indice n.133

Egitto: Il raccolto della “rivoluzione”
Tunisia: manifestazioni e assalti alle sedi istituzionali
CPR, HUB, SPRAR: SOPRUSI E SOLIDARIETà
21 Agosto - 9 Settembre 2018: SCIOPERO NELLE PRIGIONI USA
suicidio nel carcere di ivrea, proteste, botte e trasferimenti
Lettera dal carcere di Verona
lettere dal carcere di carinola (ce)
Presidio-saluto davanti al carcere di Carinola
Lettera dal carcere femminile di Pozzuoli (Na)
scritto dal carcere di massama (or)
Scritto dal carcere di Castelfranco Emilia (MO)
documento dal carcere di Sulmona (aq)
LA REPRESSIONE NON ATTACCA, ATTACCHIAMOLA!
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Lettera dal carcere di Montacuto (Ancona)
Assemblea operaia, Pomigliano, 23 giugno 2018
Torino: 15 misure cautelari e 9 arresti per il Primo maggio 2017
milano: Sullo sgombero di via Palmanova a Milano



Egitto: Il raccolto della “rivoluzione”
Ultimamente sta girando molto su internet un articolo in arabo pubblicato nel 2015 da una compagna egiziana. Abbiamo deciso di tradurlo e diffonderlo non solo per le informazioni che dà sulle vicende egiziane dal 2011 al 2015. In un periodo in cui è diventata opinione condivisa e indiscussa che le rivoluzioni arabe del 2011 siano state solo un fallimento oppure il frutto di una o molteplici cospirazioni, questo articolo aiuta a rimettere al centro lo spirito, le ragioni e le lotte che hanno completamente sconvolto – e continuano a farlo – in forme diverse ma complementari non solo l’area che va dal Marocco, al Bahrain, allo Yemen, quanto l’intera Europa. Per non dimenticare il senso di quegli anni, che il(i) regime(i) vorrebbe cancellare torturando ingabbiando e sottoponendo le persone a sparizioni forzate. Noi non dimentichiamo dovessimo farlo fino all’ultimo respiro.

Il raccolto della “cospirazione” di gennaio 2011 e quello della “rivoluzione” di giugno 2013
In quanto “Yanargheya” (le persone che erano presenti durante la rivoluzione di gennaio che in arabo si dice yanair) propongo una rilettura di quanto avvenuto in Egitto dopo 4 difficili anni dal 25 gennaio 2011 e un anno e mezzo dal 30 giugno. La prima parte è sulla rivoluzione. Quella che gli amici di Mubarak e le stelle dei media al soldo dei servizi di sicurezza han definito “cospirazione”. La seconda parte si occuperà dell’ondata di rabbia che vide implicati militari e ex del regime, una sciagura [l’autrice usa il termine nakba in riferimento a quella palestinese del 1948, NdT] generale, che gli amici di Mubarak han chiamato “rivoluzione”.
Nonostante l’odio che nutrono per la parola “rivoluzione” gli ex del regime e i gruppi di opportunisti e approfittatori pro Sisi, così come le persone amanti della stabilità, quanto avvenuto a giugno del 2013 è stato definito fin da subito con questa parola, in aperto contrasto con gli avvenimenti di gennaio del 2011. Il fine era di screditare ad ogni costo la rivoluzione di gennaio per nascondere la realtà di tutto quello che hanno subito da parte dei Yanargeya (chi è sceso a gennaio) e delle masse immense di popolo. Ora, il nostro disaccordo non è sulla terminologia o sui nomi o sugli aggettivi. Il nostro disaccordo è sul retaggio del “glorioso giugno” e dei suoi effetti in cui nuotiamo fino ora, esattamente come le persone di Alessandria nuotano nell’acqua di fogna. Sì, navighiamo tutte e tutti nell’acqua di fogna dopo gli avvenimenti della vostra rivoluzione “benedetta” di giugno che noi, invece, consideriamo una nakba. Tuttavia non userò il termine colpo di Stato come fanno gli islamisti, dal momento che questi hanno condiviso con la giunta militare tutti i loro colpi di Stato: dal 1952 fino a quello del primo febbraio 2011, quando in maniera evidente i loro interessi convergevano. Così se a giugno 2013 la giunta militare fosse stata coalizzata con la giunta dei Fratelli Musulmani e ci avessero uccise e uccisi tuttx al posto delle vittime di Rabaa [Rabaa è il nome della piazza dove più di 800 persone vicine al presidente Morsi furono assassinate in poche ore da esercito e polizia nel 2013], saremmo statx descrittx come baltagheya, teppistx e degni di essere uccisi. Il raccolto della vostra rivoluzione di giugno non richiede alcuna prova, è invece una realtà che viviamo sulla nostra pelle quotidianamente. La vediamo tutti i giorni quando accendiamo gli schermi e troviamo fantocci come Riham Said e Mona Iraki [due celebri presentatrici della TV egiziana], o le intercettazioni di Abdel Rahim, i complotti di Moussa, le allucinazioni di Issa [giornalista e conduttore televisivo], mentre le persone affondano nella povertà. C’è chi muore di gioia quando riesce a comprare una bombola del gas e chi invece si suicida appeso su un cartello pubblicitario o davanti alla finestra di casa sua, l’ultimo suicidio è avvenuto a Mugamma‘ Tahrir. Naturalmente queste persone non trovano spazio sullo schermo, nessuna voce può alzarsi sopra quella della guerra al terrorismo.
Il raccolto della vostra rivoluzione lo vediamo ogni volta che abbiamo a che fare con la vostra giustizia, con le sentenze che arrivano fino a 15 anni per aver bloccato una strada, mentre Mubarak viene assolto da tutte le accuse; quando un tribunale condanna 500 persone all’impiccagione per aver ucciso un poliziotto e allo stesso tempo un giudice viene assolto senza cauzione dopo l’assassinio di una donna sparata per strada; quando Hazem, Loay, Ahmed Douma e Maher passano tre anni di vita in carcere per una manifestazione non autorizzata e Zaher Hawas esce dal carcere dopo essere stato accusato di aver rubato dei reperti archeologici. Tutto questo mentre la polizia è ritornata ad affinare le sue pratiche di tortura. Non passa mese in cui un nuovo assassinio non venga commesso nei commissariati di polizia o che, come successo a Suez, vengano uccisi due fratelli [i due fratelli in moto furono sparati alle spalle da due poliziotti].
Il raccolto di giugno lo vediamo quando l’Egitto si disfa della sua ricchezza di gas estratto nel Mediterraneo per darlo a Israele, oppure quando il governo di Mehleb si appresta a progettare l’importazione di carbone tornando così alle epoche buie, dal momento che Mubarak ha esportato il nostro gas a Israele a prezzi stracciati. Ovviamente Mubarak ne esce pulito grazie alle leggi fatte su misura dal suo sistema e alla corruzione.
Il più eloquente raccolto di giugno lo vediamo con il ritorno dell’immagine di Hani Surur [un ex del regime di Mubarak] – il più famoso processo prima della rivoluzione sui filtri d’acqua inquinata – esposta nelle strade del quartiere al-Daher tra i candidati alle elezioni. Oppure nel ritorno di Ezz [ex del regime di Mubarak] nei giochi del mercato, nell’aumento di miliardi nelle tasche delle banche e nell’aumento dei prezzi al dettaglio, nell’aumento della benzina e dei biglietti dei mezzi pubblici. Questo è quello che abbiamo raccolto dalla rivoluzione di giugno!!
Il raccolto di gennaio invece ci rende orgogliose/i per la partecipazione di persone sconosciute, non pagate dalla polizia o dal Dipartimento degli affari morali dell’esercito, che hanno preso le strade urlando slogan di libertà e giustizia sociale. La popolazione di gennaio non ha mai smesso di urlare slogan come “fai a pezzi Sisi”. La popolazione di gennaio non voleva la morte dei nemici come la popolazione di giugno e i pro Sisi. La popolazione di gennaio chiedeva dignità e non ha mai chiesto di uccidere per le strade. Non abbiamo chiesto le condanne a morte per gli assassini come Mubarak e al-Adly [ex ministro degli interni], Tantawi [il capo della giunta militare nel 2011]. Nella nostra ingenuità chiedevamo leggi, sanzioni e giustizia.
La popolazione di gennaio, ha costituito dei comitati popolari per ripristinare la sicurezza e non far accadere nel corso di 18 giorni [prima delle dimissioni di Mubarak] gli abusi sessuali, i furti e tutti gli incidenti provocati dal sistema per disfarsi della rivoluzione. La popolazione di gennaio ha dato la vita al venerdì della rabbia, quello dei cammelli e Mohamad Mahmoud, proteggendo la rivoluzione con il proprio sangue. Non aspettava i blindati dell’esercito o la protezione della polizia come è avvenuto nel “glorioso giugno” 2013. Con determinazione la popolazione di gennaio ha portato all’arresto di Mubarak e i suoi figli, al-Adly e tutti coloro che rappresentavano gli assassini e le intimidazioni del sistema.
La popolazione di gennaio ha diffuso la speranza a milioni di persone su un piatto d’argento. C’è chi è tornato da fuori per partecipare a quei momenti infuocati, c’è chi è sceso da casa per rompere il silenzio. La popolazione di gennaio ha fatto entrare tutti i topi nelle tane, uno come Mortada [Mortada Mansour imprenditore e presidente della squadra del Zamalek] che ora naviga con il suo yacht privato nell’acqua di fogna del 30 giugno, è rimasto nascosto per più di un anno per paura di quel gennaio. Lo stesso è successo a molti altri che non sono usciti con l’arretramento di gennaio e il prevalere dell’infezione di giugno. Ricordatevi i giorni della vostra vittoria, ricordatevi delle vostre strade e piazze, ricordatevi i compagni e le compagne di strada che ancora mantengono il patto, e ora sono in carcere o all’estero, persi tra il fumo dei lacrimogeni. Ricordatevi di gennaio vittorioso, rabbioso e la porta di Mohamad Mahmoud, la moschea di Abbas al-Rahman, Omar Makram, lo striscione mensile appeso sul palazzo di via Talat harb 1, lo spazio della chiesa Qasr al-Dubara.
Questi sono stati i nostri giorni, che ci ricordiamo con orgoglio, in cui abbiamo scelto i nostri sogni e abbiamo fatto giustizia con le nostre stesse mani per qualche ora e la nostra lotta si è palesata. Lasciateci ricordare, e che la speranza sia la nostra guida in questi giorni di agonia, mentre la codardia dilaga nel silenzio di una melodia che non viene più suonata.
9 luglio 2018, da hurriya.noblogs.org


Tunisia: manifestazioni e assalti alle sedi istituzionali
Nella notte tra il 2 e 3 giugno, al largo dell’isola di Kerkennah in Tunisia, è avvenuto l’ennesimo naufragio di un barcone di migranti che trasportava circa 180 persone, “la più grave tragedia in mare del 2018” secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). 68 sono i sopravvissuti (61 tunisini e 7 di altre nazionalità), si contano almeno 112 tra morti e dispersi, e al momento solo 73 corpi sono stati recuperati.
La maggior parte delle persone a bordo della barca affondata domenica erano tunisini che cercavano di sfuggire alla disoccupazione e una crisi economica che ha continuato ad attanagliare il paese dopo il rovesciamento di Ben Ali nel 2011.
Una forte manifestazione si è tenuta la sera di martedì 5 giugno nella città di El Hamma (governatorato di Gabes) in segno di protesta contro il naufragio di Kerkennah.
10 giovani di El Hamma hanno trovato la morte in questa tragedia e altri 3 sono ancora dispersi, 24 tra i sopravvissuti provengono da questa città.
Gli/le abitanti della città hanno organizzato un corteo per chiedere la caduta del governo. I manifestanti sono scesi per le vie della città scandendo diversi slogan come “il popolo vuole la caduta del governo”, “assassini dei nostri figli, ladri del nostro paese”, “Essebsi il tuo tempo è finito”, rivolto al presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi.
La notte successiva, mercoledì 6 giugno, i manifestanti hanno marciato verso il quartier generale della delegazione del governo, a protezione del quale era stato schierato l’esercito. I manifestanti hanno tentato di invadere il distretto di sicurezza nazionale, bloccato le strade bruciando pneumatici e lanciato pietre contro le forze di sicurezza, che hanno sparato con i lacrimogeni. Diversi giovani sono stati arrestati in seguito a una retata nei quartieri della città.
Le organizzazioni nazionali presenti nella regione di Gabès, la Lega tunisina dei diritti umani e l’Unione sindacale regionale (UGTT) hanno emesso comunicati in cui attribuiscono la responsabilità della tragedia al governo, indicando il modello di sviluppo che, secondo loro, è la causa della disoccupazione giovanile e della disperazione. La disoccupazione nella regione di Gabes supera il 25% e raggiunge il 55,2% tra i diplomati.
Lunedì 4 e martedì 5 si sono tenute manifestazioni nella città di Tataouine, nell’omonimo governatorato. Anche qui molte persone, sopratutto giovani, sono scese in strada esprimendo la loro rabbia e rivendicando le dimissioni del governo. I manifestanti si sono poi diretti all’ospedale regionale per accogliere le salme delle 5 persone affogate nel naufragio, che provenivano da questa città.
I giovani della città di Beni Khedache (nel governatorato di Medenine) hanno attaccato la stazione della Guardia Nazionale nel centro della città all’alba di giovedì 7 giugno 2018, in segno di protesta per il naufragio avvenuto lo scorso sabato, dove sono morte 4 persone residenti nella città.
Secondo il portavoce del ministero dell’Interno, Khelifa Chibani, alle due del mattino i manifestanti hanno lanciato pietre contro la stazione della Guardia Nazionale. Subito dopo, hanno forzato l’ingresso dell’edificio per incendiarlo e distruggere alcuni documenti. Successivamente è stato preso di mira il quartier generale della delegazione del governo, dove è stata incendiata la sala delle guardie. I manifestanti hanno denunciato l’emarginazione della gioventù da parte del governo e la situazione sociale ed economica, oltre alla mancanza di orizzonti di sviluppo nella regione.
Il portavoce del ministero dell’Interno ha affermato che la situazione è sotto controllo e che l’esercito sta attualmente proteggendo i siti vitali.
Per smorzare le proteste, il governo tunisino, da parte sua, ha creato una commissione di crisi sull’incidente allo scopo di sostenere le famiglie delle vittime e garantire le cure ai sopravvissuti. Diversi funzionari di sicurezza, intanto, sono stati destituiti dal ministero dell’Interno in seguito al naufragio di Kerkennah avvenuto lo scorso fine settimana. Sono stati rimossi dall’incarico, in particolare, il capo del distretto di sicurezza nazionale a Kerkennah; il responsabile del servizio regionale dei servizi speciali a Sfax; il capo della brigata d’intelligence del distretto di Kerkennah; il titolare della polizia giudiziaria a Kerkennah; il capo della polizia giudiziaria a Sfax. Estromissioni anche nella Guardia nazionale, dove sono stati destituiti il capo distrettuale della Guardia nazionale di Sfax; il numero uno della brigata di ricerca e investigazione nel distretto di Sfax; il responsabile della Guardia costiera di Kerkennah; il titolare della sicurezza marittima a Sfax. Il ministero dell’Interno spiega che questi sono solo “le prime sanzioni” in attesa di “ulteriori azioni”. Il 6 giugno il primo ministro tunisino Youssef Chahed ha rimosso lo stesso ministro degli Interni Lotfi Braham.
Al 7 giugno di quest’anno, i tunisini rappresentano la prima nazionalità tra quelli che sono riusciti a raggiungere l’Italia: 2.916 persone su un totale di 13.808. Secondo il ministro degli Interni tunisini, nei primi 5 mesi di quest’anno circa 6.000 persone sono state fermate dall’intraprendere il viaggio, un netto aumento rispetto al 2017. Lo scorso anno 9.329 tunisinx hanno tentato di arrivare in Italia, il 34% è stato bloccato e arrestato prima di partire dalle autorità tunisine, 6.151 persone sono riuscite a sbarcare in Italia e son state segregate negli hotspot: 2.193 sono state deportate in Tunisia, gli/le altrx hanno ricevuto un decreto di espulsione o sono reclusx nei CPR. A ottobre del 2017 le famiglie delle persone recluse negli hotspot e CPR in Italia avevano portato avanti una protesta per evitare la loro deportazione e chiederne la liberazione.

