Tunisia la situazione è difficile, lasciateci
che riusciamo a uscirne così lasciamo più spazio alla gente che rimane a vivere e
lavorare in Tunisia. Ognuno di noi [indicando i suoi compagni] può dire qualcosa, i
nostri cuori sono pieni e di notte non dormiamo. Siamo stanchi, stanchi, perché non ci
lasciate, siamo dentro un carcere, guarda la nostra condizione. dove sono i fratelli
tunisini che hanno i documenti, che possono aiutarci e che non stanno facendo nulla?
Il comandante italiano ci ha detto ‘l’Italia ha accordi con la Tunisia quindi vi
portiamo indietro’. Per ognuno che viene riportato indietro il consolato si prende i
soldi che ti danno come risarcimento normalmente per sostenerti quando ti deportano, i
soldi dovrebbero essere per chi è deportato ma il governo se li prende. Abbiamo
lavorato ma non siamo riusciti ad avere una stabilità. Non abbiamo trovato la nostra
fortuna là e proviamo a trovarla qua. Abbiamo passato il mare e non siamo morti, siamo
arrivati, siamo venuti in una barca che era a pezzi, eravamo nelle mani di dio.
Sentite il nostro peso, siamo esseri umani come voi, abbiamo cuore e fegato. Siamo
arrivati qui, fateci uscire. Kais Saied e deputati dovete cancellare gli accordi, così
non ci deportano. Uno lavora e fa tutto per arrivare, voi lo portate indietro. Io ho
lavorato sette mesi Ci hanno portato venerdì scorso in Sicilia ad Augusta, abbiamo
voluto fare uno sciopero pacifico, non abbiamo rotto niente e ci hanno portato in
mezzo al mare. La barca della GNV da Lampedusa ci ha messi in mezzo al mare tra la
Sicilia e Lampedusa La volta scorsa stavamo in mezzo al mare da due giorni, e quando
sono arrivati pensavano che fossimo morti. Siamo tunisini vogliamo vivere, vogliamo
migliorare la nostra vita, ognuno ha la sua situazione, ognuno ha la sua storia, chi
aiuta i suoi fratelli, chi aiuta la sua famiglia, chi vuole tornare e sposarsi con la
sua fidanzata, non siamo arrivati al paradiso, sappiamo qual’è la situazione che ci
aspetta […] Ci siamo stufati della situazione. Dateci una possibilità in questa vita,
siamo scappati da là e ci state ostacolando, cosa vi abbiamo fatto. Non stiamo
chiedendo niente al nostro paese se non i nostri diritti di movimento. C’è gente che
ha provato a venire tre o quattro volte, lo ributtano in Tunisia e non ha più
possibilità. (Da Comitato Lavoratori delle Campagne)
18 aprile. Contro tutti i Cpr: presidio a Gradisca. Il Cpr di Gradisca –
precedentemente noto come Cpt e Cie – ha riaperto il 17 dicembre 2019. Un mese dopo,
colpito dalle botte di otto membri delle forze dell’ordine, lì dentro è morto Vakhtang
Enukidze, che era nato in Georgia e aveva 38 anni. Tra le varie versioni di quello che
è successo nelle ore che hanno preceduto la morte di Vakhtang, noi abbiamo subito
creduto e diffuso quella dei suoi compagni di prigionia, che, in cambio della loro
testimonianza, hanno ricevuto dallo Stato italiano un decreto di espulsione e sono
stati immediatamente deportati nei Paesi di provenienza. Dopo altri due mesi, a
Gradisca e nei territori circostanti cominciava un confinamento sociale per ragioni
sociosanitarie, che – tra le altre cose – ha trasformato de facto il centro di
accoglienza (Cara) a fianco del Cpr in un altro Cpr, o campo d’internamento.
Nella primavera del 2020, il lockdown ha ridotto brutalmente la presenza solidale
sotto le mura del Cpr di Gradisca: le voci delle persone rinchiuse, che per la prima
volta avevano valicato il muro di cinta raccontando all’esterno la violenza
dell’istituzione, per mesi non hanno avuto, lì sotto, nessun orecchio che le
ascoltasse. Nel frattempo, le deportazioni si erano fermate, ma i Cpr non hanno mai
chiuso: nemmeno il rischio di un collasso sanitario e di una strage di esseri umani
intrappolati hanno potuto incrinarne l’esistenza.
Durante l’estate, il Cpr di Gradisca ha ammazzato un’altra persona. Il suo nome era
Orgest Turia ed è morto dopo un’overdose di farmaci: la verità sulla sua morte, come
su quelle di Vakhtang e dei morti delle carceri di marzo, sta subendo un processo di
insabbiamento con molti responsabili.
Come si è detto più volte in questo ultimo anno, la pandemia ha esacerbato le
differenze sociali, pur non avendo innescato il conflitto. Tra i gruppi subalterni che
hanno subito più forte la crisi sociosanitaria e la costrizione al lavoro in
condizioni più pericolose del solito, ci sono le persone senza cittadinanza italiana,
senza documenti regolari oppure appese al ricatto del rinnovo del permesso di
soggiorno.
Le migrazioni sono un fenomeno antropologico connaturato all’essere umano, ma nella
storia sono avvenute in varie forme e per varie ragioni. Il sistema globale
neoliberista prevede lo sfruttamento di molte aree della terra e di popolazioni per il
benessere di alcune specifiche aree, popolazioni e classi sociali. A causa di questo
sistema, molte persone sono costrette a spostarsi contro la loro volontà; altre sono
costrette a fuggire dalle bombe e dalla repressione; altre scelgono di muoversi per
altre ragioni. L’esistenza delle frontiere, la gestione razzista e classista dei
passaporti e dei visti e la militarizzazione dei confini europei di terra e di mare
rendono i viaggi migratori una scommessa di vita o di morte per migliaia di persone.
Per chi approda in Europa, si apre un altro viaggio tra minaccia dell’irregolarità,
lavoro nero e razzismo sistemico.
Come scrive la rete Mai più lager, che il 24 aprile si mobiliterà contro i Cpr in
varie città italiane, «I CPR, di tale percorso, sono l’epilogo, la fase terminale
espulsiva di un sistema respingente e repressivo, lì dove alla negazione del diritto e
dell’accoglienza si aggiungono la privazione della libertà e l’offesa della dignità
personale, prima della rispedizione al mittente».
Sabato 24 aprile saremo a Gradisca per ricordare a quella città che sta ospitando un
lager e per far sapere a chi è dentro che qualcuno è loro solidale e crede che quel
posto non vada reso migliore ma raso al suolo. (Da nofrontierefvg.noblogs.org)
Direzione nazionale antimafia e gestione del confine marittimo. La Direzione nazionale
antimafia, dopo aver occupato i vertici del DAP ora prende in mano anche il controllo
dell’immigrazione irregolare. Ormai guida indiscutibile della gestione del potere
esecutivo e delle politiche repressive dello Stato.
La Direzione nazionale antimafia ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione del
confine marittimo meridionale dell’Europa, in coordinamento con Frontex, l’agenzia che
sorveglia le frontiere dell’Unione, e con le missioni militari europee al largo delle
coste libiche. Nel 2013, sotto la guida di Franco Roberti [giovane collega che
Giovanni Falcone volle vicino a sé], un procuratore con una lunga esperienza
nell’antimafia, la Dna ha sperimentato una strategia unica: da quel momento
l’immigrazione irregolare in Europa è stata affrontata con gli stessi metodi usati
contro la criminalità organizzata… L’idea era di arrestare elementi di basso livello
nell’organizzazione, gli ‘scafisti’, per ottenere informazioni sui vertici del
traffico di esseri umani anche convincendoli a collaborare con gli inquirenti come
avveniva con i collaboratori di giustizia nei processi di mafia”. Nessun processo però
è mai partito contro questi vertici, con i quali la Dna ha mantenuto rapporti e
confronti nel tempo, mentre anni di carcere sono stati comminati solo ai cosiddetti
bassi livelli, gente a cui vengono affidati timone e salvataggio delle imbarcazione
abbandonate alla deriva. (Da “Internazionale” del 30 aprile/6 maggio)
La "Milano dell'accoglienza" aumenta del 50% i posti nel Cpr con un nuovo bando
Avvicinandosi alla fine del primo anno di gestione evidentemente fallimentare del CPR
di via Corelli, "ritenuta l’opportunità di non esercitare alla scadenza del contratto
stipulato con il citato RTI (Versoprobo Scs - Luna SCS) la facoltà del rinnovo per
ulteriori 12 mesi”, è stata indetta una nuova "Gara europea a procedura aperta per
l'affidamento dei servizi per l’affidamento dei servizi di gestione e funzionamento
del centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) presso la struttura demaniale sita in
via Corelli 28, Milano - con capienza sino a 84 posti. Periodo 7/9/2021- 6/9/2022".
Viene quindi aperto anche un terzo settore dei quattro inizialmente previsti. E ci si
limita - per ora! - a 84 posti (con l'apertura del terzo settore da 28), dai 140
inizialmente previsti, "per effetto della situazione epidemiologica in atto, delle
connesse misure di contenimento del rischio di contagio e, non ultimo, delle
sopraggiunte esigenze di rifunzionalizzazione di taluni spazi e locali della
struttura". Sarà ancora un settore maschile? Sarà il settore femminile o quello per
persone trans di cui si vociferava?
"I prezzi a base di gara sono:
- Servizio di gestione e funzionamento del CPR: € 42,67 pro capite- pro die;
- Fornitura del Kit (ad esclusione della scheda telefonica): € 150,00 per singolo kit.
I suddetti prezzi a base di gara sono al netto di iva, se dovuta. Ad entrambi i prezzi
verrà applicato il ribasso percentuale unico offerto dal concorrente.
L'importo complessivo dell'appalto è pari a € 1.423.552,20."
La durata dell'appalto è di 12 mesi rinnovabili per un periodo non superiore ad
ulteriori 12 mesi. Sono ammessi alla gara gli operatori economici con sede in altri
Stati membri dell'Unione europea (...) nonché gli operatori economici di Paesi terzi
firmatari degli accordi di cui all’ art. 49 del Codice.
La prima seduta di gara avrà luogo il giorno 27 maggio 2021 con inizio alle ore
10,00."
Ancora quindi una gara al ribasso, una gara cioè a chi riesce a tagliare meglio sui
costi dei servizi ai trattenuti. Le dotazioni di personale risultano sempre le stesse,
sempre vergognosamente insufficienti a dare un minimo di dignità al servizio. Ancora
un segnale forte, che la Prefettura e il Ministero danno alla città di Milano: serve
più spazio per deportare ancora più persone che non hanno avuto modo di conoscere i
propri diritti di avere un permesso appena sbarcati, o che lo hanno perso perdendo il
lavoro. Intanto, si avvicinano a lunghi passi le elezioni amministrative in città e si
perde ogni speranza di sentire il Sindaco Beppe Sala proferire parola sul punto: chi
tace acconsente e anzi plaude, sotto sotto. D'altronde, Milano è edificazione, Milano
è efficienza nel rimpatrio veloce ed indolore... TAAC! Questo è un pessimo segnale che
non può passare sotto silenzio. (Da Mai più lager No Cpr)
Dal 2 maggio nel Cpr di Via Corelli è in corso una protesta NO TAMPONI NO PARTI -
RIFIUTO COLLETTIVO DEI TAMPONI PER IL RIMPATRIO. Sarebbero forse fino a 40 persone,
sulla capienza massima attuale di 56 posti del CPR di via Corelli, ad opporre da
diversi giorni il rifiuto di sottoporsi al tampone Covid, che a loro è ben noto essere
il passaggio immediatamente precedente alla deportazione. In totale violazione delle
raccomandazioni del Garante Nazionale, per evitare il rischio di disordini, nella gran
parte dei CPR, compresi quello di Milano, non viene infatti dato alcun preavviso
dell'imminenza del rimpatrio. Ma quando si è convocati in infermeria per il tampone,
il segnale è chiaro.
in ricordo di sante notarnicola
Il 22 marzo ci ha lasciati Sante Notarnicola, ragazzo del Sud, lavoratore, “bandito”
(come si definì al momento dell’arresto), prigioniero rivoluzionario, poeta, compagno
per scelta di vita. Da quel combattente che era, a 83 anni e con malattie pregresse
che non gli consentivano l’assunzione di medicinali nei dosaggi necessari, aveva
superato anche il Covid “guarendo praticamente da solo”, come hanno detto i medici.
Era rientrato a casa da pochi giorni, a Bologna, la città in cui ha vissuto dopo
Torino e 21 anni passati nel “circuito dei camosci”, le carceri speciali.
Di seguito riportiamo alcuni pezzi della presentazione della ristampa del libro
“Liberare tutti i dannati della terra”, curata dal nostro collettivo, il 30 gennaio
2016 alla Panetteria Occupata di Milano. In quell’occasione c’era anche Sante.
Ha aperto così un compagno del collettivo.
“Questo è un libro che ha dietro scelte, discussioni, c'è dentro tutta un'umanità che
non può essere spiegata superficialmente. Meno male che c'è la fortuna di poter
sentire compagni come Sante che ha vissuto, costruito questo libro proprio perché era
dentro S. Vittore. Quello che si vuole capire è: come sia stato possibile costruire
quelle lotte, che oggi è importante rimettere in piedi, lotte che il libro fa parlare.
La corrispondenza che ci arriva oggi dalle carceri mostra giovani che non sanno come
battersi contro la premialità, i ricatti. Dentro non riescono ad agire, proprio come
succede in troppi luoghi di lavoro. La ribellione si esprime soprattutto sul piano
individuale, raramente nella solidarietà di tutti per tutti. Nel libro vengono
narrate lotte in cui c'è dentro la memoria, la pratica collettiva. Nelle carceri
abbiamo inviato centinaia di copie del libro, ci viene richiesto, perché è importante
far vedere che è possibile non chinarsi alle guardie, lustrargli le scarpe ecc. La
generazione di Sante ci ha insegnato a stare in galera, non solo fra carcerati, che è
già importante, ma anche contro le guardie, lo stato ecc. Non c'è di meglio che
lasciargli la parola, per raccontarci com'è nata la rivolta collettiva, come hanno
fatto a costruire quelle lotte a S. Vittore.”
E poi la parola è passata a Sante.
“I due libri più importanti che sono usciti allora dal carcere con una loro identità:
il primo in assoluto è stato scritto da Irene Invernizzi ‘Il carcere come scuola di
rivoluzione’, era composto da interviste a prigionieri che riportavano fuori quel che
accadeva dentro. E' un libro che viene prima delle lotte, che non si erano ancora
affermate, sostenute. ‘Liberare tutti i dannati della terra’, invece nasce nel pieno
della lotta.
Quando sono entrato in S.Vittore, dopo aver fatto un anno di isolamento, abbiamo
trovato una situazione che non immaginavamo. Per esempio, siamo nel 1967, non c'era il
cesso, c'era ancora il bugliolo, c'era una miseria veramente concreta, molto evidente,
gente abbandonata.
Noi che venivamo da Torino, avevamo esperienze di fabbrica e politiche in quanto
militanti del partito comunista, in particolare Piero [Cavallero, suo coimputato],
quelli della nostra banda dentro non potevamo incontrarci, per le solite seghe del
'divieto di incontro'. Però nel processo, in aula, ci siamo incontrati, confrontati.
Noi, parlo per me, mi dicevo, se la cosa è così io mi impicco lucidamente perché non
accetto questa situazione. All'epoca l'ergastolo era ergastolo, morivi dentro, per cui
non avevi nessun, neanche uno, barlume di speranza per poter dire 'poi cambia' ecc.
Questa era la realtà di quel carcere. Realtà che: se tu avevi un pezzo di matita lunga
così (2 cm) nelle perquisizioni andavi a finire nelle celle di punizione per 15-20
giorni – la matita era proibita. Potevi scriverti solo con la tua famiglia, la guardia
passava ti consegnava penna e foglio per scrivere, dopo 2 ore ripassava per prendere
la lettera scritta e la penna. Questi erano i livelli.
A S.Vittore in quel momento c'era il disagio, ma c'era anche un certo fermento. Nella
nostra banda decidemmo di fare un'inchiesta sul carcere, chi c'era, che pensava... io,
per esempio, ero al 3° braccio dove finivano i giovani provenienti dal Beccaria
[carcere minorile di Milano], erano scatenati, regolarmente considerati pecore nere
della famiglia, di fronte alla loro esperienza stava quella di padri, parenti che
lavoravano all'Innocenti, all'Alfa Romeo… quei giovani erano i ribelli del ceppo
famigliare. A loro spiegavamo di muoverci come facevano in fabbrica i loro padri, zii.
Spiegavamo: come loro fanno gli scioperi noi dobbiamo fare la stessa cosa. Non c'è un
altro modello.
Questo è stato il primo passo. Soprattutto c'era da battere l'autolesionismo; c'erano
forme di lotta ma erano tutte individuali, perdenti. Così, ripetevamo, 'non combiniamo
niente, non scuotiamo nessuno'.
Con la prima rivolta invece riuscimmo a far venire nel carcere il sindaco di Milano,
Aniasi, un socialista. C'eravamo fermati all'aria e le guardie ci intimorivano con:
‘lo sapete cosa state facendo? …questo è sabotaggio’. La nostra risposta era ‘comunque
noi non rientriamo’. Così dopo tre ore arriva davanti ai passeggi il sindaco, a lui
spighiamo le nostre ragioni.
La cosa importante di questo inizio furono le nostre richieste, per esempio, sul fare
togliere il bugliolo. Dopo la terza fermata all'aria ci furono botte della madonna,
che però non spaventavano più i detenuti, anzi li caricavano. Il ragionamento era: se
le guardie fanno così vuol dire che siamo vicini, che comunichiamo fra noi e con
l'esterno. Avevamo intuito l'importanza della comunicazione. Dalle carceri usciva il
pensiero: 'se c'è una lotta che non comunica con l'esterno, se l'indomani i giornali
ti ignorano, quella è una lotta preparata male. Ci dicevamo: non bisogna più farla'.
Ci trovavamo di fronte a persone che avevano strumenti poveri. Bisognava cominciare a
fare il volantino, a nascondere le comunicazioni e a mandarle fuori. E' chiaro che il
momento fortunato era il fatto che fuori c'era il '68 e il '69. Per noi carcerati
questo significava che tutti i sabati i ragazzi scendevano in piazza, passavano sotto
S. Vittore. Sparo delle cifre, sembrerà esagerato, ma sotto il carcere passavano 40-
50mila persone, noi le abbiamo viste, si fermavano ecc. Molto spesso fra chi
manifestava fuori c'era qualche compagno che era stato dentro o che ora era in galera
perché il sabato precedente era fra chi manifestava fuori. La risposta che veniva dal
carcere divenne possente al punto che anche i compagni che erano dentro cominciavano a
guardarsi intorno. Si dicevano: qui c'è un lavoro da fare. Abbiamo avuto anche la
fortuna che sono entrati anche dirigenti di Lotta Continua, é così che il giornale,
compreso il movimento che lo esprimeva, diventarono il punto di riferimento di tutto.
Se vi capita di incontrare qualcuno che in quel momento storico era in carcere a S.
Vittore, se gli chiedete: fammi vedere il braccio, troverete molto spesso tatuato LC.
Poi cambiò la fase e furono i NAP [Nuclei Armati Proletari] a essere tatuati sulle
braccia. Con le BR [Brigate Rosse] è cambiato, perché c'era divisione dalla massa, è
un'altra storia.
Le lotte si sono moltiplicate: quel che accadeva nelle carceri di Torino, Firenze,
Roma, Genova, non era da meno… al Sud è arrivato tutto molto tardi.
Gli strumenti che lo stato aveva per arginare, attutire le cose erano che: ti venivano
a prendere alla mattina, ti davano un fracco di botte e via, in mutande o anche senza
mutande e andavi a Siracusa. Lì ti accoglievano come compagno… questo è stato
l'aspetto importante: l'arma del trasferimento si rivelò per loro un disastro. Le
carceri ormai erano ingovernabili. Questa la storia fino al '74.
Una parte di detenuti entra nelle fila di LC. C'eravamo fermati all'aria, il giornale
era molto attento sulle nostre lotte, eravamo spesso in prima pagina. I prigionieri si
sentivano tutelati, diventavano compagni. É anche il momento della nascita di Soccorso
Rosso.
In quell'anno [9 maggio 1974] dal carcere di Alessandria tre denuti tentano la fuga.
Sono armati. La fuga fallisce, loro rientrano sequestrando infermieri, dottori,
insegnanti, guardie. Della Venaria, procuratore generale del Piemonte, insieme a Dalla
Chiesa, allora a capo dei carabinieri a Torino, invece di trattare la resa, o, non so,
prendendo i compagni per fame o simili, scelsero il massacro.
Le parole d'ordine di LC, quali “Prendiamoci la città”, oppure “Il carcere non si
riforma ma si distrugge” poggiavano su una maturità politica che non riusciva a
gestirle. Solo in alcune città, a Torino per esempio, le carceri vennero
effettivamente distrutte, ma nelle città non venne 'preso' nulla.
A S. Vittore andavamo in delegazione dal direttore, ponevamo ad esempio dieci punti.
Cosa ci date? Il direttore ci rispondeva: ‘Niente, devo telefonare prima al
ministero’. Ribattevamo: ‘Noi, mentre voi telefonate, siamo all'aria e lì restiamo’.
Non ci era stato dato ancora il fornelletto come prevedeva il regolamento. Fra noi
decidemmo di portare avanti lotte per le più diverse richieste, nessuno doveva
criticarle.
Successe che una notte in quel periodo, tre ragazzi di 20 anni accesero un giornale,
tenendolo fuori dallo spioncino, dentro il corridoio in cui stavano le guardie. Nel
dar fuoco ai giornali probabilmente un foglio sfuggì dalle loro mani e finì con
l'incendiare i materassi. I tre ragazzi morirono bruciati vivi.
Ci fu un silenzio di quelli che sanno, minaccioso, terribile, lo senti, senti che da
qualche parte sta succedendo qualcosa. Solitamente, come quella notte, a S. Vittore
c'era una sola guardia nei tre piani di ogni braccio. Al mattino la direzione chiamò
quattro prigionieri, fra i quali anche me. Avevano tirato fuori i cadaveri, fra i
quali quelli di un austriaco che conoscevo, un gigante, ridotto dal fuoco a tozzo di
tronco d'albero bruciato. Nella notte non ci fu scambio di parole fra noi. Dominava un
silenzio duro.
Nessuno aveva deciso niente, nessuno aveva detto niente, ma nel momento in cui al
mattino hanno aperto le porte delle celle, le guardie hanno capito immediatamente:
sono scappate via senza che noi ci muovessimo… hanno mollato le chiavi. Loro sono
scappate via tutte, noi abbiamo distrutto tutto. Cioé, c'è stato un momento di
liberazione, un momento in cui in qualche modo dovevi muoverti. Fra noi e le guardie,
e i carabinieri fu un macello. Due o tre giorni dopo ci chiamarono, ci comunicarono:
‘avete avuto dal ministero il tagliaunghie e il fornelletto’.
C’era il rapporto con LC, ormai cominciava a esserci il Soccorso Rosso, cominciavano a
esserci altri gruppi perché le lotte fuori cominciavano ad essere molto intense, tutti
i collettivi avevano loro prigionieri. Noi chiedevamo libri, giornali, riviste. Questo
lo avevamo ottenuto, era essenziale. C'era la lotta, i detenuti erano curiosi, c'era
chi si occupava del ‘movimento operaio’, insomma c'era chi studiava per mettersi alla
pari con chi finiva in carcere: giovani compagni studenti e operai – che fuori
lottavano.
Il carcere in quei pochi anni ha prodotto, libri, riviste, poesie… ha prodotto anche
alcune persone che non solo sono diventate dei rivoluzionari ma anche dei dirigenti. A
chi entrava in carcere per pochi mesi fecero seguito quelli che non uscivano più, i
brigatisti. Noi eravamo molto fieri, perchè i prigionieri si ponevano molti problemi.
Erano diventati compagni a tutti gli effetti.
Milano, maggio 2021
LETTERE DAL CARCERE DI BUSTO ARSIZIO (VA)
Ciao a tutti!!! Come prima cosa vorremo ringraziarvi per tutto quello che avete fatto
per noi, sappiamo anche da altre persone che ci scrivono che la nostra lettera sta
circolando sui social e che ha avuto un certo seguito. Sappiamo inoltre che i
giornali, il sindaco ed infine lo stesso Salvini hanno rilasciato interviste dove
affermano che è stata tutta una cosa programmata, cercando di togliere dai guai le
guardie e buttando merda addosso a noi. Sappiamo inoltre che hanno affermato che tutto
è successo perchè siamo persone frustrate, che non sapendo dove scaricare la
frustrazione hanno fatto una rivolta per dare sfogo a tutto ciò. A noi sembra una cosa
inconcepibile e vergognosa perchè si tratta di carcere, di anni di vita buttati e
sinceramente non credo che siamo così stupidi perchè tutto ciò ricade anche sulle
nostre famiglie, ma perchè siamo obbligati non vedendo altra strada per essere
ascoltati.
Fino a questo momento ci sono 31 indagati con gli stessi capi d'imputazione
(danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e devastazione) e infine noi 6 che
siamo a Busto essendo stati arrestati in flagranza di reato, probabilmente pagheremo
qualcosina in più come capi promotori (dicono loro). Ci sono le guardie che si sono
fatte refertare per escoriazioni e sintomi derivanti dal contatto con la corrente
elettrica. Per quanto riguarda la nostra carcerazione abbiamo fatto 21 giorni in
sezione covid (in cui la norma sono 14 giorni).
Dopo ciò ci hanno portato in infermeria a scontare i 10 giorni di isolamento finiti i
quali ci tengono ancora qui in osservazione come ex art 32, cioè persone pericolose, e
ancora ad oggi non sappiamo quando ci porteranno in sezione normale insieme agli altri
detenuti. La verità è che non vogliono che abbiamo contatti con altri detenuti perchè
potremmo istigarli a fare la stessa cosa. A molti di noi la sera che ci hanno
trasferiti ci è stato detto di preparare una sola borsa con lo stretto necessario e
che il resto ce lo avrebbero portato in seguito. E' passato 1 mese e mezzo e ancora
non sono arrivati i vestiti e diversi effetti personali, ne tantomeno ci rispondono ne
ci danno spiegazioni su dove sono finiti.
Come ci avete scritto vi chiediamo gentilmente se possibile di mandarci ciò che avete
pubblicato. Infine vi dobbiamo un grande GRAZIE per ciò che fate, per la vostra
vicinanza e la vostra solidarietà. Speriamo di risentirvi presto perchè le vostre
lettere e la vostra vicinanza ci rallegrano le giornate. Ringraziamo inoltre i ragazzi
che ci hanno scritto (dicendo che sono vostri amici) non potendo ringraziarli di
persona perchè la lettera era senza mittente. Ci auguriamo di risentirvi presto. Un
grande abbraccio. (marzo 2021)
***
Ciao a tutti/ tutte voi, comincio con il ringraziarvi di cuore delle vostre lettere e
della vostra vicinanza, ci fa molto piacere sapere che esistono ancora persone come
voi, che lottano per noi e con noi contro questo regime perchè stato non si può
chiamare. Ringraziamo veramente di cuore tutti voi e le numerose persone che ci hanno
scritto. Cosa possiamo dirvi se non grazie di esistere.
Ci dispiace molto che non abbiamo potuto sentirvi il giorno che siete venuti qui
fuori, perchè dal parcheggio esterno c'è distanza con le sezioni, e sappiamo anche che
avete avuto problemi con la polizia con multe e denunce, ci dispiace per questo.
Abbiamo letto attentamente anche l'opuscolo che riporta le notizie e le lettere dalle
altre carceri che ci avete mandato, bhe che dire? Dire che ti sale una rabbia furiosa?
E' poco. Dire che ti sale l'angoscia? E' poco. Dire che ti viene la pelle d'oca? E'
poco.
Questo è diventato purtroppo il DAP e il ministero di grazia e giustizia, una loggia
massonica in cui niente si sa e niente si dice e tutto si insabbia facendo passare
direttori e polizia penitenziaria come eroi. Ci sono leggi incomprensibili come quella
che ci riguarda chiamata ex art 32 che consente nel far fare a tutti i detenuti
problematici o provenienti da rivolte un minimo di 6 mesi in sezioni speciali dopo i
quali si valuta se prolungare. Questa sezione speciale comprende 7 celle, una singola
per l'isolamento a cella liscia, 4 celle da 3/4 persone e 2 celle doppie.
Premetto che ognuno è libero di fare la carcerazione come meglio crede, ma siamo in
mezzo a gente che si riempie di metadone, gocce e cose strane dalla mattina alla sera
e sembrano veramente zombie. C'è gente che sotto terapia ha cercato di impiccarsi
attaccandosi alla finestra, che si mangia il materasso di spugna, che si taglia e che
si fa di gas delle bombole dei fornelli. Poi nascono i litigi e problemi quotidiani,
in sezione normale non ci mandano perchè come capi promotori possiamo organizzare
qualcosa anche qua, quindi ci hanno messo in questo manicomio, dove è inutile dire che
è una routine con gente che grida e chiama a tutte le ore, giorno e notte, e proprio
oggi ci hanno detto che dobbiamo fare almeno altri 4 mesi poi si valuterà. Questo è il
regime carcerario a Busto Arsizio, questa è la pena per chi si ribella alle
ingiustizie senza poi contare la pena che ci daranno.
Per quanto riguarda il processo ci vorrà molto tempo perchè siamo 35 indagati , ci
sarà sicuramente chi cercherà di discolparsi scaricando le colpe agli altri, chi dirà
che era obbligato, e prima che tutto sarà chiaro ci vorrà tempo, ma vi terremo
informati.
Ancora un grazie di cuore.
I ragazzi di Varese.
Busto Arsizio, aprile 2021
Lenkstakas Enrik, Younas Waqar, Vyzas Rudin, Tutino Stefano, Abubakar Mustapha, Konrad
Lofti, via per Cassano Magnago, 102 – 21052 Busto Arsizio (VA)
***
Il terrorismo dello Stato in città come in carcere
Solidarietà con i rivoltosi di San Vittore a processo
Il 10 maggio inizierà al tribunale di Milano il processo per “devastazione”,
“sequestro di persona”, “lesioni personali” e “rapina” nei confronti di 9 prigionieri
accusati a vario titolo delle rivolte nel carcere di San Vittore del marzo dell’anno
scorso. Processi che coinvolgono anche le carceri di Pavia e Varese, limitandoci alla
Lombardia e per quel che sappiamo.
In quei giorni di marzo i detenuti insorsero in una trentina di carceri, da nord a sud
Italia, a seguito dell’interruzione dei colloqui, dei contatti con l’esterno con
sospensione di tutte le attività. Restavano solo loro e le guardie. Tanti ulteriori
problemi che si aggiungevano a condizioni già prima invivibili.
Misure che prima della gestione della pandemia erano emergenziali o in via di
sperimentazione ora caratterizzano la quotidianità: la videoconferenza sostituisce la
presenza in tribunale, impedendo le possibilità di difesa, ostacolando la
partecipazione attiva alle fasi del processo, la sua dimensione pubblica e l’incontro
degli imputati in aula, per arrivare senza intralci all’esecutività della condanna; le
videochiamate sostituiscono i colloqui. Facile capire a quanti aspetti della relazione
si debba rinunciare non potendosi incontrare fisicamente. Anche quando riaprono, i
colloqui sono resi difficili a causa delle regole di prenotazione e del distanziamento
imposto con barriere di plexiglass e mascherine.
Affidarsi alla tecnologia per videoconferenze e videochiamate comporta problemi
tecnici di funzionamento con collegamenti che frequentemente si interrompono lasciando
il prigioniero davanti a uno schermo nero. Tutte queste ristrutturazioni rendono i
prigionieri sempre più isolati.
Si tratta indubbiamente di un obiettivo voluto quando si vedono gli esperti della
repressione impiegati per amministrare anche la gestione della pandemia.
Antonio Rinaudo ex P.M. torinese, già noto nei processi contro i No Tav, viene
nominato commissario straordinario per l’emergenza COVID-19 della regione Piemonte.
Alberto Nobili P.M., coordinatore del pool antiterrorismo della procura di Milano, che
interviene al minimo segnale dell’emergere di un conflitto. 300 ragazzi si incontrano
a piazzale Selinunte per girare il video di un rapper, reagiscono agli attacchi della
polizia e i provvedimenti che vengono emessi nei loro confronti sono firmati da
Nobili. Si trattava di terrorismo?
Lo stesso Nobili che intervenne come mediatore per fare scendere dai tetti i rivoltosi
di San Vittore, per poi richiederne il rinvio a giudizio. Si trattava di terrorismo?
Queste due figure le conosciamo anche da inchieste contro compagni anarchici accusati
di terrorismo. Nobili era a capo del pool di magistrati nell’operazione Prometeo (il
processo inizierà proprio il 10 maggio) in cui le parti offese risultano essere
Rinaudo e il DAP.
Quel DAP che dopo le rivolte di marzo ha visto un repentino cambio della guardia ai
suoi vertici, per la prima volta nelle mani dell’antimafia nelle figure dei nuovi
dirigenti Petralia e il suo vice Tartaglia.
La gestione della pandemia e quella della repressione si incontrano, sono nelle mani
di chi ha rappresentato l’antimafia e l’antiterrorismo fino a oggi.
Se da un lato lo Stato tenta di archiviare le stragi, come quelle avvenute nel carcere
di Modena, dall’altro con estrema velocità manda in tribunale chi si mette di
traverso. Come i 120 lavoratori di Italpizza che, sempre nella stessa città, si
trovano sotto processo, in aula bunker per altro.
10 MAGGIO DALLE 11 ALLE 13, PRESIDIO AL CARCERE DI SAN VITTORE
Milano, maggio 2021, Collettivo OLGa
***
ALTRI PROCESSI PER LE RIVOLTE DI MARZO 2020
A Foggia, il 27 giugno 2020, sono state eseguite ordinanze di custodia cautelare in
carcere da carabinieri e polizia, nell’ambito dell’operazione chiamata “Squadra
Stato”, coordinata dalla Procura di Foggia, in seguito all’evasione dal carcere del
capoluogo avvenuta il 9 marzo. Per 15 detenuti l’accusa è anche di rapina, sarebbe
avvenuta in alcune officine nelle vicinanze del carcere dopo l’evasione.
A Frosinone il 31 ottobre 2020 la procura ha chiesto il rinvio a giudizio di 21
detenuti. Questi ultimi ora sono stati trasferiti in altri penitenziari, del Lazio,
della Campania e dell'Abruzzo. Ai ventuno, per i quali il 9 aprile c’è stata l'udienza
preliminare, è contestata la devastazione.
Il 27 febbraio 2021 sono arrivate le condanne per la rivolta di marzo 2020 nel carcere
di Opera a Milano. 12 condanne con rito abbreviato e 5 patteggiamenti. Le pene sono
comprese fra 4 mesi e 2 anni e 6 mesi di reclusione per i 17 imputati accusati a vario
titolo di resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio. Lo ha deciso il
gup di Milano Daniela Cardamone, a seguito dell’inchiesta coordinata dal capo del pool
antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dal pm Enrico Pavone. Il giudice ha anche
mandato a processo altri quattro detenuti con prima udienza fissata per l’11 maggio.
Le indagini, condotte dalla polizia penitenziaria, avevano portato inizialmente a 92
denunce e, dopo la chiusura delle indagini a luglio scorso, era arrivata la richiesta
di processo per 22 (una posizione è stata poi stralciata).
Su richiesta del sostituto procuratore, Elena Caruso, 49 detenuti del carcere della
Dozza di Bologna, coinvolti nella rivolta del marzo del 2020, sono accusati, a vario
titolo, di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato e
tentata evasione e sono stati rinviati a giudizio. Otto sono ritenuti responsabili di
essere stati gli istigatori dei disordini perché "Incitavano i detenuti, non
identificati, che hanno distrutto le plafoniere dei neon nel corridoio della sezione
3D" - scrive la Procura - "urlando frasi come 'Libertà, ora distruggiamo tutto, siete
tutti pezzi di m...'”. Un 29enne perse la vita.
Sono stati rinviati a giudizio 46 detenuti del carcere romano di Rebibbia indagati per
la rivolta avvenuta il 9 marzo 2020. La prima udienza è fissata per il 30 giugno
mentre in 4 hanno scelto il rito abbreviato. I reati contestati dai pm Francesco
Cascini e Eugenio Albamonte, coordinati dal Procuratore capo di Roma Michele
Prestipino, vanno a vario titolo dal danneggiamento al sequestro di persona, rapina e
devastazione. Nell'ambito delle indagini, lo scorso novembre, sono state eseguite nove
misure cautelari in carcere nei confronti di altrettanti detenuti. Altre 20 detenute
sono sotto indagine per una protesta avvenuta in contemporanea nella sezione
femminile.
Sono 99 i detenuti indagati per la rivolta scoppiata la sera dell'8 marzo 2020 nel
carcere di Torre del Gallo a Pavia. Chiara Giuiusa, sostituto procuratore del
capoluogo, ha chiuso le indagini notificando gli avvisi di garanzia con le accuse di
devastazione e saccheggio e (solo per alcuni reclusi) resistenza a pubblico ufficiale.
La procura di Prato il 25 marzo ha inviato gli avvisi di conclusione indagine per 42
indagati. L'accusa per tutti è resistenza aggravata. I 42 detenuti - italiani,
marocchini, albanesi e nigeriani - sono accusati di resistenza aggravata. L'inchiesta
fu aperta poche ore dopo i fatti, con l’ausilio delle dichiarazioni dei testimoni.
Varese, indagati 35 detenuti a cui contestano anche devastazione, 5 sono i prigionieri
trasferiti al carcere di Busto Arsizio, ancora in isolamento, dai quali riceviamo
lettere qui pubblicate.
3 marzo. A quasi un anno dalle rivolte carcerarie di marzo 2020, e dalla fine tragica
di tredici detenuti, la procura di Modena chiede l'archiviazione delle indagini sul
decesso di otto dei reclusi che ci hanno rimesso la vita, i cinque spirati nel carcere
della cittadina emiliana e tre dei quattro morti durante o dopo il trasferimento negli
istituti di altre località. L'inchiesta modenese era stata avviata con le ipotesi di
reato di omicidio colposo plurimo e morte come conseguenza di altro reato, lo spaccio.
L'overdose è la causa di morte ipotizzata, perlomeno dai consulenti della procura. "I
filoni sui decessi di otto persone sono stati riuniti. Sono rimasti fuori gli
approfondimenti sulla morte di Salvatore "Sasà" Piscitelli, di competenza di un'altra
procura. Le indagini - ricorda sempre il procuratore Di Giorgio - erano partite contro
ignoti e contro ignoti si sono concluse. Non sono emerse responsabilità di singoli,
non rispetto alle morti”.