7 giugno 2018, da hurriya.noblogs.org


CPR, HUB, SPRAR: SOPRUSI E SOLIDARIETà
Lucca: sull'uso del TSO per imprigionare i e le migranti
Narriamo qui si seguito la storia di una ragazza diciannovenne proveniente dalla Nigeria, arrivata in Italia con la figlia di 18 mesi. Com’è evidente in un regime di frontiere serrate e sempre più fatte arretrare verso il Mediterraneo, prima, e verso i Paesi di origine e transito, poi, chi riesce ad arrivare in Europa presenta subito richiesta di asilo, anche solo per ottenere un pezzo di carta e organizzarsi la vita o la fuga altrove.
Questa ragazza decide di fare domanda di asilo e scattano subito le maglie del paternalismo di stato: viene trasferita in una struttura protetta per donne con figl* minori gestita dalla croce rossa italiana […], ma decide poi che in questa struttura non vuole più restare e chiede di andarsene. In tutta risposta, le fanno un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) e la ricoverano coattamente nel reparto di psichiatria dell’ospedale “Versilia”. La figlia? affidata dal tribunale per i minori di Firenze ai servizi sociali.
A quanto pare lei dal reparto sta protestando contro questa decisione, contro questo ricovero violento e – come sempre sono i TSO – autoritario, coercitivo e immotivato. Tutto questo accade in un Paese che – al di là della rampante retorica razzista e nazionalista che infiamma gli animi dei più – si batte il petto per la famiglia, per la donna sposa e madre, contro la tratta, contro lo sfruttamento. Quando però la donna si ribella a questa spinta vittimizzante, viene dichiarata pazza, incapace di badare alla figlia. Subentrano le istituzioni che diventano immediatamente i soggetti più adeguati a decidere per lei, per la sua salute, per il benessere di sua figlia.
Niente di nuovo ovviamente, se pensiamo alla funzione di normalizzazione coercitiva che la psichiatria ha esercitato sui corpi delle donne e dei soggetti non binari e conformi alla norma sin dagli albori, a partire dalla diagnosi di isteria. L’esito di questa vicenda è incerto, probabilmente non emergeranno pubblicamente ulteriori risvolti. La potenza della violenza delle istituzioni e delle frontiere però emerge con tutta la sua forza. Come sempre.
(da hurriya.noblogs.org, 12 luglio 2018)

Roma: sul presidio al CPR di Ponte Galeria del 29 giugno
Venerdì 29 giugno, una ventina di compagnx si è ritrovata ancora una volta davanti le mura di Ponte Galeria per supportare le resistenze quotidiane delle donne immigrate recluse nel lager romano.
In una fase storica in cui il fascismo, il razzismo e la xenofobia la fanno da padroni, che sia in parlamento o nel bar del quartiere; in un periodo in cui quasi quotidianamente muoiono migranti inghiottitx dal Mediterraneo a causa del regime delle frontiere o vengono ammazzatx biecamente sui luoghi di lavoro o nelle strade; in un momento in cui ogni giorno si assiste quasi inermi e indifferenti alla violenza delle retate e alla persecuzione, marginalizzazione, criminalizzazione e invisibilizzazione di migliaia di individui solo perché nati “nel paese sbagliato”, ancora una volta sappiamo da che parte stare.
Ancora una volta abbiamo scelto, a dispetto dell’isolamento e della partecipazione esigua, di tornare di fronte al CPR per urlare il nostro odio contro un sistema che esclude, reprime, ingabbia e deporta migliaia di persone; contro uno Stato – e ogni stato – che porta avanti senza tregua la sua guerra colonialista, e quella sì non conosce frontiera alcuna. Nessun confine né limite quando si tratta di depredare, sfruttare, distruggere territori, stuprare e uccidere persone.
Abbiamo di nuovo scelto di essere lì davanti per comunicare con le donne recluse, raccontare le lotte che le persone immigrate portano avanti per affermare e rivendicare la propria esistenza; per far sapere alle detenute che non sono sole e che vogliamo continuare a essere lo strumento che permette alle loro voci di sfondare quelle infami mura.
Tra cori, musica e interventi in più lingue, per circa due ore il presidio è continuato mentre dall’interno arrivavano le prime telefonate che ci hanno permesso di riprendere alcuni contatti con le detenute, interrotti da un mese perché le donne con cui comunicavamo sono uscite.
Dalle telefonate abbiamo appreso che, come sempre, le donne erano state chiuse a chiave nelle celle dalla mattina, senza quindi la possibilità di uscire in cortile o andare in palestra. Il tutto arricchito dai soliti discorsi (delle guardie e degli operatori) che mirano a spezzare la solidarietà tra le recluse e i/le compagnx fuori, accusatx appunto di essere la causa di questa ulteriore restrizione a danno delle detenute. Restrizione che viene attuata anche quando, dopo un presidio o uno dei saluti solidali che vengono fatti ogni tanto, le guardie escono in ronda per cercare e sequestrare le palline da tennis che lanciamo con dentro messaggi e il numero di telefono per le detenute.
Da quello che sappiamo, al momento all’interno del CPR ci sono circa 30-35 donne di diversa provenienza, alcune detenute da più di 8 mesi e chiaramente stremate dalle condizioni di detenzione. Alcune informazioni rispetto il bando per la nuova gestione del CPR (che al momento sembra passata nelle mani della cooperativa Albatros 1973) ci rivelano che, durante i lavori di ristrutturazione del lager, la capienza massima sarà di 51 recluse.
A tutta questa violenza vogliamo rispondere con la nostra solidarietà e il calore della nostra rabbia, finché la voglia di libertà non infiammi ogni gabbia. Sempre a fianco di chi resiste e lotta in ogni prigione. (da hurriya.noblogs.org, 4 luglio 2018)

Bologna – Resoconto del presidio contro CEFA
Il 20 giugno ci siamo riunite/i in presidio in via Marsala 12 di fronte a Palazzo Grassi, sede del circolo ufficiali dell’esercito, dove la nota Organizzazione Non Governativa (ONG) bolognese CEFA avrebbe voluto festeggiare le sue ultime imprese con un aperitivo di beneficenza di gran gala. Ad attenderci, il solito deprimente gruppetto di polizia e digos che premurosamente ci avvisa che l’evento non c’è più. Chiaramente, se la digos invita ad allontanarsi la cosa migliore da fare è rimanere un altro po’ a dare volantini e informazioni sul CEFA e sulle sue attività.
Dopo esserci accertati sull’effettivo annullamento dell’evento, abbiamo deciso di partire in corteo per il centro della città spiegando, con una serie di interventi da megafono e microfono, le motivazioni principali della protesta: soprattutto la partecipazione del CEFA a ben due chiamate internazionali bandite dall’AICS (agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo) per effettuare “interventi umanitari” all’interno dei centri di detenzione nella provincia di Tripoli, in Libia.
Siamo felici dunque di essere riusciti ad incidere, al punto di spingerli ad annullare la serata pur di non rischiare di mostrare, a chi avrebbe sborsato ingenti quantità di soldi per le loro “lodevoli” iniziative, il loro vero volto di umili servitori del meccanismo securitario delle frontiere.
Precisiamo che il primo progetto approvato dal bando AICS, presentato dal CEFA insieme alla fondazione milanese “L’Albero della Vita” e al CIR (Consiglio Italiano Rifugiati), denominato “Sostegno ai migranti del centro di Tarek el Matar e alla comunità ospitante” e finanziato per circa 670 mila euro, si è svolto da dicembre dello scorso anno fino ad aprile 2018, con una durata, per ora, di quattro mesi. Un secondo, invece, dal titolo “Sostegno ai migranti dei centri di Zwara e Janzour (e alle comunità ospitanti) in Libia", con una durata prevista di 10 mesi e proposto da CEFA, HELPCODE e FSD, sarebbe stato bocciato per un cavillo amministrativo. Quindi, tecnicamente ad oggi CEFA non è più nei centri in Libia, ma questo poco importa. CEFA nelle prigioni libiche c’era e ci sarebbe tornato, se solo la burocrazia non si fosse messa in mezzo.
Entrambi i progetti presentati si basano sul concetto neocoloniale di fornire assistenza in contesti di “prima emergenza” con la pretesa di avere gli strumenti “giusti” per migliorare le condizioni alimentari e igieniche e il livello di protezione delle fasce più vulnerabili della popolazione migrante incarcerata in centri dove, come CEFA stesso dichiara, “gli standard umanitari non sono affatto rispettati” e dove i detenuti “sono vittime di abusi e i cui diritti umani vengono violati”. Non è possibile rendere umana e dignitosa la vita in una prigione e, anzi, la subdola retorica umanitaria fornisce una funzionale copertura a veri e propri lager mentre l’operato delle ong rientra in questo sistema che si rivendica solidale con gli oppressi e gli sfruttati, ma che in realtà va strettamente a braccetto con gli interessi degli sfruttatori.
Abbiamo gridato per la città che non esiste un modo buono di stare in quei posti e che oltre ad aver supportato la questione demagogica dell'”emergenza flussi”, l’ong bolognese si è attivata per fungere da complemento necessario del progetto di esternalizzazione delle frontiere attuato dall’ex ministro degli interni, Marco Minniti, cogliendo al volo l’opportunità di cooperare con lo stato italiano nella gestione dei flussi migratori, in linea con gli interessi governativi, in particolar modo per quanto riguarda le politiche securitarie degli ultimi anni. Tale gestione ha previsto da un lato una costante e crescente militarizzazione dei confini, mentre dall’altro ha individuato proprio nelle ong il mezzo di normalizzazione di situazioni e realtà fortemente precarie e disastrose, come quelle riguardanti il contesto libico, dove sono in gioco altri grandi interessi, come ad esempio quelli di ENI.
Abbiamo ribadito che chi lavora e collabora con organizzazioni di questo tipo e partecipa alla visione umanitaria delle strategie di sviluppo e sicurezza imposte in giro per il mondo, altro non fa che essere complice del sistema autoritario di controllo e sfruttamento, che genera troppo spesso morte e distruzione, ideato dagli stati e dalle grandi organizzazioni finanziarie ed economiche. Le organizzazioni presenti in Libia stanno così contribuendo ad un cambiamento particolare: quello che si concretizza nella continua ridefinizione dei ruoli e delle modalità attraverso cui un tale assurdo sistema si abbatte sulla vita quotidiana delle persone.
[...] Invece che trovarci in piazza Nettuno con collettivi, associazioni e sindacati a braccetto con le istituzioni, abbiamo ritenuto opportuno manifestare contro tutti quei soggetti che, usando la data del 20 giugno come “giornata mondiale del rifugiato”, in realtà non fanno altro che perpetrare le dinamiche di controllo e sfruttamento contro le quali dichiarano di voler opporsi. La manifestazione di cui parliamo ha avuto come ospite d’eccezione la sindaca di Barcellona, Ada Colau. Per l’ennesima volta è andata in scena la pantomima del buon militante cittadino che si ritrova in piazza con i rappresentanti delle istituzioni, fornendo un utile supporto a chi è responsabile delle politiche securitarie da sempre in atto. La vicenda della nave Aquarius e la sua momentanea risoluzione con l’intervento del governo spagnolo sono un altro refugeeswelcome-washing che nasconde politiche raccapriccianti come la gestione delle frontiere a Ceuta e Melilla, dove c’è una vera e propria caccia all’immigrato, muri di filo spinato e un supporto economico al governo marocchino che pesta gli immigrati e dà fuoco agli accampamenti di fortuna nei boschi nei pressi delle due enclaves spagnole.
Lottare contro le frontiere significa riconoscere come frontiere anche tutti quei soggetti responsabili dell’incremento del controllo, del colonialismo, della gestione delle persone. Significa attaccarli invece che scendere in piazza insieme a loro. CEFANCORASCHIFO!
(da hurriya.noblogs.org, 30 giugno 2018)

Le stazioni sono frontiere
Nel 2015 con il “Progetto gate” è iniziata la militarizzazione di alcune grandi stazioni italiane: prima Milano Centrale in occasione di Expo, poi Roma Termini e Firenze Santa Maria Novella. Il Gruppo Ferrovie dello Stato ha schierato gli agenti della “protezione aziendale” - struttura che si occupa di antifrode e collabora strettamente con le forze dell’ordine (fdo) - lungo l’ennesima frontiera interna: i varchi di accesso ai binari da cui partono i treni.
Nelle stazioni suddette è ormai invalsa la prassi di controllare i biglietti in una zona presidiata da militari e fdo e situata tra il centro commerciale della stazione e i binari. Il pretesto è quello di rendere più sicure le stazioni dal rischio di furti e attacchi terroristici, ma gli obiettivi effettivamente raggiunti sono altri: da un lato ripulire la stazione (e i treni) da quell’umanità in eccesso e non produttiva che sperimentava le più varie forme di sopravvivenza ai margini del viavai quotidiano (una bancarella ambulante, una panchina dove riposare, un luogo di passaggio dove elemosinare); dall’altro lato aumentare i profitti delle aziende di trasporto attraverso un controllo sempre più serrato nelle stazioni e sui treni. D’altronde il nesso tra i varchi e l’antiterrorismo è evidentemente sfuggente, considerando il fatto che con un biglietto in mano l’accesso ai binari è consentito a chiunque. Pur mancando ancora i gates di accesso, anche a Torino, Bologna, Venezia e Napoli i controlli in stazione da parte di protezione aziendale e militari sono sempre più frequenti.
Da circa un mese una novità esalta la polizia ferroviaria, una nuova tecnologia che si aggiunge alle centinaia di videocamere disseminate nelle stazioni e sui treni: il palmare CAT S60. Ha l’aspetto di un classico smartphone, al momento pare ce ne siano in giro 800 e la sua sperimentazione è stata affidata alla Polfer in servizio nelle stazioni di Milano e Roma, proprio a ribadire la trasformazione delle stazioni in zone di confine alla stregua degli aeroporti e delle varie frontiere interne. Con questo dispositivo di controllo high-tech i controlli si susseguono più rapidi che mai: il poliziotto inserisce le generalità o passa la banda magnetica del documento elettronico sullo schermo del palmare. Questo è collegato alla banca dati delle forze dell’ordine: in caso di precedenti penali o pendenza di provvedimenti di polizia, un segnale acustico risuona istantaneamente nella sala operativa della polfer che si mette in contatto con la pattuglia per dare ordini sul da farsi ed eventualmente inviare rinforzi, ulteriormente facilitata in questo dal GPS attivo sul palmare.
L’accesso alla banca dati e il coordinamento con la sala operativa sono dunque istantanei e questo permette di controllare un numero sempre maggiore di persone. Questo nuovo dispositivo è dotato anche del software chiamato “face control”, con cui la polizia ha un riscontro sulla corrispondenza della fotografia presente nella banca dati con quella del documento esibito. Non solo: una termocamera permette di individuare le persone attraverso il calore prodotto dal corpo fino a 10 metri di distanza, il che renderà meno complici l’oscurità o un bagno guasto.
A fine giugno anche nella stazione di Roma Tiburtina sono cominciati i controlli con questa nuova tecnologia: un poliziotto con palmare in mano e due militari con fucile in spalla fermavano ragazzi con zaino in spalla e sopratutto persone con tratti somatici non tipicamente occidentali in una stazione che va assomigliando sempre più ad un centro commerciale di frontiera. Tanti negozi, bar e salotti riservati a chi viaggia in prima classe sull’alta velocità, nessun bagno ad uso pubblico né panchine, per scongiurare il bivacco di chi non ha una destinazione e non consuma, videocamere militari e poliziotti che con armi e nuove tecnologie controllano e selezionano chi ha diritto a muoversi. (da hurriya.noblogs.org, 30 giugno 2016)

***
Frontiera tra Italia e Francia: aggressione al rifugio autogestito Chez Jesus sotto sgombero e militarizzazione delle montagne
A Chez Jesus il 4 luglio sono state issate due bandiere, belle, alte più o meno 5 metri. Una bandiera No Tav e una con scritto No Borders. Poche ore dopo, 6-7 persone residenti di Claviere, in modo evidentemente organizzato, si sono presentati al rifugio. Con toni minacciosi e violenti, hanno preteso di togliere le bandiere insultando sin da subito le persone presenti a Chez Jesus con insulti razzisti e sessisti per poi prendere a calci una ragazza, scaraventare un altro ragazzo giù da un muretto e picchiarlo. Alcuni di questi aggressori si sono rivendicati di essere orgogliosamente fascisti, proclamando di essere a casa loro e di poter agire con qualsiasi mezzo necessario.
Poco dopo l’inizio dei fatti è giunto il sindaco di Claviere, che ha avvertito i carabinieri. Sono arrivate sul posto tre pattuglie con l’intenzione di identificare tutti i presenti. Mentre gli occupanti sono rientrati nel rifugio, due di noi, che stavano difendendo la porta di accesso, sono state scaraventate e immobilizzate a terra dalla polizia. Le minacce di denuncia di resistenza sono state numerose, come altre intimidazioni. Alla fine, molti dei presenti sono stati identificati.
Non è la prima volta che tali personaggi attaccano il rifugio autogestito di Chez Jesus. La sera del 22 aprile scorso infatti, al termine della marcia solidale da Claviere a Briançon culminata con gli arresti di Eleonora, Théo e Bastien, alcuni di questi stessi personaggi di ieri si erano presentati al rifugio insultando con frasi sessiste e razziste, evidentemente a loro tanto care, cercando di mettere le mani addosso e minacciando di tornare.
È evidente dunque che la presenza di Chez Jesus dà fastidio qui a Claviere. Dà fastidio ai fascisti che non vogliono neri a vista, bandiere No Tav e No Borders. Dà fastidio all’economia del posto. Claviere resta un paesino di montagna, che vive del turismo sciistico d’inverno, di quello golfistico (i campi sono - pare - di proprietà della Lavazza) e naturalistico d’estate. Come ci ha ricordato il sindaco ieri, il commercio viene rovinato perché l’immagine della località turistica ricca e tranquilla viene soppiantata da una realtà più scomoda, fatta di respingimenti e botte da parte della polizia, di migranti bloccati a Claviere e di conseguenza ben visibili nel paese. A fine giugno, infatti, la PAF ha gonfiato di botte un ragazzo che pregava di non essere rimpatriato in Italia. La polizia respinge sempre più frequentemente anche i minori, spesso ingannandoli sulla destinazione finale del viaggio in furgone, che inesorabilmente li riporta in Italia. Gendarmi e polizia pattugliano i sentieri in quad, in bicicletta e a piedi, spesso minacciando di sparare a chi cerca di passare questo confine senza avere la pelle e i documenti richiesti. E anche se sei bianc*, ma sospettato di poter aiutare dei migranti a passare la frontiera, vieni fermat*, caricato su una camionetta e portat* alla polizia di frontiera, per poi magari essere convocato alla PAF per un'audizione libera, come successo a tre amic* che passeggiavano tra queste montagne militarizzate; tale strategia si inserisce in un disegno più ampio, animato dalla volontà di mettere pressione, orchestrato dal procuratore di Gap, che avrebbe aperto un'indagine per favoreggiamento all'immigrazione clandestina.
Un secondo episodio può confermare di questa strategia assassina, messa a punto dal procuratore di Gap, con l'appoggio della prefettura italiana: una macchina con a bordo tre ragazz* viene fermata a qualche centinaio di metri dalla frontiera da un ragazzino malconcio, che si dichiara molto malato e che necessita di andare in ospedale. Chiede di essere portato alla PAF per farsi prendere in carico dal sistema francese, in quanto minorenne non accompagnato e in gravi condizioni di salute (la legge francese infatti prevede la presa in carico da parte dello stato di qualsiasi minorenne non accompagnato presente sul territorio). Le sue condizioni fisiche sono visibilmente critiche: il ragazzo fa fatica a parlare e perfino a sedersi. Afferma di non essere stato curato dai centri di accoglienza italiana. I tre ragazz* gli danno un passaggio e dicono alla PAF che il ragazzino deve andare in ospedale e che è minorenne. I poliziotti di frontiera fanno scendere il ragazzo e lo portano dentro. Poi, uno a uno, i tre ragazz* vengono interrogat* sui fatti. Gli viene proposta la scelta fra un “audition libre” (audizione libera), o la garde-à-vue (fermo) per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Di fatto i tre sono trattenut* per tre ore e mezza, interrogat*, mess* sotto pressione. Vengono rilasciat* con un appuntamento orale per l’indomani. Pare che sia stato il procuratore di Gap a voler procedere con l’inchiesta. Intanto il ragazzino malato viene interrogato, poi gli viene detto che lo porteranno all’ospedale di Briançon. Gli hanno fatto firmare un foglio che nemmeno ha potuto leggere. Poi lo caricano su un furgone, insieme ad altri due minorenni. Credono tutti di andare a Briançon, invece si ritrovano buttati per strada all’inizio di Clavière, alla frontiera italiana. Il ragazzino malato ci riprova. Ferma un’altra macchina, si fa dare un passaggio. Questa volta l’autista ha competenze mediche e può confermare che ha seriamente bisogno di cure all’ospedale. Nuovamente, invece, viene respinto alla frontiera. Questa volta sembra sia stata la prefetta della regione in persona, mobilitata per il caso, a volerlo respingere. Qualcun* lo porta in ospedale in Italia. Solerti medici chiamano immediatamente le forze di polizia. I carabinieri italiani, per prima cosa, lo sottopongono ad un esame osseo per verificare che sia minorenne. E poi lo foto-segnalano. Il ragazzino viene portato in un centro per minori in bassa Val di Susa e da lì l’indomani sarà ricoverato in un ospedale torinese.
Nel frattempo, il Rifugio Autogestito Chez Jesus, il sottochiesa occupato di Claviere, è sotto sgombero. C’è una denuncia pendente sul posto da più di due mesi e sembra che il Prefetto stia mettendo sempre più pressioni per sgomberare. Nel mentre stato e chiesa si stanno “impegnando” nel trovare “un’alternativa”: un luogo dei salesiani affittato dalla fondazione Magnetto e gestito da due operatori della fondazione Talità Kum. Una sorta di spazio di transito che aprirà a Oulx, a 15 chilometri dalla frontiera. Un luogo che avrà 15 posti letto e una cucinina per chi è di passaggio. “Un’alternativa” a Chez Jesus, come ci ripete il prete impegnato in questo progetto. Come se un luogo gestito da una fondazione privata a 15 chilometri dalla frontiera che svolgerà la sola funzione di dormitorio, con due operatori pagati per fare assistenza, possa essere “un’alternativa” a tutto quello che è Chez Jesus. Al rifugio è da mesi che passano centinaia di persone, si fermano, vivono questo spazio insieme condividendo la loro quotidianità con i solidali, scambiandosi esperienze e consigli preziosi. A Chez Jesus si trova sempre una porta aperta dopo ogni respingimento. Qui si può di condividere ogni esperienza di abuso da parte della polizia, oltre che, magari, costruire assieme un modo per non subirne più.
A Oulx il progetto dovrebbe partire per metà settembre. L’idea sembra quella di aprire un posto controllato e gestito, puramente “assistenziale”, e sgomberare così più tranquillamente il sottochiesa occupato di Claviere che invece vive di autogestione e ha sempre rifiutato l’idea di gestire e controllare le persone di passaggio. Chiesa e stato si stanno mettendo d’accordo per far finire questa esperienza e lo faranno pulendosi la faccia con l’apertura di questo nuovo spazio, chiaramente inutile agli occhi di chiunque sia stato presente in frontiera nell’ultimo anno e di chi sia consapevole di come funziona il dispositivo frontiera.
La fondazione Magnetto (finanziatore del nuovo progetto su Oulx) “è stata pensata come continuazione nel tempo del suo impegno per il territorio quale modello dell’impegno sociale dell’imprenditore moderno. La Fondazione, creata e sostenuta dalla Famiglia (Magnetto), interviene preferibilmente nei luoghi di origine del cavaliere, la Valle di Susa. I contributi sono raramente di origine privata.”
La Fondazione Talita Kum è strettamente legata ad interessi economici della chiesa. Lei stessa ha cercato e ottenuto i finanziamenti dalla fondazione privata Magnetto. Questo rifugio permette di organizzarsi di fronte alla violenza sistematica e selettiva della frontiera. Lo Stato non ci vuole più tra queste montagne. Forse non accetta un luogo dove non si identifica né si scheda nessun*, dove non c’è gestione né controllo, ma dove ci si auto-organizza in libertà. La chiesa cede volentieri alle pressioni e alla fine non è scontenta di togliersi il problema di Claviere, la questione delle spese e del conflitto politico con Comune e Prefettura. I salesiani fino ad ora non si sono mai attivati sulla questione dei migranti in Alta val di Susa. Solo ora che si parla di soldi e di interessi economici, sembrano interessarsi alla situazione. (liberamente tratto da hurriya.noblogs.org e pagina facebook di chez Jesus, luglio 2018)

***
BELGIO: arresti di massa e mobilitazioni contro le carceri per persone migranti (centres fermés)
In Belgio, e principalmente a Bruxelles, si susseguono senza sosta i rastrellamenti, la detenzione, gli abusi e le violenze contro le persone migranti. L’assassinio di Mawda, una bambina kurda uccisa da una guardia mentre con la sua famiglia cercava di raggiungere la Gran Bretagna, la continue mobilitazioni di solidarietà e di protesta, non ha avuto finora alcun tipo effetto sull’operato del governo.
Il 25 maggio quattro persone irachene richiedenti asilo sono state arrestate davanti a uno degli sportelli della prefettura dove avevano un appuntamento e subito portati in un centro di detenzione. La notte stessa alle 6 di mattina, la polizia irrompe nelle loro celle. Dopo averli ammanettati con le braccia dietro alla schiena, i quattro sono trasportati all’aeroporto di Rouen dove un jet privato affittato dalla stessa polizia li porta in Finlandia (paese dove avevano presentato richiesta d’asilo). Alla vista dell’aereo uno dei quattro cerca di resistere, oppone resistenza, urla. Dei funzionari allora “l’hanno preso per i gomiti e bendato con una maschera sul volto”. Arrivati a Helsinki, dopo uno scalo a Copenaghen, i poliziotti finlandesi li hanno presi e detenuti nel centro per migranti a Konnuso.
Episodi come questi sono all’ordine del giorno. Inoltre il 29 maggio scorso, mentre l’opinione pubblica seguiva le vicende dell’attentato a Liegi, la polizia ha messo a punto l’ennesimo rastrellamento al Parc Maximilien. Decine di persone sono state prese e portate nei centri di detenzioni per migranti. [...]
Hanno riempito i lager uno dopo l’altro: il 23 maggio è stato riempito Vottem, il 24 Merkplas e il 25 Bruges. Agli inizi del mese, circa 70 di 85 persone rastrellate e imprigionate nei lager del paese sono state liberate, in Belgio o in altri paesi europei, dopo mesi di detenzione. Molte di queste persone hanno ripreso il loro viaggio verso la Gran Bretagna o altri paesi dell’Unione Europea. Qualcuno è stato ritrovato in Canada. Qualcosa del genere succederà sicuramente a molte delle persone arrestate in questi giorni.
Allora è opportuno chiedersi a cosa servano questi rastrellamenti e queste detenzioni. A scoraggiare tutte e tutti i richiedenti asilo e tutte e tutti i sans-papiers, a fare aumentare le cifre delle e degli “illegali”, a espellere, a confermare la politica de « voor een streng maar rechtvaardig migratiebeleid » (per una politica migratoria severa ma giusta), come dice Theo Francken? [Segretario di Stato all’emigrazione del partito N-VA, di ultra destra fiammingo, xenofobo, omofobo, razzista e islamofobo, ndt].
Nel campo per migranti 127bis, la situazione resta esplosiva, degli scioperi della fame sono cominciati all’inizio del mese di maggio e sembra continuino anche ora anche se abbiamo poche informazioni in seguito a delle forti pressioni fatte su detenutx affinché non abbiano contatti con l’esterno. Alcuni detenuti “recalcitranti” sono stati messi in prigione, altri in isolamento medico. Un uomo epilettico è in uno stato molto preoccupante.
Al centro Caricole, 5 detenuti sono invece evasi, uno di questi è stato indicato come “islamista” da Theo Francken. Tuttavia, giusto per ricordarlo, un uomo recluso per diversi mesi in un centre fermé di Vottem, sospettato di essere un terrorista, è stato finalmente liberato.
Il 20 giugno 2018, per un’intera giornata, 120 attivistx hanno bloccato il cantiere per la costruzione delle unità familiari che confinano con il CIE 127bis. Nel centro, i detenuti hanno espresso il loro sostegno a quanto avveniva fuori in differenti maniere: alcuni hanno rifiutato di mettersi a tavola durante il pranzo, altri hanno scritto messaggi di solidarietà verso i/le militanti per esprimere la loro solidarietà, etc.
In questo contesto, un detenuto ha attraversato il corridoio gridando: “abbiamo bisogno di libertà, abbiamo bisogno di libertà!”. Allora il guardiano è arrivato e gli ha detto: “basta così, adesso ti calmi immediatamente altrimenti…”, altri detenuti allertati dal rumore si sono avvicinati rapidamente e opponendosi al guardiano hanno risposto: “ne ha il diritto, non sta facendo nulla di male”. La reazione delle autorità del centro non si è fatta attendere: 4 persone in cella! L’isolamento è sistematico per chi tenta di portare un messaggio diverso da quello delle autorità, mira a scoraggiare ogni forma d’azione, a rompere ogni forma di resistenza nascente dentro i centri.
Quello che succedeva dentro al centro, si osservava anche fuori. Quando si parla delle resistenze alle politiche migratorie securitarie e repressive, siano esse dentro o fuori i centri, le autorità applicano continuamente una vera e propria logica di dissuasione. Il tentativo è di tagliare tutto il sostegno alle azioni che possano rendere pubblico quanto succede nei centres fermés (CIE), come dimostra l’arresto dell’equipe di giornalistx della Rtbf al momento dell’occupazione del cantiere da parte degli/delle attiviste questo 20 giugno 2018.
Intanto, c'è chi si interroga su cosa fare in merito a questa situazione di oppressione razzista e fascista. Come uscire da questa situazione di oppressione? Come incoraggiare le altre sorelle e gli altri fratelli sans papiers a riprendere le lotte? Come far rinascere un movimento di solidarietà ancor presente ma di giorno in giorno sempre meno intenso e stanco? Come uscire da una situazione di stagnazione e tornare a diventare propositivi? C’è chi ha proposto di approfittare della campagna elettorale delle comunali di ottobre a cui seguiranno, l’anno prossimo, europee e federale per mettere la questione delle/dei sans papiers al centro delle politiche dei partiti dell’opposizione; c’è chi suggerisce di fare una piattaforma comune del coordinamento, delle occupazioni e delle associazioni solidali per intraprendere un nuovo anno di attivismo che si limiti ai soliti cortei; chi propone di trovare il modo di portare rivendicazione delle/dei sans papiers nelle piazze, strade, eventi culturali non solo a Bruxelles ma in tutte le città del paese. Una manifestazione ha sfilato il 10 giugno per le strade di Bruxelles.
Ma manifestare non è abbastanza, occorre agire insieme in modo più efficace per liberarci da chi ci opprime. (liberamente tratto da hurriya.noblogs.org e gettingthevoiceout.org, luglio 2018)


21 Agosto - 9 Settembre 2018: SCIOPERO NELLE PRIGIONI USA
I prigionieri e le prigioniere nelle carceri di tutta la nazione dichiarano uno sciopero nazionale che inizierà il 21 Agosto e si prolungherà sino al 9 Settembre, in risposta a ciò che è successo all’interno del Lee Correctional Institution, carcere di massima sicurezza in South Carolina lo scorso 15 Aprile. Durante la rissa tra detenuti – avvenuta in circostanze ancora da chiarirsi – 7 detenuti sono stati uccisi, altri 12 sono stati feriti in modo grave con armi da taglio e almeno 22 sono stati ricoverati in infermeria. Ovviamente tutto ciò avrebbe potuto essere evitato se le guardie e gli infermieri fossero intervenuti tempestivamente ma al contrario i secondini hanno iniziato a manganellare e picchiare i prigionieri e gli infermieri hanno tardato ore prima di intervenire e medicare i feriti gravi.
Non è certamente il primo episodio di “risse tra detenuti” né sarà l’ultimo che avviene nelle carceri statunitensi ma di sicuro è uno dei più gravi avvenuti durante gli ultimi tempi. Per questo motivo i detenuti hanno deciso di proclamare lo sciopero nazionale.
Le rivendicazioni dei prigionieri e delle prigioniere incarcerati nelle prigioni federali, statali e nei CIE sono:
- Miglioramenti immediati circa le condizioni dei/delle detenuti/e e delle politiche carcerarie che non hanno nessun tipo di rispetto per uomini e donne imprigionati.
- Fine immediata della schiavitù carceraria. Tutte le persone imprigionate in qualsiasi luogo di detenzione sotto la giurisdizione degli Stati Uniti devono essere pagate con un salario dignitoso per il loro lavoro svolto all’interno del carcere.
- Diritto ad una difesa giusta (The Prison Litigation Reform Act) con la revoca dell'atto di riforma del contenzioso carcerario in modo da consentire ai/alle prigionieri/e un canale adeguato per affrontare le accuse e le violazioni dei loro diritti.
- Revoca del The Truth in Sentencing Act e del Sentencing Reform Act per poter avere la “possibilità di riabilitazione” e poter chiedere la libertà vigilata. Nessun essere umano deve essere condannato a morte o scontare alcuna condanna senza la possibilità di libertà vigilata.
- Fine del razzismo di Stato che sovra-condanna e punisce i neri e latini tre volte più di quelli bianchi. Inoltre, in molti stati del sud degli Usa vige ancora una legge secondo la quale se la vittima è un bianco, il nero non ha diritto alcuno né di chiedere libertà vigilata né altre forme alternative di detenzione.
- Fine alle leggi razziste in aumento nel sistema carcerario (spesso a neri e latini in carcerati viene negato loro l'accesso ai programmi di riabilitazione a causa della loro etichetta di “violent offender”, trasgressori violenti).
- Più finanziamenti per servizi di riabilitazione nelle prigioni di stato.
- Diritto di voto a tutti coloro che scontano pene detentive, detenuti preprocessuali e cosiddetti "ex-criminali". Tutte le voci contano!
I detenuti chiamano alla solidarietà tra detenuti/e delle altre carceri dando piena autonomia ai sostenitori circa le modalità di sostegno: sciopero del lavoro carcerario, durata illimitata dello sciopero (tenendo flessibili le date di agosto e settembre), richieste ad hoc a seconda delle problematiche delle diverse carceri. Fuori le mura i sostenitori possono invece solidarizzare con i detenuti facendo sit-ins, manifestazioni, boicottaggi, scioperi della fame.
Infine i promotori dello sciopero nazionale riportano all’attenzione la loro solidarietà a tutti gli immigrati, donne, uomini e bambini che si trovano nei CIE chiedendo l’abolizione di questi centri.

luglio 2018 tradotto da incarceratedworkers.org


suicidio nel carcere di ivrea, proteste, botte e trasferimenti
Abbiamo saputo della morte di un detenuto di origine marocchina di 44 anni che è stato trovato impiccato alle grate della sua cella nella notte tra venerdì 15 e sabato 16 giugno. Le notizie riportate dalla stampa, in particolare da “La sentinella del Canavese” del 18 giugno, che non riportano le generalità dell’uomo, forniscono la seguente ricostruzione di quanto accaduto successivamente.
“Nel pomeriggio una cinquantina di detenuti si sono rifiutati di rientrare nelle loro celle e sette di loro, due italiani e cinque extracomunitari, si sono arrampicati sul muro del cortile solitamente utilizzato per le attività sportive e le passeggiate protestando per le condizioni in cui vivono. Solo dopo oltre due ore di serratissime e, a tratti, incandescenti trattative, sono rientrati senza obbligare il personale in servizio all’uso della forza. Questa la cronaca, ricostruita attraverso le testimonianze degli agenti della polizia penitenziaria in servizio a Ivrea e proprio al loro corpo spetterà completare le indagini che finiranno in un apposito fascicolo sull’accaduto, già aperto dalla Procura della Repubblica di Ivrea. [...] La protesta ha avuto una appendice anche nella tarda mattinata di ieri, domenica, quando i detenuti hanno a lungo battuto le stoviglie contro le inferriate delle celle”.
Per certo sappiamo che si è sviluppata una protesta che è continuata fino a lunedì-martedì; mercoledì 20 sono iniziati i trasferimenti di almeno 4 o 5 detenuti.
Durante il saluto avvenuto nella giornata di domenica 24 giugno i reclusi hanno urlato che non li fanno scrivere e comunicare con l'esterno mentre qualcuno in particolare lamentava le botte subite. Del blocco della comunicazione ce ne siamo accorti visto che da almeno due mesi non riceviamo più corrispondenza.
L’uomo ritrovato morto era rinchiuso nella sezione a destra del primo piano. Nei mesi addietro in questa sezione ci sono state alcune raccolte di firme e si erano verificate situazioni conflittuali come ad esempio rifiutare di tornare in cella dal passeggio per avere mezz’ora o un’ora di apertura in più delle celle e per poter avere più tempo per fare la doccia visto che le docce della sezione erano in ristrutturazione e che si doveva andare uno alla volta in un altra sezione. Anche proteste solidali, sopratutto tra "nord africani" e qualche "europeo", per spingere l'accesso a cure mediche o il trasferimento in ospedale di qualcuno che stava male.
Questa sezione è sempre piena: 22 celle doppie quindi 44 persone. E' una sezione tutta mischiata, rinchiude detenuti con i definitivi, anche con lunghe pene (più di 15 anni), nuovi giunti, imputati con reati come spaccio o furto ma anche omicidi... questa sezione è quella con meno agibilità in quanto le celle sono aperte solo 2 ore la mattina (in concomitanza con le ore d'aria) e 4 ore il pomeriggio (2 in concomitanza con l'aria più 2 ore nel passeggio).
La maggior parte dei reclusi non sono italiani, dunque la precarietà è forte (pochi soldi, in tanti senza colloqui). Il carcere dà le briciole per i lavori di pulizie e distribuzione dei pasti, vale a dire qualche decina di euro al mese ad alcuni non italiani con pene superiori a 3 anni e con zero risorse e soprattutto spese legali da pagare in aggiunta al pagamento della permanenza. La tensione e il ricatto sono enormi.
L'aria che si respirava era questa: a fine 2016 scoppiano le ribellioni di alcuni detenuti dopo un pestaggio dei portachiavi su un detenuto più forte degli altri (la notizia riesce a superare il muro di cinta grazie a qualche detenuto coraggioso che riesce a fare uscire l’accaduto attraverso le sue parole, alcuni di loro sono ancora nel carcere Ivrea, altri trasferiti), da fuori si fanno dei presidi e dei saluti e qualche iniziativa in strada a Ivrea e nel Canavese.
Media e parlamentari ficcano il naso anche loro in questa storia. Il carcere viene posto sotto inchiesta, lavori di ristrutturazione sono avviati, la stanza cosiddetta "acquario", dove avvenivano i pestaggi, viene trasformata in sala d'attesa per l'infermeria, cessi e materassi sono sistemati... polvere per fare bello. Nessun portachiavi e ancora meno qualche personaggio del vertice del carcere sarà disturbato infatti da “La Stampa” di mercoledì 13 giugno apprendiamo che il procuratore capo di Ivrea, Giuseppe Ferrando, ha chiesto l’archiviazione di tutta la faccenda per insufficienza di elementi per portare a giudizio le guardie indagate. Con la richiesta di archiviazione, il caso passa direttamente al Tribunale e il giudice potrà chiedere a questo punto l’archiviazione definitiva o disporre una proroga delle indagini.
Al di là di questo primo epilogo sul fronte giudiziario, più che scontato, va osservato che l’attenzione sul carcere di Ivrea ha comunque fatto si che le guardie si sono tenute più o meno tranquille (almeno questo era stato ottenuto da quelle rivolte e non è poco) e a dire di tanti detenuti si sapeva che quando fosse venuta meno tutto sarebbe tornato come prima. Va dunque mantenuta alta l’attenzione e l’impegno anzitutto riallacciando la comunicazione fra dentro e fuori quelle mura e sviluppando iniziative di solidarietà e sostegno alla lotta.
Milano, luglio 2018


Lettera dal carcere di Verona
Ciao compagn*, sono Eddi Karim. Vi scrivo dal carcere di Verona, dove mi trovo da più di 5 mesi, e come al solito lottando, per mantenere la mia dignità e orgoglio, ovviamente senza abbassare mai la guardia, visto che qua a Verona i detenuti sono peggio delle guardie. Fanno a gara a chi porta le notizie per primo all'ufficio comando per ottenere un lavoro o un sorriso dall'ispettrice.
Ovvio che non sto parlando di tutt* i detenuti, per carità! E nemmeno di quelli italiani o del femminile, che li rispetto molto per il loro comportamento da guerriere “BUSHIDO”; ma purtroppo parlo dei detenuti arabi, tunisini, soprattutto, senza offesa, dei veri uomini carcerati, lo dico con l'amaro in bocca, visto che sono arabo anch'io. Ma questa é la realtà che si vive qua a Verona.
Ho appena finito 10 giorni di isolamento, solo perché avevo chiesto la loro partecipazione a una protesta per le violazioni che ci sono qua. Come lo schifo di cibo, la spesa cara e soprattutto l'assenza dell'amministrazione! Non ho mai visto o incontrato un educatore, uno psicologo, psichiatra, l'assistente sociale, il dirigente sanitario, l'insegnante ecc. ecc. nonostante le varie domandine e richieste. Ci chiamano solo per i rapporti o per le denunce, come mi é successo qualche giorno fa; perché qualcuno che comprende l'arabo gli ha riferito che il sottoscritto fa istigazione alla rivolta.
Cari compagni non so se vale la pena continuare a lottare contro questo schifoso sistema. Se sì, con chi possiamo farlo se quelli che lottiamo per loro si rivelano contro?
Non ho mai pensato di arrendermi in questi ultimi dieci anni! Ma nemmeno pensavo di trovare i compagni di questa disavventura “detenuti” contro di noi e del nostro bene comune! Un abbraccio enorme a Maurizio Alfieri e a Davide Delogu, a tutti i compagni di lotta fino alla morte.