Il fascicolo sul decesso di Piscitelli è rimbalzato da Ascoli a Modena, con un doppio
giro di rimpalli, ed è tornato delle Marche dopo l'esposto e l'audizione di cinque
compagni di viaggio e di cella. I detenuti testimoni hanno denunciato botte e
manganellate, abusi e un colpevole ritardo nei soccorsi, così come altri avevano fatto
prima di loro.
Luca Sebastiani, avvocato della famiglia di Hafedh Chouchane, uno dei detenuti morti
dopo la rivolta al Sant'Anna di Modena, ha presentato opposizione alla richiesta di
archiviazione della Procura di Modena per reato commesso da persone ignote (omicidio
colposo e morte come conseguenza di altro delitto).
Il 10 maggio, tramite lettera, veniamo a sapere che Belmonte Cavazza, uno dei 5
detenuti conosciuti per aver scritto l'esposto dal carcere di Ascoli Piceno sulla
mattanza avvenuta a Modena nel marzo 2020, è stato trasferito presso la casa lavoro di
Castelfranco Emilia (Mo). Il 19/04 ha finito di scontare la sua pena in carcere.
Pensando che sarebbe tornato in libertà, dopo ben 19 anni di galera, il 23/04 è stato
invece trasferito nella casa lavoro, per una misura di sicurezza – dice – che lo
perseguita dal 2003. Il 27 aprile ha “intrapreso uno sciopero della fame perchè da
diversi anni mi tengono sequestrato dallo Stato italiano e quindi non ho altre vie per
protestare contro questo abuso di potere che ha il nostro ordinamento penitenziario in
Italia, mi trattengono con delle normative di Benito Mussolini del 33 e poi
festeggiano la liberazione dal fascismo...”.
Il 1° aprile è cominciato a Treviso il processo relativo alla rivolta all’ex caserma
Serena (centro di accoglienza straordinaria) scoppiata a giugno 2020 a causa delle
misure covid imposte ai richiedenti asilo che lì vivevano, misure volte a sequestrarli
dentro, costringendoli a perdere il lavoro senza neanche una reale tutela della loro
salute. Contro Amadou, Mohammed e Abdourahmane l’accusa è di devastazione e saccheggio
e sequestro di persona. Fin dall’inizio di questa vicenda, l’accanimento contro chi ha
partecipato alla rivolta è stato continuo, a più livelli, dai giornalisti e le
istituzioni locali fino al Ministero dell’Interno, che a ottobre ha ordinato di
trasferirli tutti in sorveglianza particolare in tre carceri diverse. Accanimento,
repressione e violenza che in tutti i loro passaggi e le loro forme, dalle condizioni
di accoglienza alla detenzione, hanno ucciso Chaka il 7 novembre scorso nel carcere di
Verona. L’invito è a sostenere gli arrestati, a far loro sentire la nostra vicinanza
anche nelle prossime fasi del processo. Abdourahmane è agli arresti domiciliari,
Amadou e Mohammed sono ancora in carcere.
LETTERe DAL CARCERE di TORINo
Alla Cortese attenzione di Ministro alla Giustizia M. Cartabia, Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria, Garante dei Detenuti M. Palma e E. Rossi, Ass.
Yairaiha Onlus, Ass. Antigone, Garante Comunale M.C. Gallo.
Siamo le detenute e i detenuti del carcere di Torino, con un altro messaggio proviamo
ad arrivare lì fuori per rompere il muro di silenzio che si sta alzando intorno a
tutte le prigioni d’Italia.
Dopo le rivolte, le proteste pacifiche, gli appelli passati in sordina, scritti sia da
noi reclusi che da fuori: noi non ci rassegniamo a questo limbo. Non vince l’impotenza
che dilaga tra queste mura. Non accettiamo di rimanere in silenzio di fronte a questa
doppia pena a cui tutti noi siamo stati condannati nel corso dei diversi lockdown.
Queste parole sono rivolte a coloro che sostengono da più di un anno le nostre
proposte riguardo alla necessità dell’applicazione di misure deflattive: in primis
l’ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni estesa a tutta la popolazione
detenuta. Necessaria per fronteggiare sia l’emergenza covid, sia lo stato di
sovraffollamento che da troppo non permette a noi reclusi di vivere e superare
degnamente il tempo della carcerazione. Siamo sicuri di trovare il vostro sostegno.
Ma questa volta ci rivolgiamo anche a coloro che del “buttiamo via la chiave” hanno
fatto una ragione di vita ed anche a coloro che credono che le carceri siano un hotel.
Ci rivolgiamo a voi perché vi rendiate conto che il carcere così come è “strutturato”
non è proficuo né per i rei né per le vittime. La vendetta pubblica che è il risultato
di questo sistema penitenziario ha un effetto boomerang, gli effetti desocializzanti
hanno la meglio su quelli rieducativi. Rieducazione e reinserimento annoverati dalla
Costituzione non sono la realtà.
C’è un semplice calcolo: 6 (ore) X 12 (mesi) = 72 ore totali, che rappresenta quanto
sia alienante la carcerazione. 72 ore, pari a 3 giorni in un anno, è il tempo che
viene autorizzato e concesso per i colloqui visivi, (per i detenuti al 4bis o al 41bis
è ancora meno) tempo per coltivare affetti…
45 giorni all’anno (suddivisi in 12 mesi) di permesso premio, beneficio raggiunto
magari dopo anni, grazie alla buona condotta, per tornare ad approcciarsi con la
realtà esterna e con gli affetti. Bene, questo tempo a noi concesso, da più di un anno
è ridotto se non bloccato, con un aggravio sia sulla pena che sulla sfera psico-
emotiva. L’accesso a pene alternative è ancora più complesso.
L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti a causa del trattamento
inumano e degradante nelle carceri.
Ora, noi che stiamo pagando per aver infranto le leggi scontando una pena in questi
luoghi e con questo sistema a sua volta condannato perché disattende principi
fondamentali, ci troviamo in una “bolla” intrisa di contraddizioni oltre che di
ingiustizie accentuate ancor più dalla pandemia.
Il nostro appello richiama non clemenza gratuita bensì il rispetto di articoli della
Costituzione: 27 comma 3, Art. 3 e do articoli del cod. penale (146 e 147) i quali
sanciscono l’uguaglianza di diritti e la preminenza del diritto alla salute sulla
potestà punitiva dello Stato, a prescindere dal reato.
Per questo chiediamo che si applichi l’ampliamento della liberazione anticipata estesa
a tutta la popolazione detenuta, che tale provvedimento abbia “effetto retroattivo” al
2015 (anno in cui venne sospesa) in modo da avere un risultato concreto sul numero di
ristretti. Sarebbe logico che fosse approvata questa legge rimanendo in vigore anche
in futuro perché senza una riforma dell’ord. penitenziario e la ristrutturazione di
queste carceri fatiscenti ci ritroviamo in una zona rossa costante a prescindere dal
Covid. Grazie per l’attenzione.
Torino 28 aprile 2021
Le detenute della 3a sezione femminile
I detenuti del blocco A, blocco B 1a sezione, blocco c 2a, 3a, 9a, 10a e 12a sezione
[Seguono più di duecento firme, da notav.info]
***
Ciao, ho ricevuto la vostra lettera ma dei sette fogli me ne hanno dato solo 1, il
primo, il resto è al casellario. La motivazione è stata che “non si può fare attività
politica in carcere” e dunque all’ufficio comando mi hanno solo fatto dare uno sguardo
alle foto. Credo sia parte del “monitoraggio del nucleo investigativo centrale” a cui
sono sottoposta, del resto la direttrice aveva anche chiesto la censura ma il
magistrato di sorveglianza l’ha rigettata.
Il 7/3 abbiamo fatto, nella sez. III, un minuto di silenzio anticipato da questo
testo: “l’anno scorso, con l’inizio del lockdown, le condizioni carcerarie
peggiorarono ulteriormente. I colloqui furono interrotti, anche con l’avvocato e tutte
le attività sospese. I detenuti di Milano Opera, Milano S. Vittore, Pavia, Modena,
Bologna, Roma Rebibbia e Foggia si rivoltarono e grazie a loro chi sta fuori si rese
conto di quanto potesse essere difficile il quotidiano in carcere. Oggi facciamo un
minuto di silenzio per ricordare 14 di loro che in quelle rivolte sono morti, dopo
essere stati oltraggiati e picchiati. Ringraziamo anche chi ha avuto il coraggio di
dar voce a chi purtroppo non ne ha più, facendo emergere cosa in quei giorni sia
realmente accaduto e che le amministrazioni carcerarie e i media hanno cercato di
occultare”. All’incirca dieci giorni fa abbiamo scritto una lettera alla direttrice
raccogliendo le firme anche della II sez chiedendo una chiamata in più alla settimana,
visto che siamo nuovamente in lockdown e non facciamo colloqui, oggi ci ha risposto
dandoci 2 chiamate in più al mese, anche videochiamate che durano un’ora.
Vi saluto esprimendo tutta la mia solidarietà per le donne e le/i compagne/i
rinchiuse/i nelle galere di stato, per le compagne/i arrestate/i durante la
manifestazione a Barcellona negli scontri contro la sbirraglia, per l’arresto del
rapper Pablo Hazel. La mia solidarietà va anche i ragazzi/e della periferia di Torino
che sono stati/e arrestati/e per la manifestazione che si tenne per l’appunto a Torino
contro la chiusura data dal lockdown, in cui furono rotte le vetrine e derubato il
contenuto di alcuni negozi di lusso.
Libertà per tutti e tutte. Fabiola.
Torino, 22 marzo 2021
Fabiola De Costanzo, via Maria Adelaide Aglietta, 35 – 10151 Torino
LETTERA DAL CARCERE di GENOVA
Carissimi amici di Ampi Orizzonti, oggi ho ricevuto la vostra posta con l'opuscolo di
Olga dove c'è anche la mia lettera. Purtroppo è vero, i carceri stanno collassando.
Tutto stà bloccato: i colloqui interni con gli organi, sono bloccati anche i
trasferimenti, per cui almeno fino a giugno dovrò restare bloccato qui; inoltre
ricevere vaglia postali fanno storie perchè a inviarlo deve essere un congiunto sennò
lo rimandano indietro.
Qui il sabato alcuni compagni vengono a fare delle manifestazioni fuori dal carcere e
devo dire che questo, almeno a me mi fa sentire meno solo, ma come sapete la mia
situazione è molto complessa perchè non posso ritornare giù verso la Campania e qui me
la stò vedendo brutta in ogni senso. [...]
Qui ci sono novità, è stata sollevata dall'incarico la vecchia direttrice, incarico
passato alla direttrice del carcere di Pontedecimo, che ci sta restringendo sempre di
più. Vediamo, alla prossima: un caro saluto con il pugno alzato a tutti voi, ciao
Rosario.
Genova, 15 marzo 2021
Rosario Mazzone, Piazzale Marassi, 2 - 16139 Genova
A Genova, lavoratori portuali nel mirino della procura
La Digos ha perquisito le case di alcuni compagni del Collettivo Autonomo Lavoratori
Portuali di Genova (CALP) su ordine della Procura. I reati contestati riguardano la
attività sindacale e antimilitarista in porto, con preciso riferimento alle lotte nei
confronti delle navi saudite Bahri con i suoi carichi di armi pesanti e esplosivi
destinati alla guerra in Yemen e in Siria.
Dallo sciopero indetto due anni fa per bloccare un carico destinato alla guerra in
Yemen su una Bahri, a oggi, passando per la manifestazione di un anno fa contro il
transito di esplosivi a bordo di un’altra Bahri dagli USA diretto alla guerra siriana,
gli armatori sauditi attraverso l’agenzia genovese Delta e il Terminal GMT avevano
chiesto a più riprese alla Procura la testa dei portuali del CALP. Per quale colpa? La
colpa di avere messo in pratica in questi due anni, con le associazioni e i movimenti
contro la guerra e per i diritti civili ciò che il Parlamento ha approvato poco dopo
lo sciopero nel porto di Genova del 2019 e confermato alla fine del 2020: lo stop alla
vendita di bombe e missili ad Arabia e Emirati, utilizzati per colpire la popolazione
civile in Yemen.
Nel frattempo, la Procura di Roma, pochi giorni ha aperto un’indagine contro i
responsabili della RWM Italia produttrice degli ordigni e dell’UAMA, l’agenzia del
Ministero degli Esteri che autorizza l’esportazione di armamenti, a seguito delle
morti civili procurate in Yemen e documentate da Amnesty International. È di questi
giorni la notizia che il Presidente USA Biden ha rivelato che è stato Bin Salman,
Principe della Corona dell’Arabia Saudita, a fare scannare il giornalista dissidente
Kashoggi nel consolato saudita a Istanbul.
La Procura di Genova sostiene che il CALP si è reso colpevole di avere
strumentalizzato la protesta con “dispositivi modificati in modo da renderli
micidiali”. I bengala e i fumogeni utilizzati dai portuali per attirare l’attenzione
sulle navi dalle stive e i ponti piene di armi e esplosivi diretti a fare stragi
sarebbero “micidiali”, non le armi e gli esplosivi caricati sulle navi. In realtà il
CALP ha usato un’arma “micidiale”, ossia lo sciopero. Questo ha fatto tremare gli
armatori e i terminalisti: non i razzi luminosi e i fumi colorati, ma che il traffico
criminale di armi non sia solo criticato idealmente ma sia bloccato materialmente dai
lavoratori.
Rivolgiamo un invito alla Digos e alla Procura. Ad acquisire dall’Agenzia Delta e dal
Terminal GMT i documenti di carico e di destinazione delle merci trasportate dalle
navi Bahri verso gli Stati del Medio Oriente, compresa la Turchia che, denunciata
dalla stessa procura per la nave Bana in relazione all’embargo libico, impiega in
Siria contro i civili le armi sbarcate dalle Bahri a Iskenderun. Che in particolare a
segnalino alla Procura di Roma l’Agenzia Delta quale rappresentante delle navi Bahri
che hanno trasportato dall’Italia le bombe della RWM incriminate per la strage civile
procurata in Yemen.
Li invitiamo infine a non essere sottomessi alle denunce di chi con ipocrisia e
arroganza parla di pace ma vive del commercio delle armi, come ci ha ricordato Papa
Francesco: «I lavoratori del porto hanno detto no. Sono stati bravi! E la nave è
tornata a casa sua. Un caso, ma ci insegna come si deve andare avanti».
24 marzo 2021, Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova
Sardegna: appello delle madri di 45 militanti anti-militaristi
Il 15 aprile si terrà a Cagliari l’udienza preliminare in cui il tribunale di Cagliari
dovrà decidere se rinviare a giudizio o no 45 militanti antimilitaristi attivi nella
lotta contro le basi NATO di cui è disseminata la Sardegna. Qui una lettera di un
gruppo di loro madri.
Siamo un gruppo di Madri dei 45 giovani sotto processo per l’operazione Lince.
Dall’inizio del processo contro i nostri figli e altri attivisti dei movimenti contro
le basi militari, ci ritroviamo davanti al tribunale di Cagliari ogni volta che le
nostre forze e i nostri impegni di lavoro e di cura delle nostre famiglie ce lo
consentono.
Ci ritroviamo davanti al tribunale di Cagliari per chiedere, attraverso la nostra
presenza, che sia posta fine a questa volontà repressiva mirata ad annichilire gli
ideali, i sogni e i progetti, non solo dei nostri figli, ma di un’intera generazione,
attraverso operazioni poliziesche e giudiziarie persecutorie che hanno prodotto accuse
gravissime ed esorbitanti rispetto alla realtà dei fatti cui si riferiscono.
L’Operazione Lince è un’inchiesta della procura di Cagliari sviluppatasi, a partire
dal 2014, nei confronti di movimenti e associazioni impegnati nelle lotte e nelle
manifestazioni contro l’occupazione militare della Sardegna, contro le basi Nato e
contro le devastanti esercitazioni militari che vi si svolgono.
La chiusura delle indagini ha portato ad una quantità di accuse che vanno, in un
crescendo spropositato, da reati connessi alle manifestazioni di piazza, fino
all’accusa gravissima di Associazione con finalità di terrorismo.
Definire terroristiche le manifestazioni del legittimo dissenso nei confronti
dell’occupazione militare – che ha tra i suoi effetti il fatto che nei diversi
poligoni in Sardegna si fanno esplodere l’80% di tutte le bombe esplose nel territorio
nazionale è quanto meno sconcertante e paradossale se per terrorismo si intende “l’uso
di violenza illegittima, finalizzata ad incutere terrore nei membri di una
collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni
quali attentati, rapimenti, dirottamenti aerei e simili”(www.treccani.it).
Davanti a tale distorsione della realtà, che sembra finalizzata a stritolare tanti
giovani e la loro coscienza antimilitarista, noi Madri siamo qui a testimoniare la
nostra condivisione dei motivi delle proteste dei nostri figli e delle migliaia di
cittadini sardi che nei decenni hanno manifestato contro l’occupazione militare;
esprimiamo con forza il nostro diritto a opporci a quello che appare come un teorema
accusatorio basato su postulati ideologici. Uno Stato di diritto dovrebbe riconoscere
la libertà di manifestare il proprio pensiero.
Chiediamo perché lo Stato italiano, attraverso la Presidenza del Consiglio e il
Ministero degli Interni, si sia costituito parte civile, mentre non ha ritenuto di
costituirsi parte civile in altri processi quali quelli per la strage di Viareggio i
morti di Teulada e di Quirra.
Quali sono i motivi veri dell’operazione Lince e delle gravissime accuse con le quali
si vogliono stritolare i nostri figli e si vuole imbavagliare la loro legittima
protesta?
L’interesse dello Stato italiano che incassa 50mila euro l’ora (*Atto di Sindacato
Ispettivo n° 4-07735 del 2017*) per l’affitto agli eserciti di tutto il mondo e a
società private dei poligoni e delle basi, potrebbe essere uno dei motivi che hanno
portato all’operazione Lince.
La lotta contro l’occupazione militare è parte della storia della Sardegna dove è
allocato il 65% del totale del demanio militare italiano.
Ciò ha portato migliaia di persone alle manifestazioni di Capo Frasca, Teulada,
Quirra, persone di estrazione sociale, di cultura e formazione politica e umana quanto
mai diversificate che, però, hanno condiviso gli appelli alla mobilitazione.
L’esistenza di questa consapevolezza è un altro dei motivi che muovono l’operazione
Lince.
Le accuse che sono mosse ai nostri figli comportano delle ripercussioni pesantissime
sul piano personale, familiare e sociale, sul lavoro, sullo studio e sulle prospettive
di vita.
Noi non lo permettiamo e verremo qui, davanti al Tribunale di Cagliari, davanti al
Palazzo di Giustizia, come presidio di solidarietà a cui vi invitiamo ad aderire.
Ci rivolgiamo alle persone, ai lavorator* della formazione, accademic*, della cultura
dello spettacolo dell’arte, dell’informazione, avvocat* e magistrat* perché si apra
una riflessione e un dibattito che non rimanga confinato nelle aule del tribunale e
nel privato degli accusati ma che tocchi la sensibilità dei singoli e renda la giusta
dimensione ideale perché nessuno può ritenersi tranquillo e immune dal pericolo della
repressione di pensiero e libertà sancite dalla Costituzione italiana.
Vi chiediamo pertanto: l’adesione “pubblica” a questo appello per email o per contatto
telefonico personale e l’attivazione di iniziative personali o collettive di
informazione e discussione a sostegno dell’iniziativa.
22 marzo 2021, da pagina fb Madri Contro la repressione Contro Lince
Lecce: processo No Tap, aggiornamenti e qualche riflessione
Il Trans Adriatic Pipeline (TAP) è il tratto di un gasdotto che, insieme al turco
TANAP compone il corridoio meridionale del gas. Questa conduttura dovrebbe fornire il
combustibile fossile all’Austria attingendo alle riserve del mar Caspio (Azerbaijan) e
transitando per l’Italia dove arriva attraverso un tunnel sottomarino con approdo
nella marina di San Foca, in provincia di Lecce.
Qui, un tunnel sotterraneo percorre ancora pochi chilometri per riaffiorare in una
stazione di spinta e poi in un terminale di ricezione che si estende per 12 ettari
situati a poca distanza da quattro centri abitati. Contro la costruzione di questi
impianti si sono mossi gli abitanti della zona, inizialmente attraverso diverse azioni
legali intentate da un comitato cittadino, poi attraverso l’interposizione fisica
contro i mezzi e i cantieri. Proprio di fronte al primo cantiere, nel 2017 è sorto un
presidio di resistenza ed è cominciata un’intensa attività di contrasto durata circa
due anni.
È a questa stagione di lotta che fanno riferimento i capi di imputazione che oggi
vedono al banco degli imputati una novantina di oppositori accusati di vari
danneggiamenti, resistenze, violazioni di divieti, oltraggi e manifestazioni non
preavvisate. Il processo di primo grado arriverà a sentenza fra pochi giorni e
presenta delle caratteristiche che, se ad un primo sguardo paiono singolari, ad
un’osservazione più attenta rivelano continuità e coerenza con una ben rodata prassi
giudiziaria e repressiva.
Un passo indietro. Dallo scorso settembre, nell’aula bunker del carcere di Lecce si
stanno celebrando tre procedimenti formalmente distinti: uno tratta diversi episodi
riconducibili a manifestazioni pubbliche o blocchi dei mezzi accaduti fra il 2017 e il
2018 ed è a carico di 46 persone; un altro imputa a 56 persone la violazione
dell’ordinanza prefettizia che delimitava una “zona rossa” attorno al cantiere; il
terzo riguarda una manifestazione nei pressi di un altro cantiere, per cui 25 persone
sono accusate di aver danneggiato le recinzioni e di aver oltraggiato le forze
dell’ordine addirittura esibendo il dito medio in direzione di un elicottero in volo.
Le udienze dei tre processi si celebrano quasi contemporaneamente con una
calendarizzazione molto fitta e sono assegnati al medesimo giudice. Cardine delle tesi
accusatorie sono le testimonianze rese dagli agenti della digos, valutati con
esplicita dichiarazione del giudice “elementi probanti principali”. Tali testimonianze
fanno riferimento sempre ad episodi pubblici e sono documentati da
fotogrammi che la Digos ha estrapolato dai filmati della polizia scientifica. Come
dire, poesia tratta da prosa…
Una figura che merita attenzione è quella del Pubblico Ministero. Questo magistrato –
procuratore antimafia- è anche assegnatario di un fascicolo scaturito dalla denuncia
di 30 attivisti per i medesimi fatti riguardanti la “zona rossa” e rimasto- neanche a
dirlo- lettera morta, nonostante sia fin troppo chiaro chi fossero quel giorno i
responsabili dell’ordine pubblico e chi avesse potuto dare l’ordine di ammanettare i
manifestanti in piena campagna per tradurli in caserma e in questura sui mezzi di
ordinanza. Se questo elemento illumina sulla scelta di priorità operata dalla procura
leccese nella gestione dell’attività giudiziaria, la nomina di un magistrato antimafia
si inserisce in un solco già tracciato a livello nazionale, per cui si adottano le
prerogative dell’antimafia nei reati di ordine pubblico. Da anni questa tendenza
sempre più generalizzata associa i reati tipicamente ascrivibili all’area del dissenso
e della conflittualità politica a quelli della criminalità organizzata, e lo fa
attraverso l’accostamento dell’antimafia all’antiterrorismo, termine che nel 2015 si
aggiungeva formalmente alla denominazione della divisione della magistratura
antimafia. In questo modo nella prassi giudiziaria e nella strutturazione e
interpretazione delle norme si è assottigliata, fino quasi a scomparire, la
distinzione tra l’ambito del conflitto sociale e quello dell’eversione. Crediamo che
il caso leccese che porta un magistrato antimafia alla pubblica accusa per un reato
contravvenzionale (come è quello per la violazione dell’ordinanza prefettizia) sia
certamente un paradosso ma non un’originale stravaganza. Va da sé come ciò si traduca
in una maggiore efficacia repressiva del dissenso espresso pubblicamente da gruppi più
o meno numerosi e più o meno strutturati politicamente. Questo particolare dispositivo
di contiguità si rafforza anche grazie alla sempre maggiore vicinanza tra l’operato
delle questure e quello delle procure. Una collaborazioneche si avvale di vari
strumenti e prerogative nelle mani della polizia giudiziaria, non ultima
l’applicazione della misura di sorveglianza speciale. Anche su questo aspetto i
processi in corso sono esemplificativi. Senza entrare nel merito di inverificabili
quanto verosimili scambi di poteri, ci preme mettere in luce la particolare
aggressività repressiva di alcune misure che sono state utilizzate “a pioggia” nel
corso della lotta al gasdotto: le sanzioni amministrative per blocco stradale e i
fogli di via. Nel primo caso sono state notificate multe fino a 4mila euro a chiunque
abbia partecipato ai blocchi dei mezzi in arrivo al cantiere, spesso membri dello
stesso nucleo familiare, con ciò provocando grave danno economico amplificato
ulteriormente dai respingimenti in appello delle opposizioni.
Generoso anche l’uso del foglio di via, una misura di prevenzione personale
disciplinata dal codice antimafia ed erogata dal questore. Nello specifico caso
leccese la questura si è limitata ad elencare una serie di manifestazioni alle quali
il destinatario ha partecipato, in cui sono stati rilevati dei reati non commessi
necessariamente da quel soggetto, comminandogli la restrizione massima: tre anni di
allontanamento dai comuni di Melendugno e le sue (molte) marine e da Lecce. Ciò,
naturalmente ha creato non poco intralcio a coloro che in quei luoghi ci lavoravano,
spesso con contratti stagionali e discontinui. chi, invece ha deciso di ignorare il
foglio di via, non accettando, naturalmente, di abbandonare la lotta al gasdotto, ha
ricevuto un vero e proprio diluvio di denunce, alcune formalizzate in decreti penali
di condanna, attualmente in fase di opposizione, altre convogliate nei processi in
svolgimento. Tale violazione, sebbene motivata da ragioni ben diverse dal trarre
profitto personale, rappresenta un reato formale, per cui il giudice non è tenuto a
valutare la pertinenza del divieto emesso dal questore, limitandosi all’accertamento
della presenza dell’imputato in quei luoghi. Del resto, le motivazioni che hanno mosso
gli imputati a fare (o non fare) ciò di cui sono accusati sembra abbiano davvero poco
interesse per il giudice che procede rapido, formale, burocratico, verso la sentenza.
Al di là del pronunciamento di primo grado, già molti aspetti di questa vicenda sono
chiari sebbene pubblicamente poco dibattuti: oltre alla consuetudine dell’uso delle
prerogative antimafia è istruttivo l’uso dei provvedimenti di interdizione di porzioni
di territorio. “Zona rossa” è ormai un termine familiare a cui si rischia
pericolosamente di abituarsi. Con questo dispositivo l’autorità prefettizia può
chiudere piazze, strade, quartieri o, come è accaduto qua, vaste estensioni
extraurbane. Retrodatando alla zona rossa genovese durante il g8 del 2001, passando
per i cantieri dell’alta velocità in Valle di Susa, fino a quelli del gasdotto
salentino, per giungere all’attualità della cosiddetta emergenza sanitaria, la
chiusura militarizzata di porzioni di territorio rappresenta una delle peculiarità
geopolitiche dei tempi in cui viviamo. E, se ciò non fosse sufficientemente chiaro, il
caso Tap dimostra come l’interesse privato di una grande multinazionale travalica,
anzi seppellisce quello pubblico. Di chi è, per davvero, la casa in cui abitiamo?
La vicenda dell’opposizione a Tap, sebbene da sempre connotata da una terribile
sproporzione di forze, ha coagulato una certa consapevolezza rispetto a questa domanda
la cui risposta non è affatto scontata.
12 marzo 2021, da comunellafastidiosa.noblogs.org
Il 19 marzo è stata pronunciata la sentenza di primo grado di tre processi. Oltre
cento persone sono state giudicate per vari reati, in 70 sono stati condannati con
pene che vanno dai tre mesi ai quattro anni e oltre 30 persone hanno subito condanne
superiori a un anno. Infine, il giudice ha ammesso le richieste delle parti civili:
qualche migliaio di euro, definiti “simbolici” per TAP e 25 mila euro (meno simbolici)
per un’offesa verbale subita da un dirigente di polizia da parte di un manifestante.
Le condanne sono state più che raddoppiate rispetto alle richieste del PM, un dato che
rende evidente l’orientamento del giudice Pietro Baffa, titolare di tutti e tre i
procedimenti, portati a sentenza in tempo di record per la giustizia italiana: solo
sei mesi.
Ci sembra inoltre significativo che tre distinti procedimenti si siano conclusi nel
corso di un'unica udienza, così assumendo un carattere di esemplarità punitiva nei
confronti di chi ha osato alzare la testa contro il progetto di questa multinazionale.
Solidarietà al movimento No Tav dai paesi baschi
Segue un comunicato dell’organizzazione internazionalista e indipendentista Askapena
che solidarizza con il movimento No Tav e l’opposizione all’autoporto, perché la lotta
ecologista e quella anticapitalista sono inseparabili. Il testo, pubblicato a fine
aprile su radionotav.info, accenna brevemente anche alle recenti giornate di lotta a
San Didero.
Il movimento NO TAV contro il macro-progetto dell’Alta Velocità che punta a collegare
Lione e Torino nasce negli anni ’90 nella Val di Susa, nelle Alpi, nel nordest
dell’Italia. Da allora è stato un movimento di resistenza molto diversificato e la sua
principale forma di lotta è stata quella di occupare e difendere aree strategiche per
i cantieri TAV creando aree note come “presidi”.
Dopo un periodo di pacificazione negli ultimi anni, è ora in fase di rilancio il
progetto “autoporto”, che si vuole realizzare nel comune di San Didero,
un’infrastruttura strettamente legata al TAV, che si trova a pochi chilometri di
distanza. Il cosiddetto “Autoporto” sarebbe un enorme poligono per il carico delle
merci dai camion ai treni e viceversa, uno dei tanti nodi o punti di connessione
indispensabili per le reti logistiche che supportano l’attuale economia globalizzata.
Da dicembre 2020 esponenti del movimento NO TAV hanno organizzato una zona di
resistenza contro l’autoporto di San Didero attraverso l’occupazione del terreno dove
verranno eseguiti i lavori, e nelle ultime settimane due attivisti si sono incatenati
a bidoni di cemento, tecnica che hanno appreso nei Paesi Baschi.
Lo sgombero del presidio è iniziato il 12 aprile e più di 3.500 agenti di polizia
hanno partecipato all’operazione. Sono stati stanziati 5 milioni di euro per la
sicurezza dell’opera, oltre il 10% del progetto totale. Attualmente la polizia
militarizza l’intera area, abbattendo alberi e recintando il nuovo cantiere. Oltre
alla resistenza nelle terre occupate, grandi mobilitazioni si sono svolte in tutta la
valle di Susa, compreso un campeggio di centinaia di persone.
Sabato scorso è stata organizzata una manifestazione nazionale, che ha riunito persone
da tutta Italia. Dopo la manifestazione ci sono stati dei disordini, e una donna che
solidarizzava con i manifestanti, è stata colpita alla testa con una cartuccia di gas
lacrimogeni CS. È in gravi condizioni in ospedale e rischia di perdere un occhio. Va
chiarito che i proiettili al CS emettono fumi tossici che la Convenzione di Ginevra
proibisce come armi chimiche; sono noti per essere stati utilizzati dagli Stati Uniti
durante l’invasione del Vietnam. Tuttavia, tutta questa violenza usata dallo Stato non
ha sorpreso nessuno. Il capitale ha bisogno della movimentazione geografica costante
delle merci, ed è consapevole dei danni che possono causare i blocchi stradali,
ferroviari, marittimi e aerei, come dimostrano le conseguenze e il clamore provocato
da una singola nave nel Canale di Suez. Compagni e compagne della Valsusa hanno preso
coscienza dell’importanza strategica di queste reti logistiche e stanno dimostrando
che le lotte ecologiche e anticapitaliste sono inseparabili. Da Euskadi [terre basche]
esprimiamo il nostro pieno sostegno e solidarietà ai compagni dei movimenti NO TAV e
Presidio Ex-Autoporto San Didero che resistono giorno e notte. No ai treni ad alta
velocità! Né qui né altrove!
Askapena
Valsusa San Didero, 25 aprile 2021
LETTERE DAL CARCERE DI REGGIO EMILIA
Compagne e compagni dell’opuscolo Olga, è veramente uno schifo. Gli sbirri che hanno
preso parte, anzi fronteggiato le rivolte, e nello specifico quelle di Modena, tutti
assolti. 3 procure hanno dichiarato l’estraneità dei fatti degli agenti inquisiti che
voce angelica fa sapere che sono stati sottratti 100 litri di metadone. Neanche se
l’avessero assunto tutte le guardie dei 27 penitenziari che si sono rivoltati ve ne
sarebbe voluto tanto. E i risultati delle autopsie? Dove sono le fatture di chi ha
consegnato il metadone? O magari il metadone non è tracciabile? No, è come i vecchi
tempi, quando ci mette le mani lo stato ne ammazza dai 14 in su se no il lavoro non è
stato di qualità. Ma la domanda è: come mai non è stato somministrato il NARCAN. Dove
ci sono prigionieri si trova anche la panacea da sovradosaggio, chi sa da quanti anni
si parla di giustizia riparativa. E come lo ripari uno se è morto? In verità la
risposta c’è, bisognava chiedere a Gesù Cristo, ma al momento era impegnato altrove.
Le galere di Stato oltre a non servire più a nulla, se mai fossero servite, sono
dimenticate, pure pericolose, anzi, mortali.
È difficile dire quello che ha suscitato nei reclusi, quelli interessati ovviamente,
personalmente era una cosa che ci si poteva aspettare. Ho 59 anni e so bene come
funziona la storia. Dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana (MI)
passando per il treno (Italicus), Piazza della Loggia, la strage di Bologna e tanti
altri episodi meno eclatanti. Aperte le indagini che portavano sempre a qualche entità
sovversiva, invece erano loro, sempre e solo loro. Lo Stato, è così che conserva i
metodi stragisti e fascisti. Però il 9/03/2020, io ricoprivo la mansione di scrivano e
li ho visti con i miei occhi quelli che portavano da Modena qui a Reggio Emilia.
Scalzi, in pigiama, senza niente, prelevati e deportati. Ma quello che ricordo di più
erano le ecchimosi e i volti tumefatti dalle botte ricevute. Una cosa che una società
civile non dovrebbe accettare, nella quale tali orrori non ci dovrebbero essere. Ma
non si fa nulla, e sapete perché? Perché l’importante non è il covid nelle galere, il
sovraffollamento, le guardie che menano, questo passa tutto in secondo piano, quando
il robot atterra su Marte, questo è l’importante. Roba da non credere. (8 marzo 2021)
***
[…] l'inferno si è abbattuto sulla Pulce. L'impianto è imploso con l'infezione da
covid19. La casa circondariale blindata e noi della penale, esclusa la 5A sezione, in
circa 10 reclusi, deportati alla sezione A che era predisposta per l'isolamento e
l'osservazione di 25 celle per due bracci, ora diventata sezione quarantena covid.
Tranne un paio di noi, siamo, per ora, asintomatici. Il giorno 17/03 mi è stato
concesso un permesso di 4 ore accompagnato dal prete. Al rientro mi hanno effettuato
il tampone molecolare che è risultato positivo. Mano a mano sono arrivati gli altri.
Il problema è che le celle sono distrutte, fredde e l'amministrazione non ci fornisce
né disinfettanti né niente per pulirle. Le cure mediche sono miopi se non per il fatto
che l'infermiere di turno ci misuri la temperatura e la saturazione, il resto ci
dicono che bisogna aspettare che passi.
Di sicuro sappiamo che il tampone ci verrà effettuato il 31/03. Intanto abbiamo saputo
che hanno sanificato le celle. La situazione è peggiorata per il fatto che non ci
fanno arrivare coperte personali e abiti appropriati per difenderci dal freddo.
[…] Praticamente viviamo al gelo in una sezione che dovrebbe essere stata trasformata
in qualcosa di ospedaliero. Siamo chiusi 24 ore su 24 e non ci fanno neanche accedere
ai passeggi. Il nervosismo sale di minuto in minuto. Resistiamo ma è veramente dura.
[…] Dagli studi legali sono partite e-mail alla direzione e alla magistratura di
sorveglianza autoctona ma, in 7 giorni, nulla è cambiato. La pressione psicologica è
forte e, oggi più che mai, la tortura democratica, comincia a sortire i primi segni di
persecuzione che invece dovrebbe essere incolumità medica e una maggiore attenzione da
parte degli organi di vigilanza, ma soprattutto dalla direzione. (24 marzo 2021)
***
[...] La pandemia è esplosa nel giorno 17 di marzo. Le celle sono chiuse in tutte le
sezioni e le attività bloccate. Le profilassi per il controllo della positività, il
famigerato tampone, hanno trovato su una somma di 450, più di tre quarti positivi. Le
cure si basano sul controllo della temperatura e saturazione. Non sono stati forniti
neanche l'ombra di antibiotici – 6 detenuti sono già intubati c/o l'ospedale di R.E.
In pratica la situazione ha assunto un panorama ingestibile sotto il profilo sanitario
ed anche le guardie sono state colpite duramente. Si è passati da 0 a 100 in un
battito di ciglia. La sezione Antares, due bracci da una quindicina di celle l'uno, è
stracolma e da qualche tempo quelli tornati positivi vengono lasciati nelle proprie
celle con il blindo chiuso. Oltre quindi al contagio, l'applicazione di una punizione
aggiuntiva frutto della ormai conosciuta tortura democratica.
A Parma stessa storia, tutto blindato. Si avverte la stanchezza dei reclusi persino di
effettuare una benchè minima resistenza. Colpiti dalla chiusura dei colloqui e dalla
privazione ulteriore di aver bloccato le video-chiamate cercando di aiutarci come
possiamo. Le risorse, sia quelle psicologiche che quelle oggettive ormai sono ridotte
ai minimi termini. Solo la rabbia ci tiene vivi. L'immobilità del ministero della
giustizia nell'effettuare passi nei 192 penitenziari al più presto e il totale
asservimento della RAI 3 dell'Emilia Romagna, che divulga notizie false con
statistiche non veritiere, stanno rendendo il clima bollente. La richiesta è che
quanto prima si possano sapere le condizioni degli altri istituti e il conteggio delle
unità attualmente ostaggi dello Stato. I burattinai dicono 54.500 reclusi, ma a noi
non portano i conti. Spero vogliate aiutarci a divulgare tali notizie. Sono stati
informati: Sicilia Libertaria, Cassa AntiRep di Cuneo e la redazione del giornale
anarchico internazionalista. Lotteremo fino all'estinzione dello Stato Borghese. A
pugno chiuso.
P.S. La Pulce (Istituti penali Reggio Emilia) ha aperto i battenti il 13/11/1991, sino
ad oggi si sono verificati più o meno 230 decessi. Forse c'è qualcosa che non va!?!