6 giugno 2018
Eddi Karim, via S. Michele, 15 - 37144 Verona


lettere dal carcere di carinola (ce)
Ciao, […] come vedi ti spedisco due testimonianze da pubblicare, ho iniziato a lottare dopo 20 mesi di isolamento e adesso darò loro tanti problemi per ripagarli del furto del vestiario, di 8 mesi di art. 32 che non possono dare più di 6 mesi e per tutti gli abusi e prese per il culo che hanno fatto da gennaio per dirmi che avevano chiesto il mio trasferimento e invece ho scoperto che il comandante e direttore avevano scritto al D.A.P. di non trasferirmi e questi infami mi avevano dato altri sei mesi di isolamento in art. 32.
Alla camera di consiglio del 4 giugno il Trib. Di Sorv. ha accolto il mio reclamo al trasferimento vicino alla mia famiglia e hanno dato 20 giorni di tempo al D.A.P. per trasferirmi… ma non ci credo, nonostante mi è arrivato il reclamo con tutto scritto… vedremo, perché saremo in tanti a voler partire… e qui siamo tutti uniti e compatti. “Si vis pacem para bellum”.
Bene, ora concludo questo mio scritto. A proposito, mi hanno rigettato la liberazione anticipata anche senza aver preso rapporti… sono delle merde qui… è la direzione che gestisce tutto perché non si possono spiegare certi rigetti alla libertà anticipata e qui fanno così con tutti anche se hai un rapporto di due anni fa… come si spiega? Vogliono ricattare i detenuti a farli sottomettere e subire… noi ora simo inc---ti e pronti a ribellarci… per cui se non arriva il trasferimento, ce lo prendiamo noi. [...]
Voglio smentire tutte le infamie che sono state dette e scritte in riguardo ai compagni che a Ariano Irpino si sono schierati con protesta “pacifica” contro le guardie che poco prima avevano picchiato due detenuti senza nessun motivo e uno di loro è qui con me/noi, pieno di ematomi e lividi, si chiama Filippo Nocerino e adesso lascio che scriva lui tutti gli abusi e il pestaggio che hanno subito (innocenti) Filippo e con lui D’Agostino Emanuele… così quel “cornuto” di Donato Capece che è il capo del Sappe (sindacati guadie) lui e tutti gli altri infami che picchiano i detenuti e quando questo/noi ci ribelliamo ai pestaggi e abusi subito parlano di rivolte e sommosse (vigliacchi infami).
Lascio la penna a Filippo ed esprimo solidarietà a tutti i compagni di Ariano Irpino con l’auspicio che questo episodio avvenga in tutti i carceri quando direzione e guardie aggrediscono i detenuti… Grazie per il presidio che scalda il mio/nostri cuori.

21 giugno 2018
Maurizio Alfieri, via San Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)

Il 10 luglio abbiamo saputo del trasferimento di Maurizio dal carcere di Carinola a quello di Voghera. L’indirizzo è questo: via Prati Nuovi, 7 - 27058 Voghera (PV)

Cogliamo inoltre l’occasione per informare sulla situazione in cui si trova anche il compagno Davide Delogu isolato nel carcere di Augusta in Sicilia.
Dalle poche notizie che riescono a trapelare sappiamo che a fine maggio, terminata l'ora d'aria, non è rientrato nella cella per protestare contro il diniego di trasferimento in Sardegna da parte del DAP e contro la proroga della censura (attende ancora che gli siano date le pubblicazioni di 8-9 mesi addietro, un'ottantina, di quando era in 14bis).
Una situazione simile a quella di Maurizio e di tanti altri che alzano la testa contro la subdola arroganza del comando carcerario che attraverso i trasferimenti punitivi e l’isolamento cerca di spezzare i vincoli di solidarietà, affettività e complicità che invece, attraverso la promozione di inziative di lotta, dobbiamo essere sempre più in grado di preservare e rafforzare.

***
Cari amici, sono Filippo, sono il ragazzo che è stato picchiato ad Ariano Irpino ingiustamente. Stavamo all’infermeria per visite mediche, il mio compagno non si è sentito bene, io ho detto che gli stava venendo una crisi e un agente mi ha risposto: “fallo morire”, dopo di che mi ha spinto e mi ha dato due pugni in faccia e così io ho reagito e subito dopo ci hanno messo in una cella nudi dalle 11 di mattina e siamo usciti alle 4 di pomeriggio. Appena hanno aperto la porta c’erano più di 40 guardie che ci hanno aggrediti e massacrati di botte. I compagni di sezione hanno sentito le nostre urla e hanno iniziato a protestare e non è vero quello che hanno scritto i giornali, che ci hanno picchiati, ci hanno massacrati! E ora mi trovo a Carinola dove gli abusi sono alla luce del giorno. Vi ringrazio anche da parte mia e di tutti noi detenuti per la manifestazione di protesta che avverrà il 23 giugno fuori da questo carcere contro tutti gli abusi che noi subiamo. Vi ringrazio e aspetto l’opuscolo per portare la vostra voce da queste mura.

Filippo Nocerino, via San Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)

***
Carissimi e carissime, chi vi scrive è Crispo Vincenzo, attualmente sono detenuto presso la C.R. di Carinola. Il mese di febbraio sono stato picchiato dagli agenti. So che il vostro amico e fratello Maurizio vi ha già parlato di me! L’ho conosciuto qui, è una persona che lotta sempre contro gli abusi.
Quando accadde la mia storia, lui fu il primo a gridare contro le guardie, lui si trovava alla sezione sopra e si fece sentire per causa mia e per quello che mi stava accadendo. Appunto ieri sera, ho problemi fisici, chiedevo dei farmaci ma mi sono stati rifiutati. Io soffro di varie patologie e qui non mi danno niente, devi comprarti i farmaci, io che non faccio colloqui da più di 3 anni non ho nessuna entrata economica. Persone come me possono anche morire.
Ringrazio Maurizio per avermi dato il vostro indirizzo. Non sono l’unico detenuto che si trova nelle mie condizioni. Io mi sono autolesionato molte volte e non vi nascondo che in passato sono arrivato vicino alla morte! Non immaginate le istigazioni e questa è una cosa che io non sopporto, soprattutto quando vi insultano e da dietro le sbarre non posso fare niente. Vi prego di aiutarmi, prima che accade l’irreparabile.
Ho fatto anche tante richieste di trasferimento dove ho parenti, ma non ho mai saputo niente. E poi il lavoro, io che ho problemi, mi dicono sempre che devo aspettare la graduatoria. Poi, la cella in cui sono allocato non è a norma, pensate che il WC è a 20cm dalla porta, è una cella talmente stretta che anche un cane si rifiuterebbe di entrare.
Adesso concludo, anche per non annoiarvi più di quanto ho già fatto. Pertanto, vi invio i miei più cari saluti a tutti voi. Vi prego aiutateci.
Grazie per la manifestazione che si terrà il giorno 23.6. Vi aspettiamo! Siamo tutti con voi. I miei più cari saluti, Vincenzo.

Vincenzo Crispo, via San Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)


Presidio-saluto davanti al carcere di Carinola
Sabato 23 giugno. In una landa desolata dove non arriva nemmeno il treno, all'inizio degli anni '80 è stato tirato su un carcere dove chiudere 200-250 detenuti sotto regime duro; persone accusate di appartenenza alla camorra o comunque a bande organizzate, radicate, figlie dei quartieri di Napoli, della Campania. In quella situazione venne dato posto all'installazione di una sezione 41bis, comunque punitiva, composta al massimo da una decina di prigionieri considerati “altamente pericolosi”.
Sezioni come quella, alla metà degli anni '80, ne vennero installate ad Ariano Irpino, Spoleto, Foggia… nominate nel gergo carcerario «braccetti della morte» e voluti per chiuderci prigionieri “pericolosi”: ribelli, persone considerate appartenenti-dirigenti alla “mala” delle città del centro-nord e alle organizzazioni extralegali di Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.
Carinola vive “di carcere”. Poche case e qualche negozio le cui attività commerciali sono, molto probabilmente, soprattutto connesse alla vendita dei prodotti acquistati dagli stessi detenuti e secondini.
Fino al 2013 il carcere di Carinola era principalmente di massima sicurezza. E infatti, la prima cosa che salta agli occhi è la sua immensa e fortificata struttura. Mura di cinta altissime, bosco tutto attorno: impossibile raggiungere con lo sguardo le varie sezioni che (a parte una che affaccia sulla strada) sono tutte interne e lontane dal perimetro esterno. Ad oggi, da quanto è possibile leggere sul sito del Ministero di Giustizia, il regime interno prevede anche sezioni a sorveglianza dinamica (celle aperte durante il giorno) volte al “recupero sociale” di chi lì dentro è rinchiuso.
Tuttavia, nel carcere di Carinola è stata mantenuta tuttora la sua vecchia funzione punitiva che viene eseguita, nel tentativo di “rieducare”, con l'impiego dell'isolamento (14bis) applicato nei confronti di chi nelle carceri tiene la testa alta e unisce i prigionieri nel far valere la propria e altrui dignità sotto tutti i punti di vista. I secondini qui vantavano di essere, dopo Poggioreale, il carcere ove i prigionieri venivano più pestati.
A gennaio a Carinola era stato trasferito Maurizio Alfieri dal carcere di Napoli-Poggioreale, ove era rinchiuso da aprile 2017 dopo esser stato trasferito da Milano-Opera in cui era in 14bis.
Il vero motivo per cui l’avevano trasferito era a causa di una lettera collettiva firmata da 128 prigionieri in A.S. che aveva innescato un clima di lotta contro: le discriminazioni nelle possibilità di lavoro, la scarsità e qualità del vitto, le ancor peggio condizioni sanitarie, igieniche connesse a una funzione della magistratura di sorveglianza che legalizza il tutto, compresi gli assassinii.
Nel tentativo di paralizzare quell'iniziativa corale, il direttore, il noto aguzzino Giacinto Siciliano con l’aiuto delle guardie e dei burocrati dell'annientamento, chiusero nell’isolamento del 14bis una decina di prigionieri, a cominciare da Maurizio, che avevano caratterizzato questa mobilitazione titolata «Dalla Cayenna di Opera».
Maurizio venne quindi trasferito a Poggioreale e gli fu mantenuto, in continuità, il regime di 14bis eseguito in una sezione vicina alla “cella zero”, a sua volta prossima alla sezione dove vengono ancor oggi chiuse, nascoste, le persone sottoposte al trattamento psichiatrico. Situazione che anche Maurizio ha cercato di far uscire dalla clandestinità in cui veniva esercitata.
Per questa ragione nella primavera del 2018 all'esterno del carcere a Napoli si riuscì a mettere in piedi, con l'impegno di diversi collettivi, due presidi-saluti a cui, al secondo, presero parte famigliari di detenuti e persone da poco in libertà. Tutto ciò nonostante il seguente trasferimento di Maurizio, a Carinola, disposto pochi giorni prima. Da quel momento fra diversi collettivi ci si impegnò a dar vita ad un presidio a Carinola affinché la solidarietà riuscisse a dare continuità alla lotta con l'obiettivo di estenderla e consolidarla.
Sabato 23 giugno si è tenuto un nuovo presidio sotto al carcere, in continuità con altri precedenti, indetto dalla campagna “Pagine contro la tortura”, in solidarietà al compagno Maurizio Alfieri e a tutti quelli che come lui, e come Davide Delogu ad Augusta, ad esempio, lottano e non si sottomettono; ma anche contro i pestaggi, il 14 bis e il clima di sfruttamento che anche in questa prigione sono prassi quotidiana.
Eravamo una trentina di compagni e compagne da Roma, Napoli, Firenze Genova, Parma, Milano e Salerno. Abbiamo comunicato con l’interno con vari interventi, saluti, cori, slogan e musica per circa 3 ore. I prigionieri hanno risposto sventolando indumenti dalle inferiate, urla e una battitura… poi, come spesso accade, la pressione dei secondini ha determinato la fine della battitura e delle comunicazioni dall’interno. Ma la loro presenza per quanto nascosta è rimasta percepibile e così si è scelto di non sciogliere il presidio.
Dai detenuti si è avuta l’ennesima conferma che per quanto il ministero si sforzi nella sua propaganda di apertura democratica, il carcere di Carinola è un carcere come tutti. Qualcuno da dentro ha sintetizzato il concetto con “Questo carcere è una merda!”
Gli interventi erano tutti mirati a sottolineare lo strumentale uso da parte degli organi repressivi dei regimi differenziati, volti alla desolidarizzazione e frammentazione delle persone, al reale significato di parole come “recupero sociale e riabilitazione” e cioè: l’educazione all’ammansimento ed assoggettamento. A quanto quelle mura, per quanto divisori di corpi, non possano rappresentare un reale confine per chi anela alla realizzazione di nuove prospettive. Infatti, fuori da quelle mura, sfruttamento, esclusione, guerre esterne ed interne sono altrettanto funzionali al raggiungimento degli stessi obiettivi di controllo e gestione.
In questo presidio, seppur per poco è stato rotto il muro di silenzio che avvolge i prigionieri e le loro lotte, è stata ribadita la solidarietà al compagno e si è messo in chiaro che i trasferimenti non potranno spezzare la nostra lotta al fianco di chi dentro le galere si batte per la propria ed altrui dignità. C'è stata inoltre una grande comunicazione fra manifestanti e prigionieri, con interventi sulle pratiche di lotta nelle carceri, come nelle campagne e città. Interventi tutti ascoltati e sottolineati dalle voci lanciate tra i manifestanti e le persone chiuse in carcere.
In ultimo. Durante il viaggio di ritorno una macchina, con a bordo alcune compagne e compagni, è stata fermata dalle solerti forze dell'ordine. Sono stati/e identificati/e e portati/e in un vicino posto di polizia per la notifica, ad una compagna, di un provvedimento tenuto da anni in un cassetto.
Un insegnamento per tutti e tutte: mai più via alla spicciolata!

luglio 2018, Campagna "Pagine contro la tortura"

***
28 settembre contro il 41bis a l’aquila
Segue l’appello fatto circolare dai compagn* dell’Emilia Romagna in vista della mobilitazione del 28 settembre, la pubblichiamo per dar conto degli impegni presi in attesa di uno scritto di convocazione più articolato.

Come Assemblea “Pagine contro la tortura”, per il 28 settembre è stata programmata un’iniziativa a L’Aquila contro il 41bis, in particolare contro i processi in videoconferenza. Il 24 novembre 2017 e il 4 maggio 2018, abbiamo partecipato a due udienze presso il tribunale de L’Aquila in solidarietà con Nadia Lioce, processata per una protesta contro le limitazioni sui libri in cella effettuata con battiture al blindo usando una bottiglia di plastica.
Abbiamo avuto l’occasione di assistere alle deposizioni in videoconferenza di una decina di altri detenuti in 41bis, essendo quell’aula, la C, tecnicamente attrezzata per questo genere di presenza a distanza. L’impatto è stato molto forte, assistere a questa grave forma di spossessamento applicata a tanti detenuti aiuta a rendersi concretamente conto di cosa significhi eliminare la presenza fisica degli imputati e delle imputate dalle aule. Diventano dei fantasmi, spariscono in uno spazio, quello di uno schermo piccolo e lontano, in cui appaiono come figure virtuali.
Le accuse per cui sono processati in genere risultano legate a fatti di piccolissima entità, per dimostrare ancora una volta come in questo regime di 41bis l’annientamento della persona sia l’obiettivo essenziale del sistema detentivo.
Abbiamo però anche avuto notizia di battiture che proseguono da mesi nella sezione maschile del carcere de L’Aquila, contro l’obbligo di spegnere la Tv durante la notte.
Chiediamo la disponibilità per presentare il Presidio/Corteo deciso per il 28 settembre, data in cui oltre a Nadia saranno di nuovo in aula altri detenuti in videoconferenza.
Per ribadire l’importanza di dare un nostro segno forte contro il tentativo di annientamento dell’individuo perpetrato in 41bis e nella forma di soppressione della presenza fisica in aula. In solidarietà con chi al limite delle possibilità lotta all’interno di queste carceri e ben sapendo che le condizioni e le sperimentazioni fatte all’interno di regimi particolari si estendono poi all’intero sistema repressivo e detentivo.

***
volantino da diffondere al carcere di milano-opera
Che nelle carceri, Opera fra le prime, le condizioni medico-sanitarie, igieniche, del vitto peggiorino giorno dopo giorno lo spiegano bene le condizioni della salute di chi è dentro: ormai ogni 10 giorni il carcere uccide una persona rinchiusa.
Ad aggravare la situazione ci pensano i carcerieri impegnati dall'organo che li dirige, il DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), fino all'ultima guardia nel'applicazione delle sue “circolari”, cioè comandi diretti a strappare “collaborazione” in cambio di condizioni quotidiane ridotte a “premialità”, più ricche di socialità, di spazi di movimento. Chi si ribella a questo ricatto viene preso di mira con: isolamento (14bis), censura e anche blocco della posta, negazione del lavoro, trasferimenti...
Solo poche settimane fa nel carcere di Ivrea è nata una protesta colletiva – fermata all'aria – contro il disinteresse di direzione, medici, guardie verso le condizioni di un ragazzo chiuso in isolamento che alla sera finì morto nel corso della notte. Chi ha preso parte alla protesta è stato immediatamente colpito appunto con l'isolamento, il blocco della posta, anche trasferito.
Negli stessi giorni nel carcere di Ariano Irpino un detenuto che nel recarsi all'infermeria si era messo dalla parte di un ragazzo sottoposto a cure psichiatrica è stato preso a cazzotti dalle guardie: aggressione che ha dato vita a una decisa risposta collettiva di tutti i prigionieri.
In altre carceri, come a Secondigliano, Sulmona, sono state raccolte firme, attuati scioperi della fame per l'abolizione del'ergastolo a cominciare da quello “ostativo” (ostacolo per ogni tipo di liberazione se non sostenuta con la “collaborazione”).
Siamo qui per ascoltare, comunicare con chi è chiuso in questo carcere, compreso chi paralizzato nella sezione 41bis (dove solo in questo carcere sono rinchiuse oltre 100 persone), con i famigliari per dare voce, sostenere chi si batte, tiene la testa alta. Siamo qui per realizzare nei prossimi mesi un presidio qui davanti segnato dalla solidarietà.

luglio 2018, OLGa - Milano


Lettera dal carcere femminile di Pozzuoli (Na)
Pubblichiamo una lettera del maggio scorso dal femminile di Pozzuoli dove è presente da tempo l’impegno delle compagne e dei compagni della Mensa Occupata di Napoli.
Sono una detenuta di Pozzuoli e vi scrivo anche da parte di tutte le detenute di questo carcere, anche se nessuno di noi può firmare, se no subito ci puniscono e non ci pensano su una volta a metterci in isolamento, che è una stanza che puoi fare solo i bisogni personali e non stare a contatto con nessuno.
Per prima cosa vogliamo che voi sappiate che tutte le lettere che vi mandiamo gli assistenti non ve le fanno arrivare per paura che noi vi scriviamo come siamo trattate qua dentro e anche quando venite qua fuori non ci consentono di parlare né con voi né con i nostri familiari, nemmeno per salutarli, se no subito fanno abuso di potere incominciando a metterci i rapporti.
Sì, perché in questo “inferno” che noi viviamo andiamo avanti solo con le minacce dei rapporti, anche per una sigaretta, che è l’ultima cosa che ci è rimasta qua dentro, in questo inferno che è così facile ad entrare, ma così difficile ad uscire.
Vogliamo informarvi che viviamo in una stanza in cui siamo degradate e costrette a vivere piene di umidità. La mattina dobbiamo alzare i materassi perché sono bagnati di umidità e quando viene qualcuno da fuori gli fanno vedere solo la terza sezione che è un po’ meglio, mica li portano alla prima e alla seconda, dove è molto peggio della terza.
In ogni stanza viviamo in 10 persone e devi fare la fila per andare in bagno e svegliarti presto per farti la doccia prima che l’acqua calda va via; lo shampoo lo possiamo fare solo una volta a settimana, quindi adesso è quasi estate e ci possiamo anche arrangiare, ma pensate quando viene l’inverno quello che dobbiamo subire, tanto che in inverno tante volte, talmente che fa freddo ci alziamo solo per mangiare.
Andiamo avanti, il vitto è un vero schifo ed anche insufficiente, tante volte pensiamo che è meglio mangiare alla Caritas qua dentro chi ha i soldi per comprarsi qualcosa da mangiare e cucinarlo stesso noi detenuti mangiamo, ma chi non fa colloqui o non hanno soldi possono solo fare la fame. I prezzi qui da noi anche sono un abuso di potere, paghiamo tutto non di più, ma addirittura il doppio, anche le cose di prima necessità come la carta igienica, sì perché qui nemmeno quella ci danno, se hai i soldi ne puoi fare uso altrimenti non so cosa dovremmo fare, e qui ce ne sono tante a cui mancano i soldi anche per questo. E a noi, con i prezzi che paghiamo qua dentro, i nostri familiari per mantenerci anche loro cosa devono fare? Forse fra poco penso dovranno pure loro fare reati come noi per metterci i soldi sul libretto, che spesso e volentieri ci vediamo segnati sul libretto anche soldi che noi non abbiamo speso, ed è inutile anche chiedere spiegazioni, se no subito ci minacciano con il solito rapporto che hanno sempre a portata di mano.
Certo c’è qualche assistente che è più umano verso di noi, ma per il resto ci trattano proprio da detenute come fossimo dei mostri viventi.
Parliamo anche un po’ del servizio sanitario, qua per prima cosa anche se qualcuno di notte sta male, l’assistente fa finta di non sentire, perché l’infermiera la notte non vuole essere disturbata. Quindi devi aspettare la mattina che passa il carrello, quel carrello sempre pieno di psicofarmaci che vogliono darci sempre, questo sempre per farci addormentare e quindi di non essere disturbati, figuratevi che a Pasqua dormivamo tutto il carcere ed abbiamo avuto il dubbio che hanno messo qualcosa nel cibo, perché è impossibile che dormivamo tutte le detenute.
Noi detenute della C.C.F. di Pozzuoli vorremmo che voi ci aiutaste ma sappiamo anche che se venite da noi siamo state avvisate che dobbiamo dire che qua va sempre bene e che ci trattano bene, sono tutte bugie che siamo costrette a dire.
Vorremmo che questa lettera verrebbe pubblicata su qualche giornale, affinché tutti vengano a conoscenza che qui non è un carcere, ma è solo l’inferno, un inferno che siamo costrette a vivere, che si passassero un po’ la mano sulla coscienza (se ce l’hanno ancora) noi già soffriamo per la lontananza dai nostri familiari e soprattutto per i nostri figli che abbiamo lasciato fuori.
In nome di tutte le detenute di Pozzuoli vi chiediamo solo di fare qualcosa affinché possiamo soffrire solo per la lontananza dei nostri cari e non sopportare tutti i soprusi che subiamo qua dentro cioè l’inferno.
Ah dimenticavo anche un’altra cosa, lo sapete che quando lavoriamo il carcere si prende 50€ ogni mese per il letto? Si lavora molto e prendiamo quasi l’elemosina e quindi questo è un altro abuso di sfruttamento vero e proprio. Ma lo stato questo lo sa? O conviene anche a loro?
Grazie sempre per quello che fate per noi.

maggio 2018, C.C.F. Pozzuoli (Inferno di Pozzuoli tanto è uguale)


scritto dal carcere di massama (or)
L’illegalità legalizzata
Chi conosce le carceri è consapevole che sono i luoghi pubblici più illegali del Paese, ma essendo territorio amministrato dallo Stato, l’illegalità diventa legale…
Gli enti che dovrebbero controllare, cercano di coprire lo status quo in tutti i modi, dal Dap, alle procure della Repubblica locali, uffici di sorveglianza e i provveditorati dell’Amministrazione Penitenziaria regionale. È un sistema chiuso su se stesso, granitico e omertoso, che si difende contro ogni ingerenza.
L’unica struttura “istituzionale che si muove per aiutare i reclusi, è il Garante Nazionale dei Detenuti. Infatti, Mauro Palma, visita le carceri e stila relazioni da inviare al ministero affinché si intervenga per risolvere le problematiche che ci sono in quasi tutte le carceri, ma spesso, i direttori di molti istituti, fanno finta di sanare i problemi, e tutto rimane come prima; c’è la mentalità che definisco del “feudatario”.
Purtroppo il ministero della giustizia che dovrebbe far funzionare e controllare che la legalità occupi la quotidianità delle carceri, non lo fa, viceversa cerca di coprire certe limitazioni che nulla hanno a che vedere con l’ordine e la sicurezza, somigliano più alle dispotiche disposizioni di psicopatici sicuri dell’impunità, il sistema li protegge contro ogni sorta di reclami, e le denunce dei detenuti, vengono cestinate, anche con la complicità dei media.
Tutto ciò è dovuto all’occupazione militare del ministero da parte di un centinaio di Pm, che credono di continuare il lavoro che facevano nelle procure, pertanto hanno procuratizzato gli uffici del Dap, con l’alleanza atta con i sindacati della polizia penitenziaria, hanno emarginato tutti gli altri funzionari, formando un blocco che impedisce qualsiasi riforma o almeno apertura secondo i parametri europei.
La mentalità la si può definire ottocentesca, perché nel sistema, anche se modernizzato ai giorni nostri, nulla è cambiato dai Bandi dei Savoia del 1826 che applicarono nel 1863 dopo l’unità d’Italia. La storia ci insegna che non si possono cambiare le cose usando la stessa mentalità che le ha create, pertanto ci vorrebbe una riforma radicale che ci portasse verso il sistema penitenziario dei Paesi scandinavi, anche per evitare che si scivoli verso i Paesi del Medio Oriente.
Qualche carcere pilota è stato fatto: Bollate (MI) e Laureana Borrelli (RC), forse avevano superato anche gli standard europei, ma sono rimasti tali perché il blocco conservatore di potere che occupa il ministero ha bloccato qualsiasi allargamento. Consigliarono all’ex ministro Cancellieri di chiudere Laureana di Borrelli, scesero in piazza la polizia penitenziaria, la popolazione e le istituzioni locali, che chiesero la riapertura, ma niente. Dopo alcuni mesi fu riaperto ma smantellato, raddoppiarono i carcerati e trasformato in un carcere come gli altri. È rimasto solo Bollate che non è più come all’origine.
A prescindere da tutte le chiacchiere che funzionari e politici dicono quando rilasciano un’intervista sull’art. 27 della Costituzione, nella realtà la rieducazione nelle carceri è una parola vuota, l’unica strategia è quella del contenimento, gli strumenti più usati sono la forza quando gli psicofarmaci non bastano.
Gli psicofarmaci vengono erogati a livello industriale, per creare degli zombie per meglio controllarli. I tossicodipendenti (la metà dei detenuti) vengono anestetizzati con montagne di psicofarmaci, "dormono" per tutta la carcerazione, quando vengono scarcerati si svegliano e ricominciano a fare quello che facevano prima, rubare per procurarsi i soldi per drogarsi. Dovrebbero ricoverarli in strutture apposite per curarli, affinché la pena li guarisca. Invece, carcere, carcere e solo dopo aver scontato la pena, i più fortunati vengono accolti in comunità.
Avevano inaugurato in pompa magna in Emilia Romagna, l'allora ministro della giustizia Roberto Castelli, una struttura per i tossicodipendenti, all'interno c'erano solo medici e infermieri per seguirli, la polizia Penitenziaria controllava esclusivamente il perimetro esterno del muro di cinta. C'erano lavorazioni, corsi e scuole affinché i detenuti potessero curarsi e allontanarsi psicologicamente dal mondo dei drogati e rientrare guariti in famiglia; é rimasto un progetto pilota, come del resto succede in ogni campo in Italia.
Il carcere invece di insegnarti le regole per essere un buon cittadino, cerca di inculcarti ad essere una buona pecora e che sono naturali certe limitazioni, obblighi, divieti. Vogliono convincerti che è il tuo destino galeotto e lo sarai per sempre. Se lo racconti, difficilmente sarai creduto, perché la società è stata bene indottrinata. Ti accusano di dire il falso e che ti sei inventato anche i ricordi di ciò che hai subito...
Chiedere i propri diritti è sinonimo di pericolosità: "facinorosi, sobillatori..." allora inizia la repressione con il 14 bis (isolamento), trasferimenti nei carceri peggiori (che al Dap conoscono bene) e deportazioni il più lontano possibile dai familiari, e in alcuni casi, le angherie diventano sevizie e botte. Nell'insieme è tortura, sia fisica che psicologica. A nulla sono servite le molteplici condanne della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo; sono state il doppio di tutti i Paesi europei messi insieme.
Nulla è cambiato da quando Piero Calamandrei, sessant'anni fa, argomentando in Parlamento per chiedere una commissione d'inchiesta sulle carceri, diceva: "...Bisogna avere visto."
Questo ci ha fatto diventare il fanalino di coda d'Europa in materia di diritti e sulla giustizia, come anche essere ritenuti osservati speciali della Commissione sulla tortura insieme alla Romania e la Cecenia, già essere in compagnia di questi due Paesi la dice lunga sul rispetto dei diritti umani che vige nel nostro Paese.
Il sistema penitenziario é percepito dai reclusi come strumento dello Stato per affermare il suo potere e la sua onnipotenza e non come mezzo costituzionale garantito per recuperare, rieducare e reinserire, ridando alla società un elemento migliore di quello che ha commesso il reato. L'essere umano deve essere trattato per quello che si vuole che sia, e non per quello che il pregiudizio descrive nell'immaginario collettivo, inoltre l'uomo del delitto non è mai quello della pena.
Le istituzioni preposte dovrebbero investire nella fiducia e nella responsabilità, essendo l'unico ed efficace deterrente sia per la sicurezza e sia per la recidiva. Questo comporta che i muri perimetrali del carcere non devono essere usati per escludere, ma bensì per includere, ed interagire con la società; un buon esempio è il carcere di Padova, dove l'incontro con la comunità locale è proficuo e costante anche con le scolaresche.
Un soggetto si può educare alla società in un ambiente più consono e non asociale quali sono le carceri oggi. Ci vuole un habitat che rispecchi la società per educare ad essa, viceversa é una menzogna conformista fine a sé stessa.
La giustizia giusta è quella che restituisce i legami, la giustizia ingiusta è quella che giudica recidendo per sempre i legami con i tuoi cari e i legami con la società.
Con la legge Gozzini a pieno regime ci sono stati circa quattro anni di primavera Penitenziaria, poi il Ministro Martelli iniziò a demolirla ordinando al capo del Dap di allora, Nicolò Amato, di raddoppiare i detenuti, erano 26 mila e in poco tempo superarono in 50 mila, da allora è stato sempre un crescendo, era il 1991, dopo qualche anno ci furono le stragi di Falcone e Borsellino, l’orda giustizialista passò come un carro armato sul garantismo, e, leggi barbare e anticostituzionali presero il posto della civiltà e dell'umanità.
Dopo un quarto di secolo, le macerie hanno lasciato delle norme astruse per accedere alle pene alternative, chiedono una prova diabolica, dimostrare se hai contatti con la criminalità: "come dimostrare quello che non esiste?".
Hanno creato un sistema di norme bislacche dove l'arbitrio impera e ognuno porta la sua maschera e recita il suo ruolo. Addirittura concedono qualche beneficio ai detenuti che devono scontare gli ultimi mesi di carcere, per tenere alta la percentuale della concessione dei benefici. Reclusi che hanno una pena alta, arrivano a scontare fino al 90% prima di accedere a una pena alternativa o un permesso; mi riferisco a pene di 25-30 anni. Con l'ergastolo non bastano neanche 30-40 anni.
Quando i campioni della legalità e i politici si riempiono la bocca che vogliono la "certezza della pena", sono consapevoli che ripetono a pappagallo una frase di cui non conoscono il significato. In Italia si sconta tutta la pena e i meridionali scontano un giorno in più, perché il pregiudizio antimeridionale è "legge" dello Stato. C'è una sola categoria che non viene in carcere, sono i colletti bianchi, e quando ci vengono la loro categoria conta i giorni come un supplizio, e non scontano la pena avendo tutte le agevolazioni possibili, anche leggi apposite.
Pur ritenendoci la culla del diritto, la patria di Cesare Beccaria, siamo diventati, principalmente negli ultimi 25 anni qualcosa di lontano dallo stato di diritto, perché abbiamo reintrodotto la pena di morte con l'ergastolo ostativo e la tortura istituzionalizzata con il 41 bis; l'ha dichiarato anche il Papa e l'ONU. Ormai la repressione è diventata un programma politico, è la prima cosa che mettono in evidenza quando fanno i comizi e partecipano ai dibattiti politici in TV.
La repressione è sempre contro i meridionali, come le leggi di emergenza, in modo palese applicano le teorie criminali di Cesare Lombroso, che affermava che: “i meridionali erano geneticamente difettati, la conformazione fisica ed etnica portavano ad una naturale propensione a delinquere, dunque criminali per nascita, eredi di un’atavica popolazione difettosa, che niente e nessuno poteva sottrarre al loro destino. Non delinquenti per un atto cosciente e libero della volontà, ma per innate tendenze malvagie”.
Queste teorie malvagie sono palesi nel sistema penitenziario: il 100% dei detenuti nel regime del 41 bis sono meridionali; i detenuti nei circuiti del regime dell’AS1 sono tutti meridionali; l’80% dei detenuti italiani sono meridionali, potrei continuare ma mi fermo qui per carità di patria.
Nel 41 bis oltre il 50% dei reclusi ha problemi psichiatrici dovuto al regime e e ad anni di isolamento, con due terzi che prendono psicofarmaci. Ed è un “segreto di Stato” che i suicidi sono il doppio di tutti gli altri regimi penitenziari.
Quando si viene scarcerati per aver terminato di scontare la pena, inizia una nuova origine con le misure di sicurezza; ci sono anche quelle detentive. Lo affermava anche Victor Hugo nei Miserabili: “si esce dal carcere ma non dalla condanna”. In Italia è tutt’ora attuale. Sarebbero capaci di aprire dei lazzaretti se la civiltà europea glielo consentisse, per parcheggiare tutti gli ex detenuti, non potendolo fare vengono tormentati con misure di sicurezza varie, notte e giorno, limitando ogni libero movimento, impedendo di rifarsi una vita, anche per questo motivo il 70% torna in carcere, l’Italia ha la recidiva più alta d’Europa.
Nei carceri pilota menzionati erano riusciti a scenderla al 29%, ma per il blocco di potere della setta giustizialista, questo risultato andava contro i loro privilegi di industriali della paura e impresari dell’insicurezza.
Leonardo Sciascia nel lontano 1976 affermò che: “i professionisti dell’antimafia, per esistere fanno vivere la mafia anche dove non c’è”.
Negli ultimi 30 anni e stato creato un sistema repressivo da fare invidia a una dittatura, ciò ha limitato le libertà individuali, ha moltiplicato e trasformato i comportamenti in reati e ha oppresso anche le libertà economiche.
Piero Calamandrei affermava che: “la libertà è condizione ineliminabile della legalità; dove non c’è libertà non può esserci legalità”.
Se lo Stato comprime la libertà è portatore di illegalità, pertanto è lo Stato che è criminale e non i suoi cittadini che vengono costretti a sbagliare.
Siamo il Paese fondatore dell’Unione Europea, abbiamo degli esempi illuminanti di nazioni europee che fanno prevalere la civiltà penitenziaria con lo scopo di salvaguardare la sicurezza sociale del presente e del futuro; la Svezia insegna, ha chiuso alcuni carceri e li ha venduti, facilmente diventerà la prima nazione senza carceri. Dovremmo guardare a loro e prendere come modello i loro sistemi penitenziari. Quello che manca è una classe politica degna di questo nome. Purtroppo bisogna registrare che al governo sono andate due forze politiche che renderanno l’Italia il Paese più giustizialista della storia, facendolo retrocedere di almeno trent’anni. Niccolò Machiavelli nelle Istorie Fiorentine affermava che: “Non fu mai savio partito far disperare gli uomini perché chi non spera il bene non teme il male”.

giugno 2018
Pasquale De Feo, Località Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)


Scritto dal carcere di Castelfranco Emilia (MO)
Un caro saluto con affetto e stima a tutti coloro leggano questo mio scritto con interesse sincero, prova del fatto che, fortunatamente, esistano ancora in questo paese… io ci ho comunque sempre creduto… persone che non sono state plagiate dalle televisioni e da un senso di giustizia che lo stato italiano tenta costantemente di inculcare nella testa della gente comune “a suo vantaggio”.
La realtà che mi sto prendendo cura oggi di descrivervi è quella della “famosa” Casa Lavoro, Misura di Sicurezza che, chi siede su quelle belle poltrone comode in Parlamento e in Senato… per non parlare della Chiesa… viene mantenuta all'oscuro dell'opinione pubblica, se non addirittura segreta, per poi trovarsi nella scomoda posizione di giustificarne l'esistenza e il senso stesso di essa.
Il mio nome non ha alcuna importanza, mi presento a voi come Mr. Nessuno, il nominativo che più può far comprendere lo stato sociale che questa Misura, col trascorrere del tempo, ti ci può far sentire, per poi concretamente fartici diventare. A meno che non si abbia la fortuna di avere all'esterno di queste 4 mura uno o più affetti, più o meno importanti essi siano, che però molti di noi non hanno.
Molti di noi internati… già… perché è con questo nome che siamo stati identificati, perché detenuti lo siamo stati già, le nostre pene le abbiamo già pagate nelle patrie galere prima di essere rinchiusi in questi posti dove stiamo comunque continuando a soffrire di una condizione identica a quella carceraria… come se stessimo pagando reati che il Magistrato di Sorveglianza, che ci ha inflitto questa Misura, supponga rifacessimo se rimessi in libertà, a voi le conclusioni…
Nella Casa di reclusione a Misura Attenuata di Castelfranco Emilia i detenuti a Misura Attenuata sono neanche il 20 percento di una popolazione di sole 100 persone circa, su internet la trovate digitando “Casa Lavoro”, ma di fatto nella targhetta all'entrata dell'Istituto, della parola Casa Lavoro non c'è traccia.
Non dimenticherò mai il giorno che mi è stata notificata al Bassone di Como, dove ho presofferto parte della pena di 1 anno e 2 mesi inflittami per il furto di una moto nel 2013, inizialmente trascorsa sino al definitivo a S. Vittore. Beh, quel giorno vennero a comunicarmi 2 anni di Casa Lavoro che avrei iniziato a scontare solo una volta espiato il mio ultimo furto.
Quella deliziosa e dolce dott.ssa Maria Grazia Moi alla quale mi piacerebbe tanto avere un giorno l'opportunità di offrirle un caffé macchiato con un sorso di arsenico, mi diede la delinquenza abituale, in quanto sul codice penale, una legge creata da un regime fascista d'altri tempi, può infliggerti questa Misura se negli ultimi 10 anni… entrando e uscendo dal carcere… si superano almeno 5 anni di detenzione, anche per reati di diversa natura; legge applicata a discrezione del Magistrato.
Se tutte le persone che hanno un certificato penale simile al mio, finissero in Casa Lavoro, dovrebbero iniziare a costruire più Case Lavoro che supermercati!!
La dott.ssa sopracitata, ritenendomi socialmente pericoloso, sulla notifica giustificò questa sua decisione con queste parole: “Risultando a carico del sig. Nessuno numerevoli reati prevalentemente contro il patrimonio dal 1997 ad oggi (era gennaio 2014) , e non risultando in quest'arco di tempo nessuna attività lavorativa controllabile, si ritiene che il suddetto negli ultimi 16 anni si sia mantenuto dei proventi dei reati da lui commessi, e perciò si ritiene opportuno che affronti 2 anni… minimo 2 anni di Casa Lavoro perché possa autodeterminarsi attraverso l'attività lavorativa.”
Qui iniziano le incoerenze… ma un secondo di pazienza. Il sottoscritto Mr. Nessuno un santo non lo è mai stato, ma, avendo l'opportunità ai tempi di impugnare quello che diceva il Magistrato in merito al fatto che nei miei riguardi non risultava alcuna attività lavorativa controllabile, avendo accumulato ai tempi già ben 13 anni di contributi, mi ripresentai quasi certo di ribaltare la sua tesi in camera di consiglio a Milano di fronte a sua maestà. Questo un mese prima di terminare la mia pena... non servì a nulla.
Questa breve nota ho tenuto a condividerla con voi per farvi sapere che la legge o è uguale per tutti o a discrezione di una… donna convinta.
Torniamo alle incoerenze che vi citavo poco fa…
Autodeterminarsi attraverso l'attività lavorativa, questo il motivo per il quale la dott.ssa Maria Grazia Moi ha ritenuto opportuno mandarmi in questo Istituto… Istituto dove, mentre ero sul blindato che mi trasferiva da Milano, pensavo che avrei passato giornate intere a lavorare faticosamente… lavoro… lavoro che nonostante l'Istituto abbia 23 ettari di terreno utilizzabili per la coltivazione e l'allevamento di bestiame di vario genere, ce ne sarebbe, nell'azienda agricola interna che se ne occupa, per circa una decina di persone, soltanto quando ce ne sarebbe per tutti di lavoro, suddivise tra tre serre interne, una stalla dove vengono allevati maiali e parecchio terreno con una grossa vite che circonda l'Istituto per ¾ e altre coltivazioni di vario genere nei campi: pomodori, meloni e via dicendo.
Come detto, mansioni svolte da una decina di persone soltanto, 3 nelle serre e 7 fuori tra stalla e campi!! Per non parlare delle strutture già esistenti per le quali la direzione ha usufruito delle sovvenzioni statali per fare dei corsi in modo da poterci lavorare con la solita ormai annuale promessa che quest'ultime sarebbero state prese in gestione da cooperative esterne e di conseguenza con contratti nazionali di lavoro che avrebbero garantito un guadagno per noi molto più congruo...
Il sottoscritto con la promessa menzionata sopra, quest'inverno ha svolto 150 ore per ottenere un attestato di aiuto-agricoltore, ma neanche il tempo di finirlo e la cooperativa che c'era se ne è andata e ora mi ritrovo a lavorare la terra a 3,50 euro all'ora per tre ore al giorno!
La lavanderia… per lei lo stesso discorso, sovvenzionato un corso di formazione, non è mai stata aperta, eppure vi potrebbero lavorare una decina di persone ed occuparsi, non solo delle lenzuola delle sezioni, ma anche dei molti piccoli alberghi e circostanti della zona… anche per la lavanderia si è parlato di una cooperativa esterna che non si è mai vista.
Inizio a sentirmi noioso, ma non posso tralasciare la falegnameria… altri finanziamenti percepiti dallo stato per rifare la facciata e il tetto, si parlava che dovesse subentrare o una ditta che fabbrica bulloni o una ditta della carta… ad oggi, chiunque entri là dentro non farebbe caso a niente che non siano ragnatele e vecchi residui di quella che molti anni fa una falegnameria lo era per davvero.
La verità è che che questa è una Casa Lavoro solo di facciata. Quando mi trovavo al Bassone di Como riuscii a trovare una sola persona che sapesse cosa fosse la Casa Lavoro, e la sua descrizione somigliava all'idea che io stesso e chiunque si sarebbe fatto… il problema è che lui la Casa Lavoro la fece a Sulmona, chiusa da ormai un po' di anni, e le restanti, le più vicine a quella dove mi trovo, sono una a Biella e una a Vasto, per sentito dire sono anche peggiori.
Ma ora tralasciamo definitivamente la mia storia e quelle che sono state le mie sensazioni e quelli che sono i miei giudizi, concentrandoci sul vero oggetto del discorso, lasciando a voi il giudizio su quello che vi sto rivelando.
Penso che abbiate capito che, eliminata a prescindere la potenzialità lavorativa di questo posto, a chi ha fatto galera non gli ci voglia molto per arrivare alla conclusione che quelli che lavorano per la maggior parte occupano settori conosciuti nel mondo carcerario: cucina, magazzino, scopino, spesino, ecc. ecc. lavori sempre pagati 3 ore all’ora e spesso per soli 15 giorni al mese. Ciò significa una retribuzione media di 150 euro al mese; soldi che se una persona si deve far bastare per eventuali licenze, uscite in art. 21 non retribuite neanche nelle spese del treno o dell'autobus da prendere per recarsi sul posto di lavoro, dove tra l'altro non si è retribuiti perchè ci si presenta volontari… l'unico spiraglio per poter uscire di tanto in tanto da queste 4 mura… e minime spese settimanali per la cella e per chi come me ha il vizio di fumare tabacco, di conseguenza è facile dedurre per chi fuori non ha nessuno come si possano mettere da parte dei soldi per una casa in affitto, partendo dal presupposto che i lavori che ci vengono offerti da fare come volontari non hanno nessun sbocco futuro per un'eventuale assunzione e che c'è mancanza assoluta di un'assistenza sociale per un inserimento futuro in qualche casa protetta, per non parlare di una borsa lavoro!
Penso allora a tutte quelle persone alle quali, come me, vengono dati due anni e che non hanno nessuno fuori che li possa aiutare, cosa significhi arrivare in camera di consiglio il 18° mese con la consapevolezza di andare incontro ad un'ulteriore proroga di 6, 8 a volte anche dieci mesi.
Gente che poi chiede di essere mandata in una comunità, perché qui l'unica cosa che ci unisce è un passato di tossicodipendenza. Ma quanta gente ho visto durante la proroga attendere il sì di una comunità che non è mai arrivato, perchè i tempi di attesa sono di 12/15 mesi, e così via… con la testa certa di andare incontro ad un'ulteriore proroga, e così via… da due anni della tua vita, senza che tu facessi più reati neanche durante le licenze o le uscite in art. 21, ne passano 5… ci si inizia a sentir disperati e si scappa.
Purtroppo però tra i tanti che scappano o non ci sono le possibilità economiche per andare all'estero, le capacità o le conoscenze… o ci sono legami, per esempio dei figli, che ti fanno restare in Italia. Una volta fermati e riportati qui si affronta una camera di consiglio per cui il magistrato applica l'art.214 che implica il ripartire dall'inizio del programma... altri 2 anni (ex novo).
Perchè con questa Misura, in un paese (faccio un esempio) come la Spagna, durante l'art. 21 io stesso potrei scappare e una volta arrivato… per dire… a Barcellona, potrei anche dichiararmi con la mia vera identità senza avere alcun problema, perchè non essendo detenuto e quindi non avendo alcun mandato di cattura alle spalle, quello stesso paese mi ospiterebbe perchè questa Misura loro non la riconoscono…
Non è contato niente se non hai mai avuto rapporti disciplinari, non è contato niente fare volontariato alla Caritas, non è contato niente se durante tutto il tempo, durante il quale, tempo e occasioni per delinquere non mancano, non commetti reati.
La realtà dei fatti è che siamo ritenuti persone ancora socialmente pericolose… forse perchè alla camera di consiglio ti presenti senza una casa e un lavoro??!
Quante persone ogni anno escono dal carcere senza niente se non con un sacco dell'immondizia sulle spalle?!! Io non posso… io sono un delinquente abituale… io sono ritenuto dalla magistratura una persona socialmente pericolosa. E parlo di me ma di riflesso vi parlo, che io conosca, di altre almeno 50 persone chiuse qua dentro.
Poi, per finire, tralasciamo il fatto che nella stessa struttura ci siano detenuti a Misura Attenuata e internati come me… da quando hanno chiuso gli O.P.G., sarà perché anche le persone che li ospitavano venivano chiamate internati, i due piani di questa struttura si sono piano piano riempiti di persone mentalmente malate, parliamo di persone che dovrebbero essere curate e che per non creare problemi vengono costantemente riempite di psicofarmaci e che trascorrono le loro giornate passeggiando lentamente lungo i corridoi con la bava alla bocca o stesi a letto a dormire.
Gente che è stata chiusa in un posto dove l'infermeria è aperta 12 ore su 24 e che invece dovrebbe essere spostata in posti adeguati… gente con la quale conviviamo nelle stesse celle, e non è piacevole stare in cella con uno che urla, parla da solo, se la fa addosso o periodicamente si taglia o ingerisce pile se non addirittura lamette solo perchè dall'ufficio conti correnti non gli hanno concesso un sussidio per acquistarsi un pacco di tabacco! Gente poi che pur volendo uscire dal mondo della droga non ce la fa, perchè sentitasi abbandonata si droga...
Io sono qui da 4 anni, di carcere alla fine non ne ho fatto poi molto e l'Istituto più pesante nel quale sono stato è quello di Como, probabilmente ci sarà molta gente che leggerà queste parole come di normale routine, ma credetemi, riuscire a farsi scivolare addosso tutto lo stress psicologico per non rimanerci sotto per davvero di fronte alle cose che si vivono quotidianamente qui, è dura, e se in questi ultimi 12 mesi io ci sono riuscito è stato solo per il pensiero dei miei figli… recuperare il mio rapporto con loro… e rispettare la donna che amo e che mi sta aspettando facendo molti sacrifici.

luglio 2018

***
Note sulla Casa lavoro-Casa di reclusione di Castelfranco Emilia (MO)
Il 21 marzo 2005, dopo 4 anni dalla presentazione del progetto, nasceva la “Comunità agricola” a Castelfranco Emilia (MO). Una comunità terapeutica di Stato per la reclusione di detenuti tossicodipendenti, con 140 posti disponibili.
Senza gara d’appalto, fu l’associazione di Andrea Muccioli, la Comunità di San Patrignano, ad aggiudicarsi la gestione. Quindi, per la prima volta in Italia un privato prendeva in carico compiti di custodia all’interno di un carcere. Non era un’esternalizzazione di un servizio ma una collaborazione pubblico-privato.
L’annuncio dell’inaugurazione, a cui avrebbero partecipato l’allora vicepremier Gianfranco Fini e il ministro Carlo Giovanardi, scatenò molte polemiche e critiche. Dopo di che non si trovano altri riferimenti e non è chiaro se tale progetto abbia mai preso il via, certamente non è attualmente in corso. Ora a Castelfranco Emilia il carcere è contemporaneamente Casa di lavoro e Casa di reclusione.
Si trova in Via Forte Urbano, 1 (0059926404, cli.castelfrancoemilia@giustizia).
Per questo istituto sono competenti il Provveditorato regionale dell’Emilia Romagna - Marche, l’Ufficio esecuzione penale esterna di Modena, il Tribunale di sorveglianza di Bologna, l’Ufficio di sorveglianza di Modena e l’ASL di Modena.
Il responsabile per il carcere è Stefano Petrella, il Direttore Gianluca Candiano , il Comandante delle guardie è Armando Di Bernardo. Il personale di Polizia penitenziaria presente è di 51 unità, 2 gli educatori sui 4 previsti.
Cosa sia una Casa lavoro lo si sa solo quando ci finisci dentro, scrive un detenuto definendola «una delle più sintomatiche anomalie del nostro vecchio e complicato codice penale che risale al 1930».
La Casa di lavoro è un luogo dove si viene rinchiusi, il termine usato è “internati” come per i campi di concentramento, per quella che è definita “misura di sicurezza”. Si tratta di una pena aggiuntiva, applicata una volta conclusa la condanna. È basata su un giudizio di pericolosità sociale e quindi non connessa a un reato commesso, bensì a una probabilità di reiterazione. La legge dice che è applicabile a:
- coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, una volta che abbiano scontato la pena della reclusione;
- coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza e non essendo più sottoposti a misura di sicurezza, commettono un delitto non colposo che sia manifestazione di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere;
- i condannati o i prosciolti nei casi espressamente previsti dalla legge, e cioè nelle ipotesi previste dagli art. 212, 215, 223, 226, 231 c.p. (casi di sospensione o di trasformazione di misure di sicurezza).
L’assegnazione a questo tipo di struttura è decisa dal giudice o dal magistrato di sorveglianza. La durata minima della permanenza è di un anno, di due per i delinquenti abituali e professionali, di quattro per quelli di tendenza. Tuttavia il periodo si può rinnovare nel caso di qualsiasi minima infrazione disciplinare.
«Altra specialità di questa misura di sicurezza detentiva consiste nel fatto di essere comminata sempre nei minimi, mai nel massimo, diventando potenzialmente infinita in quanto può essere riproposta e per questo è anche impropriamente, quanto concretamente, chiamata ergastolo bianco. L’indeterminatezza è “giustificata” dall’impossibilità di predeterminare la cessazione della pericolosità sociale di un soggetto», scrive un detenuto.
In Emilia-Romagna fino al maggio 2012 esistevano 2 Case di lavoro situate entrambe in provincia di Modena. Una, appunto, quella di Castelfranco e l’altra, di Saliceta San Giuliano, attualmente chiusa, dove erano “internati” 63 uomini, il 7% stranieri. La struttura è stata dichiarata inagibile dopo il terremoto che ha colpito la regione nel maggio 2012.
Castelfranco Emilia costituisce una delle 3 Case lavoro presenti sul territorio nazionale. Dalla lettera pubblicata sopra, veniamo a sapere che a Sulmona la Casa lavoro è chiusa e che ce ne sarebbero una a Biella e una a Vasto, mentre dai dati del ministero ne risulterebbe una anche nell’Isola di Favignana.
Dal 2005, il carcere di Castelfranco Emilia oltre a Casa di lavoro per “internati” è, come si diceva, anche Casa di reclusione a custodia attenuata. Secondo i dati del ministero di giustizia, a dicembre 2017 erano 83 gli “internati” e 17 i detenuti.
La struttura è costituita da un Forte commissionato da papa Urbano VIII nel 1626. Il Forte è stato adibito a casa di pena nel 1805.
Il reparto a custodia attenuata si trova al secondo piano, mentre la sezione degli “internati” è posta a piano terra.
Secondo verifiche del garante dei detenuti, non c’è attività lavorativa essendo chiuse la lavanderia e la falegnameria (1.200 mq). Ogni anno dicono che la lavanderia dovrebbe riaprire, apertura che era prevista anche per gennaio 2018. Lavoro esterno per i detenuti non ce n’è. I servizi sanitari sono scadenti e scarsi. L'infermeria non è attrezzata per la degenza né per la somministrazione di terapie per patologie importanti e gli spazi dell'area sanitaria sono angusti e poco luminosi, dato che sono posti sotto i bracci detentivi.
La presenza dei medici (3 più il referente e il primario, 1 psichiatra, 1 infettivologo) è garantita dalle ore 8.30 alle 19.00, mentre quella infermieristica (4, si cui 2 assistenti alla poltrona per prestazioni odontoiatriche) dalle 8.30 alle ore 21.00. Dopo la chiusura dell'infermeria ci si deve rivolgere alla guardia medica. Lo sportello d’informazione sulla salute non funziona più.
Il Ser.T. è agganciato a quello territoriale, nei primi 60 giorni dall'ingresso effettua una serie di visite per il rilascio del certificato di tossicodipendenza. Nella struttura si somministra la terapia del metadone solo ai fini del mantenimento, non dello scalaggio. Nel Nord Italia è l’unico istituto ad assorbire la domanda proveniente dai servizi sociali.
Non ha una casa alloggio di riferimento per permessi e licenze.
Da circa dieci anni vi è una sezione completamente chiusa [definita degli ex “minorati”, sic!] che potrebbe ospitare fino a circa 100 presenze, ma necessita di interventi di ristrutturazione straordinaria. (Dalla lettera sopra pubblicata risulta che invece il reparto psichiatrico è già attivo).
Complessivamente sono 33 le celle di detenzione, ciascuna di 20 mq con letto, sgabello, tavolo e armadietti. Alle finestre non sono presenti schermature. Ci sono una biblioteca, una saletta per la socialità per ogni sezione e spazi per la scuola, nessuno spazio invece per culti diversi dalla religione cattolica, un campo di calcio e una palestra, ma senza attrezzature.
C’è una sola cucina per i due piani (ci sarebbe una mensa, dicono, non utilizzata. Non si capisce se i pasti vengano dalla cucina interna o da fuori).
I reclusi provengono generalmente da situazioni molto difficili, spesso non hanno praticamente relazioni e ci sono molti casi di autolesionismo. La gente dei dintorni lo considera un luogo in cui si rinchiudono e dimenticano coloro che sono privi di una rete di protezione.
Ora l'attività di coltivazione agricola nelle serre (sono 4) è gestita dalla cooperativa esterna Caleidos di Modena (la stessa cooperativa che gestisce il business dell’accoglienza, per il 2017 ha ricevuto 13milioni di euro), solo un detenuto pare sia addetto a questa attività. Nella stalla si allevano maiali e galline che vengono macellati all'esterno.

Milano, luglio 2018


documento dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, vi scrivo per farvi avere mie notizie, e vi invio un documento che hanno fatto tutti i prigionieri ergastolani del carcere di Sulmona che sono sottoposti al regime della AS-1 e della AS-3.
Hanno fatto questo documento di protesta contro il regime e la condizione che si vive in questo carcere, che manca di tutto e gli ergastolani non hanno nessuna possibilità di beneficiare di diritti per sopravvivere, e nessuna speranza di libertà.
Vi prego se potete rendere pubblico questo documento su opuscolo di OLGa. Se possibile farlo girare anche in altri giornali dei compagni per poter fare sentire la voce di protesta degli ergastolani del carcere di Sulmona. Il documento é stato fatto da tutti gli ergastolani dell'AS1. Vi ringraziamo tutti. Cari saluti Antonino.

10 giugno 2018
Antonino Faro, via Lamaccio 2 - 67039 Sulmona (L'Aquila)

***
Alla Attenzione Delle Illustre Istituzioni: D.A.P (Direzione Generale detenuti del Trattamento Ufficio 2), Sezione 2, Reparto 2, Roma “Settore AS1”; Magistrato di Sorveglianza di L’Aquila; Garante dei detenuti Nazionale Roma Dott. Mauro Palma; Direttore della casa di reclusione di Sulmona Dott. Sergio Romice.

Premessa
La nostra carta Costituzionale stabilisce, anzi, impone che: “le Pene, dunque ogni tipologia di pena”, abbia lo scopo di rieducare il colui che vi è sottoposto (Art. 27, comma 3, Cost.). Piena affermazione di un diritto Costituzionale sancito alla rieducazione.
I detenuti della casa di Reclusione di Sulmona sottoposti al circuito detentivo AS1, la maggior parte sono Ergastolani che già hanno espiato più di 20 anni di carcere, e, definitivi. Si rivolgono alle Signorie vostre e vi si Chiede di entrare nel merito, di intervenire in queste rimostranze che vi si rappresentano. Innanzitutto:
- Qui in Regione Abruzzo non esiste il Garante dei detenuti, da diversi anni;
- Si richiede di avere udienza con il Magistrato di Sorveglianza e non si viene chiamati, per fare udienza;
- Ufficio Educatori/Area Trattamentale: per mancanza di operatori non viene espletato il trattamento, sui detenuti. Non ci sono iniziative di corsi di formazione, corsi di computer, corsi didattici, o, altri tipi di corsi che insegnano alla persona detenuta, o, arricchisca di conoscenza, e culturalmente, e, principalmente non oziare in cella, oppure qualche iniziativa sperimentale.
- Area Sanitaria. Già con diverse missive di reclamo che si sono inviate negli enti competenti (che ci hanno risposto), si presentano sempre le stesse tematiche; mancanza di medici, mancanza di medicine, mancanza di visite specialistiche, ecc. ecc.,.
In questo istituto di Sulmona si svolgono i seguenti lavori:
“Sartoria, Cucina Lavanderia, Ufficio spesa, Falegnameria, Rilegatura libri, Magazziniere, Agricoltura, Forno, Calzolaio, Apicoltura”.
Alcuni lavori temporaneamente sono sospesi.
Noi detenuti al circuito detentivo AS 1, siamo esclusi da questi lavori.
Questo come giustificazione ci viene riferito dalla direzione che i detenuti dei circuiti AS1, sono esclusi dal DAP per i lavori fuori dalle nostre sezioni, o extra murale, quindi in questi casi, si viene a creare della disparità di trattamento, fra detenuti di Al sorveglianza AS1, AS2, AS3.
Ci potete spiegare i motivi? Non si venga a dire per la pericolosità del soggetto, o dei soggetti! Il lavoro è fondamentale in una casa di Reclusione nello specifico per il detenuto Ergastolano!
Esistono diverse circolari emesse dal DAP, ma vengono quasi tutte disattese.

La declassificazione dal circuito AS1, a quello ordinario
È una vera problematica molto complessa, che non si può comprendere. La direzione del carcere si propone al DAP la Declassificazione di un soggetto detenuto che da tanti anni vi è sottoposto in codesto circuito, o la propone il detenuto stesso che ha dato prova alla partecipazione del reinserimento all’interno del carcere dopo tanti anni.
Il DAP richiede le informative agli enti istituzionali esterni e competenti, e, le relazioni sono redatte negative, o stereotipate.
Ma Scusate, se una persona è stata declassificata dal Regime del 41 bis “perché non risultano contatti…, o sono stati recisi” sempre dalle relazioni redatte dagli stessi enti istituzionali.
La corrispondenza postale, sia all’entrata che per l’uscita viene registrata; ci sono detenuti che non possono effettuare colloqui con i propri famigliari per problemi economici;
i colloqui sono video-filmati, e, a volte ascoltati; una persona da tanti è detenuto in questo circuito dell’AS1.
Ma purtroppo questa è la realtà che un soggetto detenuto in questo circuito deve vivere, scusate, ma, qual è il fine e la logica?
Queste richieste per le signorie vostre sono dovute per quanto noi sentiamo sempre dagli addetti ai lavori che non vi sono trattamenti di disparità, ma come si può evincere con il presente scritto vi chiede dei chiarimenti a tal proposito.
I sottoscritti detenuti della casa di Reclusione di Sulmona si sono rivolti alle signorie vostre con l’augurio che si venga ascoltati, ed entrate nel merito. In attesa di un vostro riscontro si ringrazia.

Sulmona, 10 giugno 2018
I detenuti Ergastolani e definitivi della casa di Reclusione di Sulmona del circuito detentivo AS

Apprendiamo da un articolo della rassegna stampa giornaliera curata da Ristretti Orizzonti che la Consulta ha sancito l'incostituzionalità dell'articolo che nega la possibilità di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all'ergastolo ostativo.
Chi volesse ricevere copia della sentenza (11 luglio 2018, n. 149: illegittime le restrizioni alla semilibertà per i condannati all’ergastolo "ostativo") può farcene richiesta e provvederemo a spedirgliela.

LA REPRESSIONE NON ATTACCA, ATTACCHIAMOLA!
Oggi, 4 luglio 2018, c’è stata la prima udienza per Ghespe (Salvatore Vespertino). E’ durata molto poco, perché i giudici hanno accolto la richiesta di riunificazione del processo, quindi hanno semplicemente rinviato l’udienza al 12 luglio, data in cui era stata fissata la prima udienza per tutti gli altri. I secondini di scorta hanno fatto il possibile per impedire le comunicazioni tra noi e lui, precludendogli col loro corpo la vista dei numerosi compagni e compagne presenti in aula. In ogni caso non può non aver sentito i saluti, il calore e le urla di libertà che gli sono state dedicate.
Rinnoviamo la chiamata per la presenza in aula del 12 luglio per salutare Giova, e molto probabilmente anche Ghespe sarà presente, a questo punto. Grazie a tutt* coloro che sono venut* da praticamente ovunque, nord, sud ed estero, la vostra forza e il vostro sostegno hanno un valore incalcolabile. Di seguito la dichiarazione pubblica di Paska, detenuto nel carcere di Castrogno (Teramo), appena pervenuta.

Ciao a tutte e tutti, finalmente mi sono deciso pure io a scrivere due righe sull’attuale teatrino repressivo nei confronti di noi anarchiche e noi anarchici, che sta relegando in galera me ed altri due compagni.
E’ da ormai circa 11 mesi che siamo imbrigliati nelle maglie della loro trappola: Ghespe undici mesi tutti in carcere, io sette di carcere e 4 con obbligo di dimora e rientro notturno, Giova 2 mesi e mezzo di carcere più altri otto tra obblighi, rientri e firme.
Ma la loro “famigerata” Operazione Panico, avviata a gennaio 2016 e che ha iniziato a colpire dal 31 gennaio 2017, ha inoltre “regalato” ad altre compagne ed altri compagni giorni di carcere, arresti domiciliari, obblighi di dimora, rientri notturni, firme, divieti di dimora da Firenze ed altri assurdi divieti di dimora dal Galluzzo, quartiere di Firenze dov’era sita l’occupazione della Riottosa, che è stata sgomberata insieme all’altra occupazione anarchica cittadina, Villa Panico.
Il tutto per una serie di avvenimenti accaduti in città: un assalto alla sede di CasaPound, due ordigni piazzati davanti alle sedi dei fasci (di cui uno a Capodanno 2017, dove nel tentativo di disinnescare l’ordigno ha perso mano ed occhio un artificiere e da questo avvenimento il reato di tentato omicidio per cui all’oggi in 3 siamo in custodia cautelare in carcere), un presidio antimilitarista non autorizzato, un corteo non autorizzato, il lancio di molotov alla caserma dei Carabinieri a Rovezzano in seguito all’arresto di due compagni e una compagna per una rissa con gli sbirri fuori da un concerto, presidi sotto al carcere, scritte sui muri della città… e infine i reati relativi all’avvenimento di Capodanno, che loro pongono come perno centrale della questione.
Un’inchiesta che ha accelerato notevolmente i tempi repressivi dopo il 1° gennaio 2017, e dove non poteva mancare un’associazione a delinquere ed incredibili colpi di scena: arresti, scarcerazioni, aggravamenti di misura per scritte, riesami – cassazioni – controriesami… gip competenti, gip incompetenti, capi della polizia e servizio anti-terrorismo, unità operativa della polizia italiana (UOPI) e chi più ne ha più ne metta… Un pastrocchio giudiziario teso a colpire certe tipologie di pratiche e chi le mette in atto, perché non sottomesso al sistema e nemico di esso.
I metodi di indagine, poi, sono stati i più infami e squallidi, ma cosa vogliamo aspettarci dai nostri nemici? In particolare, per giustificare il tentato omicidio e l’altro reato annesso (detenzione, fabbricazione e porto d’arma da guerra) che vede imputati noi arrestati ed un altro compagno, intercettazioni di chiacchiere simpatiche tra amiche ed amici diventano prove madre, frammenti di DNA prelevati a casaccio segno indiscutibile di colpevolezza, stati d’animo emozionali e personali sintomi d’ammissione.
Per non parlare della loro meschinità nel tentare, con tutto quel materiale cartaceo che più di un’inchiesta giudiziaria pare un copione di un film già scritto, di dividere e mettere gli uni contro le altre i compagni e le compagne dell’inchiesta. Tutto ciò non è stato solo atto a trovare chi secondo loro è colpevole dei reati contestati, a fare arresti e sgomberare spazi, ma ha tentato di levare di mezzo la realtà fiorentina e di frammentare e dividere ancora di più la situazione.
Bene, personalmente dico che ci hanno provato, ma non ci sono del tutto riusciti: c’è ancora chi si organizza, discute ed agisce in città, e chi è stato colpito dalla repressione in questo lasso di tempo è ancora lì, sulle sue posizioni, a testa alta, e penso che consapevolmente si ripeta: “io trovo giusto il mio percorso perché sono nel giusto!”.
La loro repressione ci ha sì colpito, ma non attaccato del tutto come era nelle loro intenzioni iniziali.
All’oggi, come continuare? La loro repressione non attacca, attacchiamola noi. Sarebbe finalmente a questo punto importante ripartire, piuttosto che dalle discussioni e da mille ragionamenti sulla solidarietà in risposta alla repressione, da quelle pratiche che loro ci contestano e che a loro danno molto più fastidio dei nostri discorsi teorici.
Dimenticare quest’anno e mezzo di batoste e ripartire lì da dove a loro è più nuociuto: per noi dentro queste mura abbassandosi il meno possibile al loro potere, e per chi sta fuori “con la scelta delle armi che è tua per il duello”.
Un saluto, un enorme abbraccio ed un urlo carico di rabbia ed amore a Ghespe e Giova!
Contro il potere, contro l’autorità, per la libertà! PER L’ANARCHIA! PASKA

Per scrivergli:
Pierloreto Fallanca, contrada Castrogno - 64100 Teramo


Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Ciao a tutte e tutti, mi chiamo Giovanni e dal 18 aprile mi trovo recluso nel carcere di Sollicciano, Firenze. Lo stesso dove è rinchiuso il compagno Salvatore Vespertino con cui, purtroppo, ho il divieto di incontro. Ho deciso di scrivervi questa lettera non tanto per lamentare le pessime condizioni di questo penitenziario ma per portare alla luce alcune cose che stanno accadendo qui.
Attualmente nella 4a sezione del reparto giudiziario, dove mi trovo anche io, ci sono due detenuti in sciopero della fame.
Il primo è un uomo di origine mongole e residente in Francia dove ha ottenuto lo «status di rifugiato» insieme alla sua famiglia. E' stato arrestato più o meno un mese fa nei pressi di Firenze, accusato di furto e tradotto a Sollicciano. Per questo processo gli è stata assegnata un avvocato d'ufficio, dal giorno del suo arresto non ha potuto mettersi in contatto nè con la famiglia nè con l'avvocato. Dopo numerose richieste e «domandine» per avere le telefonate, queste non gli sono mai state concesse, accampando le scuse più assurde. L'uomo non parla italiano ma un po' di francese e russo. Anche quando altri detenuti hanno scritto le «domandine» per lui o hanno parlato con il capoposto nulla è cambiato. Dopo qualche settimana gli sono anche arrivati altri definitivi per un totale di 10 mesi. Nell'impossibilità di contattare il difensore, che non ha risposto alle lettere di richiesta di colloquio, e la famiglia l'uomo è entrato in sciopero della fame. Ad oggi sono più o meno 8 giorni che non mangia, è deperito e senza forze fisiche, è deciso a continuarlo, e per adesso non c'è stata nessuna risposta. Lo hanno solo fatto parlare con dei volontari di «Altro Diritto».
Il secondo è un uomo del Nord Africa, non ho capito se del Maroccoo o della Tunisia, su di lui non so molto, è in sciopero della fame da ieri a causa di un forte mal di denti che non gli viene curato. Le medicine che gli danno non alleviano il suo dolore, e il dentista pare sia in ferie. Oltre al fatto che per il dentista c'è una lista di attesa molto lunga (pare dai 3 ai 5 mesi).
Tutto ciò in un quadro di una situazione sempre più irrespirabile. Le celle sempre chiuse, le ore d'aria sistematicamente ridotte «a causa della mancanza di personale», le quantità di cibo sempre più misere, un sistema burocratico sempre più ingolfato (per una richiesta passa anche un mese per avere risposta) e «nuove» inutili regole, come il non far uscire più i libri al colloquio con il risultato che o li tieni in cella o al casellario o ti paghi i «piego di libri». Per il momento vi saluto. Un abbraccio con rabbia e amore.
Giovanni sez.4 – cella 2 Solicciano.

26 giugno 2018
Giovanni Ghezzi, via Minervini 2/r - 50142 Firenze Sollicciano


Lettera dal carcere di Montacuto (Ancona)
Compagni del collettivo qui è domenica… Che fottute giornate qui dentro, il tempo conferma il fatto che non esiste il tempo. Aristotele diceva che del tempo non avvertiamo il suo passare e che, invece, lo spazio cioè quello che si frappone tra materia e materia esiste perché, appunto, lo spazio esiste perchè è pervaso dalla materia e quindi si può immaginare la volta celeste, la via Lattea che, se non ci fosse configurerebbe il vuoto e tutte le conseguenze che potrebbero delineare da ciò. Non ci sarebbe gravità perchè non ci sarebbero gli astri, i satelliti ed i pianeti.
Ma che c'entra con il fatto che io sia qui ad aspettare, senza far nulla e in special modo oggi che è domenica. Sono all'incirca le 14 e dieci e sono solo davanti alla finestra ed i miei pensieri si confondono con i problemi che si creano qui in sezione. Quello parla alle guardie, quell'altro dice solo cavolate e tu sei lì a pensare che cosa dire a tuo fratello in dieci minuti di telefonata.
Penso alle zie, che vogliono venire a trovarmi e che per intercessione di mio fratello, ho negato di venire. Così come ho fatto con «lei». Parlo solo con mio fratello che tutti i mercoledì di ogni mese viene a farmi visita. Lo vedo stanco ha sessantatre anni ed anche lui ne ha passate di cotte e di crude e non smette di dirmi che in qualsiasi penitenziario mi spediscano lui ci sarà. Poi penso ai miei nipoti e subito dopo il mio cuore vibra e l'aria mi manca. Quasi non respiro e l'ansia mi pervade e sono confuso, ma i minuti non passano.
Mi giro e vedo le sbarre e torno ancora in questa bastarda galera e subito dopo mi ripeto che me la sono cercata. Ma sì è proprio così.
Ma non mi potevo fare i cavoli miei, ma chi me lo ha fatto fare. Ma che si fotta tutta l'umanità e mi sale la rabbia. Peggiora e si alterna alla malinconia e ai nomi e cognomi, ma non sempre focalizzo l'evento vissuto con i compari della cricca.
Troppe cose vissute ed ora mi accorgo che mi sono scritto la vita vissuta sulla pelle e che non riesco ad aggiungerne altre di nuove. Oggi è domenica e domani sarà come oggi. Buttati in giro per le sezioni come quei disgraziati dei senza-tetto. Poi penso a Ronaldo, il calciatore. E mi chiedo ma come mai Ronaldo che guadagna tanti e tanti soldi e perchè non aiuta i disgraziati, la povera gente. Ormai è passato il tempo ed io sono quà. Che cavolo, ma perchè non ci mandano a dare una mano a chi ne ha bisogno. A che cosa serve stare qui senza fare niente. Niente va bene qui e tutti parlano di niente. I medio orientali, alla sezione 4a di questa abitazione sono brava gente, anche se qualche volta fanno qualche errore ma chi è che non li fa.
Oh mamma mia! Trema la capoccia. Ma comunque sono stanco ed anche l'umanità mi annoia ed allora parlo con quelli che abitano in quella fottuta stanza e magari cambiano le guardie. Chiusura, chiusura: avvicinarsi alle gabbie perechè devono contarci. Ma in verità non si capisce che cosa devono contare. Siamo quelli di stamane e lo saremo nel pomeriggio e magari anche stanotte ed allora che serve contarci. Che cosa vuoi farmi capire che qui comandano le giacche blu e chi se ne frega quando ce li vogliamo mettere 'sti cazzi. Volete comandare, ebbene comandate e chi vi pensa. D'altronde gli assistenti sono brava gente e se la devono fare con polli e finti criminali che non sono nessuno. Che tenerezza che mi fanno 'sti sbirri, si danno 30 anni di semilibertà ed alla fine li guardi in faccia e sono, e si vede, distrutti. Povera gente. Mah! Chi li capisce.
Bastarda la galera e bastardi chi l'ha inventata. Ci si sono messi a tavolino questi potenti, l'hanno pensata bene e ci si sono pure impegnati questi cornuti e che vadano a morirammazzati 'ste carogne.
Roba da matti, chi sa chi ne beneficerà di questo periodo qua dentro, io proprio non me lo immagino. E' proprio vero che questi posti sono il riflesso della società che li ha voluti. Così almeno diceva un tale che si chiamava Fedor Dostoevskiy. Forse Antonucci delirava quando denunciava che la psichiatria non è una scienza e che anzi doveva essere abolita, ma qui a Monteacuto ce ne vorrebbero tanti di psichiatri e pure bravi. Altro che abolizione!
Quanto tempo è passato dal momento in cui mi sono messo a scrivere i miei pensieri, bhe! Quasi una mezzoretta ed allora sai che c'è, me ne vado dentro quella bella stanzetta che mi hanno dato in dotazione, anche se potessi acquistarla la darei subito in beneficenza. Non sopporto più niente e spero sempre di sentire sulla televisione che ci sia un'amnistia o una grazia, ma quando ci cascano 'sti zozzoni. Ed allora torno in gabbia dove riposa il leone che oggi è ferito e rinchiuso ma che non è morto. [...]

20 giugno 2018
Marco Ricci, via Montecavallo 73/A - 60129 Montacuto (Ancona)


Assemblea operaia, Pomigliano, 23 giugno 2018
L’assemblea del 23 giugno a Pomigliano è stata una prova di come gli operai possano in proprio mettere in campo il tentativo di incominciare una discussione seria sul problema dell’autorganizzazione indipendente degli operai. L’assemblea è stata partecipata. C’erano circa 150 persone di cui almeno 50 erano operai provenienti in maggioranza dal comparto automobilistico FCA (Pomigliano, Melfi, Termoli, Cassino, Torino, Pratola Serra). Ma erano presenti anche altre fabbriche come la INNSE di Milano e la GKN Driveline di Firenze. La presidenza era composta da soli operai del comitato operai autorganizzati FCA, promotore dell’assemblea a cui si si è aggiunta, per il peso politico della sua vicenda, la maestra licenziata di Torino. Hanno parlato prima solo gli operai. Operai appartenenti a sigle diverse del sindacalismo di base e della FIOM, ma uniti dalla comune esigenza di organizzarsi al di là delle differenze per parrocchie sindacali.
Segue l'intervento all’assemblea di Mimmo Mignano uno dei licenziati di Pomigliano.
 
La realtà scorre veloce. La crisi impone ai padroni di farci lavorare di più e in condizioni sempre peggiori. Nessun ostacolo è tollerato all’aumento dei ritmi e all’aumento della produzione. I diritti che sembravano una conquista definitiva, sono spariti. In fabbrica, la paura di perdere il posto di lavoro, il controllo stretto dei capi, i provvedimenti disciplinari, ci costringono ad accettare di tutto. L’aumento dei morti sul lavoro non è frutto di incidenti e di disattenzioni, ma del fatto che accettiamo qualsiasi condizione di lavoro, anche quella più pericolosa per paura dei licenziamenti. Vediamo che tutto in questa società è al servizio del profitto. Ci hanno fatto sempre credere che lo stato e le sue leggi erano istituzioni imparziali, frutto di una scelta democratica dei cittadini. Scopriamo invece che se ci vengono a rubare in casa non si vede un poliziotto, ma se facciamo un presidio ai cancelli dello stabilimento ce ne sono centinaia. Quando il padrone licenzia perdiamo le cause legali per il reintegro, perché le sentenze sono quasi sempre contro di noi, ed è il tribunale principale, quello che dà l’indirizzo agli altri, la corte di cassazione, che sostiene apertamente questa linea.
Scopriamo che i padroni sono organizzati come una classe. Tutti quelli che stanno ai gradini più alti della società e hanno redditi alti hanno la stessa linea di condotta, la pensano tutti allo stesso modo e cioè mettere sotto noi operai. Perché? Perché noi siamo la classe che produce tutto, il motore di tutta la loro cosiddetta economia. Più produciamo, più peggiorano le nostre condizioni di lavoro e di vita, e più i ricchi s’ingrassano.
È per questo motivo che la FIAT ha licenziato noi cinque. È per questo stesso motivo che la Corte di Cassazione le ha dato ragione. Noi rappresentiamo quello che i padroni non vorrebbero mai vedere: l’operaio che si ribella alla sua condizione di schiavitù. Il padrone può sopportare fino ad un certo punto anche la lotta degli operai per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Può sopportare di pagarci qualcosa in più, può accettare sotto la pressione della lotta di ridurre i ritmi, ma non può accettare in nessun modo operai che dicono apertamente che bisogna farla finita con questa società dove gli operai soffrono per far fare la bella vita ad un pugno di parassiti che vivono del nostro lavoro.
Cosa abbiamo fatto noi cinque di tanto grave? Abbiamo denunciato con la satira la morte di nostri compagni sfiancati dalla miseria e dalla mancanza di prospettive. L’abbiamo fatto in modo plateale usando la satira, altrimenti nessuno ci avrebbe preso in considerazione. Ma la nostra protesta è stata pacifica e nei termini delle regole della convivenza che loro stessi, i padroni e i loro funzionari della politica e dell’amministrazione dello stato, hanno stabilito. Non a caso non abbiamo avuto nessuna denuncia penale per aver inscenato il suicidio di Marchionne. Abbiamo espresso un’opinione, che nella loro democrazia è un diritto sacro. Non ci hanno perseguito penalmente, ma ci hanno licenziato condannandoci alla miseria con l’appoggio aperto dei massimi organi della magistratura, che hanno stravolto le loro stesse leggi per colpirci.
Ai sinceri democratici che credono nel diritto borghese è sembrata una reazione esagerata e non a caso molti di loro hanno espresso nei nostri confronti piena solidarietà e hanno criticato l’uso distorto, secondo loro, della legge. In realtà hanno visto solo un aspetto della vicenda, ma non quello principale.
La FIAT colpendo noi ha mirato a due obiettivi: eliminare sul nascere una tendenza operaia che usciva dai limiti classici della lotta sindacale, quella della vite in più o della vite in meno, e che si poneva come obiettivo quello di organizzare gli operai su un altro terreno, quello dell’eliminazione dello sfruttamento.
Il secondo obiettivo è stato quello di impaurire gli altri operai. Chi si mette contro il padrone deve essere annientato. Questo è il messaggio che la FIAT ha voluto dare. State attenti, accettiamo anche le vostre assemblee, accettiamo che ci chiedete qualche soldo in più ogni tanto, accettiamo anche che vi lamentate della vostra condizione e volete migliorarla, però non superate il limite, dovete sempre assicurare a noi profitti adeguati e il comando. Ma se mettete in discussione il nostro potere siete finiti.
Il padrone sa che se noi ci organizziamo per lui la bella vita finisce. Per evitare questo usa tutti i mezzi a sua disposizione per tenerci divisi. Ha organizzato la differenza in livelli diversi per lavori che non hanno differenze, ci ha divisi tra quelli che lavorano sempre e quelli che lo fanno a singhiozzo, ha appoggiato la nascita di tante sigle sindacali in concorrenza tra loro e molte le ha ispirate e finanziate direttamente. Oggi utilizza anche le differenze di razza. Tutto serve per tenerci divisi. Il padrone sa che divisi non siamo niente, uniti rappresentiamo una forza temibile.
Un esempio importante di dove possono arrivare gli operai uniti, è l’esperienza sul terreno sindacale degli operai della logistica, a cui siamo legati. Lì l’unità degli operai al di là di tutte le differenze, anche quella più micidiale per gli operai, la differenza di razza, ha creato una comunità forte, determinata. Nella logistica sono state fatte le lotte più significative degli ultimi anni e si sono avuti miglioramenti salariali e di condizioni di lavoro importanti. Perché gli operai della logistica ci sono riusciti? Perché sono uniti. Si sono riconosciuti come appartenenti ad un’unica comunità e si sono organizzati e per questo motivo rappresentano una forza che fa paura al padrone.
Come poteva il padrone FIAT, il più forte in Italia, tollerare noi cinque che abbiamo affermato che il sindacato è solo uno strumento di lotta e che le differenze sindacali sono un’arma in mano al padrone per dividerci? Per superare queste differenze ci siamo messi in contatto con compagni di altre fabbriche e abbiamo cominciato ad unirci su quelli che sono i nostri interessi come operai. È così nata l’esperienza degli autorganizzati.
Ma non ci siamo fermati, abbiamo cominciato a dire che gli operai si devono organizzare come classe non solo sul terreno sindacale ma anche sul terreno politico. Ci siamo detti che nessun partito rappresenta gli operai, e oggi è più che mai vero, e allora gli operai devono darsi un’organizzazione politica. Abbiamo posto come obiettivo principale di questa organizzazione non un miglioramento, una verniciata di facciata del sistema, ma abbiamo posto all’ordine del giorno l’eliminazione del sistema dei padroni, la costruzione di una società dove non esista più la schiavitù degli operai per assicurare la bella vita a qualcuno.
Ci siamo sempre di più convinti che questa era la strada giusta. Abbiamo cominciato a discutere con gli altri operai. Abbiamo cercato di trasmettere loro l’idea che siamo una comunità, una classe che ha gli stessi interessi e lo stesso nemico: il padrone. Siamo stati presenti davanti ai cancelli della fabbrica più spesso che potevamo per parlare e discutere con i nostri compagni, sottolineando i passaggi che il padrone ci faceva fare verso il peggioramento sempre maggiore della nostra vita e delle condizioni di lavoro.
E avevamo ragione perché oggi siamo alla vigilia di una nuova ristrutturazione in FIAT. L’azienda si prepara a buttare fuori altre migliaia di noi per sfruttare ancora di più quelli che rimarranno.
Nel corso degli anni la FIAT ha migliorato sempre di più le sue capacità produttive. Ha reso sempre più scientifico il modo di farci lavorare per i suoi profitti. Ma mentre gli azionisti FIAT e i suoi dirigenti si arricchivano sempre di più, a noi cosa ne è venuto?
Alla fine degli anni Ottanta a Pomigliano eravamo circa quindicimila, oggi siamo meno di un terzo. La produzione che facciamo oggi è tre volte, quattro volte quella che facevamo allora. Siamo più ricchi oggi di allora? No, siamo più poveri. Lavoriamo in condizioni migliori? No. A meno di cinquant’anni già siamo inservibili per la fabbrica, diventiamo esuberi di cui disfarsi. Perché? Perché le condizioni di lavoro complessive sono peggiorate e noi ci consumiamo prima. Quindi mentre i padroni hanno sempre di più ingrossato i loro portafogli, noi siamo andati sempre di più in rovina.
Tra operai parliamoci chiaramente: abbiamo due alternative davanti oggi: o organizzarci sui nostri interessi di classe e farla finita con il sistema dei padroni, oppure andare sempre di più verso la miseria.
I Marchionne con gli operai al potere o vanno a lavorare sulla linea di montaggio o se ne vanno con questo zainetto.
Noi cinque siamo determinati ad andare avanti. Se Marchionne e suoi datori di lavoro volevano zittirci definitivamente, hanno sbagliato i calcoli.
Gli operai che hanno cominciato a muoversi in proprio sui propri interessi di classe, contro la schiavitù che ci impone il sistema dei padroni, sono creature rognose: hanno capito che hanno poco da perdere e tutto da conquistare e non si fermeranno.

giugno 2018, da operaicontro.it


Torino: 15 misure cautelari e 9 arresti per il Primo maggio 2017
[...] Stamattina grossa operazione repressiva a Torino, notificate 15 misure cautelari all'alba per studenti universitari, attivisti delle lotte contro gli sfratti e notav, 9 di loro sono finiti agli arresti domiciliari. Perquisito anche il centro sociale Askatasuna e lo Spazio popolare Neruda. L'operazione è legata al Primo maggio 2017 quando nello stupore generale la polizia aveva caricato per impedire allo spezzone sociale di entrare nella piazza finale per paura di contestazioni contro i sindacati confederali e il PD.
[…] Leggiamo nelle carte del Pm Rinaudo che come elemento a carico dei nostri compagni c'è l'aver voluto "rimarcare la loro estraneità alla manifestazione e ai valori da essa espressi" formando uno spezzone separato da quello dei sindacati.
Rivendichiamo con forza che sono le burocrazie sindacali e il PD ad essere estranei alla festa dei lavoratori e ai suoi valori. Ci chiediamo, come è possibile che nel nostro paese uno spezzone composto da lavoratori precari, studenti e famiglie sotto sfratto venga caricato a freddo per impedire di esprimere il proprio dissenso contro quelli che in questi anni hanno venduto i diritti dei giovani e dei lavoratori a colpi di Fornero, Jobs Act e alternanza scuola-lavoro? In quale Stato che ha l’arroganza di dirsi democratico è la Questura che decide chi può entrare in piazza e chi no? […]
Quel giorno il nostro solo obiettivo era entrare in piazza per far sentire un voce contraria ed evitare che la manifestazione del Primo maggio fosse l’esclusiva di organizzazioni che più nulla hanno a che vedere con la difesa dei diritti dei lavoratori. […]
Chiediamo a tutti coloro che sono preoccupati dall’evidente deriva autoritaria che sta prendendo questo paese di prendere posizione contro questa ennesima operazione contro militanti che si sono spesi generosamente in questi anni a fianco di studenti, lavoratori e vittime della crisi.
CSOA Askatasuna
13 luglio 2018, liberamente tratto da infoaut.org


milano: Sullo sgombero di via Palmanova a Milano
La mattina di giovedì 14 giugno con un'operazione militare meticolosa quanto estesa e prepotente polizia e carabinieri hanno sgomberato almeno 12 abitazioni occupate da famiglie e da singole persone occupate pochi mesi prima a Milano in via Palmanova.
Le abitazioni-appartamenti sgomberati erano, sono parte di un grosso complesso di edilizia “popolare” che comprende diverse palazzine da 5 piani ciascuna contenenti numerosi appartamenti disabitati da decenni.
Le occupazioni prese di mira erano state compiute da famiglie immigrate assieme a singole persone italiane e immigrate all’interno del percorso di lotta per la casa promosso dal collettivo “Ci siamo”, anzitutto perché l'affitto è ben più alto rispetto della gran parte dei salari versati, in particolare, a chi è alla caccia della prima assunzione, a chi é giovane e dunque la casa la si prende assieme, in più persone, per riuscirla a tenerla il più a lungo possibile, per riuscire a renderla abitabile. Quegli appartamenti, infatti, come spesso accade, non sono immediatamente abitabili, richiedono lavori diversi, edili, aggiustamenti degli impianti elettrici, delle condotte dell'acqua, degli scarichi.
Qualche mese prima lo stesso imponente dispiegamento di forze era stato messo in campo per lo sgombero del 'Residence' in via Cavezzali, una traversa di via Padova. Invece lo sgombero di via Palmanova è stato attuato proprio l'ultimo giorno di Ramadan e che quindi molti degli abitanti l'hanno vissuto come attacco razzista nei loro confronti.
E' stata insomma un'occupazione costruita e rivendicata in maniera colettiva con iniziative comunicative con le parole assieme alla musica, alla lettura, realizzate nel condominio come nel vicino quartiere multietnico di via Padova.
Salvini e soci, che hanno pianificato e realizzato lo sgombero, per stringere attorno a sé Milano-Lombardia, e non solo, che l'hanno votato, assieme alle “forze dell'ordine” sempre in cerca di legittimazione e coperture, hanno voluto dar corso a un'operazione di schiacciante dimensione politico-militare. A cominciare dalle 7, sulle strade hanno posto un numero non inferiore a 500 sbirri che con furgoni, mitra, pistole, scudi, manganelli e disposizioni a terra, hanno reso impossibile ogni attraversamento-avvicinamento in una decina di incroci le cui strade conducevano all'ingresso del condominio da sgomberare chiudendo altresì due uscite della tangenziale e bloccando l’intera via Palmanova nei due sensi di marcia. Allo stesso tempo hanno messo sotto controllo l'ingresso e l'interno del condominio. Così è stato impedito ogni sostegno alle persone cacciate di casa, che hanno potuto portare con sé poche loro cose assieme a rabbia e odio; sono state accompagnate fuori da un incrocio paralizzato dove si trovavano una trentina di compas solidali. Negli sgomberi dove é stata messa in campo resistenza sono stati chiamati i pompieri per entrare dal soffitto, sfondare porte. In una di queste un compas occupante è stato messo a terra, incatenato e portato all'ospedale per essere “calmato”. La corsa e presenza di solidali all'ospedale ha impedito l'impiego di TSO e simili. Nel mezzo dello sgombero è stato diretto un elicottero della polizia che, con calma, ha ripreso dall'alto quanto avveniva sotto.
Alle 14,30 mentre venivano liberati gli incroci, occupanti e solidali ci siamo portati su via Palmanova per raggiungere in corteo la vicina occupazione collettiva, multietnica in via Esterle. Tentativo riuscito nonostante le difficoltà poste dalla polizia. Qui un'assemblea aperta quanto determinata ha deciso di mettersi al più presto in corteo lungo via Padova per comunicare a chi l'abita quanto era accaduto, le ragioni del lungo blocco stradale. Per così dare continuità alla lotta per la casa, alle condizioni di lavoro sempre più misere, schiaviste. Poco dopo le 19, superati gli ostacoli posti dalla polizia un corteo di un centinaio di manifestanti, composto da bambin*, loro  famiglie occupanti con alla testa lo striscione “LOTTIAMO PER L'UGUAGLIANZA SOCIALE – RESIDENZA – SANATORIA – DIRITTI PER TUTTI” ha finalmente percorso via Padova al grido di “Basta razzismo”, “Salvini fascista sei il primo  della lista”, “Gli unici stranieri gli sbirri nei quartieri”...
E' stata una manifestazione ascoltata, condivisa riguardo alla giustezza, continuità della lotta per la casa, contro le guerre saccheggiatrici, contro ogni schiavitù, prepotenze di stato e padroni oggi dilaganti.
Venerdì 6 luglio è stata occupata una struttura privata chiusa da 5 anni sempre in zona via Padova per rispondere concretamente allo sgombero e riprendere collettivamente condizioni di vita dignitose per chi buttato/a in strada.

Milano, luglio 2018