(1 aprile 2021)
Marco Ricci, via Settembrini, 8 - 42123 Reggio Emilia
LETTERE DAL CARCERE DI MILANO-OPERA
[…] Non vedo nulla a questo cambio dei vertici dei poteri dello stato. Vedi che al
ministero della giustizia possono mettere anche Sant’Ambrogio, ma una volta che entra
in quelle stanze di potere esercita solo la dottrina che ci trova, non la santità
della sua indole. La storia del nuovo ministro può confondere e portarti a pensare
positivamente. La sua anima democratica a mio parere è rimasta fuori dai palazzi dei
poteri e il tempo che avrà a sua disposizione per occupare quella poltrona non le
basterà per rimanere nel tempo il suo passaggio se non come un nome qualunque che ha
occupato quella poltrona.
I potenti a parole sono vicini al popolo. A parole soffrono le sofferenze, i patemi,
gli stenti del popolo che in questo periodo di covid, sono davvero tanti. Ma nei fatti
sono lontani dalle esigenze del popolo, e la società intera lo vive sulla propria
pelle, ed anche il nuovo ministro della giustizia entrando in quelle stanze di potere
lasciando fuori la sua anima garantista e democratica non farà nulla per cambiare le
sorti della magistratura e tanto meno quello delle carceri. L’Italia la comandano i
magistrati e dovunque ci sono poltrone occupate da loro, non c’è altro stato se non
quello che vogliono loro. Il DAP è amministrato da magistrati con lunghi percorsi
nell’antimafia; il DAP amministra miliardi di euro; come questi magistrati permettono
di farsi sindacalizzare da un ministro di turno? Anche se si chiama Cartabia?
Ci troviamo qui in Italia, in un sistema più che criminoso; e ti sto parlando solo per
ciò che mi riguarda; magistratura e carceri! In questo ambiente i controllori sono gli
stessi controllati, quindi come si fa a sconquassare un sistema con questo principio?
Non credo che bastino battaglie, proteste, denunce per scardinare questo sistema
perverso. Sono del parere che terminerà quando esploderà dentro sé stesso. E ti faccio
l’esempio di Palamara. Il primo pentito della magistratura. Altri 3 o 4 come questi e
allora si che l’Italia riuscirà a cambiare.
Tanto per dirtene un’altra; quell’unica voce che è rimasta lì fuori che grida a favore
di chi è imprigionato dallo stato sono l’associazione che tu rappresenti e qualche
altra. Poche gocce nell’oceano, e cosa hanno fatto i politici? Consigliati da questi
poteri forti della magistratura si sono fatti mettere nero su bianco con una circolare
che gli dà la copertura penale di usare idranti e manganelli se venite a protestare
fuori al carcere, è normale? No che non è normale se ci trovassimo in uno stato
libero, ma l’Italia non lo è. E ti voglio raccontare un altro episodio che mi è
capitato meno di un mese fa. Quattro anni fa i miei avvocati hanno presentato un
ricorso alla corte di Strasburgo per revoca di ergastolo, causa: diritti non
riconosciutomi da questo stato! Alla prima lettura del mio ricorso, i giudici, l’hanno
fatto ammissibile; un mese fa si fa l’udienza deliberatoria, e guarda caso, se
realmente un caso, chi presiede il collegio. Un giudice italiano con un bosniaco e uno
sloveno. L’italiano di origine di Castellamare di Napoli, e sempre il caso ha voluto
che il fatto omicidiario in discussione è avvenuto a Castellamare negli anni ‘80 e
questo giudice cosa delibera? Il ricorso, smentendo i giudici di prima lettura, è
inammissibile! Ecco! È questo il nostro stato, giustizialista, vendicativo e ti
perseguita per la sua vendetta dovunque può arricchire il suo potere. Beh! Credo di
aver fatto una bella chiacchierata. E poi come vedi non cambia molto di ciò che penso
del sistema, e con gli anni è sempre peggio, sia ciò che penso e sia ciò che vedo e
vivo. Ringrazio io te e tutti i compagni/e per quello che fate per noi. Un abbraccio a
tutti. (10 marzo 2021)
***
[...] Ho seguito dei disagi che ci sono stati con i vaccini qui in Lombardia; la
gestione, con tutti i cambiamenti che ci sono stati nella regione si è rivelata lo
stesso incompetente. Ora stanno cercando, da quello che sento, ripari alle loro
mancanze, ma con una confusione totale che hanno posto sui cittadini sulla serietà
degli stessi vaccini, la stessa confusione è arrivata qui dentro tra noi imprigionati,
se farli o meno e se sì quale fare? Per intanto anche qui hanno iniziato a vaccinare i
reclusi. Tra l’altro ieri nelle tre sezioni del primo piano dove sono recluso io hanno
vaccinato tutti coloro che hanno patologie gravi e tutti quelli che son stati
contagiati nei mesi scorsi di covid. Per ora hanno iniettato il Pfizer e credo che in
settimana vaccineranno anche noi con lo stesso farmaco. Per ora sono vaccinati tutti
gli anziani, e gli altri, come ti ho detto per i più giovani bisognerà aspettare
perché non credo che in settimana lo faranno così come ci è stato detto; come lì fuori
anche qui dentro la gestione è in mano a dei caproni.
Nel frattempo, non ci sono state novità da segnalare, tutto è rimasto come prima, con
l’evento del nuovo ministro della giustizia i tribunali continuano a decidere che i
prigionieri anziani malati gravi devono continuare a morire nelle patrie galere. Per
ora l’anima democratica e garantista è rimasta come prevedibile fuori dalla stanza del
potere. Per questi indegni è uno smacco allo stato se un relitto umano va a morire a
casa.
Il protocollo della gestione per il covid, contenga ad essere lo stesso qui dentro
come gli altri istituti che sono in contatto; colloqui non se ne fanno, e se sì, in
base al colore della regione; continuano a tenere tutto chiuso tranne la scuola che
fanno entrare solo i professori vaccinati.
Ora vedremo cosa decideranno dopo che ci avranno vaccinati tutti. Credo che qualche
apertura la dovranno fare, almeno è questa la speranza, per ora ci hanno messo
all’ingrasso come i pezzi da macelleria, tanto lo sanno che con quello che hanno
combinato nella prima fase dell’epidemia con le proteste, in questi posti si è tornati
alla vita dormiente. Oramai i nostri governanti sono indottrinati nelle frasi dette
pur di mantenere il potere qualunque cosa che accade, sia nelle carceri, sia che il
popolo protesta perché ha fame, fanno la solita carrellata in tv e tutti a dire “con
la violenza non si ottiene nulla!” non c’è mai una voce fuori dal coro che grida “qui
non si ottiene nulla comunque”. Oramai questo è uno stato miserabile. Contiamo le
parole, più sono forti e colpiscono la società perbene più la concretezza delle cose
latita; dopotutto basta buttare benzina su di noi, la criminalità organizzata e hanno
risolto tutto, come se la criminalità, le mafie, come loro vogliono fare intendere
esistono ancora.
Oggi più che mai le carceri sono l’emblema della società di fuori. Siamo tutti
truffati, ricattati, rapinati, estorti dal potere. Ti potrei elencare le centinaia di
estorsioni che ogni cittadino ha dovuto pagare ogni giorno a questi dei poteri dello
stato, e pagano inconsciamente e poi i criminali siamo noi. Chiusi qui dentro. Pensa
che Strasburgo ha condannato di nuovo l’Italia sulla gestione delle carceri;
all’apparenza sembra una cosa politica, ma la realtà di queste condanne non fanno
altro che peggiorare la nostra situazione, perché i signori del DAP, con la
compiacenza dello stato, anziché costruire altri istituti per darci più spazio, non
faranno altro che portarci altre brande in cella per dire poi a Strasburgo che hanno
creato più posti, togliendoci lo spazio per la nuova branda. Quindi come vedi certe
condanne all’Italia peggiorano la nostra vivibilità. Ma questo nessuno lo sa, lo
sappiamo noi che subiamo. Si, ma io prima o poi, le brande ce le butto nel corridoio,
cosi come ho fatto a Oristano, e a Volterra. Dalle parti mie si dice (senza offesa per
nessuno, perché io ho massimo rispetto per tutti”) “fai il frocio con il tuo culo”!
quindi non permetto che questi del DAP lo facciano con il mio! Per ora mi fermo qui
saluti e abbraccio tutti/e i compagni.
Milano-Opera, aprile 2021
NOTIZIE DALLE CARCERI
Segue una rassegna di notizie e informazioni sulle carceri riportate da diversi
giornali nazionali e locali. Chiediamo a tutti i prigionieri di portare contributi
diretti sui fatti riportati, in modo tale da liberarci dalla stampa dei sindacati di
polizia penitenziaria e dei governi di turno.
19 febbraio. La Cassazione ha confermato la decisione del Csm sull'allora magistrato
di sorveglianza di Brescia che con la sua condotta aveva danneggiato la donna. Era ai
domiciliari, l'allora magistrato di sorveglianza di Brescia le aveva negato il
permesso per andare in ospedale a interrompere la gravidanza. Lo aveva fatto per
obiezione di coscienza. Per questo è stato censurato dal Csm per la sua condotta che
aveva anche danneggiato la donna. Ora la Cassazione, con la sentenza numero 3780,
conferma tale decisione.
27 febbraio. Lo studio promosso da Area Dg che ha coinvolto 60 tra pm e giudici del
Piemonte: "É aumentato il numero di arresti in flagranza soprattutto per fatti non
connotati da particolare gravità". I numeri sul totale degli arresti e dei fermi è
passato dai 2.466 del 2014 ai 3.538 del 2019. Durante l'emergenza sanitaria del 2020
sono scesi nel complesso a 3.285, anche se sono aumentati in maniera netta quelli per
resistenza a pubblico ufficiale (370 nel 2016, 540 nel 2020). Tra di esse gli arresti
per furto per particolare tenuità del fatto ("La professoressa incensurata arrestata
perché in coda all'Ikea passa dritta alle casse rubando un mestolo") o gli arresti per
false dichiarazioni sull'identità personale".
28 febbraio. Sassari. La decisione del magistrato di sorveglianza per Domenico
Strisciuglio detenuto dal 1999 al regime del 41bis: accolto il reclamo proposto dal
difensore. Visto il momento di pandemia, in caso di impossibilità alla visita, si può
ricorrere alla tecnologia. Potrà fare una videochiamata al mese con i familiari. Il 19
febbraio gli era stato concesso anche l'acquisto di un lettore e dei dischi. Anche in
questo caso il Tribunale di sorveglianza di Sassari aveva stabilito che si trattava di
"un diritto primario, un residuo di libertà".
1 marzo. Gli ultimi due militari di guerra tedeschi superstiti condannati
definitivamente all'ergastolo per l'uccisione indiscriminata di militari e civili
italiani sono morti: si tratta, come conferma all'Ansa il procuratore generale
militare Marco De Paolis, del centenario Karl Wilhelm Stark, accusato di vari eccidi
commessi nel 1944 in varie località dell'Appennino tosco-emiliano e di Alfred Stork
(97 anni), ritenuto responsabile di una delle stragi avvenute sull'isola di Cefalonia
nel settembre 1943 nei confronti dei militari della Divisione Acqui. Nessuno dei due
ha mai fatto un giorno di carcere o di detenzione domiciliare. Sono stati 60 gli
ergastoli inflitti dalla magistratura militare italiana dopo la scoperta, nel '94, del
cosiddetto Armadio della vergogna, dove centinaia di fascicoli di stragi nazi-fasciste
erano stati occultati nel 1960. Ma di fatto nessuno è stato eseguito, perché le
richieste di estradizione o di esecuzione della pena nei Paesi dei condannati sono
sempre cadute nel vuoto.
2 marzo. "Presenteremo esposto in procura". Lo ha annunciato l'avvocato della famiglia
Cutolo: "La visita di moglie e figlia al defunto è durata solo 5 minuti. Il magistrato
di Parma titolare, che ha disposto l'autopsia sul corpo dell'ex boss ha disposto che
la moglie di Cutolo e la figlia 13enne non si avvicinassero alla salma, che non
potessero porre sulla salma alcun oggetto, non un fiore, non una corona, non
un'immagine sacra, e che la visita fosse realizzata a distanza e alla presenza di più
operatori delle forze dell'ordine. La visita di moglie e figlia al defunto è durata
solo 5 minuti. C’è stato un corteo di auto di Polizia e Carabinieri partito da Parma
per raggiungere in piena notte il cimitero di Ottaviano, circa 200 uomini impegnati
per 700 chilometri: una vera e propria scorta. Addirittura il sacerdote che ha
officiato quella breve cerimonia è stato prelevato presso la sua abitazione e portato
pochi minuti prima al cimitero di Ottaviano.
5 marzo. Firenze. Violenze nel carcere di Sollicciano, altre tre segnalazioni per
presunti pestaggi. Stesso modus operandi a Sollicciano, denuncia l'associazione
"L'Altro diritto", dove 9 agenti sono stati raggiunti a gennaio da una misura
cautelare. È notizia recente che nove agenti penitenziari, tra i quali un'ispettrice,
sono stati raggiunti dalle misure cautelari perché avrebbero pestato due detenuti in
momenti differenti nel carcere di Sollicciano. Uno nel 2018 e l'altro a maggio del
2020. Ora però emerge che si sarebbero verificati altri tre casi di abusi con lo
stesso modus operandi che confermerebbe il clima di terrore perdurato nel tempo a
Sollicciano.
13 marzo. Padova. Detenuti declassificati. "Non c'è stato alcun reato". Si tratta
dell'indagine di cui è stato protagonista Salvatore Pirruccio, all'epoca dei fatti
direttore del Due Palazzi da 13 anni, poi rimosso nell'ottobre 2015 dall'incarico.
L'accusa contestata era di falso ideologico in seguito alla declassificazione di 6
reclusi dal regime di Alta sicurezza (riservato ai condannati inseriti nella
criminalità organizzata per reati di tipo associativo come mafia e traffico di droga a
livello internazionale) a quello proprio dei detenuti comuni.
21 marzo. Torino. Un giovane, 24 anni, in carcere per una tentata rapina. Poi il
trasferimento in una cella di osservazione del reparto psichiatrico, dove avrebbe
dovuto trascorrere solo poche notti. La "liscia", così la chiamano al carcere Lorusso
e Cutugno. È la numero 150 e si trova all'interno del Sestante, il reparto
psichiatrico. Una stanza completamente vuota, priva di mobili e suppellettili. Le
uniche parvenze di arredo sono un materasso, una coperta e il bagno a vista con lo
scarico attivato dall'esterno. M., 24 anni, nella "liscia" avrebbe dovuto trascorrere
solo poche notti, invece vi sarebbe rimasto per molto più tempo: oltre i limiti
stabiliti dai regolamenti. "È rimasto nudo, con la luce sempre accesa e senza acqua
corrente", denuncia il padre. “Per quattro giorni, poi, non gli hanno fornito acqua in
bottiglia e così quando dall'esterno attivavano lo scarico dei bagni, lui la
raccoglieva prima che finisse negli escrementi. Lo hanno mortificato, insultato,
umiliato". Una perizia psichiatrica ha anche stabilito che M. era sottoposto a
trattamento psicofarmacologico "esagerato" e "abnorme", con il rischio "non solo di
aggravare e perpetuare la sintomatologia psichica e comportamentale, ma anche di
ostacolare e compromettere le possibilità di recupero".
30 marzo. Nonostante ci siano diverse sentenze di Cassazione che dicono chiaramente di
non sanzionare un semplice scambio di saluti al 41bis tra detenuti appartenenti a
diversi gruppi di socialità, l'amministrazione penitenziaria continua a punire chi lo
fa. Come rivelato da Il Dubbio è stata emanata una importante circolare che aveva come
oggetto i "reclami giurisdizionali (articolo 35- bis OP)". Nello specifico chiede ai
direttori delle carceri che ospitano i 41bis, di conformare l'azione amministrativa ai
princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della
magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi (sentenza Corte
costituzionale del 26 settembre 2018 n. 186), di eliminazione del divieto di scambio
di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità (sentenza Corte
costituzionale del 5 maggio 2020 n. 97), di eliminazione delle limitazioni alla
permanenza all'aria aperta a una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari
inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato
da diverse sentenze della Cassazione. La circolare è a firma del direttore generale
Turrini Vita. Ma è stata clamorosamente revocata dopo appena due giorni dal capo del
Dap Bernardo Petralia e dal vice Roberto Tartaglia.
30 marzo. “Effettuare periodici controlli così da garantire una reale corrispondenza,
tra i prezzi dei prodotti alimentari e non in vendita nei sopravvitti e quelli dei
supermercati più vicini ai luoghi in cui gli istituti penitenziari si trovano" questa
la richiesta avanzata dall'on. Lorefice ed altri del Movimento 5 Stelle, in merito
alla situazione delle carceri italiane. Lorefice nella sua interrogazione cita la Saep
Spa, una delle principali rifornitrici di prodotti alimentari e non, nelle carceri
italiane ricordando che "la Saep Spa è una società che da anni gestisce gli spacci
interni di ben 26 carceri italiane, di cui otto in Lombardia. "È una delle tredici
società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di
Potenza e un giro d'affari anche nel gioco d'azzardo: gestisce due sale bingo, una
piattaforma telematica per il poker online e la raccolta di scommesse sportive e
ippiche, tutte licenze garantite dallo Stato.
4 aprile. 41 bis e i diritti negati ai minori. La Consulta non entra nel merito. Chi è
al 41bis, a causa della pandemia, a differenza dei detenuti "ordinari" non può
effettuare i video colloqui con i figli minori. Il caso è stato sollevato alla
Consulta, ma quest'ultima ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità
costituzionale della norma. A sollevare il caso è stato il Tribunale minorenni di
Reggio Calabria che si occupa dei minori i cui genitori sono stati dichiarati decaduti
dalla potestà genitoriale anche quando questi ultimi chiedono al Tribunale di
autorizzare i colloqui con i figli tramite strumenti informatici.
17 aprile. In un anno e mezzo soltanto cinque ergastolani hanno ottenuto il permesso
premio. Solo 5 detenuti su 1.271 ergastolani ostativi. La Consulta, nonostante
l’ultima sentenza (21 giugno 149/2018) che contestava il carattere automatico della
preclusione temporale all'accesso ai benefici, impedendo al giudice qualsiasi
valutazione individuale sul concreto percorso di rieducazione compiuto dal condannato,
in ragione soltanto del titolo di reato che supporta la condanna, ha mantenuto dei
rigidi paletti per i benefici. Da una parte c'è una apertura perché si dà al giudice
di sorveglianza un margine di valutazione che fin qui non aveva; dall'altra va provata
la "non attualità della partecipazione all'associazione criminale" e va "escluso il
pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata". L'essenza
della decisione della Consulta: "La collaborazione con la giustizia non
necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la
mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato
ravvedimento o "emenda", secondo una lettura "correzionalistica" della rieducazione.
18 aprile. Torino. È stato condannato a 4 mesi di carcere dal Tribunale di Torino, ma
nessuno sa quale sia il suo nome, né quanti anni abbia o dove sia nato. L'uomo infatti
non ha mai declinato le proprie generalità durante i controlli della polizia, al punto
che negli atti consegnati al suo avvocato d'ufficio per questo processo, dove era
imputato per resistenza a pubblico ufficiale, è stato indicato come "sconosciuto".
20 aprile. C'è un capitolo nel Piano che il Governo Draghi sta per sottomettere
all'attenzione delle Camere e di Bruxelles nel Recovery Plan. Titolo: "Miglioramento
degli spazi e della qualità della vita nei penitenziari per adulti e minori". Spesa
prevista 132,9 milioni di euro, di cui un terzo servirà per ammodernare quattro
istituti per minorenni (a Roma, Benevento, Torino e Bologna) e due terzi per costruire
otto nuovi padiglioni e per una campagna di manutenzione straordinaria in altri.
21 aprile. Parma. Il DAP ha chiesto la rimozione di Choroma Faissal, il responsabile
sanitario del carcere di Parma. La motivazione sarebbe da ritrovarsi nel fatto che
abbia messo a conoscenza delle autorità esterne - dai garanti al tribunale di
sorveglianza - il focolaio che ha coinvolto il 41 bis del carcere parmense. Ma
soprattutto per aver messo in guardia delle possibili complicazioni per i detenuti che
hanno gravi patologie pregresse. Ultimamente aveva anche segnalato la criticità che
persiste al centro clinico del carcere di Parma, dove denuncia la difficoltà oggettiva
nell'assistere h24 quei detenuti che richiedono tale assistenza.
***
stralci dal XVII rapporto di Antigone sulle carceri italiane
Il rapporto segnala che i 189 istituti penali hanno bisogno di essere ancora spopolati
e non solo per fronteggiare il virus. Crescono i suicidi, le donne detenute sono solo
il 4,2%, gli stranieri non aumentano, mentre risultano buoni i sistemi e la gestione
dell'epidemia nella giustizia minorile. Il Rapporto ci dice inoltre che il numero di
positivi oltre le sbarre è più alto di quello che sta fuori. Dentro le mura degli
istituti di pena italiani sono morte 18 persone detenute e 10 guardie penitenziarie. I
tassi medi di positivi, stando ai dati aggiornati al febbraio 2021, mostrano che su
10.000 reclusi, il numero di positivi era di 91 persone, mentre nel resto della
popolazione 68. Riguardo i vaccini, tra fine febbraio e inizio marzo è finalmente
iniziata la campagna di immunizzazione nelle carceri. I detenuti che, sempre fino al 9
marzo, hanno ricevuto il vaccino solo in 927. Al 28 febbraio 2021 i reclusi in Italia
erano 53.697; il 29 febbraio dell'anno scorso erano 61.230. In un anno, il calo dei
detenuti è stato di 7.533 persone: il 12,3% di tutta la popolazione penitenziaria. Una
diminuzione che ha riguardato sia condannati che persone in attesa di giudizio. I
condannati sono il 68%, ma le persone che non hanno ricevuto il primo giudizio il
16,5%.
I reati più diffusi: contro il patrimonio e contro la persona. I dati criminali
informano che i reati per i quali in Italia si va in carcere più spesso sono prima di
tutto quelli contro il patrimonio (30.745), poi quelli contro la persona (23.095) e i
reati in violazione della legge sulle droghe (18.757). Seguono le violazioni della
legge sulle armi (9.397) e i delitti di associazione di stampo mafioso (7.274). Ogni
detenuto è mediamente in carcere per aver commesso più di due delitti.
Omicidi ai minimi storici; femminicidi in aumento. Come negli anni precedenti, anche
nel 2020 vi è stata una diminuzione degli omicidi volontari: si è passati dai 315
omicidi del 2019 ai 271 del 2020, con una riduzione del 14%. La diminuzione degli
omicidi totali non ha trovato corrispondenza nella riduzione negli omicidi contro le
donne. Risultano in lieve aumento le vittime femminili (da 111 del 2019 a 112 del
2020) e quelle uccise in ambito familiare-affettivo (da 94 a 98).
Affollamento ufficiale al 106,2%, effettivo al 115%. Il tasso di affollamento è al
106,2%. L'amministrazione penitenziaria riconosce che "il dato sulla capienza non
tiene conto di situazioni transitorie"; i reparti chiusi, poi, riguarderebbero circa
4mila posti: chiarito ciò, il tasso di affollamento effettivo, non ufficiale, cresce e
raggiunge il 115%. Per arrivare al 98% della capienza ufficiale regolamentare
(percentuale di un sistema vivibile, che abbia un certo numero di posti liberi per
eventuali arresti), sarebbe necessario diminuire il sistema di 4.000 persone (8.000
con i reparti chiusi). Taranto, con 196,4% di detenuti in più; Brescia, con 191,9%;
Lodi, con 184,4%, sono i penitenziari più affollati. Ma sono oltre 20 le carceri
sovraffollate d'Italia.
Sono stati 61 i suicidi in cella: numero senza precedenti. Nel 2020, 61 persone si
sono tolte la vita negli istituti di pena italiani. 11 suicidi ogni 10.000 persone.
L'età media è di 39,6 anni. La fascia più rappresentata, 15 decessi, è quella fra i 36
e i 40 anni, seguita da 8 decessi di ragazzi tra i 20 e i 25 anni. I più giovani
avevano 22 anni, morti uno a Benevento e l'altro a Brescia; la persona più anziana
aveva 80 anni, a Cagliari. Il carcere dove si sono concentrati più suicidi è a Como,
con 3 decessi fra i mesi di giugno e settembre. Seguono, con 2 casi ognuno, gli
istituti di Benevento, Brescia, Napoli Poggioreale, Palermo Pagliarelli, Roma
Rebibbia, Roma Regina Coeli e Santa Maria Capua a Vetere. 13 i suicidi dopo le rivolte
e le proteste sui tetti di marzo 2020, a inizio lockdown, e il conseguente
allontanamento tra detenuti e i loro cari.
Solo 1/3 dei detenuti frequenta la scuola. Appare urgente un piano di scolarizzazione
e formazione. I detenuti che frequentano la scuola sono circa 1/3 del totale.
Nell'anno scolastico 2019/2020 gli iscritti a corsi scolastici, dentro, erano 20.263
(il 33,4%). Poco meno della metà (9.176) erano stranieri. Gli infratrentenni detenuti,
inoltre, sono ben 9.497.
Il carcere costa 3,1 miliardi. Il personale penitenziario è scarso e disomogeneo. Il
bilancio del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) è pari a 3,1
miliardi, mentre quello del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc) è
molto più contenuto, pur occupandosi di minori, giovani adulti e dell'area penale
esterna ed è meno di 1/10 delle risorse del DAP. Su un organico di 37.181 persone,
poi, sono 32.545 gli agenti di polizia penitenziaria operativi. La differenza fra
personale previsto ed effettivo è pari al 12,5%. La carenza di agenti rispetto
all'organico non è equamente distribuita: alcuni provveditorati hanno un sotto
organico oltre al 20% (Sardegna e Calabria), altri hanno un numero effettivo anche
superiore a quello previsto (Campania e Puglia-Basilicata). In 31 carceri italiane
manca un direttore titolare e, rispetto ai 67 mediatori culturali previsti dal
Ministero della Giustizia, quelli realmente in servizio in Italia sono solo 3.
Cresce l'area penale esterna: 61,589 persone. L'area penale si compone anche di misure
non detentive. Sono 61.589 le persone in misura alternativa alla detenzione, sanzione
sostitutiva, libertà vigilata, messa alla prova, lavori di pubblica utilità. Di
queste, 6.961 sono donne. 16.856 in affidamento in prova al servizio sociale, 11.788
quelle in detenzione domiciliare e 752 in semilibertà. Ben 8.828 sono sottoposti a
lavori di pubblica utilità, quasi tutti per violazione del codice della strada, 18.936
in messa alla prova e la convertibile pena residuale, per far fonte al
sovraffollamento.
Stranieri detenuti. Da tempo sono il 32,5%, soprattutto da Marocco, Tunisia, Albania.
I detenuti stranieri, da alcuni anni, rappresentano il 32,5% della popolazione
carceraria. Al 31 dicembre 2020, la popolazione detenuta straniera in Italia proveniva
soprattutto dall'Africa, con 9.261 ristretti, in particolare da Marocco (3.308) e
Tunisia (1.775). Dall'area UE provengono 2.691 detenuti. L'Albania, con 1.956
detenuti, è lo Stato balcanico extra UE con il più alto numero di detenuti in Italia.
Le donne delinquono pochissimo. Sono solo il 4,2%. Erano 2.250 le donne presenti negli
istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2021, 27 delle quali con figli al
seguito: solo il 4,2% del totale della popolazione detenuta. Le quattro carceri
femminili italiane (Trani, Pozzuoli, Roma, Venezia) ospitano 549 donne, meno di 1/4
del totale. L'Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam non dipendente da un
carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 sono nelle 46 sezioni
femminili di carceri maschili. Il 28,9% dei 4.160 reati ascritti alle donne riguarda
reati contro il patrimonio, contro la persona (18,5%) e le violazioni della legge
sulle droghe (15,7%). L'associazione mafiosa riguarda il 3% delle detenute. A fine
2020, erano 13 le donne in 41bis.
La detenzione minorile fa fronte virus. A metà gennaio 2021, erano 281 i ragazzi
detenuti nei 17 Istituti penali per minori, 119 minorenni e i 162 giovani adulti. I
giovani in Ipm costituiscono il 22% dei 1.276 che vivono in strutture residenziali
della giustizia minorile e il 2,11% dei 13.282 in carico agli uffici di servizio
sociale per i minorenni, tra questi 2.149 sono in messa alla prova. Gli italiani sono
158, gli stranieri 123. Le ragazze sono 13 (4 italiane e 9 straniere), ospitate nelle
sezioni femminili di Nisida e Roma e nell'unico Ipm tutto femminile di Pontremoli, con
attualmente 8 donne. Sono 148 i ragazzi che hanno una sentenza definitiva, il 52,7%
del totale, mentre il 20,6% è in attesa di primo giudizio.
***
Di seguito aggiornamenti su processi e notizie su alcune delle Operazioni contro
anarchici e anarchiche in Italia, per i quali gli inquisitori nostrani mostrano una
notevole attenzione riservando loro anche circuiti penitenziari speciali.
Lunedì 22 febbraio si è tenuta a Trento l’udienza d’appello con sentenza per i 7
compagni coinvolti nell’operazione Renata. Le condanne per sei di loro, uno è stato
assolto, vanno dai tre anni a un anno e nove mesi. Il 13 aprile sono state confermate
ancora una volta le misure restrittive, con obbligo di dimora e rientro notturno, per
cinque imputati.
Il 26 febbraio la Digos di Messina si è recata in carcere per notificare alla compagna
Anna Beniamino un nuovo 270bis. Il motivo è un dischetto richiesto contenente… gli
atti del processo per Scripta Manent!
Per scriverle: Anna Beniamino, via Consolare Valeria, 2 - 98124 Messina
Tra il 12 e il 15 marzo, a nove mesi dagli arresti per l’operazione Bialystok, Roma,
sono stati scarcerati Flavia, Roberto, Nico e Francesca con obbligo di dimora e
rientro notturno. Non è stata fatta istanza né per Claudio né per Daniele (ai
domiciliari) le cui misure rimangono per ora invariate.
Per scrivere: Claudio Zaccone, strada Monasteri 20 - 96014 Cavadonna (SR)
Dopo due anni, il 13 marzo la procura di Torino nella figura della PM Pedrotta si è
decisa a dichiarare chiuse le indagini per l’Operazione Scintilla. Gli indagati che
affronteranno l’udienza preliminare salgono a 18. I reati contestati aumentano e si
differenziano, si va dall’oltraggio all’incendio passando per l’imbrattamento e le
lesioni personali. Sono riconfermati sia l’istigazione a delinquere sia il 270 che
viene contestato a 16 degli indagati. Fra i reati-scopo dell’associazione compare ora
quello di danneggiamento a mezzo incendio della struttura di Corso Brunelleschi, in
collaborazione con alcuni reclusi. L’udienza preliminare si è svolta il 4 maggio.
Carla, arrestata all’interno dell’operazione Scintilla e detenuta al carcere di
Vigevano, è uscita ai domiciliari.
Claudio Lavazza dopo essere stato trasferito a metà marzo nel carcere di Nanclares de
la Oca (Paesi Baschi) ora è in Francia, ma non si sa ancora dove.
Il 25 marzo, Leonardo Landi è uscito dal carcere di Sollicciano (FI) per fine pena.
Il 17 aprile, udienza al processo in Corte d’Assise a Treviso per Juan accusato di
strage per un attacco alla sede della Lega a Villorba di Treviso. Ha parlato il perito
di parte e Juan ha fatto la sua dichiarazione spontanea in videoconferenza senza
essere interrotto. Fuori, in città, un presidio in solidarietà e un saluto al carcere.
Il 12 aprile Juan ha iniziato uno sciopero della fame, ecco un suo scritto.
“Io, Juan Sorroche Fernandez, della Sezione AS2 di Terni comunico: l’inizio di uno
sciopero della fame fino a che lo riterrò opportuno. Dal giorno 12 aprile alle ore
0:00
- in solidarietà ai prigionieri della guerra sociale di santiago del cile, che dal 22
marzo 2021 hanno iniziato lo sciopero della fame liquido.
- in solidariet**à** a tutti i processati per le rivolte del marzo 2020 e ai 5
detenuti di ascoli/modena che hanno avuto il coraggio di fare l’esposto scritto per
le rivolte di modena.
- in solidarietà all’anarchico davide delogu sottoposto all’art. 14bis, chiedendo che
venga tolto dall’isolamento a cui è sottoposto da tempo.
- in solidarietà ai prigionierx di spini di gardolo (tn) dove è morta ancora una
detenuta! ambra, di 28 anni, per le abituali carenze ‘sanitarie’.
- in solidarietà ai prigionieri in lotta del centro di permanenza di via corelli
(milano).
- coraggio e solidarietà ai più fragili: a tuttx i bimbx e ragazzx, ignorati,
annullati, isolati e sempre di più rinchiusi in gabbie fisiche/
“sanitarie”/tecnologiche/repressive.
- alle nonne e ai nonni trattati come scarti da buttare e sacrificare!”
Dopo 12 giorni di sciopero della fame Juan, oggi [23.04] avvisa che sta bene ed è su
di morale. Ha perso 3 kg e gli vengono monitorati ogni giorno i valori della
pressione, glicemia, peso. Non ha ancora deciso fino a quando proseguirà con lo
sciopero.
Per scrivergli: Juan Sorroche Fernandez, Strada delle Campore, 32 - 05100 Terni
Il 28 aprile Beppe Bruna, dal carcere della Dozza a Bologna, si unisce allo sciopero
della fame di Juan. Aggiunge “contro la dispersione dei/delle prigionieri/e
anarchici/che”.
Il 22 aprile, a Trento, 5 anarchici vengono condannati a oltre 2 anni di reclusione
per fatti del febbraio 2018 quando Salvini era un tour elettorale a Rovereto. Le pene
che vanno da 5 mila euro di ammenda a 2 anni 4 mesi e 20 giorni di reclusione. I reati
loro contestati sono resistenza a pubblico ufficiale e radunata sediziosa, aggravata
dall’uso di oggetti atti ad offendere.
Il compagno anarchico sardo, prigioniero deportato, Davide Delogu ha iniziato uno
sciopero della fame giovedì 22 aprile. Questo sciopero della fame nasce in seguito
alla revoca delle chiamate con una compagna sarda. A quanto pare il direttore del
carcere ha dato il diniego facendo riferimento a un documento che era stato prodotto
dal magistrato di sorveglianza di Agrigento risalente a tre anni fa. Il 5 maggio si
apprende che Davide ha concluso lo sciopero della fame in quanto qualcosa si è smosso:
è uscito dall'isolamento in cui si trovava dal 5 aprile; al momento si trova in cella
singola insieme ai "comuni". Sono state ripristinate anche le chiamate. Davide Delogu
comunica che in questo carcere i libri possono essere spediti solo tramite pacco e non
come posta ordinaria. Questione problematica per il peso totale dei pacchi che gli si
può spedire mensilmente.
Per scrivergli: Davide Delogu, Contrada Cocari - 89900 Vibo Valentia (VV)
Il 4 maggio c’è stata la sentenza d’appello per l’Operazione Panico, Firenze. Cade il
reato associativo (art.416) le condanne, con rideterminazione delle pene di primo
grado, vanno da otto anni a un anno e due mesi. Confermate le altre pene del primo
grado che vanno dai tre anni e quattro mesi a pene pecuniarie.
Lunedì 10 maggio, presso il tribunale di Genova, è iniziato il dibattimento del
processo Prometeo che vede imputati Natascia, Beppe e Robert. Fra luglio e settembre,
è prevista la sentenza di primo grado.
Il 13 marzo Natascia è stata trasferita al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ora è
in sezione in una cella che le stesse guardie chiamano “cubicolo”: una cella singola
dove invece sono rinchiuse due persone, che con l’arrivo di Natascia sono diventate
tre. Non appena arrivata le hanno requisito i cd e il lettore. La quantità di libri
(una borsa) che Nat aveva con sé al suo arrivo nel carcere di S. Maria Capua Vetere
pare che abbia messo in crisi le guardie al punto che si sono sentite in dovere di
porre un tetto a quelli che può tenere in cella: all’inizio 2, quando Nat ha
protestato che persino al 41 bis i libri concessi sono 4, l’hanno alzato, appunto, a
4. Può chiamare i suoi genitori solo due volte al mese (da Piacenza poteva chiamarli
due o tre volte alla settimana) e può fare alcune video chiamate, ma al momento anche
in questo a quanto pare ha delle limitazioni. Il giudice autorizza e il direttore
stabilisce il numero consentito di colloqui. A SUA DISCREZIONE. Attualmente l’avvocato
ha fatto ricorso alla corte d’assise. Alla chiusura indagini per l’Operazione
Scintilla Natascia è stata inserita tra gli indagati che andranno a udienza
preliminare.
Nei primi giorni di aprile i carabinieri hanno notificato a Robert, a processo per
l’operazione Prometeo, un avviso di garanzia per l’articolo 280 (attentato con
finalità di terrorismo) con annessa la richiesta di accertamenti irripetibili urgenti
da svolgersi in data 13 aprile 2021 presso la sede dei RIS di Parma sui materiali
repertati in data 27 e 28 novembre 2016 nelle aree prossime alla stazione carabinieri
di Bologna- Corticella. Appena un paio di giorni dopo vengono notificate le stesse
carte a Giuseppe, rinchiuso attualmente nel carcere bolognese, indagato sempre per
l’inchiesta Prometeo. I fatti contestati riguardano l’esplosione di un ordigno
avvenuta la notte del 27 novembre 2016 sotto la caserma dei carabinieri.
Per scrivergli: Natascia Savio, S. S. Appia 7-bis - 80155 Santa Maria Capua Vetere
(CE)
Giuseppe Bruna, Via del Gomito, 2 - 40127, Bologna (BO)
A proposito della Sorveglianza Speciale, una misura che dai tempi del Codice Rocco del
1930 è sempre utile per gestire la prevenzione del possibile emergere del conflitto
sociale, a Bologna si è chiusa l’indagine per l’Operazione Ritrovo con l’accusa di
istigazione a delinquere, ma senza il 270 per il quale è stato aperto un nuovo
fascicolo a parte. Nel frattempo per cinque degli inquisiti è stata richiesta la
Sorveglianza Speciale per cinque anni con obbligo di dimora. Le udienze sono fissate
il 12 luglio.
Giovedì 1° aprile è stata notificata da parte della questura e della procura di
Torino, firmata dalla solita Pedrotta, una nuova richiesta di Sorveglianza Speciale.
La motivazione è ovviamente la pericolosità sociale così argomentata: la militanza di
lunga durata, l’inutilità nei suoi confronti delle misure cautelari (“sottoposto a
misure di cautela… non valevano a produrre nessun effetto deterrente”), “una capacità
criminale di tipo professionale”, i precedenti penali. Inoltre scrivono che “la
militanza negli ambienti antagonisti torinesi”, la qualifica di redattore di radio
blackout e l’essere riconosciuto tra i primi occupanti di El Paso danno una forte
matrice ideologica ai reati commessi e al ruolo della Boba nel movimento. In ultimo,
viene citato quanto scritto nel retro copertina del romanzo (definito dagli inquirenti
autobiografico) “Io non sono come voi” a riprova della pericolosità sociale della
Boba. La futura libertà di Marco verrà discussa il 12 maggio, dopo il rinvio
dell’udienza del 21 aprile.
A Firenze, il 14 aprile, si è svolta l’udienza per la Sorveglianza Speciale a una
compagna per i fatti di piazza del 30 ottobre. Non c’è ancora la risposta.
Altre notizie su arresti e scarcerazioni
16 marzo, Torino. Rimangono detenuti dieci dei tredici minorenni raggiunti da
provvedimento di custodia cautelare per i fatti dello scorso 26 ottobre in via Roma.
Lo ha disposto il giudice del Tribunale dei Minori al termine degli interrogatori di
garanzia. Per una ragazza è stata confermata la permanenza in comunità, mentre per due
ragazzi la misura è stata attenuata e sono stati sottoposti agli arresti domiciliari
Il 18 marzo è stato arrestato Paolo Polari, un compagno milanese, per una vicenda del
2009 legata a un diverbio tra studenti dell’università statale in cui alcuni compagni
si sono rifiutati di pagare alla libreria CUSL (di area Comunione-Liberazione) circa
700 fotocopie di volantini politici, per cui hanno poi ricevuto una condanna di circa
2 anni e mezzo a testa con l’accusa di rapina e lesioni. Si trova nel carcere di
Bollate, gli si può scrivere delle e-mail, che ogni mattina gli vengono stampate e
consegnate (zeromail.bollate@maidiremail.it)
22 marzo a Torino, 13 misure cautelari contro i No Tav. A quasi due anni dai fatti, la
polizia ha eseguito tredici misure cautelari nei confronti di attivisti No Tav e
giovani impegnati nelle lotte sociali in città nell'ambito di un'indagine sul Primo
Maggio del 2019.
La mattina del 23 marzo, la polizia, insieme a vigili del fuoco e ad alcune ONG, hanno
sgomberato la Casa Cantoniera occupata a Oulx in Alta Valle di Susa. I 13 compagni che
erano presenti nella casa durante lo sgombero sono stati accusati di occupazione,
mentre oltre 60 persone di passaggio sono state sottoposte a test forzati per il
coronavirus, identificate, prese le impronte digitali, e poi trasportate in diverse
strutture.
Il 24 marzo a Barcellona, Sara Casiccia, videomaker torinese, viene scarcerata. Era in
carcere da tre settimane con l'accusa di tentato omicidio. L'esame dei filmati ha
dimostrato che non era la persona responsabile di aver cosparso di liquido
infiammabile un mezzo della Guàrdia Urbana.
Il 26 marzo, Carlo Pallavicini e Mohamed Arafat, i sindacalisti di Sì Cobas Piacenza
arrestati in seguito agli scontri avvenuti davanti al magazzino Fedex Tnt di Piacenza
il 1 febbraio scorso, “tornano liberi”.
Il 14 aprile Paolo Todde è stato trasferito al carcere d Badu e Carros a Nuoro. Paolo,
recluso dal 31 ottobre 2017 per una rapina a un ufficio postale, ha subito oggi il
primo trasferimento che puzza tremendamente di punizione. Infatti da quando è stato
recluso presso il carcere di Uta, Paolo non ha mai perso occasione di mostrare la sua
avversione e refrattarietà verso le guardie e le arroganze da esse perpetrate, per
questo negli anni ha subito moltissimi rapporti e solo poche settimane fa è stato
sottoposto a censura, questa misura è stata richiesta dal direttore del carcere di Uta
per le sue corrispondenze con chi lotta contro il carcere, in Sardegna e altrove.
Per scrivergli: Paolo Todde, Via Badu e Carros, 1 - 08100 Nuoro
Il 15 aprile, dopo sette mesi di detenzione il Tribunale ha concesso gli arresti
domiciliari con una serie di restrizioni a Dana Lauriola, attivista No Tav, che deve
scontare due anni per un episodio avvenuto nel 2012, quando, durante un'azione
dimostrativa sulla A32, spiegava al megafono le ragioni della manifestazione.
La compagna Lisa Dorfer è stata arrestata il 13 aprile 2016, con l’accusa di aver
rapinato una banca ad Aachen, in Germania. Nel giugno 2017 è stata condannata a 7 anni
e 6 mesi di prigione. Dopo 3 anni e mezzo di prigione e un anno e mezzo di cosiddetto
regime di “semilibertà”, lunedì 19 aprile 2021 le hanno concesso la liberazione
condizionale, dato che ha scontato i 2/3 della pena. Questa misura può essere revocata
o sospesa in ogni momento, se le autorità decidono che le condizioni non sono
soddisfatte.
Il 27 aprile si è saputo che per alcuni compagni e compagne dell’Assemblea permanente
contro il carcere e la repressione di Udine e Trieste sono state aperte indagini per
oltraggio e istigazione a delinquere. Per la digos esprimere solidarietà nei confronti
dei detenuti e delle detenute in lotta, dichiarare la propria vicinanza coi compagni
inquisiti, denunciare la gestione criminale della pandemia nelle carceri giustificano
l’apertura di indagini.
Il 28 aprile, sette condannati per episodi di terrorismo, tra cui appartenenti a
Brigate Rosse, Nuclei armati contropotere territoriale e un ex militante di Lotta
Continua, sono stati arrestati in Francia su richiesta dell’Italia, mentre altri tre
sono ricercati. Due di loro si sono poi costituiti. I dieci sono accusati di omicidi e
altri fatti di sangue, risalenti agli anni ‘70 e ’80. La procura di Parigi li ha
scarcerati il giorno successivo.
10 aprile, Milano piazzale Selinunte zona San Siro. 300 ragazzi “assembrati” per
girare il video del rapper Neima Ezza. Camionette blindate, almeno cinque tra polizia
e carabinieri. Uomini in tenuta antisommossa, con caschi, scudi e manganelli. E
qualche pattuglia. Allora pietre e bottiglie contro questa dispiegamento di forze. Il
16 mattina, la polizia ha eseguito tredici decreti di perquisizione domiciliare nei
confronti di dieci maggiorenni e tre minorenni. I provvedimenti sono stati emessi dal
sostituto procuratore Alberto Nobili, coordinatore del pool antiterrorismo della
Procura, e da Ciro Cascone, Procuratore presso il Tribunale per i Minorenni, "per
manifestazione non preavvisata, violenza e resistenza a pubblico ufficiale aggravate,
nonché per porto d'armi per un maggiorenne".
Fine dello sciopero della fame di Dimitris Koufondinas. Recentemente si è concluso lo
sciopero della fame (e per un periodo anche della sete) del prigioniero rivoluzionario
Dimitris Koufondinas, che a seguito dell’entrata in vigore di una legge vendicativa
riguardante i prigionieri politici di lungo corso ha perso il diritto a scontare la
condanna nelle carceri rurali. Il seguito è ben noto, con il governo che si rifiuta di
applicare la sua stessa legge e Dimitris Koufondinas che intraprende uno sciopero
della fame durato numerosi giorni, esigendo il proprio ritorno al carcere di
Korydallos come previsto dalla legge stessa.
Un trattamento simile nei confronti dei prigionieri politici, questa volta da parte
dello Stato cileno, è il motivo dell’inizio delle mobilitazioni nelle carceri di
Santiago. Così, da lunedì 22 marzo 2021, a Santiago del Cile, anarchici e altri
prigionieri, così come i prigionieri per la lotta di liberazione dei Mapuche, hanno
iniziato una mobilitazione avente le caratteristiche di uno sciopero della fame che
proseguirà per tempo indefinito. Si tratta dei compagni Mónica Caballero Sepúlveda nel
carcere femminile di San Miguel, Marcelo Villarroel Sepúlveda, Joaquín García Chanks,
Juan Flores Riquelme, Juan Aliste Vega nel Carcere di Alta Sicurezza (quest’ultimo non
partecipa allo sciopero, ma che lo sostiene, date le sue condizioni mediche),
Francisco Solar Dominguez nella sezione di massima sicurezza, Pablo Bahamondes Ortiz,
José Ignacio Duran Sanhueza, Tomas González Quezada e Gonzalo Farias Barrientos nei
moduli 2 e 3 del carcere di Santiago 1.
Le richieste della mobilitazione sono l’abolizione dell’articolo 9 e il ripristino
dell’articolo 1 del decreto legge 321, la scarcerazione dell’anarchico Marcelo
Villarroel, la scarcerazione di tutti i prigionieri sovversivi, anarchici, militanti
imprigionati per la liberazione dei Mapuche e dei prigionieri della rivolta.
Dal 22 marzo in Cile è in corso uno sciopero della fame dei prigionieri e delle
prigioniere della guerra sociale ora (10 maggio) giunto al 50° giorno. Di seguito il
comunicato.
“Ai popoli, agli individui, alle comunità e territori in lotta e resistenza. A coloro
che si ribellano a questo presente di oppressione e miseria. Ai nostro branchi,
famiglie, amici, complici , compagni e amori in tutto il mondo. A Tuttx. Oggi, lunedì
22 marzo, alle 00.00 ora di Santiago del Cile, i e le prigionierx della guerra
sociale: Mónica Caballero Sepulveda nel carcere femminile di San Miguel, Marcello
Villaroel Sepùlveda, Joaquìn Garcia Chanks, Juan Flores Riquelme e Juan Aliste Vega
rinchiuso nel C.A.S. aderendo ma non potendo fare uno sciopero della fame data la sua
situazione medica all’interno del carcere di massima sicurezza, Francisco Solar
Dominquez rinchiuso nella sezione di massima sicurezza, Pablo Bahamondes Ortiz, Jose
Ignatio Duran Sanhueza, Tomas Gonzalez Quezada e Gonzales Faria Barrento rinchiuso nel
modulo 2 e 3 del carcere/azienda di Santiago 1. Diamo inizio allo sciopero della fame
liquido indefinito per: Abrogazione del art. 9 e il reinserimento dell’ art 1 Del
decreto di legge 321!!!
Vogliamo la liberazione del compagno Marcello Villaroel e di tutti i prigioniere
sovversive, Anarchici, che lottano per la liberazione mapuche e quelli della
rivolta!!”
DOVE STA ANDANDO LA SCUOLA PUBBLICA?
“Voi la dimenticate, noi la riapriamo”. “Voi ce la togliete, noi ce la riprendiamo”.
“Non l’avete ricostruita voi, ce ne occupiamo noi”. “Avevate in mano il nostro futuro,
ce l’avete tolto”. (Dalle occupazioni dei licei milanesi)
La scuola superiore italiana è in didattica a distanza (dad) dal 24 febbraio 2020.
Quindi da un anno solare che significa quasi due anni scolastici. Dopo un iniziale
periodo di smarrimento, dovuto all’eccezionalità della situazione, la maggioranza dei
docenti ha iniziato ad organizzarsi o meglio ad autorganizzarsi, attivandosi con
mezzi, strumenti e conoscenze personali o familiari per far fronte al meglio alla
situazione inedita.
Questa situazione ha messo fin da subito in evidenza alcune importanti ricadute sulle
nostre vite e sull’organizzazione del lavoro a scuola che necessitano una riflessione
seria e una presa di posizione.
Le ricadute familiari. Sempre più spesso sono state segnalate difficoltà nella
gestione degli spazi abitativi familiari, dove si ritrovano sia adulti in smart
working sia adolescenti in connessione da remoto alle loro lezioni. I problemi sorgono
sia per quanto riguarda la mancanza del numero dei locali idonei allo svolgimento
delle rispettive attività, lavorative e scolastiche, evitando di disturbarsi a
vicenda, sia per quanto concerne la mancanza di un numero sufficiente di pc e,
quand’anche questo ci fosse, si evidenziano numerose difficoltà di connessione nel
reggere più collegamenti contemporaneamente. Queste difficoltà oggettive hanno fatto
sì che alcuni docenti, che spesso hanno famiglie e figli, fossero costretti a fare
lezione in orario pomeridiano anziché mattutino creando ovviamente disagi ai loro
allievi. Il problema non è solo di carattere “tecnico”, strumenti e spazi a
disposizione, ma anche socio-economico, che compromette la possibilità di “stare al
passo” con i tempi e i ritmi, le richieste per un numero significativo di alunni-
studenti. È dovuta alla difficoltà di attrazione e motivazione di questo tipo di
modalità, nonostante gli innumerevoli sforzi da parte di molti insegnati per renderla
attraente e coinvolgente, ma che si propone essenzialmente come trasmissione
nozionistica e passiva delle conoscenze, a cui si aggiunge la mancanza di un ambito
familiare che sia in grado di supportare e sopperire alle difficoltà di
concentrazione, interesse, memorizzazione e comprensione che l’uniformità di questo
tipo di didattica genera perché privata totalmente della relazione ed interazione
attiva dello studente con l’oggetto dello studio. Lo studente viene privato della
possibilità di sperimentare, ipotizzare, verificare, progettare, scoprire e formulare
soluzioni, concetti, ragionamenti, critica attraverso attività e meto-dologie che lo
stimolino e motivino alla conoscenza e all’apprendimento.
La dad appiattisce l’insegnamento, lo acriticizza, spersonalizza le relazioni, annulla
le metodologie standardizzando l’insegnamento ad un rapporto basato sull’ascolto, la
memorizzazione e la ripetizione di nozioni in cui molti non riescono, per innumerevoli
motivi: mancanza di metodo, difficoltà di comprensione, di memorizzazione,
concentrazione…
Difficoltà che diventano ancor più macroscopiche per chi ha problematiche certificate
e che, più di altri, avrebbe bisogno di interventi mirati, di strumenti diversificati
e multiformi, linguaggi non solo verbali o scritti.
Accentua le differenze di classe perché i ragazzi che più risentono delle difficoltà
provengono da ambiti familiari socio-economici più deboli che non hanno gli strumenti,
le capacità o le possibilità economiche di supportare ed aiutare i propri figli.
Le ricadute culturali. D’altra parte, per le stesse motivazioni, la scuola italiana ha
letteralmente perso diversi studenti, impossibilitati a seguire le lezioni da remoto
per mancanza di spazi e/o di mezzi idonei, favorendo ed incrementando la diffusione
del fenomeno della dispersione scolastica, piaga sociale già rilevante soprattutto al
sud. E’ quindi ormai più che assodato che i ragazzi studino e imparino meno in dad per
motivi oggettivi, ambientali, logistici, strumentali, chiaramente riconducibili
all’approfondirsi del solco della differenziazione classista, per cui chi può
permetterselo economicamente perché ha case più spaziose e strumenti, va avanti, chi
non può permetterselo rimane indietro o addirittura si ritira. A ciò poi si aggiungano
le problematiche soggettive, personali e familiari, le fragilità degli adolescenti in
senso lato, oggi più che mai destrutturati e forzatamente educati alla precarietà
esistenziale, il loro indiscutibile bisogno di formarsi e quindi di crescere
attraverso esperienze di socialità tra pari la cui negazione istituzionale attraverso
l’imposto isolamento sociale ha fortemente colpito chi tra loro (e tra noi) è più
sensibile.
Le ricadute lavorative. Rispetto alla professione dei docenti, che consiste non solo
nell’insegnamento e nella comunicazione, ma nell’organizzazione, nel coordinamento,
nella progettazione, nella collaborazione, nell’osservazione, nella costruzione di
relazioni positive, si assiste ad un veloce smantellamento dell’organizzazione lavoro.
Il nostro è un lavoro che deve svolgersi in presenza: in primis per motivi
comunicativi, pedagogici, didattici, ma non solo, perché fare l’insegnante da casa
significa un aumento del lavoro e dei costi a carico del lavoratore, perché qualsiasi
contatto organizzativo deve svolgersi tramite telefono personale o via mail e comporta
una dilatazione infinita dei tempi lavorativi, visto che ormai chiunque, studente o
collega che sia, contatta gli altri in qualsiasi momento della giornata, della serata
e della settimana. Non ci sono più orari di lavoro e non c’è più privacy. Costringe ad
un aumento delle attività burocratiche imponendo continue verbalizzazioni,
comunicazioni ed incontri a seguito dei mille cambiamenti che a distanza anche di
pochi giorni vengono imposte.
Depotenzia l’idea della lotta come possibilità per modificare la situazione esistente:
- mancando lo spazio fisico -la struttura scuola- si perde l’idea dell’incisività di
una qualsiasi protesta, perché ad una scuola vuota si contrappone una scuola
altrettanto vuota, quindi l’invisibilità della protesta (ma cosa scioperiamo a fare,
intanto siamo a casa! i ragazzi hanno perso già un sacco di giorni di scuola, non
possiamo far perdere altri giorni…);
- lo sciopero stesso, viene ritenuto spesso spuntato, anzi un “favore” agli studenti
che non hanno la “rottura” di doversi connettere e, in alcuni casi, per le famiglie
che non devono vigilare sui figli. O al contrario, innesca meccanismi di colpa nei
confronti delle famiglie già vessate da questa situazione;
- l’emergenzialità mette in secondo piano il rispetto delle normative che regolano il
rapporto lavorativo nell’ottica che si è tutti sulla stressa barca; si fa leva sul
senso di responsabilità individuale e collettiva affinché si contribuisca a trovare
soluzioni e ad attivarsi per organizzare e gestire la situazione nel miglior modo
possibile caricando responsabilità e decisioni, spesso, sui singoli insegnanti pur non
competendogli.
Durante l’estate le scuole hanno lavorato per allestire le sedi in sicurezza, seguendo
le normative in vigore, in vista della riapertura di settembre, ten-tando, senza
grande successo, di dialogare con delle istituzioni sorde e mute rispetto alle
richieste inerenti le mancanze strutturali. Mascherine, igienizzanti e disinfettanti
in ogni aula, distanziamento misurato al centimetro tra i banchi, abolizione degli
intervalli, ingressi scaglionati. Lavoro colossale, realizzato, come avviene da anni,
sotto organico di personale.
Dopo la brevissima parentesi di riapertura settembrina, da ottobre è iniziata la
delirante proliferazione di Dpcm e circolari anche tra loro contrastanti, per via
delle lotte intestine tra i diversi poteri locali, comuni e regioni, o centrali, il
governo. Questo ha determinato un ulteriore carico lavorativo, perché l’orario che
generalmente si fa due volte all’anno, provvisorio e definitivo, è stato rifatto
molteplici volte in ogni scuola, al fine di adattarsi ad ogni cambiamento di
disposizione legislativa.
Dal 6 novembre tutte le scuole superiori sono rientrate in dad e lo sono tuttora. A
seconda del colore delle regioni (giallo, arancione, rosso) anche gli allievi delle
seconde e terze medie vengono periodicamente obbligati a rimanere a casa a seguire le
lezioni da remoto: a novembre erano a casa, qualche settimana prima di Natale a scuola
fino al 18 gennaio, quindi ora di nuovo a casa.
Di fronte a questa situazione di evidente e progressivo smantellamento della scuola
pubblica, di disinteressamento totale per chi lavora e per chi cresce nelle scuole,
della formazione degli studenti italiani forse perché ancora non votano e non sono
produttivi, qualcuno ha cominciato a reagire.
Priorità alla scuola (PAS). Si tratta di un movimento, che si dichiara apolitico, nato
lo scorso aprile per pensare ad una scuola nel periodo dell’emergenza e per riportare
la scuola pubblica e il diritto all’istruzione al centro del dibattito e delle
politiche pubbliche. PAS ha riunito insegnanti, studenti e genitori e in poco tempo si
è diffuso in decine di città italiane per provare a garantire a bambini e ragazzi una
scuola aperta e in sicurezza, ma anche per avviare un confronto con le istituzioni
sulla scuola del futuro, che, citando le loro parole, non deve solo sopravvivere alla
(in)capacità di gestione dell’emergenza pandemica ma uscirne rinnovata, mettendo al
centro gli studenti e il loro diritto allo studio, i lavoratori e i loro diritti, gli
educatori e la loro creatività. Una scuola in cui siano i servizi (trasporti in testa)
a disposizione del diritto all’istruzione e non viceversa. PAS ha organizzato alcuni
presidi piuttosto partecipati prima dell’estate e sicuramente è un punto di
riferimento per le attuali mobilitazioni milanesi.
Nasce il Comitato “A Scuola!”. Motivato dal pensiero che aprire le scuole debba essere
una priorità, nasce il Comitato, costituito da genitori, studenti e docenti che dal 16
novembre 2020 tiene un presidio davanti alla sede del Comune di Milano, a Palazzo
Marino. Due persone al giorno, tutti i giorni, per un’ora (dalle 13,30 alle 14,30).
Consapevoli dell’emergenza sanitaria, sono altrettanto preoccupati per le ricadute
psicologiche dell’istruzione esclusivamente in dad, quindi insistono affinché le
istituzioni si adoperino per garantire il rientro a scuola in sicurezza. A tal fine il
Comitato l’ 11 gennaio 2021 ha presentato un ricorso, che è stato accolto dal Tar, per
l’annullamento dell’ordinanza di regione Lombardia dell’8 Gennaio sul rinvio
dell’apertura delle scuole secondarie al 25 /01/2021. Secondo il ricorso “l’ordinanza
non è sufficientemente motivata” e il decreto regionale avrebbe violato l’art. 4 del
decreto legge n.1 del 5 gennaio 2021 che prevedeva la progressiva ripresa
dell’attività scolastica in presenza per gli alunni delle secondarie di secondo grado.
In buona sostanza il punto è che secondo i dati scientifici non sembrerebbero essere
le scuole i luoghi deputati all’innalzamento dei contagi da Sars-Covid 19, ma gli
assembramenti che si creano durante il tragitto da casa a scuola e viceversa, quindi
la soluzione non è chiudere le scuole, ma agire sull’organizzazione e sul
potenziamento dei mezzi pubblici. Purtroppo però dal 18 gennaio la Lombardia è
nuovamente entrata in zona rossa, cosa che ha momentaneamente sospeso il contenzioso e
decretato la chiusura delle scuole.
Le occupazioni dei licei milanesi. In data 21 gennaio 2021 le occupazioni simboliche e
veloci dei licei milanesi sono più di 10. E’ partito il Liceo Manzoni e a seguire il
Severi-Correnti, il Volta, il Tito Livio, il Tenca, l’Albe-Steiner, il Vittorio
Veneto, il Caravaggio, il Parini, l’Einstein, il Cremona-Zappa, il Virgilio. Gli
studenti, sostenuti dai genitori e da alcuni docenti e Dirigenti Scolastici non
chiedono la riapertura immediata delle scuole, ma puntano ad un cambiamento del
modello scuola affinché la riapertura sia una naturale conseguenza di investimenti
politici ed economici che colmino quei buchi che da anni vive la scuola pubblica.
Progressivamente sembra assumere la forma di una protesta che non si oppone soltanto
alla didattica a distanza come metodo di insegnamento, ma che si basa su una visione
di critica più ampia che mette in discussione anni e anni di tagli ai danni della
scuola pubblica. La situazione è in evoluzione e al momento concentrata nei licei
nella città di Milano, non nelle periferie, non in altre città. Oggi, sabato 23
gennaio viene a Roma occupato il liceo Kant (immediatamente oggetto di un aggressione
poliziesca) preludio di nuove mobilitazioni.
Lo sciopero del 29 gennaio. Gli studenti si mobiliteranno al fianco dei lavoratori in
occasione dello sciopero generale indetto per il 29 gennaio 2021 da S.I.COBAS -
Sindacato intercategoriale Cobas e SLAI COBAS per il sindacato di classe e promosso
dall’Assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi. Vedremo cosa
accadrà.
Queste poche righe non sono certo esaustive, anzi devono essere costantemente
aggiornate, perché la situazione è in continua evoluzione. Hanno però l’obiettivo di
proporre qualche spunto di riflessione per cominciare a ragionare e a prendere
provvedimenti e contromisure rispetto al futuro che sembra delinearsi all’orizzonte
per la scuola pubblica. Si va verso l’istruzione impartita secondo la modalità della
didattica digitalizzata e conseguentemente un’accelerazione di un processo già in atto
di stampo classista? Si va verso la privatizzazione e la conseguente distruzione della
scuola pubblica, dopo almeno 15 anni di continui tagli di fondi e personale, come già
avvenuto ai danni della sanità pubblica e di cui abbiamo toccato con mano gli esiti
nefasti la scorsa primavera con le terapie intensive stracolme, il blocco
dell’erogazione dei servizi essenziali come visite ed esami, il proliferare di servizi
a pagamento?
È notizia di qualche ora fa che la Lombardia dopo una settimana di zona rossa ritorna
ad essere arancione perché pare che i dati forniti in merito agli indici di contagio
Rt fossero estremamente imprecisi. E il braccio di ferro tra regione e governo si è
concluso con la inaspettata decisione di riaprire le scuole al 50% di presenze a
partire da lunedì 25 gennaio 2021. Come docenti abbiamo solo qualche ora per
riorganizzare l’orario al fine di ottemperare alla nuova normativa. Direi che ci
vedremo numerosi allo sciopero del 29 gennaio.
Panetteria Occupata
Milano, febbraio 2021
NO AL CONTRATTO PILOTA DI JUST EAT
Subito dopo gli scioperi di inizio novembre 2020 Just Eat è uscita da Assodelivery,
dividendo il fronte delle piattaforme e dichiarando che avrebbe assunto i propri
fattorini con contratti da lavoratore subordinato all’interno del cosiddetto “modello
Scoober”.
Questa è stata senza dubbio una vittoria delle lotte dei rider in tutta Italia.
Just Eat ha individuato una città campione, Monza, dove far partire da Marzo un
contratto-pilota per “testare” la subordinazione, con 40 assunzioni. Questo contratto
per noi è irricevibile e non può essere definito come un miglioramento rispetto alle
condizioni attuali di lavoro di molti rider in Italia. In questo testo analizziamo i
punti significativi e a tratti poco chiari. Inoltre, segnaliamo come alcune importanti
clausole lavorative, tra le quali le modalità degli straordinari, l’indennità per
utilizzo del proprio mezzo, la determinazione dei giorni festivi e dell’orario
notturno sono rimandate ad un regolamento aziendale, del quale il rider non ha visione
al momento della firma del contratto. Tale regolamento, infatti può essere modificato
solo da Just Eat “unilateralmente e a sua esclusiva discrezione”, ed entrerà
automaticamente in vigore per ogni dipendente dopo la firma del contratto di lavoro.
Giorni di prova, orario di lavoro, compenso, CCNL e pause non pagate
1) All’articolo 2.4 del contratto sono previsti ben 26 giorni di prova, nei quali il
datore di lavoro può lasciare a casa senza nessuna motivazione il lavoratore
neoassunto, lasciato senza tutele e totalmente ricattabile. Oltre ad essere una durata
spropositata per un periodo di prova, essa non ha nessun senso in quanto molti degli
assunti erano rider che già lavoravano per Just Eat.
2) L’articolo 3.1 del contratto dice che l’orario base di lavoro del dipendente è di
solamente 10 ore a settimana.
3) L’articolo 3.3 del contratto specifica che il dipendente è obbligato a lavorare
“almeno 4 sabati o domeniche al mese e 4 giorni festivi all’anno”. La domenica non è
considerata giorno festivo, proprio come nel contratto nazionale truffa di Anar-Ugl.
Ciò è confermato anche dal regolamento aziendale (art. 15), dove è presente l’elenco
delle festività (1 gennaio, 25 aprile ecc) nelle quali è corrisposta la maggiorazione.
4) L’articolo 3.4 del contratto specifica come i turni di lavoro verranno scelti dal
datore di lavoro sulla base delle disponibilità del dipendente. I turni potranno
essere modificati sulla base di un preavviso “adeguato”. Tuttavia non è specificato
cosa significhi esattamente “adeguato”. La questione è affrontata anche nel
regolamento aziendale, dove è stabilito che il dipendente deve fornire le sue
disponibilità entro il martedì di ogni settimana, e che i turni di lavoro gli verranno
comunicati il giovedì. Tuttavia è prevista una cosiddetta “clausola di elasticità”
(art. 15.3 del regolamento aziendale), che permette all’azienda di modificare a
piacimento l’orario settimanale dato ai lavoratori il giovedì, senza che siano
specificati termini di preavviso. Ciò significa che, in linea teorica, il lavoratore
può essere costretto a lavorare anche con poche ore di preavviso.
5) L’articolo 4.1 del contratto precisa come la paga oraria sia soltanto di 7.50 euro
lordi. Nonostante ciò sul regolamento aziendale (art. 7.0), essa è descritta come “una
retribuzione competitiva, superiore agli standard di mercato”.
6) Nonostante il rider lavori su orari definiti secondo il contratto, l’articolo 15.1
del regolamento aziendale prevede che i turni finiscano soltanto “quando non ci sono
più ordini”. “La fine del turno di lavoro può variare in relazione alla necessità di
completare il lavoro, anche più tardi del previsto”. Ciò si traduce nel fatto che il
lavoratore sa quando inizia a lavorare, ma potrebbe non sapere quando potrà finire,
essendo obbligato a prolungare il suo orario di lavoro o a terminare prima il proprio
turno, a libera discrezione dell’azienda. Inoltre, questi prolungamenti in corso
d’opera dell’orario di lavoro non è specificato se siano pagati come lavoro
straordinario.
8) L’articolo 18 del regolamento aziendale specifica come l’orario considerato come
“notturno” sia tra mezzanotte e le 5, anziché partire alle 22, peggio che nel
contratto di Anar-Ugl. Ovviamente in quell’orario non sono previsti turni, visto che
l’orario di lavoro definito soggetto a turnazione va dalle 7 alle 23. Questa
formulazione è una presa in giro nei confronti dei lavoratori.
9) Per i dipendenti che svolgono turni superiori a 6 ore, è possibile usufruire di una
pausa di 30 minuti non pagata. La pausa non è automatica ma va ogni volta richiesta al
“line manager” prima del turno, che deciderà quando farla svolgere al lavoratore.
10) “Ai soli fini della determinazione dei livelli retributivi minimi” e non di altre
clausole, il contratto di Just Eat fa riferimento al pessimo CCNL Multiservizi.
Straordinari e incentivi
1) Articolo 3.5 del contratto. Gli straordinari. Il dipendente è obbligato a svolgere
ore straordinarie di lavoro. Infatti egli “non può rifiutarsi di prestare lavoro
supplementare e straordinario se non per comprovate esigenze sanitarie, familiari o di
formazione professionale.” Ciò è ribadito dal regolamento aziendale.
2) L’articolo 4.5 del contratto prevede delle indennità per utilizzo del proprio
veicolo di lavoro senza farne menzione, specificate soltanto nel regolamento aziendale
(art 10). Esse sono molto basse: 0.15 centesimi a km per l’utilizzo del motorino e di
0.06 per la bicicletta.
3) L’articolo 9.2 del regolamento aziendale prevede un piano di ridicoli incentivi di
produttività. Fino a 250 consegne al mese, scatta una maggiorazione di 0.25 centesimi
(lordi) per ogni ordine effettuato. Dopo le 250 consegne, esso aumenta a 0.50. Senza
specificare quanto sia ridicolo economicamente tale incentivo, ci chiediamo come 250
consegne possano essere raggiunte da un lavoratore con un contratto di 10 ore a
settimana. Si tratta di una vera e propria presa in giro a tutti i lavoratori.
Libertà di parola e divieto di critica
1) Articolo 10.1 del contratto. Dovere di diligenza e lealtà. “Il dipendente è tenuto
a salvaguardare e a promuovere gli interessi del datore di lavoro. Il dipendente deve
astenersi dal porre in essere qualsiasi attività che sia contraria o possa ledere gli
interessi del datore di lavoro”. In altre parole, se il dipendente volesse scioperare
per migliorare le proprie condizioni di lavoro, questo significherebbe di certo ledere
gli interessi economici di Just Eat. È chiaro come la formulazione di questo articolo
attacchi non solo il diritto di sciopero, ma anche di semplice critica rispetto al
proprio datore di lavoro dei rider.
2) Inoltre, all’articolo 37 del regolamento aziendale (“policy dei social media”) è
specificato come il dipendente non possa parlare come “semplice cittadino” sui social
media ma debba “rimanere fuori” dalle discussioni riguardanti i prodotti e i servizi
di Just Eat.
Indumenti e valutazioni
1) Come dice l’articolo 39 del regolamento aziendale, il dipendente è valutato “su
base continuativa” in relazione alle sue “prestazioni lavorative” dai responsabili di
Just Eat, attraverso 12 parametri elencati. In caso di prestazioni “ritenute
insufficienti” dall’azienda è previsto un “piano di miglioramento delle prestazioni”,
obbligatorio per il dipendente.
2) Per quanto riguarda gli indumenti da indossare sono previste clausole molto
strette, definite nel regolamento aziendale, in particolare agli articoli 36 e 40.
Oltre, logicamente, a vestire gli indumenti recanti il logo dell’azienda, il
lavoratore è obbligato a lavorare con jeans “neutri, di un solo colore e senza buchi”
e con scarpe chiuse. D’estate è concesso indossare dei pantaloncini “purché siano di
un solo colore e vadano fino al ginocchio”. È specificato come “tute da ginnastica e
pantaloni da jogging non siano ammessi” e che le violazioni di queste norme possono
comportare sanzioni disciplinari. Troviamo del tutto assurde e sbagliate queste
prescrizioni. Chiunque va in bici si può benissimo rendere conto di come siano molto
più comode delle tute per lavorare e per percorrere lunghe distanze, rispetto ai
jeans.
Il contratto di “comodato d’uso” delle attrezzature di lavoro
Come se non bastasse, al contratto “normale” è allegato un altro “contratto di
comodato d’uso”, che definisce il rapporto tra dipendente e Just Eat riguardo le
attrezzature di lavoro. Esse non sono fornite gratuitamente al rider ma concesse in
“comodato d’uso”, da usare solamente durante l’orario di lavoro e non per “uso
personale”. Just Eat definisce arbitrariamente un valore monetario per la sua
attrezzatura. Al termine del contratto di lavoro, il rider è obbligato a restituire
tutta l’attrezzatura in buone condizioni, altrimenti scatterebbero detrazioni
monetarie. Ma non solo, anche in caso di “(presunta) perdita e furto o danneggiamento,
a meno che il rider non dimostri che furto danneggiamento e perdita non siano a lui
imputabili” il rider è obbligato a risarcire l’azienda che ha la libera facoltà di
“emettere una fattura al rider per ottenere il risarcimento del danno e recuperare
eventuali costi connessi al recupero del credito” oppure “agire per compensazione
mediante trattenute sulla retribuzione corrisposta al rider”. Per fare un esempio
pratico, ciò significa che se un rider dovesse scivolare in bicicletta e strappare la
giacca, Just Eat potrebbe trattenergli 30 euro sulla successiva busta paga!
Infine, notiamo con amarezza come né nel contratto né nel regolamento aziendale siano
menzionati bonus o indennità per condizioni meteo avverse.
È necessario prendere parola chiaramente e battersi contro queste condizioni pessime,
che al momento colpiscono soltanto i rider di Monza ma che presto potrebbero essere
estese a tutta Italia, rivendicandone di migliori per tutti i lavoratori del settore.
Per questo il contratto e il regolamento aziendale di Just Eat vanno respinti con
forza! Non vogliamo sottostare al gioco al ribasso tra chi si fa portavoce di una
finta autonomia senza tutele né diritti e chi ci propina, o tuttalpiù tace, riguardo
una subordinazione da fame! Solo la lotta e il protagonismo dei lavoratori possono
migliorare le nostre condizioni!
23 marzo 2021, da pagina Facebook di Rider in Lotta Milano
Per il Tribunale di Milano uccidere i lavoratori non è reato
Ancora una volta il tribunale di Milano ha assolto quattro ex dirigenti del Teatro
alla Scala di Milano, imputati per l’omicidio colposo di 10 lavoratori, con la formula
«il fatto non sussiste». Nel frattempo la lista dei morti d’amianto fra i lavoratori
del teatro si è allungata. Un’altra decina di lavoratori ha perso la vita per
l’asbesto.
Che i tribunali siano schierati a difesa dell’economia e del profitto lo sappiamo da
sempre. Fiducia nello stato e nei tribunali (in particolare quello di Milano) non ne
abbiamo mai avuta e la sentenza di assoluzione dei dirigenti imputati era chiara fin
dalle prime udienze. Infatti, la giudice – e presidente della 9° sezione penale –
Mariolina Panasiti, ha dimostrato la sua scelta di campo interrompendo e redarguendo
più volte il Pubblico Ministero, Maurizio Ascione, e gli avvocati delle parti civili,
come ha fatto anche nell’ultima udienza, interrompendo nuovamente le repliche del PM e
degli avvocati delle parti civili.
La 9° sezione del tribunale di Milano, più di altri, è spudoratamente servile con gli
avvocati della difesa dei potenti e arrogante con l’accusa e gli avvocati delle
vittime.
In Italia c’è una giustizia di classe che, nei conflitti fra padroni, manager e
operai, è schierata a sostegno del potere. Così, ancora una volta, i padroni e i
manager che non rispettano le leggi antinfortunistiche e le misure di sicurezza
possono dormire sonni tranquilli. Questo tribunale, sempre pronto a genuflettersi
davanti ai potenti e ai loro avvocati lautamente pagati per difendere gli assassini
dei lavoratori, ha sentenziato ancora una volta che UCCIDERE I LAVORATORI PER IL
PROFITTO NON E’ UN REATO.
La verità storica emersa dalle testimonianze dei lavoratori e consulenti del PM viene
così opportunamente cancellata da quella giuridica.
Eppure, durante le numerose udienze, è emerso che i lavoratori erano esposti ad
amianto prima delle bonifiche dei locali.... e anche dopo. L'amianto nel Teatro è
presente dalla ricostruzione di Piermarini del 1943 ed è servito a coibentare numerosi
spazi del palazzo.
Nel processo è emerso che i dirigenti non hanno mai informato i lavoratori sui rischi
e non hanno mai fornito dispositivi di protezione, che le condizioni di lavoro non
rispettavano le norme di sicurezza e i gravissimi ritardi nelle bonifiche. L’amianto è
stato messo al bando nel 1992 con tanto di obbligo di bonifica dei luoghi in cui fosse
presente.
Questi processi dimostrano ai famigliari delle vittime e ai lavoratori - più di tanti
proclami ideologici - che in una società divisa in classi tutte le istituzioni,
compresa la magistratura, sono al servizio della classe borghese dominante. E vogliamo
farlo proprio il 1° maggio, giornata simbolo della lotta della classe operaia in tutto
il mondo.
Nonostante questo non ci rassegniamo. La nostra battaglia per cambiare questa società
ingiusta basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo continua nei luoghi di lavoro,
nelle piazze, nel territorio e anche nelle aule di tribunale.
NOI NON CI ARRENDIAMO. NOI NON PERDONIAMO.
1 maggio 2021
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio