indice n.131
L'Italia nella morsa Usa/Nato
Austerità e repressione nell’Argentina di Macri
“Esposto denuncia” dal carcere di Nuoro
CONTRO I CAMPI DI INTERNAMENTO E SFRUTTAMENTO PER MIGRANTI
Lettera dal carcere di Ivrea
Lettera dal carcere di trieste
Lettera dal carcere di Roma-Rebibbia
lettera dal carcere di vercelli
note sulla “Riforma penitenziaria”
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Lettera dal carcere di Augusta (SC)
lettera dal carcere di carinola (cs)
Lettera dal carcere di Ancona
Si riparte da Macerata. Ma per andare dove?
Lettera dal carcere di Regina Coeli
Lettera dall' “obbligo di soggiorno”
lettera dal carcere di Cuneo
Lettera dal carcere di Lucca
L'Italia nella morsa Usa/Nato
Sono in corso simultaneamente, nella prima metà di marzo, due grandi esercitazioni di guerra - l'una nel Mediterraneo di fronte alle coste della Sicilia, l'altra in Israele - ambedue dirette e supportate dai comandi e dalle basi Usa/Nato in Italia.
Alla Dynamic Manta 2018 - esercitazione di guerra sottomarina, appoggiata dalle basi di Sigonella e Augusta e dal porto di Catania - partecipano forze navali di Stati uniti, Canada, Italia, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Grecia e Turchia, con 5000 uomini, navi di superficie, sottomarini, aerei ed elicotteri.
L'esercitazione è diretta dal Comando Nato di Lago Patria (Jfc Naples), agli ordini dell'ammiraglio statunitense James Foggo. Nominato dal Pentagono come i suoi predecessori, egli comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa in Europa e le Forze navali Usa per l'Africa, il cui quartier generale è a Napoli Capodichino.
A cosa serva la Dynamic Manta 2018 lo spiega lo stesso ammiraglio Foggo: è iniziata la «Quarta battaglia dell'Atlantico», dopo quelle delle due guerre mondiali e della guerra fredda. Essa viene condotta contro «sottomarini russi sempre più sofisticati che minacciano le linee di comunicazione marittima fra Stati uniti ed Europa nel Nord Atlantico».
L'ammiraglio accusa la Russia di condurre «una attività militare sempre più aggressiva», citando come esempio caccia russi che sorvolano a bassa quota navi Usa. Non dice però che queste navi da guerra incrociano nel Baltico e nel Mar Nero a ridosso del territorio russo.
Lo stesso fanno i droni-spia Usa Global Hawk che, decollando da Sigonella, volano due o tre volte la settimana lungo le coste russe sul Mar Nero. L'ammiraglio Foggo, mentre col cappello di comandante Nato prepara in Italia le forze navali alleate contro la Russia, col cappello di comandante delle Forze navali Usa in Europa invia dall'Italia la Sesta Flotta alla Juniper Cobra 2018, esercitazione congiunta Usa-Israele diretta principalmente contro l'Iran. Dalla base di Gaeta è giunta ad Haifa la Mount Whitney, nave ammiraglia della Sesta Flotta, accompagnata dalla nave da assalto anfibio Iwo Jima.
La Mount Whitney è un quartier generale galleggiante, collegato alla rete globale di comando e controllo del Pentagono anche attraverso la stazione Muos di Niscemi. La Juniper Cobra 2018 - cui partecipano 2500 militari Usa e altrettanti israeliani - è iniziata il 4 marzo, mentre il premier Netanyahu, incontrando il presidente Trump, sosteneva che l'Iran «non ha rinunciato alle sue ambizioni nucleari» (non dicendo che è Israele l'unica potenza nucleare in Medioriente) e concludeva «l'Iran va fermato, questo è il nostro comune compito».
L'esercitazione simula la risposta israeliana al lancio simultaneo di missili da Libano, Iran, Siria e Gaza. Lo scenario reale può invece essere quello di un lancio missilistico falsamente attribuito agli Hezbollah libanesi alleati dell'Iran, quale pretesto per attaccare il Libano mirando all'Iran. Al massino 72 ore dopo, dichiarano ufficiali statunitensi e israeliani, arriverebbero dall'Europa (in particolare dalle basi in Italia) forze statunitensi per affiancare quelle israeliane nella guerra.
La presenza alla Juniper Cobra del generale Scaparrotti, capo del Comando Europeo degli Stati uniti, conferma tale piano, che egli ha definito in un incontro con lo stato maggiore israeliano l'11 marzo.
Poiché Scaparrotti è anche Comandante supremo alleato in Europa (carica che spetta sempre a un generale Usa), il piano prevede una partecipazione Nato, soprattutto italiana, a sostegno di Israele in una guerra su larga scala in Medioriente.
13 marzo 2018, da voltairenet.org
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Manifestazione a Monaco di Baviera contro il “cartello della guerra”
Domenica 18 febbraio, nel centro di Monaco, si è svolta una manifestazione partecipata da oltre 4.000 persone, come indica l' “Alleanza d'azione contro la Conferenza Sicurezza NATO” (SiKo dalle iniziali in tedesco, che l'ha organizzata), aperta dallo striscione “La guerra non conosce vincitori”. Le ragioni della manifestazione erano condensate nella parola d'ordine: “scioglimento dell'Alleanza per la Difesa promossa dalla NATO, mettere fine all'esportazione di armi tedesche e agli interventi all'estero della Bundeswehr (forze armate della RFT). Alla manifestazione hanno preso parte anche numeros* kurd* per protestare contro l'invasione delle truppe turche nella regione kurda di Afrin nel nord della Siria e contro la fornitura di armi tedesche al regime del presidente Recep Tayyip Erdogan. La polizia ha arrestato le/i manifestanti che innalzavano cartelli, striscioni con simboli delle forze di autodifesa YPG, nonostante il tribunale amministrativo avesse annullata la “disposizione” della polizia.
Gli interventi nel corso della manifestazione si sono occupati in particolare dell'aggressione turca su Afrin e della nuova 'Cooperazione Militare dell'Unione Europea' PESCO (Permanent Structured Cooperation). In proposito, SiKo sottolinea che in qella guerra viene compiuta una rottura del diritto dei popoli, in particolare nella fornitura di armi tedesche (*v. sotto) decisa dal governo di Berlino. E' rimasta senza alcuna risposta anche la richiesta, sempre di SiKo, riguardo al ritiro delle armi atomiche USA giacenti in territorio RFT.
Intanto fra gli alleati si fa largo una forte tensione. Per esempio, al convegno NATO il ministro degli esteri turco ha dichiarato che sarebbe “scandaloso e inaccettabile”, che gli USA nella lotta contro la milizia jihadista (IS), in Siria prosegua nell'alleanza con l' “organizzazione terrorista” kurda YPG. Nella stessa SiKo il primo ministro turco ha difeso anche l'impegno dei carri armati tedeschi 'Leopard' nella “difesa” della Turchia in Siria – ed ha richiesto il sostegno delle aziende tedesche nella fabbricazione del carro armato turco “Altay”. Bundeswehr, senza condizioni , fra il 2006 e il 2011 in totale ha fornito alla Turchia 354 'Leopard 2'. In gennaio, dopo l'inizio dell'offensiva in Siria, il governo tedesco ha comunicato di bloccare la fornitura di carri armati anti-mina (distinzione che non blocca niente).
Alla stessa SiKo ha preso parola anche Netanjahu, capo del governo israeliano, particolarmente bellico nei confronti dell'Iran. Ha mostrato un drone frantumato lanciato dall'Iran come “prova di aggressione iraniana nei confronti di Israele”.
A lato della SiKo il ministro degli esteri della RFT si è incontrato con il suo collega russo Lawrow che ha esposto il problema dell'abbattimento delle sanzioni contro la Russia ed ha ribattuto la proposta avanzata da Putin un anno mezzo fa, di dare sicurezza ad un armistizio in Ucraina orientale attraverso l'impiego di caschi blu dell'ONU.
(*) Rheinmetall, azienda tedesca produttrice di armi, ha assunto la direzione del progetto avanzato dall'UE sull'uniformazione dell'armamento dei soldati. Il progetto è parte dell'Unione della Difesa Europea concordata alla fine del 2017. In concreto si tratta di sintonizzare in maniera reciproca la produzione di sensori, applicazioni tecnologiche nei sistemi di comunicazione della fanteria dei Paesi dell'UE. Rheinmetall fornisce già sotto lo slogan “Fanteria del futuro” sistemi tecnologici pilota alle truppe terrestri della Bundeswehr, impiegati dal 2013 in Afghanistan.
da jungewelt.de, 19 febbraio 2018
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Insurrezione e rappresaglie in tutto il Kurdistan e in tutto il mondo!
Dem baş heval, la situazione in Afrin sta diventando sempre più critica. Più di 50 civili disarmati, tra cui bambini, sono stati uccisi a seguito di attacchi aerei e bombardamenti nelle ultime 48 ore. Alcuni di loro sono stati massacrati nell’ospedale di Afrin. Il nemico non bombarda “indiscriminatamente” Afrin. Essi mirano “deliberatamente” ai civili come strategia.
Il nemico sta usando questa strategia non solo perché sono barbari e inumani, ma anche perché sono spaventati. Sì, hanno paura. Hanno paura di una rivolta curda in altre parti del Kurdistan, specialmente nel Bakur il giorno di Nevroz (21 marzo). Oggi hanno arrestato centinaia di persone che pensavano si sarebbero il giorno di Nevroz. Uno di loro aveva 74 anni ed era sordo e cieco. Quindi, si può immaginare quanto sono spaventati.
Hanno anche paura dei nostri compagni in tutto il mondo. Sanno che se i valorosi combattenti dello YPG International inizieranno ad usare il loro legittimo diritto di rappresaglia e colpiranno le loro istituzioni e i loro sostenitori, i nemici e gli Stati che li sostengono apertamente o segretamente si faranno prendere dal panico. E noi non perderemo l’occasione di colpirli. Insurrezioni e rappresaglie in tutto il Kurdistan e in tutto il mondo! Questa è la continuazione della guerra che avete combattuto. Il nemico ha armato e supportato ISIS che ha cercato di ucciderti qui. 35 di voi sono stati martirizzati qui. Ora, vogliono fare del male a voi e ai vostri cari. Se Afrin cade, i nemici avranno la possibilità di farlo. Questa è una delle volte in cui l’unica cosa necessaria è la rappresaglia.
Biji berxwedana Afrin! Tolhildan! Biji Serok Apo!
18 marzo 2018, ypg-international.org
Austerità e repressione nell’Argentina di Macri
Un caso di cronaca nera
L’8 dicembre passato c’è stato un furto a un turista nel quartiere della Boca, a Buenos Aires. Niente di nuovo: la Boca è un richiamo per chi visita la capitale argentina, con le vecchie casette di lamiera colorata dei portuali di inizio del Novecento, il caratteristico stadio del Boca Junior e il tango, ma mantiene la sua identità di quartiere popolare, e le costose macchine fotografiche di chi si perde naso all’insù sono sempre un obiettivo facile. I due ragazzi che hanno strappato la reflex al cinquantenne statunitense in vacanza, però, l’hanno lasciato a terra con diverse pugnalate nel corpo. I vicini, gli abitanti sono intervenuti, un paio si sono fermati accanto al ferito, per chiamare i soccorsi. C’era anche un poliziotto in borghese nei paraggi, che è intervenuto inseguendo uno dei due ladri: prima ha sparato in aria, poi direttamente contro di lui, e quando è caduto ha continuato a sparare. Juan Pablo Kukoc è morto così, con una pallottola nella gamba e una nella schiena, aveva appena compiuto 18 anni. Frank Josepk Wolek, il turista, è stato ricoverato d’urgenza in chirurgia ed è ormai tornato a Los Angeles, sano e salvo.
Il messaggio del governo Macri
Il caso di cronaca nera è tornato sulle pagine dei giornali nelle ultime settimane per l’apertura della causa contro il poliziotto, Luís Chocobar, a cui il giudice aveva comminato una multa di 400 mila pesos (16.000 euro) e il sequestro dell’arma. Ed è diventato notizia nazionale quando il presidente argentino Mauricio Macri ha invitato Chocobar alla Casa Rosada, il palazzo del governo, per congratularsi dell’azione compiuta, e la ministra alla Sicurezza Patricia Bullrich ha rincarato la dose, dichiarando che difende l’operato delle forze dell’ordine senza riserve.
La storia di Kukoc, ucciso alle spalle dal poliziotto Chocobar, non è un caso isolato, piuttosto la versione mediatizzata di una quantità di violenze e di omicidi che avvengono tutte le settimane, tutti con le stesse caratteristiche, e che corrispondono a una precisa politica di Stato. In Argentina si chiama gatillo fácil: il grilletto è quello della polizia che spara contro la frangia più giovane della popolazione, i ragazzi delle periferie e delle aree urbane povere, esclusi dalle politiche sociali e stigmatizzati dalle campagne mediatiche sulla sicurezza, che entrano prestissimo in contatto con la micro delinquenza, l’addizione, le mafie spesso controllate dalla stessa polizia.
Non è un singolo poliziotto, è tutta l’istituzione
Sono più di 5.400 le morti causate dalle cosiddette forze di sicurezza in tutto il Paese dalla fine della dittatura nel 1983, denuncia la Coordinadora contra la Represión Policial y Institucional (CORREPI), che dal 1996 raccoglie i dati della violenza perpetrata dall’apparato repressivo dello Stato. Vi rientrano le morti durante le proteste e le mobilitazioni, i femminicidi compiuti dagli agenti in divisa, ma le percentuali più alte corrispondono al gatillo fácil (44% nel 2017) e alle morti in situazioni di detenzione, in carceri o commissariati. Nei casi di gatillo fácil, la maggioranza delle vittime ha tra 15 e 25 anni, solo il 6% ne ha più di 35; nella quasi totalità delle morti durante la detenzione, non si tratta di accuse penali ma di arresti arbitrari, per contravvenzioni o controllo di antecedenti.
Il report della CORREPI mostra una certa continuità di questi delitti nel tempo, indipendentemente dal governo di turno. Ciò che è cambiato con Mauricio Macri è l'aumento esponenziale della violenza, che supera per la prima volta in democrazia il record di più di un assassinio al giorno (una morte ogni 23 ore). E soprattutto è cambiato il modo in cui il governo si posiziona di fronte agli omicidi: invece della strategia classica, che consiglia di prendere le distanze parlando di eccessi o dell’autonomia relativa delle forze di sicurezza, Macri e il suo entourage rivendicano l’operato dell’apparato repressivo, spingendosi verso dichiarazioni indifendibili, contrarie al rispetto dei più elementari diritti umani.
Dalla desaparición di Santiago Maldonado alla dottrina Chocobar: lo Stato è responsabile
Il caso di Chocobar è diventato emblematico di questa nuova politica della repressione, che nelle parole della ministra Bullrich suona così: “In Argentina, la somma dei casi particolari ha installato una dottrina per cui il poliziotto era sempre il colpevole. Noi dobbiamo cambiarla […] vogliamo invertire l’onere probatorio, lo cambieremo nel codice penale. […] il giudice faccia quel che vuole, noi come politica pubblica porteremo avanti la difesa della polizia in azione."
In questo modo, seguendo l'analisi dell'avvocata rappresentante di CORREPI, María del Carmen Verdù, prima si dà ordine alle forze di polizia di sparare per uccidere, e poi si assicura la loro difesa incondizionata da parte dello Stato.
Si tratta di una strategia chiara, che vuole imporre con i metodi più brutali il disciplinamento e il controllo sociale necessari per avanzare con le politiche d'austerità a beneficio dei grandi capitali, il principale obiettivo della coalizione di Cambiemos, l’attuale schieramento politico che conduce il Paese. Se ogni volta che un agente in divisa uccide una persona il governo dichiara che sta compiendo il suo dovere, “in Argentina vige di fatto la pena di morte”, ha affermato Verdú.
La CORREPI già da tempo sta segnalando lo stato d'eccezione permanente che si vive nel Paese. L’esempio più noto è quello di Santiago Maldonado, ucciso e fatto sparire dalla gendarmeria durante la mobilitazione di una comunità Mapuche nel Chubut, a cui è seguito Rafael Nahuel, giovane mapuche assassinato con un colpo alle spalle dalle forze della prefettura durante lo sgombero di una comunità sul Lago Mascardi, nella regione di Bariloche.
L'escalation repressiva è diventata poi evidente in settembre, al termine dell'enorme manifestazione convocata a un mese dalla sparizione di Santiago Maldonado, quando la polizia ha scatenato una feroce caccia all'uomo, arrestando 31 persone in maniera totalmente arbitraria, tra cui quattro giornalisti che sono tutt’ora sotto giudizio. E la strategia è andata perfezionandosi nelle mobilitazioni di dicembre, nel corteo contro la OMC del 12, il giorno seguente quando hanno manifestato le organizzazioni sociali, e poi con forza il 14 e il 18 dicembre, nelle proteste per fermare il voto alla riforma delle pensioni, e ancora a Jujuy, durante lo sciopero della fabbrica più grande della zona, per un totale di 230 arresti, tutti con la stessa imputazione di intimidazione pubblica.
Il Coordinamento contro la Repressione Poliziesca e Istituzionale
La traiettoria della CORREPI aiuta a comprendere come gli abusi delle forze di polizia in Argentina non siano casi isolati ma una pratica sistematica di cui lo Stato è direttamente responsabile. Nata negli anni Novanta dalla necessità di mettere nero su bianco la lista dei casi di violenza e repressione delle forze statali, ha costruito nel tempo un enorme archivio analitico delle persone assassinate in democrazia. L’iniziativa rispondeva alla dichiarazione dell’allora presidente Carlos Menem davanti all’aumento delle denunce pubbliche di esecuzioni da parte dei diversi corpi di polizia: “qui ci sono giornalisti dalla penna facile”. Nelle parole del ministro dell’Interno – “dove sono i nomi?” – risuonava la voce del dittatore Videla riferita ai desaparecidos.
La prima lista riuniva 262 nomi, raccolti tra i familiari delle vittime di gatillo fácil che cominciavano a riunirsi e organizzarsi, e fu presentata pubblicamente in Plaza de Mayo, con il sostegno delle organizzazioni popolari e la presenza della stampa. Da allora, ogni anno in dicembre CORREPI convoca a un presidio nella piazza delle Madres de desaparecidos per presentare l’aggiornamento del suo rapporto, che è diventato un appuntamento fisso per le organizzazioni sociali e politiche che in diversi modi lavorano per arginare la repressione statale. L’archivio propone un autorevole quadro analitico degli abusi polizieschi, sempre più naturalizzati e occultati, basato sul lavoro quotidiano di monitoraggio e accompagnamento nei quartieri popolari in diverse province del Paese, l’articolazione con i coordinamenti delle madri che hanno perso i loro figli per gatillo fácil, il sostegno legale dei casi di detenzione arbitraria o nei contesti di mobilitazione politica.
Di fronte al rapporto di fine 2017 la ministra alla Sicurezza Patricia Bullrich si è precipitata a dichiarare falsi i dati forniti dalla CORREPI, mentre la scritta “forza Chocobar” è apparsa sulla porta della sede dell’organizzazione anti-repressiva. “Non è la prima volta che un governo cerca di screditare la nostra denuncia sistematica” spiega Verdú, “però, una volta invitati a dibatterlo pubblicamente, nessuno ha raccolto la sfida”, non è mai stato possibile smentire un solo caso segnalato da CORREPI.
“Non ci lasciamo intimidire e non abbiamo paura” ha concluso Verdú dal palco della piazza, durante la presentazione dell’ultimo rapporto CORREPI lo scorso dicembre, rivolgendosi alle organizzazioni politiche e sociali lì radunate: “sappiamo che abbiamo molte differenze, che possiamo non coincidere perfino su questioni strategiche, ma non sbagliamoci in questo: l’unica maniera di affrontare il governo di Cambiemos è con l’unità di tutte le organizazioni del campo popolare, per scendere in piazza a difendere i nostri diritti, crediamo che in questo momento il compito sia rafforzare e approfondire la lotta contro il saccheggio, la fame, lo sfruttamento e l’oppressione. Non c’è altro cammino: unità, organizzazione e lotta.”
Buenos Aires, febbraio 2018
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Brasile: sciopero in tutto il Paese contro il taglio delle pensioni
In Brasile in questo momento in gioco c'è un progetto centrale del governo guidato da Michel Temer e del suo schieramento parlamentare. Siccome fino ad ora non è riuscito a passare, il governo segue il proposito del mercanteggio, dei trucchi nei dettagli e simili marchingegni. Con una campagna pubblicitaria costosa la “Reforma da Previdencia” è stata elogiata come l'uovo di Colombo, finalizzata al taglio delle usanze antiquate presenti nel sistema. La gran maggioranza della popolazione la rifiuta.
Quel che viene motivato, come necessità per risanare le casse, per milioni di brasiliani significa una pensione piccola assolutamente insufficiente per vivere dignitosamente gli ultimi anni di vita. L'età per andare in pensione per gli uomini viene portata dalla “Reforma” dai 60 ai 65 anni per gli uomini, dai 55 ai 62 per le donne. Tante operaie e tanti operai, dato l'ampliarsi dei tempi dei versamenti, perdono la possibilità di ricevere la pensione e dovranno tener conto dei tagli.
I sindacati parlano di costrizione a lavorare fino alla morte e che il sistema pensionistico corre verso il collasso. Il governo-Temer, solo nel 2017, ha esonerato le aziende e i grandi latifondisti dal versamento di miliardi. La “Reforma” è aperta alle società di assicurazione private i cui boss sono congiunti a chi governa a Brasilia. L'opposizione di sinistra e i sindacati da mesi hanno innalzato barricate contro il piano governativo, fino a dar vita allo sciopero generale nazionale, sostenuto dai movimenti sociali. Nelle grandi città come San Paolo lunedì incrociano le braccia chi conduce i mezzi pubblici, chi lavora nelle banche come nelle fabbriche metallifere.
Con il pretesto di “combattere la criminalità”, il governo ha disposto per lunedì di mettere sulle strade i militari. Così nella discussione pubblica adesso ha priorità l'intervento militare nei quartieri, “favelas”, di Rio de Janeiro. La centrale dei sindacati ha comunque ribadito che: “La nostra lotta mira a seppellire una volta per tutte la Reform.”
Per il 'Partido dos Trabalhadores' (PT), Partito Operaio, l'intervento militare deciso dal governo serve a spostare l'opinione pubblica su un altro tema. La situazione a Rio è nei fatti seria, dicono, “ma siamo allarmati dal fatto che nello stesso tempo la repressione possa essere spostata contro i movimenti sociali e che altri diritti costituzionali vengano cancellati.”
Nella stessa giornata il governo ha posto il comando della “lotta alla criminalità” nello stato federale di Rio nelle mani di un generale dell'esercito. E' certo che per chi abita nelle 'favelas' di Rio i soldati sulle strade non sono una novità. Di tanto in tanto là vengono schierati, dove non trovano numerosi cocainomani, ma piuttosto uccidono giovani neri, loro pallottole vaganti colpiscono sempre persone estranee. Dietro spianamento di armi e droghe si sono infilati gli alti circoli della politica, della polizia e dell'esercito. Lo show di Temer non li disturba. I problemi sociali che nutrono la violenza restano irrisolti: questo è realmente criminale.
Mentre nelle strade e nelle piazze prendeva corpo lo sciopero generale, il Parlamento di Brasilia ha bloccato la “Reforma”.
In piazza lunedì, solo a Sao Paulo, 20.000 persone hanno dato vita a una forte manifestazione. Negli interventi la votazione del Parlamento è stata caratterizzata come una “vittoria della classe operaia”. La lotta contro il governo-Temer e qualsiasi aggravamento prosegue con carattere offensivo. In tutto il Paese sindacati, partiti e movimenti di sinistra esortano a prendere parte allo sciopero e alle manifestazioni.
21 febbraio 2018, da jungewelt.de
“Esposto denuncia” dal carcere di Nuoro
Lo scritto inviatoci tratta le “discriminazioni e presunte omissioni di atti d'ufficio da parte di INPS e INAIL” è stato inviato a presidente della Repubblica, ministri della Giustizia e del Lavoro, presidenti dell'INPS e dell'INAIL, magistrato di sorveglianza di Nuoro, procura della repubblica di Nuoro, direzione del carcere di della stessa città.
L' 'esposto denuncia' trae forza da quanto segue:
“Vista la direttiva del 5 giugno 2017, N. 2302 emanata dal Ministero della Giustizia che impone l'applicazione della legge 28 Giugno 2012 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro...) n. 92 art. 2 (commi 58-63), e quindi, la revoca di prestazioni di tipo assistenziale per i soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale.
Presumendo che la legge Fornero aveva l'obiettivo di risanare in parte il bilancio dello Stato, è evidente che l'arma migliore per risanare tutto ciò è la lotta all'evasione contributiva e retributiva, che è stata sistematica in tutte le ATO in Sicilia, ossia Società d'Ambito che si sono costituite per lo smaltimento dei rifiuti, che sono state tutte commissariate in via di liquidazione o dichiarate fallite, un esempio su tutti la “Belice Ambiente S.p.A.”, Società partecipata come tutte le altre dai Comuni, dove l'evasione era una regola, il tutto denunciato da Associazioni, lavoratori, Sindacati”.
[La “legge Fornero”, il cui primo scopo era, come è accaduto, la legalizzazione del licenziamento purchè l'azienda lo affianchi con il versamento di una somma di denaro pari alla busta-paga di 20 mesi di lavoro, è stata assunta dal ministero della Giustizia con la legge citata che, a chi detenut* “per reati di particolare allarme sociale” nega il sostegno di INPS e INAIL, organi dello stato preposti all'assistenza medica.
Nei fatti, come sempre accade nell'applicazione di ogni restrizione, i carcerieri hanno applicato il taglio della cura medica a tutte le persone arrestate. I medicinali sono stati ridotti a aspirina e tachipirina. Nei carrelli degli infermieri che si fermano davanti alle celle hanno trovato posto gocce per dormire, pillole dirette a sopire l'animo, la serenità della riflessione, insomma capaci di renderti sempre più individuo limitato, chius* in se stess*. Chi ha difficoltà, per esempio, nella vista, nella masticazione, nello stomaco come nelle ossa: diventa cieco, zoppo e infine muore, come accade sempre più di frequente.
Allo stesso tempo invece nella troupe medico-sanitaria dentro le galere ha preso posto primario l'impiego della psichiatria e dei suoi mezzi assassini sociali e fisici.
La revoca di prestazioni di tipo assistenziale per i soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale” è adoperata come pretesto per indebolire la salute delle persone in galera, per ostacolare la socializzazione, le capacità intellettuali, in fondo la forza di tener vivo in sé, con chi ti è accanto, ogni aspetto della dignità. Lo stato oltre a gettarti nella disoccupazione, nel caso finisci in galera, cioè hai espropriato denaro o merci, ha trovato in quella “revoca” un ulteriore mezzo per spezzare nelle carceri, nei luoghi di lavoro le possibilità di ribellarsi ai suoi saccheggi, ai suoi assassinii fisici – in fondo sociali.
L'esposto di Sacco è una spinta a unire la lotta contro il carcere agli scioperi sul lavoro, alle occupazioni della casa, al rifiuto delle vaccinazioni...
19 febbraio 2018
Sacco Santo, via Badu e Carros, 1 - 08100 Nuoro
CONTRO I CAMPI DI INTERNAMENTO E SFRUTTAMENTO PER MIGRANTI
Dalla frontiera fra Italia e Francia
Il 14 marzo un’ottantina di persone si sono radunate alla frontiera tra Italia e Francia, davanti alla Polizia di Frontiera Francese (PAF), per protestare contro il fermo di Benoit e l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina affibiatagli. Appena pochi giorni prima, infatti, Benoit era stato sorpreso da un posto di blocco francese a poche centinaia di metri dall’ospedale di Briançon mentre trasportava una donna incinta in pieno travaglio, suo marito e i due bambini. La donna è stata accompagnata all’ospedale ma Benoit è stato fermato e il resto della famiglia rispedito indietro a Bardonecchia. Durante il presidio si è deciso di bloccare a intermittenza la strada, creando fastidio alla mobilità di frontiera, sotto gli occhi di Gendarmerie d'oltralpe e Digos nostrana. (da autistici.org/macerie)
Il dispositivo frontiera si perfeziona: RFI e ONG collaboratori del sistema
Nell’ultimo mese la Rete Ferroviaria Italiana (RFI) ha migliorato il suo sistema di controllo e selezione che applica all’interno delle stazioni dell’Alta Valsusa, in particolare a Bardonecchia. Per le Ferrovie infatti la presenza continua di profughi all’interno della stazione rappresenta “un problema di sicurezza per i ferrovieri in servizio e un disagio per i passeggeri in attesa di prendere i treni”. Da qui la decisione di ingaggiare due vigilantes in divisa che controllano lo stazionamento in sala d’attesa e cacciano fuori tutti coloro che non hanno un biglietto.
Siamo infatti in piena stagione sciistica; la presenza delle decine di migranti che ancora affollano l’ultima stazione ferroviaria prima della frontiera, nel tentativo di raggiungere a piedi la Francia o perché già respinti dalla polizia francese e qui ricondotti, destabilizza l’ordine di una cittadina che d’inverno vive di turisti e sciatori. Selezione ed esclusione. Dividere e nascondere per controllare meglio.
Funzionale in questo senso è anche il prolungamento degli orari di apertura, ora anche diurni, della saletta della ONG Rainbow4Africa, adiacente alla stazione di Bardonecchia ma da questa separata, all’interno della quale ora i viaggiatori colpevoli di essere sans papiers possono trovare “rifugio” senza mescolarsi a turisti e sciatori.
Questa ONG funziona grazie al lavoro di diversi volontari che si alternano in stazione. Il loro lavoro è iniziato nel mese di novembre, alle porte dell’inverno, quando dopo varie pressioni sull’amministrazione ha ottenuto in concessione l’uso della stanza in stazione. L’umanitarismo sbarcato in frontiera grazie a R4A ha dato modo a decine di persone di non passare la notte al freddo, e di avere cure mediche: ma è presto diventato uno degli ingranaggi che permettono alla macchina dei respingimenti di funzionare, assumendo un volto più accettabile.
La gendarmerie francese e la PAF usano al loro meglio la struttura in piazza, deportando alla stazione di Bardonecchia su dei furgoncini bianchi decine di persone bloccate ogni giorno e notte al confine, dove sanno che Rainbow4Africa è lì pronta a mettere una pezza sulla brutalità della frontiera.
Al tempo stesso la possibilità per i solidali di intercettare, parlare e cercare complicità coi migranti si è ridotta al minimo, dal momento che gli operatori della ONG sembrano più ligi alla prescrizione del commissario di polizia (che formalmente regola l’utilizzo della saletta) che prevede che all’interno della stanza ci transitino soltanto gli “autorizzati”.
Rainbow4Africa ha inoltre ingaggiato dei “mediatori culturali”, che pare dissuadano i migranti dal tentativo di passare la frontiera, e dei legali, che di fatto operano una selezione tra chi ha qualche possibilità di entrare in Francia in modo legittimo e chi è meglio che se ne torni nelle strutture di accoglienza da cui è scappato. Rispetto al ruolo e alla funzione di questi mediatori, c'è da precisare che essi sono accompagnati da militari e ora anche da vigilantes “non armati”, non ci sono violenze, problemi e costrizioni, ma di quale volontario dialogo si può parlare di fronte alla minacciosa presenza delle forze dell’ordine, la cui presenza è sufficiente per far fuggire tutti i migranti (quando possibile)? Quanto può essere volontaria sotto questa velata minaccia la decisione di rinunciare a passare la frontiera? La mediazione, a chi serve, in nome di chi viene fatta e con quale obiettivo? Di certo non a favore dei migranti che vogliono passare la frontiera, altrimenti la soluzione sarebbe semplice, basterebbe aprirla. Ogni altro discorso sulle “buone intenzioni” dei “volontari” è fuorviante, a prescindere dalla buona fede.
Il nuovo “pacchetto Bardonecchia” prevede infine che, per coloro che vogliono, ci sia un servizio navetta della Croce Rossa Italiana che accompagna i migranti al Campo della Croce Rossa di Settimo Torinese: secondo quanto si apprende, infatti, la prefettura spinge perché tutti i migranti vengano reindirizzati verso il centro di Settimo, senza considerazione alcuna riguardo il loro percorso di accoglienza (per alcuni già terminato o la richiesta è stata respinta, altri sono diventati irregolari, altri vogliono chiedere asilo in Francia…). Vero è che l’indirizzamento a Settimo è volontario e non coatto, vero che vi sono dei “mediatori culturali” ingaggiati dai comuni a fare da cuscinetto, ma resta un fatto: chi non sale sui pulmini targati CRI sarà più facile bersaglio per le forze di polizia.
Sembra così avviarsi, seppur in modo ancora poco strutturato, un sistema di controllo completo del destino del migrante, che passa attraverso la selezione e la reintegrazione nel circuito di accoglienza istituzionale.
Sull’altro fronte c’è Clavière, località immediatamente a di sotto del colle del Monginevro che a giudicare dai numeri, sembra essere più di recente il punto di passaggio privilegiato. Qui, al momento, il grande transito di migranti che tentano di attraversare a piedi o in bus la frontiera non sembra colpire né il sindaco secondo cui il “fenomeno” non esiste, né la curia locale, al cui prete qualche cittadino deve aver chiesto disponibilità su alcuni spazi riscaldati della chiesa, da utilizzare in caso di emergenza in questi giorni di freddo molto intenso (con temperature anche inferiori a -15° e l’inesistenza di spazi coperti dove ripararsi), sentendosi rispondere negativamente.
Il problema maggiore continua qui a rimanere la presenza della gendarmerie e della polizia di frontiera francese, che pattugliano strade e piste innevate con delle nuove motoslitte, talvolta allertate dagli stessi autisti della compagnia di bus RESALP, a bordo dei quali i migranti cercano di valicare il confine. La PAF francese viene a Bardonecchia a controllare chi sale sui treni in partenza per Modane. È sufficiente non essere bianco e non sembrare un turista per farsi controllare.
Se ad oggi l’interesse principale è stato quello di non rendere troppo visibile il “fenomeno” e cercare di scongiurare il morto per non farsi cattiva pubblicità, proteggendo così l’immagine e il turismo di queste città di frontiera, vedremo cosa succederà appena la neve si scioglie e finirà l’inverno, finora complice naturale del dispositivo frontiera in alta montagna. La primavera porterà con sé nuovi scenari in frontiera, numeri diversi da quelli di oggi e una pioggia di soldi a valle per moltiplicare i tentacoli e l’efficienza del dispositivo di controllo e selezione preventivo.
Da Briançon. Le maraudes (termine utilizzato dai solidali francesi per indicare i presidi e le ronde effettuati nei punti di arrivo dei migranti sulle montagne) notturne in montagna degli ultimi mesi hanno senza dubbio raggiunto il loro obiettivo primario di evitare che le persone che cercano di attraversare la frontiera francese nel Briançonese si trovino da sole al freddo, alla mercè dei respingimenti in Italia da parte delle forze di polizia. I solidali portano vestiti, bevande calde, cibo, e qualche informazione legale per tutelarsi dalla polizia. Nelle ultime settimane abbiamo osservato un netto incremento dei passaggi, con picchi fino a 20 persone alcune sere, nonostante il freddo dell’inverno.
Ci sono però anche i passeurs (chi effettua passaggi con scopo di lucro) e i coxeurs (coloro che intercettano i migranti e fanno da tramite con i passeurs) che si approfittano della mancanza di informazioni sugli itinerari di passaggio (linee e fermate degli autobus, treni). L’effetto psicologico della loro presenza non può essere sottovalutato: al momento del passaggio, sicuramente ci si sente meno isolati e vulnerabili se si ha dato fiducia a qualcuno, lo si ha pagato perché garantisca l’attraversamento, e magari è della propria comunità di origine. Recentemente, chi partecipa ai presidi sulle montagne ha denunciato i vari passeurs, senza però preoccuparsi di dare ai migranti un'alternativa valida alla loro necessità di passare la frontiera in modo illegale. Si rischia in questo modo che la denuncia divenga l'ennesimo pretesto nelle mani dello Stato di intensificare i controlli polizieschi.
Mentre il sole ritorna di settimana in settimana, riprendono gradualmente anche i passaggi al Colle della Scala, dopo un mese di interruzione a causa dell’abbondante neve. Più di quindici persone hanno attraversato il confine da quel lato questa settimana, tra cui un uomo, disperso dopo aver lasciato il suo gruppo che ha preferito ridiscendere sul versante italiano. In questi giorni, la neve si scioglie e lascia apparire le prime macchie di terreno sottostante, ma anche uno sconcertante color kaki. A Monginevro qualche sera fa, abbiamo osservato sul parcheggio all’ingresso del villaggio 4 camion militari e 2 jeep laddove non avevamo mai visto sinora neanche un veicolo. Abbiamo incontrato anche un gruppo di 8 militari con gli sci sulle spalle, chasseurs alpini che si addestrano per la ripresa della caccia agli stranieri clandestini. (febbraio 2018, liberamente tratto da hurriya.noblogs.org e radionotav)
Lampedusa: chiusura dell’Hotspot
Il 14 marzo, dopo un incontro al Viminale tra il Capo Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione, il Direttore Centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere del Dipartimento di Pubblica Sicurezza ed il Sindaco di Lampedusa, il Ministero degli Interni annuncia la chiusura dell’hotspot di Lampedusa, “alla luce del recente incendio doloso che ha reso inagibile una ulteriore sezione alloggiativa, già compromessa da analoghi precedenti episodi”. Nelle ore immediatamente successive alla diffusione della notizia si è scatenata la lugubre autocelebrazione di chi si è affrettato ad appuntarsi sul petto medaglie al merito per aver conseguito questo risultato attraverso esposti, denunce e reportage. Ma la realtà delle cose non è così semplice.
A Lampedusa circa 150 persone, in maggioranza tunisine, sono in attesa di ricevere, alcuni da due mesi, un decreto di espulsione o essere deportate direttamente per via aerea. Sabato 24 febbraio, nel corso di una protesta che ha visto decine di persone uscire dall’hotspot per dirigersi al porto dell’isola, reclamando libertà di movimento un ragazzo racconta che “Loro ci danno il mangiare con le medicine, metà pasti metà medicine: mangiamo un po’ e dormiamo due, tre giorni. Dobbiamo dormire qui o morire qui. Ci fanno vivere come animali, anzi gli animali vivono meglio di noi. Per dieci giorni non ho dormito, per dieci giorni non ho fatto doccia, perché non funziona.”
A Lampedusa, come nell’hotspot di Trapani o nel CPR di Caltanissetta (il secondo danneggiato, il CPR ora chiuso, grazie ai danni provocati dalle rivolte), la notte non si dorme, per tenersi pronti a resistere alle possibili deportazioni, le cui operazioni di solito si svolgono alle prime luci del giorno. Dal poco che si riesce a ricostruire da quanto riportato dai media, le proteste a Lampedusa sono continue.
Giovedi 22 febbraio nell’hotspot dei migranti avrebbero sparato dei razzi di segnalazione, provocando l’allarme e l’intervento delle forze dell’ordine. Il sabato seguente, 24 febbraio, “un centinaio di migranti – pressoché tutti – sono usciti di mattina dalla struttura recandosi dapprima nella solita piazza antistante la Parrocchia di San Gerlando e successivamente, con un pacifico corteo, si sono spostati sulla banchina del porto commerciale di Cavallo Bianco. Al molo hanno dato il via ad un sit-in per reclamare il trasferimento in Sicilia. Ma la loro idea del trasferimento differisce da quanto previsto dagli accordi internazionali tra Italia e Tunisia circa i rimpatri dei cosiddetti migranti economici.
La protesta è stata controllata da polizia e carabinieri e i tunisini, malgrado l’intenzione di mantenere il presidio al porto a tempo indeterminato, sono stati costretti dal mancato approdo di traghetti e dal gelo notturno a ritornare nell’hotspot.
Il giorno successivo, lunedì 26 febbraio, nell’hotspot sono di nuovo intervenute le forze dell’ordine e i vigili del fuoco, a causa di un fumogeno acceso, intorno alle 22, in prossimità dell’atrio antistante la cucina.
L'8 marzo un razzo di segnalazione è stato scagliato dai migranti contro l’hotspot: è la terza volta in 15 giorni. Alle 19 un gruppo di migranti è uscito dal centro per ricominciare una protesta sulle scalinate della principale chiesa di Lampedusa. Raccontano che dopo la precedente protesta, che li aveva visti portare avanti uno sciopero della fame per sei giorni, avevano ricevuto la promessa di un trasferimento in Sicilia, ma dopo un mese nulla è cambiato. Nessuno vuole rimanere nell’hotspot, e alcuni pur di essere trasferiti sono disposti a farsi accusare di furto: ricevere un decreto di espulsione entro sette giorni, raggiungendo la Sicilia, gli permetterebbe almeno la possibilità di continuare il viaggio verso altri paesi, ed evitare la deportazione immediata in Tunisia.
Verso le 20.30, il fuoco è divampato in due camere del piano superiore del primo padiglione, provocando anche la caduta del soppalco. L’incendio non si è diffuso ulteriormente per il rapido intervento del distaccamento dei vigili del fuoco presente in presidio fisso nell’hotspot, proprio per evitare che le proteste dei reclusi e i frequenti incendi distruggano i padiglioni, come già avvenuto in passato nel 2009, 2011 e due volte nel 2016. Sono subito accorse altre due squadre di vigili del fuoco che in due ore hanno circoscritto le fiamme. Sono intervenute anche le forze dell’ordine in assetto antisommossa a contenere la protesta e il deflusso dall’hotspot.
Negli ultimi decenni si sono attraversate importanti fasi di “chiusura temporanea” dei centri di identificazione per persone immigrate. Chiusure dovute alle lotte coraggiose delle persone recluse. Anche quando la macchina delle espulsioni era più vicina al collasso e non c’era una pesante prospettiva di nuovi centri di detenzione, il contributo dei compagni e delle compagne non ha avuto la forza necessaria per dare una spallata definitiva a questo sistema di oppressione.
Mentre sul web qualcuno accenna al trasferimento nei CPR della penisola di tutte le persone costrette a Lampedusa, come operazione che accompagnerebbe la chiusura del centro, le autorità continuano con la repressione delle persone immigrate che negli ultimi mesi hanno coraggiosamente portato avanti la lotta per conquistarsi la libertà, smantellando pezzo dopo pezzo il campo di concentramento di Lampedusa.
La sera del 14 marzo quattro tunisini sono stati fermati dalla polizia nell’isola, accusati di aver appiccato il fuoco ai materassi in due diversi punti dell’hotspot, sono stati subito trasferiti sotto scorta a Porto Empedocle e da qui reclusi nella casa circondariale “Pasquale di Lorenzo” nei dintorni di Agrigento. In queste circostanze, il “progressivo e veloce svuotamento” dell’hotspot potrebbe consistere in una vera e propria rappresaglia dello stato, ovvero nell’espulsione immediata di gran parte delle persone bloccate nell’isola.
Esprimendo massima solidarietà a chi oggi vive la pesante rappresaglia dello Stato, ci auguriamo che il coraggio dimostrato nelle lotte trovi spazio nelle azioni per impedire che nuovi Lager vengano aperti. Ai politicanti tutto il nostro disprezzo. (liberamente tratto da hurriya.noblogs.org)
Trapani Milo: protesta all’Hotspot
I media riportano, senza molti particolari, la notizia di una protesta avvenuta ieri sera 10 febbraio nell’hotspot di Trapani Milo. Una sessantina di reclusi avrebbero tentato la fuga e dato fuoco a delle suppellettili all’interno dell’ex CIE trasformato nel 2015 in un hotspot dove identificare e selezionare le persone, deportando quelle provenienti da alcuni paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto accordi per il respingimento immediato (Tunisia, Egitto, Algeria etc.). Per evitare la fuga è intervenuto il reparto celere che si è trovato davanti la resistenza delle persone in lotta per guadagnarsi la libertà. (da hurriya.noblogs.org)
Bologna: presidio all’Hub di via Mattei
Nel pomeriggio di mercoledì 7 marzo una ventina di compagn* ha formato un presidio di fronte all’hub per richiedenti asilo di via Mattei. L’attenzione dedicata dalla stampa locale a questa chiamata, come era prevedibile, si è tradotta nella presenza di tre camionette di polizia e carabinieri ai lati dell’ingresso della struttura, relegando le/i manifestanti sul marciapiede dalla parte opposta della strada. Questo dispiegamento di forze ha assunto da subito un significato intimidatorio, inteso a scoraggiare le persone che attualmente vivono nella struttura dall’avvicinarsi al presidio.
Nonostante la distanza, i/le partecipanti hanno dato avvio a una lunga serie di interventi in diverse lingue, intervallati dalla musica, riuscendo nell’intento di farsi notare da chi stava all’interno dell’hub anche grazie alla distribuzione di materiale informativo a persone che rientravano nella struttura, incontrate nelle vicinanze.
Poco a poco è stato possibile innescare la comunicazione sulle questioni più importanti, come il progetto di trasformazione parziale dell’hub in centro di permanenza per il rimpatrio, struttura detentiva per chi attende l’espulsione. Di fondamentale importanza è stata la condivisione di notizie sulle lotte passate e presenti dei migranti che tentano di mettere in crisi il sistema repressivo fondato su accoglienza e deportazione.
La messa in scena poliziesca che aveva accolto il presidio si è definitivamente sgonfiata quando i primi abitanti del campo di via Mattei hanno raggiunto il presidio e, in senso opposto, alcun* compagn* hanno incontrato, avvicinandosi all’ingresso della struttura, i migranti che vi si erano affacciati dall’interno. Grazie a questo movimento reciproco è stato possibile chiarire le ragioni dell’iniziativa a un numero maggiore di persone. Polizia e carabinieri hanno deciso di non intervenire, mossa che peraltro avrebbe sancito esplicitamente la trasformazione dei migranti in detenuti e della struttura in prigione.
L’incontro tra manifestanti e migranti ha permesso, però, che emergesse una verità già palese per tutti i migranti di via Mattei: “this prison” è il nome più usato per indicare il posto in cui si trovano a vivere, e la sovrapposizione di accoglienza e detenzione che il sindaco Merola vorrebbe realizzare materialmente e formalmente è già percepita da chi si trova oggi nell’hub.
Non sono mancate espressioni di esasperazione per le condizioni di vita subite, soprattutto riguardo l’igiene, il cibo, l’isolamento relazionale. Alcuni richiedenti asilo hanno segnalato di non essere in possesso, a causa delle disfunzioni burocratiche, del permesso di soggiorno provvisorio, essendo quindi esposti a una condizione di illegalità sul territorio. Lo scambio di informazioni si è fatto progressivamente più fitto fino a quando, tre ore dopo l’inizio, il presidio si è concluso. Mentre si allontanavano dall’hub diversi attivisti/e sono stati raggiunti da agenti della digos e identificati.
L’hub di via Mattei è stato un centro di detenzione fino al 2013. Dal 2014 fino all’era Minniti è servito come punto di smistamento per tutti i richiedenti asilo assegnati all’Emilia Romagna. Ora potrebbe essere destinato a svolgere due funzioni diverse: parte della struttura – stando alle intenzioni del sindaco – tornerebbe a essere una prigione per migranti senza documenti, la parte restante diventerebbe una struttura di accoglienza di lungo periodo, non più un luogo caratterizzato dal “rapido turnover” di persone da ridistribuire nella seconda accoglienza. Questa seconda funzione potrebbe essere già operativa, ancora prima dell’assegnazione in base al nuovo bando di gara, in discussione in quest’ultimo periodo, dove si torna a parlare di centro di accoglienza per richiedenti asilo (cara) per nominare la struttura. L’ipotesi sembra avvalorata alla luce dell’esperienza delle persone migranti incontrate oggi, ormai giunte in via Mattei da 4, 6, 10 mesi, che raccontano di un numero molto basso di trasferimenti verso altre destinazioni. E’ possibile, allora, che siano forzate a restare nell’hub dal nuovo assetto dell’accoglienza post-Minniti – pochi arrivi, più centri di detenzione, più morti in mare, più morti in Libia – affinché l’impalcatura dell’accoglienza, con il suo carico di fondi ministeriali e posti di lavoro, possa restare in piedi anche lì.
Solo la presenza dei richiedenti asilo giustifica il funzionamento della struttura di via Mattei. Fino all’estate scorsa si trattava sempre di persone diverse, per lo più appena sbarcate e poi smistate nel giro di poche settimane o una paio di mesi: ora che gli arrivi non ci sono più non è interesse della prefettura che i 400 migranti del centro vengano trasferiti, perché questo significherebbe lo svuotamento del centro. Il sistema di accoglienza bolognese perderebbe un tassello importante – il suo “fiore all’occhiello”, come l’ha definito un assessore – un luogo sotto il diretto controllo della polizia, attraversato da tutti gli “scarti” del sistema di gestione delle migrazioni, tra cui molti migranti deportati da altri paesi europei o dai confini nord dell’Italia.
Per quanto non si smetterà mai di ripetere che ogni tipologia di residenza forzata della cosiddetta accoglienza è una forma di oppressione, è necessario sottolineare che le persone che si trovano oggi in via Mattei sono costrette a sopportare a lungo delle condizioni di vita che finora persino le stesse istituzioni avevano giudicato tollerabili solo per un breve periodo. La conversione del “campo” da centro di detenzione a hub avvenuta nel 2014 (conservando gran parte della struttura architettonica del carcere, il concentramento di alcune centinaia di persone, la mensa scadente, l’igiene malsana e ovviamente l’isolamento geografico) era stata possibile prevedendo che le persone ci restassero per un paio di settimane o al massimo un paio di mesi. L’esposizione a queste condizioni di vita per un tempo molto più lungo appare come una condanna, segno ulteriore dell’irrigidimento in senso sempre più disumanizzante delle politiche sull’immigrazione.
Inoltre, il primo marzo cinquanta migranti hanno occupato la struttura di seconda accoglienza di Villa Aldini a Bologna per protestare contro i tempi lunghissimi di rinnovo dei permessi di soggiorno e contro le lunghe attese per la commissione, che li costringono a rimanere dipendenti dal sistema d’accoglienza per mesi o addirittura anni. Tra le richieste, anche l’eliminazione dell’assurda regola che prevede la decurtazione del pocket money giornaliero di due euro e cinquanta per i periodi di assenza dalla struttura. L’ufficio immigrazione della prefettura di Bologna ha infine accettato di incontrare i rivoltosi e ha promesso di prendere in carico le loro richieste, ma si tratta del solito inutile teatrino inscenato dalle istituzioni che promettono cambiamenti solo per sedare situazioni di conflittualità e tenerle sotto controllo. Non resteremo in silenzio a guardare gabbie che diventano sempre più opprimenti, qualunque sia il nome con cui le chiamano (hotspot, cpr, sprar, cara). (da hurriya.noblogs.org)
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Dietro il volto umano: l’ipocrisia e la violenza del sistema SPRAR
Il 20 febbraio si è tenuta a Roma la conferenza delle operatrici e degli operatori che lavorano nel settore dell’accoglienza-assistenza ai migranti: la Prima Conferenza nazionale di operatori e operatrici degli sprar, dal titolo “L’accoglienza che verrà: i volti, le voci, le storie”, che ha visto pare 1.500 persone ritrovarsi in una sala dell’Auditorium – Parco della Musica. La nostra opinione è chiara e decisa su chi in qualsiasi modo collabori direttamente o indirettamente col governo, che attua una politica nazista contro i migranti: chi collabora, nolente o volente, si rende complice. Non crediamo che tutti vogliano essere complici, non crediamo che tutti siano in mala fede, constatiamo, purtroppo, che di fatto tutti diventano complici, perché di fatto aiutano a mandare avanti un sistema concepito da un governo nazista.
I nemici del cie e delle frontiere di Roma hanno organizzato una giornata di protesta contro questa conferenza delle ipocrisie esponendo sul luogo della conferenza uno striscione dove si manifestava con veemenza l’opposizione alla politica del governo verso i migranti e fatto un volantinaggio sul posto mentre si svolgeva la conferenza. Per una serie di circostanze un nemico delle frontiere è riuscito ad entrare nella sala delle conferenze e al momento opportuno ha interrotto la cerimonia schifosamente autocelebrante. Non è stato fatto granché, ma sicuramente abbiamo guastato la festa a questa gentaglia ipocrita e speriamo che gli operatori, che hanno applaudito nel sentire dire finalmente la verità, siano conseguenti coi loro applausi e lottino insieme a noi contro il nazismo neoliberista. Segue il testo del volantino distribuito davanti l'Auditorium.
Nascosto sotto la retorica umanitaria della “buona accoglienza”, il sistema SPRAR (ovvero i centri di seconda accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo), è parte integrante della logica di differenziazione, utilizzata dallo stato per categorizzare, separare e isolare determinate persone o gruppi. Tale sistema, in questo caso specifico, mira a definire chi tra i migranti è considerato accettabile dalla legge e chi invece sarà costretto a ingrossare le fila degli indesiderabili. In altre parole, decide chi sarà meritevole di ricevere accoglienza, protezione, documenti, e chi viceversa diventerà di conseguenza irregolare, destinato alla reclusione nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) e alla deportazione.
Negli SPRAR si può restare da un minimo di 6 mesi fino a 2 anni, in attesa che le lungaggini burocratiche diano esito alle richieste d’asilo. In questo periodo le persone rimangono in tali strutture, gestite da operatori e operatrici di cooperative, associazioni ed enti che ne dettano totalmente i tempi e le modalità di vita, limitandone di fatto la libertà e l’autogestione.
Questo sistema restrittivo e infantilizzante, che mira al controllo totale delle vite, affonda le sue radici in una cultura paternalista e colonialista che considera e desidera le persone immigrate totalmente incapaci di autodeterminarsi e scegliere per se stesse, che si tratti della vita quotidiana, sociale o lavorativa, vedendole piuttosto come vuoti contenitori da riempire col nostro sapere bianco.
Riteniamo importante sottolineare come l’ipocrita sistema SPRAR, dietro i suoi bei discorsi sulla “buona accoglienza” e sull’integrazione, sia solo un altro anello della catena di controllo, gestione e sfruttamento delle persone. Basti pensare alla repressione che subisce chi prova a ribellarsi alle restrizioni imposte dai gestori (numerosi sono i casi di chi è stato espulso dal circuito dell’accoglienza, di chi è stato denunciato da operatori o gestori, perdendo il diritto a richiedere asilo e diventando in automatico un irregolare; numerose inoltre sono le proteste individuali o collettive portate avanti dentro e fuori questi centri). La cosiddetta buona accoglienza di tali strutture, che non abbiamo remore a definire simili a prigioni, è dovuta al fatto che molti di questi centri “ospitano” un numero contenuto di persone, e questo per evitare le grandi proteste incontrollabili che hanno caratterizzato la vita ristretta dei e delle immigrate obbligate nei centri accoglienza di più grandi dimensioni.
Non di minore importanza è il discorso riguardante l’integrazione tramite lavoro volontario gratuito. Si tratta cioè di svolgere lavori socialmente utili non retribuiti, con l’intento di risarcire il paese che ti accoglie e dimostrare volontà di integrarsi perfettamente nel tessuto sociale, cosa che potrebbe favorire il giudizio della commissione che esaminerà la richiesta d’asilo. Questa forma di schiavitù legalizzata, oltre a riprodurre dinamiche razziste e sessiste (con una netta divisione di genere tra i lavori destinati agli uomini e alle donne), arricchisce aziende ed enti privati e pubblici con cui si fanno accordi per fornire manodopera a costo zero e ricattabile dal mancato ottenimento di un pezzo di carta. Pezzo di carta che non è nemmeno assicurato dopo anni costretti, gestiti, controllati, repressi e sfruttati in queste strutture, perché, nonostante i tanti proclami sull’Italia che salva e accoglie migranti, i dati stessi ci confermano che il 60% delle richieste di protezione viene rigettato. Il richiedente asilo torna così di nuovo clandestino, ad affrontare nelle strade la violenza razzista e della polizia, senza la possibilità di trovare un lavoro regolare e con la probabilità di finire in un centro di espulsione.
Tutto il nostro odio e la nostra rabbia vanno ai complici di questo sistema. La nostra solidarietà a chi ogni giorno ci dimostra che il desiderio di libertà è più grande di ogni gabbia, umana o disumana che sia. Né controllo né detenzione: libertà per tutte e tutti! Alcune nemiche e nemici delle frontiere.
20 febbraio 2018, liberamente tratto da nelbuio.altervista.org e hurriya.noblogs.org
Lettera dal carcere di Ivrea
Ciao carissimi compagni, io vi chiedo davvero scusa ma non ho avuto testa ora vi racconto. Io mi sono fatto quasi 2 anni di carcere definitivo ho chiesto la comunità dopo aver fatto un buon percorso col SERT e con chi di dovere e mi hanno rigettato. Con una bimba di 3 anni. Chiedo di poter lavorare e qui dentro non lavoro neanche.
Purtroppo io ho 30 anni, ho fatto 5 anni di fila di carcere e dopo uscito mi sono fatto 3 anni di sorveglianza speciale e ora di nuovo 2 anni. Sono 10 anni sotto, non mollano più la presa e in più non ho avuto una riabilitazione. Io la voglio ho una bimba, non ce la faccio più. Questa la verità.
Poi volevo dirvi: io a 17 anni sono stato arrestato per una parola di un pazzo che dopo un anno è stato definito pazzo, ma io intanto mi sono pagato 7 mesi di arresti e più 4 mesi di firma. Il processo non è mai stato fatto, io voglio essere risarcito ma non ho soldi neanche dentro.
Ho una bimba e mia moglie fa 3 ore al giorno per mantenere mia figlia. Io mi vergogno, mi hanno rovinato loro. Lavoravo in una ditta edilizia, di reati non ne sapevo nulla. Mi hanno capovolto dentro e da lì mi sono rovinato.
Vorrei poter dare una piccola mano anche solo 50, 100 euro ma sono senza niente. Ma lotto sempre come un uomo. Se andate a scavare la mia vera storia con un avvocato capirete quanto sono stato sfortunato. Per colpa loro 3 anni a 18 anni per 90 gr. di hashish e lì era una scusa per chiudermi. Mi hanno tolto tutti i punti tutti i giorni.
Volevano rovinarmi, me lo avevano proprio detto: 'Espo ti roviniamo perché non ci piace che pensi che vieni da Napoli e fai il furbo.
Io ora vi giuro quanto amo mia figlia, non avevo mai dato fastidio. Ho fatto qualcosa di male!!! Ora capisco che vita mi è stata riservata. Vorrei lavorare, salutare mia figlia la sera stanco di lavoro. E non so se riuscirò mai.
Fine febbraio 2008
Giovanni Esposito, corso Vercelli 165 - 10015 Ivrea (Torino)
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presidio al carcere di ivrea
Sono passati due anni dai fatti eclatanti del 2016 avvenuti nel carcere di Ivrea, dove un detenuto è quasi morto a causa dei violenti pestaggi da parte dei secondini e altri tre sono rimasti gravemente feriti. Da allora ad oggi poco è cambiato, a Ivrea come in molte altre carceri la violenza ai danni di chi si rifiuta di abbassare la testa è all’ordine del giorno. A Ivrea, come in molte altre carceri, si continua a morire, c’è chi si suicida, c’è chi sceglie di morire lentamente rassegnandosi alla sottomissione per mano dell’autorità, c’è chi viene pestato a morte ma poco cambia: sono tutti morti, ammazzati per mano dello stato.
[…] Chi sta dietro le sbarre ha a sua disposizione delle armi come le proteste, le rivolte e gli scioperi della fame.
Mentre da fuori si può armare la propria solidarietà e tramutarla in azione diretta contro le strutture del dominio ed i suoi luridi servi.
A malincuore ci ritroviamo ancora a dover parlare delle inumane condizioni che i detenuti sono costretti a vivere all’interno delle carceri.
Oggi in particolare delle condizioni del carcere di Ivrea in cui la vita quotidiana viene fortemente influenzata dalle decisioni dell’O.S.A.P.P. (sindacato di polizia penitenziaria) spesso con la copertura della direttrice Assuntina Di Rienzo.
[…] Dopo i fatti del 2016 viene aperta un’indagine interna nei confronti di 7 guardie responsabili del pestaggio che termina con un nulla di fatto e il reinserimento dei 7 senza ulteriori sanzioni.
Solo nell’anno 2016 sono stati presentati 13 esposti e 5 i fascicoli aperti contro ignoti per lesioni che sono rimasti nel cassetto di qualche merdosissimo tutore della legge. In questo modo ci viene riconfermato l’atteggiamento omertoso e vigliacco del sindacato e della direzione, che negano i pestaggi avvenuti, nel mese di
ottobre, definendo l’intervento come esemplare e volto a riportare la calma per l’incolumità dei detenuti. Quando qualche giustizialista vuole avere i filmati della sicurezza, le merde si rifiutano di fornirgli il materiale video ripreso dalle loro telecamere sostenendo il mal funzionamento dell’impianto di videosorveglianza.
“Stranamente” la loro telecamera è funzionante solo per incriminare la violenza rivoluzionaria occultando la violenza dell’autorità alla quale la si contrappone. […]
Per deviare l’attenzione dal pestaggio dell’ottobre 2016 avvenuto in risposta alle proteste esasperate di alcuni detenuti, la direzione ha inscenato una farsa raccapricciante insieme al comune. Attraverso delle ridicole iniziative buoniste, come la partita di calcetto tra detenuti e guardie o l’ampliamento dei giardinetti interni, vogliono provare a dare un’immagine fittizia di Carcere “modello”, volta a preservarne l’apparenza e tentare contemporaneamente di delegittimare le ragioni che spingono i detenuti a rivoltarsi. Ma la realtà è composta da: condizioni igienico sanitarie scadenti, necessità di visite mediche ignorate, sopravvitto carissimo, cibo scadente, irregolarità nello svolgimento dei colloqui, posta censurata in entrata e in uscita (anche nei confronti di detenuti non sottoposti a regimi speciali), blocchi di pacchi e libri, decisi dalla guardia di turno senza criteri specifici e più generalmente un continuo clima di ostilità nei confronti dei detenuti creato dagli assistenti. In questi mesi
Per quanto proposto come soluzione ai mali della società, il carcere è da sempre lo strumento utilizzato dallo Stato per imprigionare tutte quelle persone scomode, non conformi alla logica dominante, o cresciute in contesti di povertà. Un rattoppo per arginare i problemi sociali prodotti dallo stato stesso e al contempo uno strumento per tutelare gli interessi dei potenti.
[…] Sosteniamo la neccesità di DISTRUGGERE tali strutture in quanto parti fondanti della società pacificata e luoghi dove l’autorità esprime la sua massima potenza.
Per tutti questi motivi sabato 24 marzo alle 15:30
ci troveremo sotto le mura del carcere di Ivrea per un presidio contro le galere al fine di Rompere il muro del silenzio. vogliamo dare voce alle proteste portate avanti dai prigionieri e dalle prigioniere ed esprimere la nostra rabbia contro lo stato ed i suoi servi.
FUOCO ALLE GALERE E ad OGNI LUOGO DI RECLUSIONE UMANO ED ANIMALE.
COMPLICI E SOLIDALI CON I X PRIGIONIERX ANARCHICX.
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Torino: manifestazione nei quartieri e sotto il carcere
A Porta Palazzo, Aurora e Barriera continuano ad arrivare soldi, quelli della Lavazza, dell'Intesa San Paolo (banca), dello IAAD (Istituto di Arte Applicata e Design) e di altri investitori privati. Sindaca e questura spianano loro la strada. Vogliono costruire un quartiere più bello e più vivibile a forza di sfratti, retate, espulsioni, maggiori controlli e botte della polizia. Chi non si piega viene spazzato via. Non sono pochi coloro che stanno provando a resistere.
L'Asilo adesso è minacciato di sgombero. Non ce ne stupiamo e non staremo a guardare. La trasformazione di questo quartiere ha un prezzo, lo sgombero dell'Asilo pure”. All'inizio di febbraio la foga degli “investitori privati” compie un ulteriore passo. In seguito allo scontro sostenuto l'ultimo dell'anno attorno alle Vallette, dove la polizia ha sparato lacrimogeni su chi portava solidarietà e ha tenuto testa agli sbirri, sei compas vengono presi di mira. In particolare viene arrestato Marcello, compagno di Saronno, oggi chiuso in quello stesso carcere, mentre ad altr* compas, vengono “notificati divieti di dimora”. Una di queste “notifiche”, all'Asilo nella casa di corso G. Cesare viene condotta in maniera penetrante.
All’Asilo gli agenti della Digos con una platea di decine di celerini hanno sfondato la porta e sono usciti solo quando uno dei compagni che cercavano si è consegnato; poco dopo, invece, in corso Giulio (casa popolare occupata soprattutto da famiglie immigrate oltre due anni fa), i caschi blu hanno spintonato con forza i solidali accorsi che stavano davanti all’ingresso e distribuito qualche manganellata prima di riuscire a entrare a cercare gli altri due. L’ennesima invasione militare nelle case di questo quartiere: appartamento per appartamento, famiglia per famiglia, piano per piano, per cercare due persone per una misura cautelare minore.
L'assalto dei Lavazza assieme al Comune, loro servo, affidato direttamente allo stato, viene affrontato con l'organizzazione di un corteo nei quartieri Barriera e Aurora e di un presidio al carcere.
Il corteo, che ha tenuto strada per due ore, pur non essendo molto numeroso (si era un'ottantina), è riuscito a rompere l'isolamento che l'attacco dello stato mira a conseguire, che non riguarda tanto questo o quel collettivo di compas ma l'intera classe sfruttata.
Da cui, fra tanti altri, l'urlo: “La rabbia dilaga per la busta paga/La casa si prende l'affitto non si paga”. Come l'odio verso fascisti, razzismo ben presente nelle urla: “Gli unici stranieri gli sbirri nei quartieri”, Fuori i fascisti dalle città”…
Il corteo è terminato davanti alle abitazioni di c.so G. Cesare per far sentire vicinanza-solidarietà a chi nei giorni precedenti era stato costretto a subire la violenza, il razzismo esercitato dalla polizia, dallo stato e un presidio alle Vallette come annunciato nello stesso manifesto: “Il giorno di Capodanno davanti al carcere delle Vallette un gruppo di amici e solidali dei detenuti si fronteggiava a colpi di sassi, bottiglie e fuochi d’artificio con la polizia, che lanciava lacrimogeni e caricava. Una guardia è rimasta ferita.
Per questo motivo sei compagni sono stati raggiunti da misure cautelari e uno di loro, Marcello, è stato rinchiuso nella prigione di Torino.”
Qui si era un bel centinaio accolto da grida, battiture dalle celle, che ha immediatamente risposto con le grida “Libertà”, “Cello siamo qui” (il nome di strada di Marcello),“Fuori tutt* dalle galere dentro nessuno solo macerie” con la battitura sulla cinta metallica che attornia il carcere, con “Secondino pezzo di...” con interventi più diversi, “Fuoco fuoco fuoco alle galere” fino a quando con l'arrivo del buio ha preso fuoco la scritta “LIBERTA” costruita con ferro ricoperto di stracci… accolta con le urla le più calde e diverse da chi era al di là delle cinte cementizie, elettriche, metalliche… in quel momento superate.
Liberamente tratto dal manifesto dell'Asilo 'Attenti allo sgombero' (gennaio 2018)
e da 'Macerie' (febbraio 2018)
Lettera dal carcere di trieste
Cara OLGa, vi ringrazio di avermi risposto e pubblicato il mio “articolo”. Oggi le cose qui al Coroneo vanno peggio e per non dire ieri e domani. Io con tutta la mia rabbia voglio denunciare questo sistema carcerario compresi i dottori, i medici del S.E.R.T. e la ditta che rifornisce i beni materiali ed alimentari il carcere.
Ho fatto la domandina per comperare in erboristeria l'Iperico (pianta da cui si estrae l'Ipericina, principio attivo del Prozac, e con essa si fanno tisane antidepressive che sostituiscono molto meglio la pastiglia in quanto non ha controindicazioni), fiori di Lavanda, Ticud, Valeriana ecc. ecc.. Avevo una buona scorta di Iperico ma al suo esaurirsi mi sono movimentato del perché non mi avessero ancora comprato il tutto.
Oggi ho ricevuto l'ultima tisana ed ho fatto i salti mortali perché mi arrivasse quanto chiesto, ma quell'infame del sig. Pasquale che comanda le spesa non ha fatto niente, il dottore mi ha detto arrangiati visto che non prendi i medicinali che ti diamo. Ho riferito più volte che la Fluocoxamina (tipo Prozac) che mi davano mi provocava più depressione e mi dava sensi di vertigine tanto che sono svenuto due volte.
Vi dico che l'erboristeria dista cica 100 metri dal carcere e non costerebbe niente procurarmi le mie piante erboristiche. Sono perito agrario e da solo ho studiato erboristeria quindi ne so di piante.
Qui nessuno muove un dito e domani so già che starò male. Vi ho scritto che ho tentato il suicidio l'altro anno, non che voglia ripetere questo, ma lotterò fino alla morte questi infami di persone se persone si potessero definire che gli animali sono 1.00000000000 di volte migliori di loro.
Poi vorrei farvi saper che ho ogni lunedì un colloquio protetto con mia figlia e l'educatrice sua ha tanti pregiudizi sui carcerati che se ne frega della mia situazione. Ho avuto una discussione con lei a fine colloquio in quanto mi ha detto che ho sbagliato a dire a mia figlia che si fanno delle rapine sciocche (4 rapine 250 euro più una bastonata) e poi che non posso dirgli che può chiedere al nonno se la porta a fare un giro con il pony. “Prima bisogna che sia chiesto alla madre.” Io allora ho detto se devo fare chiedere alla madre anche se può andare al supermercato o a mangiare un gelato o andare nell'orto di mio padre?!! Lei si è infuriata, si è alzata e se ne è andata via. Poi non vi dico che fa pure la falsa. Dice cose a me ed il contrario a sua madre di mio figlio o ai miei genitori. Un giorno perché i miei genitori lo hanno portato 5 minuti prima alla casa circondariale per il colloquio se le sono sentite di santa vergogna. Essa è della cooperativa “La Quercia”, è una maleducata. Scrive tutto quello che faccio e ci diciamo io ed il bambino. Risultato: sono coi nervi a mille, voglia di distruggere la cella se non mi avessero sedato con 60 gocce di Xanax. Spero pubblicate pure questo.
Vi ringrazio e mando un abbraccio forte a voi e a tutti i detenuti e detenute perchè c'è bisogno di tanto amore che di bastonate che riceviamo ogni giorno.
Un saluto a pugno chiuso. LA LIBERTA' E' SACRA COME IL PANE. Bisianiko.
20 febbraio 2018
Fabio Visintin, via del Coroneo, 26 - 34133 Trieste
Lettera dal carcere di Roma-Rebibbia
Cari compagni, mi scuso di questo mio silenzio, ma quando si combatte bisogna essere concentrati altrimenti si rischia di rimanere schiacciati da questo sistema. [...]
Comunque... sono ancora al reparto G8, diventato un girone dantesco, dove ci sono più di 240 persone recluse che vengono trattate come carne da macello.
Voglio portare all'attenzione due fatti molto incresciosi, uno che riguarda i soldi che i miei compagni detenuti inviano ai loro famigliari: dal mese di dicembre hanno cambiato il sistema, non si può più dare ai propri cari tramite colloquio il denaro, bisogna effettuare il vaglia postale, così ancora una volta allo stato devi dare 6 euro per la spedizione del vaglia. Ma il problema più serio, è quello che la guardia addetta a questo servizio, ogni volta che per la ragioneria passa a chiedere i soldi, si sente rispondere che non tutti hanno questi soldi in contanti. Così si sono ammucchiati tantissimi vaglia e i soldi sono sui conti dei detenuti… Questa la chiamano legalità.
Per ultimo, siamo sommersi dalla nostra stessa immondizia, perché il carcere non è riuscito a reperire le nuove buste e noi siamo qui nella sezione con i secchi carichi a morire e il lavorante ogni giorno cerca di elemosinare buste per non lasciare per terra tutti i vari avanzi… ed eravamo partiti tre anni fa con la differenziata… basta con questi soprusi, siamo sempre noi che paghiamo queste vostre nefandezze. Marco.
marzo 2018
Marco Costantini, via Bartolo Longo, 72 - 00156 Roma
lettera dal carcere di vercelli
Ciao ragazzi di Nuovi Orizzonti sono un detenuto di nome Pasquale Montesano, mi trovo nella Casa Circondariale di Vercelli. Volevo raccontarvi la situazione in questo istituto che è uno schifo per i seguenti motivi.
Mi trovo in una cella da 4 persone, un italiano 3 rumeni. Qui non funziona nulla: area educatori, il dentista che manca e ti fanno morire con il dolore dandoti pastiglie che poco ti fanno. Persone che rientrerebbero in benefici che non gli vengono dati dopo aver già fatto un terzo della pena. Qui non esiste l'art. 21 o semilibertà, qui la galera è dura ed in condizioni pessime. L'unica cosa che va bene è il mangiare.
Non auguro a nessun essere umano di non poter curarsi, non poter svolgere un'attività lavorativa, non poter fare nulla tutto il giorno, non avere nessun diritto ed essere un tacchino che mangia e basta, non ti fanno neanche un trasferimento chiesto.
Insomma, questa è l'Italia senza diritti né regole che ci sono solo a vantaggio loro.
Io sono contro il sistema carcerario, contro gli sfratti, contro il razzismo, contro il sistema corrotto che c'è. [...]
Vi ringrazio di cuore che voi ci siete e combattete il sistema, grazie. Pasquale.
fine febbraio 2018
Pasquale Montesano, viale del Rollone, 19 - 13100 Vercelli
note sulla “Riforma penitenziaria”
Ogni volta che si propone una “riforma dell’ordinamento penitenziario” il risultato è una legge mancata fin dalla sua approvazione. Stavolta però la storia è stata messa completamente da parte.
Dal varo della legge del 23 Giugno 2017 sulle “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario” non cambia più di tanto l’attuale condizione di chi entra e dovrà uscire dal carcere.
Una prima lettura generale mostra una spinta verso la differenziazione, attraverso la crescita del controllo, la ridefinizione dei reati e la partecipazione degli imputati al processo volta a contrattare la pena direttamente con lo stato.
Il D.A.P. negli ultimi mesi è stato definito dalla Corte Costituzionale e di Cassazione un organo autonomo amministrativo che fa il suo lavoro senza rallentamenti provenienti da giudici di sorveglianza, ricorsi dei carcerati, familiari, avvocati ecc.
Il D.A.P nei fatti si appoggia sul 41 bis per imporre misure diversamente punitive quali la censura, l’isolamento, la premialità, la differenziazione, l’aggravamento delle condizioni detentive in tutti gli altri “regimi” che troppo spesso si concludono con omicidi.
Conoscere al meglio quello che riguarda la legge del 23 Giugno è necessario per affrontare sia dentro che fuori lo scenario che si sta determinando.
In sostanza una parte della riforma considera il problema dell’impossibilità di costruire abbasta carceri per il numero di detenuti presenti in Italia e previsti in questi anni di repressione, (20.514 in attesa di giudizio su una popolazione totale di 57.994, dati di fine 2017) di conseguenza cerca di fare dell’economia sui reati e sui processi.
Vediamo quali sono le principali novità previste dalla legge.
In materia di Diritto penale sostanziale: “la riforma introduce una nuova causa estintiva dei reati, modifica il regime della prescrizione dei reati e inasprisce il trattamento sanzionatorio per i reati di furto, rapina e scambio elettorale politico-mafioso (ma anche sui reati di violenza privata e quelli contro il patrimonio)”.
In particolare la riforma introduce: “la decorrenza dei termini di prescrizione per alcuni reati a danno di minori (maltrattamenti in famiglia, tratta di persone, sfruttamento sessuale, violenza sessuale)”. Inoltre sospende la prescrizione “in caso di assoluzione dell'imputato in secondo grado, ovvero di annullamento della sentenza di condanna nella parte relativa all'accertamento della responsabilità o di dichiarazione di nullità della decisione”.
In questo ultimo stralcio si intravede uno degli obiettivi di questa riforma, ovvero la ricerca di “collaboratori”, già nella fase processuale, per avere sconti di pena e accesso ai benefici (la logica premiale ancora prima di entrare in carcere).
Deleghe al governo
Le deleghe al governo - che ancora oggi sono in attesa di diventare legge effettiva - probabilmente finiranno nel dimenticatoio. Ad oggi queste prevedono la modifica del codice penale riguardo ai seguenti istituti.
Regime di procedibilità̀ di alcuni reati (delitto di violenza privata (art. 610 c.p.) e reati contro il patrimonio; quando la persona offesa è incapace per età̀ o per infermità̀; quando ricorrono particolari circostanze aggravanti; nei reati contro il patrimonio, quando il danno arrecato alla persona sia di rilevante gravità).
Riforma delle misure di sicurezza personali.
Riforma del casellario giudiziale, ovvero “la semplificazione e la riduzione degli adempimenti amministrativi”, in altre parole non fanno a tempo a costruire nuove carceri e allora cercano di rallentare gli arresti.
In materia di diritto processuale (o meglio il diritto di partecipare al processo in videoconferenza) “la riforma interviene, fra gli altri, sulla disciplina della incapacità̀ dell'imputato a partecipare al processo, del domicilio eletto, delle indagini preliminari (in particolare in materia di intercettazioni), e dell'archiviazione”.
La riforma sancisce senza alcun dubbio l’impiego del processo di partecipazione al dibattimento a distanza, meglio noto come videoconferenza. Questa diviene regola: “quando la persona si trova in carcere per uno dei delitti di cui agli artt. 51, comma 3- bis, e 407, c.2, lett. a) n. 4) c.p.p. (la partecipazione a distanza si applica anche alle udienze civili); quando la persona è ammessa a misure di protezione.
La presenza fisica in udienza può comunque essere prevista dal giudice con decreto motivato (mai però per i detenuti soggetti alle misure di detenzione speciale di cui all'art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario).
Fuori dalle ipotesi obbligatorie, la partecipazione a distanza può essere disposta dal giudice, con decreto motivato, anche quando vi siano ragioni specifiche di sicurezza o quando il dibattimento sia particolarmente complesso o debba essere assunta la testimonianza di un recluso”.
Tra le righe va evidenziato il posto riservato al 41 bis nella definizione e l’esecuzione delle pene oggi.
La legge delega il Governo ad intervenire sulla materia della disciplina delle intercettazioni. Le principali novità che dovranno essere attuate con uno o più decreti legislativi riguardano le “operazioni captative”, ovvero più controllo, riservatezza, centralizzazione dell’organo competente (D.A.P. compreso) per intercettare in maniera più efficiente.
“E’ prevista l'introduzione di una nuova fattispecie di reato volta a punire la diffusione del contenuto di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni telefoniche captate fraudolentemente, con finalità̀ di recare danno alla reputazione; la punibilità è esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca” (Sembra che ogni tecnologia all’interno del carcere sia sempre più efficientemente regolata).
Un'altra delega per il governo è sulla “riforma del regime delle impugnazioni” e in ultimo la “delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario” che prevede:
- la “semplificazione delle procedure per le decisioni del magistrato e del tribunale di sorveglianza, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, fatta eccezione per le decisioni riguardanti la revoca delle misure alternative alla detenzione;
- la revisione di modalità e presupposti di accesso alle misure alternative e delle preclusioni all'accesso ai benefici penitenziari;
- previsione di attività di giustizia riparativa;
- aumento di opportunità di lavoro retribuito intramurario ed esterno e di attività di volontariato;
- interventi a tutela delle donne recluse e delle detenute madri.
Ancora una volta si inseriscono misure per ridurre il numero di detenuti nelle carceri per i reati meno gravi attraverso le modifiche al procedimento di archiviazione e la sua disciplina e viene ampliata la possibilità di “collaborare” in cambio del premio di ridurre la propria pena. Per questo secondo fine vengono preferiti “il Giudizio abbreviato, le sentenze di patteggiamento e la disciplina delle impugnazioni” (che è proprio una partecipazione alla contrattazione con la giustizia).
Inoltre si introduce una politica di commutazione della sanzione da penale a pecuniaria (limitata dai criteri di inammissibilità del ricorso in Cassazione). Questo passaggio prevedrà il coinvolgimento in alcuni casi del Giudice di Pace (in caso di condanna il Giudice di Pace non applica pene detentive ma pecuniarie, multe o ammende, obbligo di permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità).
In altre parole queste ultime modifiche mirano ad ottenere dei pappagalli disponibili ad un comportamento subordinato e sottomesso per non perdere dei punti nella classifica dei “bravi” detenuti che sposano le logiche premiali…
Questi aspetti sono proprio quelli che vanno a colpire la possibilità di reagire in maniera collettiva e individuale ed erodono la solidarietà. La corrispondenza dalle carceri comunica da tempo la difficoltà di tenere la “testa alta” sia per i soliti rapporti quotidiani con le guardie e sia per questo gioco che governo, D.A.P. e parlamento fanno con le leggi, le deleghe e le circolari.
Su queste ultime deleghe c’è stata una mobilitazione dentro e fuori dal carcere.
Le deleghe che abbiamo visto come tutti sappiamo sono state affidate al governo a dicembre, che a sua volta ha preso tempo in vista delle elezioni politiche del 4 marzo e ha preferito non trasformarle in legge per non perdere voti in campagna elettorale.
A questo proposito la comunicazione di questi avvenimenti deve essere riportata ai familiari, ai solidali e ai detenuti stessi per unire la lotta contro il carcere.
Ecco in rassegna alcune delle mobilitazioni, anche istituzionali, che si sono svolte dal varo della legge ad oggi.
Le mobilitazioni in tutta Italia
Sebbene ci sia stata una forte risposta di figure istituzionali che tuttavia si sono spesso rivelate “compassionevoli”, la vera portata della mobilitazione l’ha fatta ogni singolo detenuto che ha fatto sua la protesta riprendendosi la solidarietà che il carcere cerca sempre di isolare.
Nel carcere di Venezia, ad esempio, ci sono state le battiture da parte dei detenuti durante il presidio degli avvocati di metà marzo per la riforma penitenziaria. Nonostante il conflitto interno al carcere fosse recuperato come pacifico ed autorizzato i detenuti del Santa Marta chiedevano libertà, amnistia, migliori condizioni di vita all'interno del carcere.
Anche due anni fa circa ci fu una rivolta all'interno del carcere e la solidarietà portata da fuori del carcere fu repressa con fogli di via divieti di dimora ecc... all'interno ci furono i trasferimenti coatti e classici soprusi nei confronti di chi si ribella, a riprova che una forte lotta fatta dai carcerati non è tollerata e dà parecchio disturbo e fastidio.
Di seguito una breve rassegna liberamente tratta da alcuni giornali (Il Mattino, 29 novembre 2017, Il Dubbio, 28 febbraio 2018, Report Pistoia, 27 gennaio 2018, Il Dubbio, 21 febbraio 2018).
A livello nazionale ci sono state diverse mobilitazioni che hanno coinvolto figure istituzionali, ma soprattutto un vasto numero di detenuti, almeno 10.000, in tantissime carceri in tutta Italia, dall‘Ucciardone, a Caltagirone, a Poggioreale, a Rebibbia, a Le Vallette e fino al Coroneo di Trieste…).
L' “emergenza carceri” è tornata a essere allarmante, secondo il rapporto stilato dal Comitato prevenzione tortura del Consiglio d'Europa (47 suicidi nel solo anno in corso) e secondo i dati forniti dal DAP (7.450 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, di cui 1.142 in Campania).
I penalisti hanno deciso di mobilitarsi per la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’Unione delle Camere penali italiane ha preso atto che “il provvedimento adottato dal Consiglio dei Ministri ha rinviato la possibile entrata in vigore della riforma penitenziaria, facendo di fatto prevalere timori in tema di consenso elettorale rispetto alla concreta realizzazione delle condivise scelte valoriali”.
Per la Riforma del carcere i garanti dei detenuti hanno organizzato uno sciopero della fame. La mobilitazione dei Garanti dei Detenuti ha assunto la forma di un’adesione per 24 ore nel mese di marzo, un’iniziativa nonviolenta promossa dal Partito Radicale Nonviolento e da Rita Bernardini con uno sciopero della fame e uno sciopero del voto.
A Napoli la Camera Penale attua uno sciopero di cinque giorni. Gli avvocati si sono astenuti dalle udienze dall'11 al 15 dicembre e hanno poi promosso una marcia silenziosa dal Tribunale di Sorveglianza al carcere di Poggioreale.
Oltre 10.000 detenuti si sono astenuti dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per i giorni 13 e 14 marzo e hanno indetto una giornata di mobilitazione nazionale per sollecitare la fissazione del consiglio dei ministri e l’approvazione immediata della riforma.
Il responsabile dell’Unione Camere Penali italiane, Migliucci, ha detto che il consiglio dei ministri avrebbe dovuto approvare la riforma e le deleghe al governo, per poi rimandare le motivazioni nuovamente alle commissioni che, tempo 10 giorni, avrebbero dovuto rinviare il testo per il via libera definitivo del governo. Invece, quel giorno, il Consiglio dei ministri ha licenziato preliminarmente tre decreti attuativi che dovranno essere poi sottoposti alle due commissioni. Un iter lunghissimo che è destinato ad interrompersi con l’insediarsi del nuovo governo. L'adozione in tempi utili dei decreti attuativi della riforma Orlando sull'ordinamento penitenziario è quanto mai incerta.
***
Nella mattinata del 15 febbraio davanti al “DAP Provveditorato Lombardia” (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, organo che esercita il comando sulle carceri, da chi le dirige fino all'ultima guardia) una trentina di compas assieme a Mirella e Giovanna hanno dato vita a una manifestazione in memoria dei loro figli uccisi negli anni scorsi nelle carceri di S.Vittore e di Monza. Le madri, che portavano in petto un manifesto con la scritta “VERITA' e GIUSTIZIA ...” per i propri figli, Francesco figlio di Giovanna e Alessandro di Mirella, da anni, come oggi, lottano affinché nessun'altra madre, famiglia in futuro venga colpita da un'aggressione che gli organi, come DAP, tribunali si adoperano in ogni maniera per nasconderla, falsificarla fino a negarla.
Le madri hanno riaffermato la loro fermezza anche davanti a una squadra di sbirri, questo assieme a interventi di compas sulla situazione nelle carceri, nei quartieri, sui posti di lavoro, contro il sessismo, a urla
Anche per questo sulla facciata del DAP abbiamo fissato due striscioni con le scritte:
“IL CARCERE UCCIDE, LO STATO DIMENTICA, NOI NO!”, “DAP ASSASSINI”
Dopo un'ora il gruppo manifestante si è portato davanti alla porta d'ingresso dei familiari che si recavano ai colloqui in carcere (distante poche decine di metri dalla sede del DAP), per comunicare loro direttamente la forza della solidarietà arma insostituibile anche nella lotta contro il carcere, così da rafforzarla.
Milano, febbraio 2018
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Ciao OLGa, ho ricevuto il piego libri con l'opuscolo 130, catalogo e il resto! Con il solito piacere! Tra l'altro, ho apprezzato parecchio il libro “Pinelli”, veramente interessante!!
Qui si stringe i denti, l'acqua calda nelle docce alla fine l'hanno messa… già da un po'!
Quando si sono scaldati un po' gli animi s'hanno dato una mossa. Qualche mancato rientro dall'aria, qualche battitura!
Poi mi hanno raccontato una roba interessante riguardo a quella “rivolta” che c'è stata non troppo tempo fa al Don Bosco a Pisa. Non ho un contatto diretto con chi era là e l'ha raccontato. Pare che avessero portato in sezione un ragazzo giovane (19/20 anni), prima carcerazione. L'ha presa malissimo! Non riusciva a sopportarla e ha iniziato a manifestare istinti suicidi, ed era una cosa nota in sezione; ha parlato con psichiatra e psicologo (non so se pigliava psico-farmaci), ispettore e compagnia cantante! Insomma tutti erano al corrente della situazione.
Un giorno il ragazzo sclera e chiede di essere portato in isolamento! Naturalmente tutti hanno ribadito alle guardie che stava male e che voleva farsi la corda, dicendo che ci pensavano loro e che in isolamento si sarebbe ammazzato. Lo hanno portato in isolamento… con le lenzuola normali! L'hanno ammazzato!! Lo sapevano tutti e lo hanno messo comunque in isolamento! L'indomani, appena si è saputa la notizia, è scoppiata la rivolta!
Certo c'è poco da stupirsi o indignarsi. E chissà a quanti accade come a lui! [...]
Comunque, vi mando un (A cerchiata) bbraccio sperando di potervi incontrare presto! (Passo io!!!)
24 febbraio 2018
Salvatore Vespertino, c.c. Sollicciano, via Minervini 2/R - 50142 Firenze
Lettera dal carcere di Augusta (SC)
Saludi OLGa, continuando a battagliare per far sbloccare tutti i piego libri accumulati in questi mesi di 14bis, da qualche giorno ne è arrivato qualcuno, tra cui il vostro con dentro una cartolina e due giornali della “Nuova Sardegna” di dicembre.
Possibilmente in tempi brevi, fatemi sapere che cosa manca, se vi ricordate. Un altro piego libri annunciato con un telegramma (3 opuscoli e libri) tempo fa, ancora non è stato consegnato, quindi se manca qualcosa in questo che mi è arrivato, tenetemi informato che farò le mie dovute mosse.
Il Ministero (“nota del DAP”) ha voluto che mi lasciassero in isolamento, nonostante abbia terminato il 14bis, senza alcun titolo, e ha voluto la proroga della censura per altri 3 mesi, per i miei rapporti con persone e ambiente anarchici; ha avuto la meglio per mezzo di un magistrato complice o/e sottomesso al volere del DAP.
Il direttore del carcere invece, rifiutando di eseguire un ordine illegale, ha ottenuto dopo qualche giorno in più d'isolamento, che io ne uscissi da lì, collocandomi di nuovo in sezione con gli altri (sensazioni fastidiose a parte) e mi ritrovo più incattivito di prima, dopo quasi 10 mesi di vendetta di stato combattuti in ogni attimo. Dato che non vi è nessuna intenzione di trasferimento, continuo il mio percorso di lotta, per ritornare nella terra madre sarda.
Sempri ainnantis (A cerchiata) konka arta! Davide.
26 febbraio 2018 (porta il timbro sulla lettera e all'interno della busta della 'Direzione Casa Reclusione – Augusta 1° marzo 2018')
Davide Delogu, Contrada da Piano Ippolito, 1 - 96100 Augusta (Siracusa)
lettera dal carcere di carinola (cE)
Carissime/i compagne/i e solidali, eccomi a voi per informarvi delle ultime novità che riguardano il "Lager di Poggioreale" e soprattutto i crimini che quei signori hanno sempre occultato (Direzione) e ora grazie a due meravigliose Dott.sse Anna Frasca e Mariasofia Cozza, che sono magistrati ed erano venute a interrogarmi per delle denunce che ho subito e che accludo nella lettera alle mie sorelle e fratelli del collettivo di Olga, si potrà evincere che a Poggioreale scrivevano sempre calunnie e minacce, perché questa è l'arma che quei criminali vestiti da autorità hanno sempre adottato e questo è il loro metodo e sistema per esimersi dalle violenze.
Comunque, vengo al dunque e vi spiego ogni cosa, soprattutto che ho avuto 4 ore di interrogatorio (proprio così, 4 ore). Chi mi ha denunciato troverà la sorpresa di una lista con nomi e cognomi e date di poveri detenuti massacrati e, guarda caso, sono tutti quelli che (innocente) mi hanno denunciato… ma io non dormivo, perché ad ogni pestaggio facevo casino e potete immaginarvi quando sentivo le urla e le imprecazioni di aiuto come mi sentivo… avrei voluto un registratore… poi quello che fa più rabbia è che picchiavano solo i più deboli, con i camorristi facevano le pecore, erano forti con i deboli, capito! Dopo che mi hanno denunciato 6/7 volte un giorno alcuni detenuti mi avvisarono che li avevano chiamati per far firmare falsi verbali contro di me, molti rifiutarono ma uno firmò; l'interrogatorio riguardava anche questo episodio, ovvero di un ragazzo straniero, cui io ho fatto solo del bene regalandogli scarpe, vestiario e facendogli nominare il mio avvocato per aiutarlo perché non aveva un legale e con il gratuito patrocinio lo avrebbe difeso e avrebbe scritto per lui l'appello… invece a Poggioreale gli hanno fatto firmare un verbale contro di me, dove mi accusano di avergli fatto nominare il mio avvocato per servirmi di lui attraverso false dichiarazioni contro un agente, per salvarmi da una denuncia!!! E’ pazzesco, lo so, ma quel ragazzo non sa leggere, scrivere e parlare bene l'italiano e non sa neanche cosa ha firmato. Così ho consegnato una lista di nomi di ragazzi che sono stati picchiati e che avevo fatto inviare con il Prof. Fiorio al Garante Nazionale Dott. Palma; prima che succedesse questo, con il mio avvocato avevamo scritto in procura che stavano estorcendo delle false dichiarazioni contro di me, ma tutto questo adesso avrà delle ripercussioni per quei "codardi".
Ho trovato due magistrati molto motivate e sono contento, perché quello che sto subendo io non deve capitare ad altri. Se a Poggioreale tutto questo fosse successo tre anni fami avrebbero ammazzato. Se ricordate lo scrissi quando un agente vigliacco cercò di colpirmi con la cella chiusa, urlava che mi avrebbe ammazzato. Questo è solo un fallito nella vita, ma la colpa di tutto quello che è sempre accaduto a Poggioreale la do ai detenuti, perché se tutti loro si univano e i loro famigliari all'esterno protestavano, ci sarebbero stati meno (morti) meno (violenze) meno (pestaggi) e più processi non solo per la (cella zero) ma per l'isolamento e in ogni padiglione e la colpa è anche degli avvocati, che dovevano andare in procura a protestare e anche sotto il DAP perché le (iene) con la loro trasmissione hanno scoperchiato il vaso di pandora, con la morte di quel povero ragazzo che se ricordo bene si chiamava Raffaele Perna.
Compagne/i, sono felice che il 27 gennaio eravate fuori Poggioreale a protestare perché non bisogna abbassare l'attenzione su quell'inferno a me mi vietavano tutto, anche le calze al magazzino, poi cercavano di mettermi contro i detenuti per farmi aggredire e a maggio, dopo questo fatto, ho iniziato a raccogliere i nomi di chi picchiavano, era difficile perché ero isolato in una sezione dietro una parete divisoria, ma vedevo chi subiva pestaggi al passeggio e mi ero promesso che non avrei fatto occultare i loro abusi e crimini; mi avevano messo in una sezione dove c'erano malati psichiatrici, non si dormiva, ogni notte li picchiavano quei poveretti. Solo dopo un paio di mesi, quando scrissi al direttore che le guardie dovevano finirla di picchiare i detenuti perché stavo divulgando ogni cosa sui social network, allora in isolamento iniziarono a portare chi aveva sanzioni disciplinari e mi sono dimenticato di dire questo all'interrogatorio, ma ci sarà modo di farlo e potranno accertarlo.
Qui come sempre sono isolato, l'avvocato ha inviato al DAP 4 solleciti per il trasferimento, è venuto anche il Mag. di Sorveglianza e poi il garante e all'interrogatorio ho spiegato tutto e lo hanno scritto.
Ho saputo che presto verrete qui per un presidio di protesta e solidarietà, mi hanno detto che hanno chiesto al DAP che mi trasferiscano e per questo motivo ho scelto di lasciare proseliti e divulgazioni fuori da Carinola e attendere il trasferimento, sempre che questo non sia solo un pretesto per tenermi isolato… anche a Poggioreale fecero così… alla fine in questo si sa quello che succede (dipenderà solo dal DAP) e soprattutto dal mio limite di sopportazione, perché in questa situazione non durerà ancora molto… la mia è una calma apparente con tanta rabbia in corpo perché i responsabili sono quei vigliacchi di guardie di Poggioreale e il DAP deve risolverlo.
Un abbraccio a tutte/i e solidarietà ai compagni/e del Louis Michel contro la repressione, sempre al vostro fianco a testa alta. Maurizio (A cerchiata).
Carinola, 25 febbraio 2018
Maurizio Alfieri, via San Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)
Lettera dal carcere di Ancona
Carissimi compagni e compagne, ho ricevuto come al solito il vostro opuscolo, con la vostra lettera, vi ringrazio come sempre e mi appresto a rispondere alle vostre domande…
Chi ha sparato a Macerata sta nella 'zona-filtro', e quella storia dell'acclamazione è stata una notizia notevolmente ingigantita, come vi ho detto il soggetto in questione è stato portato al 'filtro' e da come so ci è rimasto per sua richiesta, quindi di che stiamo parlando…
La vicenda “dell'acclamazione” è dovuta ad un giorno in cui il soggetto si trovava dagli avvocati ed essendo presenti lì altri 5-6 detenuti, uno ha detto, questo è quello di Macerata e n'è scaturito un applauso, questo è stato il piccolo siparietto…
E' altrettanto vero che come potete immaginare il pensiero comune vuole che questa persona non venga condannata per ciò che ha fatto, anzi, questo gesto ha riscosso parecchio consenso, purtroppo questa è la realtà, anche se mi costa ammetterlo. L'ignoranza, il razzismo, portano a tutto ciò, lo sappiamo bene, sappiamo che i potenti poi strumentalizzano questi fatti di cronaca per rivendicare le loro campagne xenofobe e repressive.
Tutto ciò nutre in me un senso di rabbia e di sconforto come mi lascia un senso di vuoto e di tristezza tutta l'indifferenza che ho intorno, non solo per questo fatto, ma per ogni giorno che vedo accettare a testa bassa i detenuti tutte le infamie e accettazioni senza ribellarsi più a niente, sono sempre più amareggiato per questo…
Però questo non mi porta a smettere di lottare a modo mio, né di abbassare la testa quando qualcosa mi tocca, né di girarmi dall'altra parte quando vedo un abuso.
Ormai i carceri sono cambiati, come i detenuti, certi valori si sono persi e assai rari da trovare in questi corridoi, e se ci ritroviamo con questo sistema subdolo e oppressivo è perché nella maggioranza dei casi nessuno combatte più, non si seguono più certi comportamenti e gli infami e le spie sono libere di girare tranquille per i corridoi, questo per me è il primo punto.
Non so se sono stato esaudiente, se volete sapere qualcosa in più sono a vostra disposizione e attendo vostre notizie. Io vi assicuro che sto bene e non mi piego ancora dopo tre anni sono in attesa del primo grado e aspetto la sentenza di questi cani schifosi, almeno saprò quanto tempo dovrò aspettare prima di ritornare fra la gente che amo e a lottare per le strade…
E' certo che il carcere non ha attenuato i miei ideali e il mio disprezzo verso questo stato e le sue leggi, che nel frattempo è cresciuto ancora! A questo proposito, colgo l'occasione per domandarvi se quest'estate, dopo agosto, vi è arrivato in mio scritto dove vi raccontavo di una sera di protesta dove volevano aggiungerci altre brande e gliele abbiamo ributtate nel corridoio non rientrando nelle nostre celle fino alla mezzanotte, ve lo chiedo perché sugli opuscoli non ho mai visto l'articolo scritto e visto che la mia posta sovente viene “smarrita” avevo questo quesito. [No Davide, non ci è arrivato, ndr]
In tal caso vi posso riscrivere un po' tutto con piacere, almeno so se vi è arrivata o meno quella missiva. Non vi scrivo sempre, non c'è stato nulla di eclatante da raccontare eccetto la protesta di quest'estate, però leggo sempre con piacere e interesse i vostri opuscoli e sono vicino a tutti i compagni e le compagne reclusi/e che lottano e si ribellano e sono sempre complice e solidale alle loro azioni e alle loro idee.
A (cerchiata) presto, un abbraccio... Davide.
21 febbraio 2018
Davide Storlazzi, via Montecavallo 73/a - 60129 Montacuto (AN)
Si riparte da Macerata. Ma per andare dove?
Per ragioni di spazio, riportiamo di seguito solo una parte di un più corposo scritto dal titolo “Note sulla frammentazione dell’antifascismo istituzionale e la ricostruzione di un nuovo antifascismo da parte degli antifascisti di Macerata”. La parte scelta è quella che racconta i fatti accaduti accennando al contesto in cui questi si iscrivono, seguita da una breve rassegna di alcune tra le tante iniziative antifasciste accadute.
Invieremo la versione integrale del testo a chi a chi dovesse farcene richiesta.
Partiamo da un punto base. Gli eventi di Macerata nelle scorse due settimane non sono stati pura casualità né, tantomeno, imprevedibili atti di follia. Sono l’espressione della crescente, putrida marea da cui riemerge il neo-fascismo.
Questa marea ha origine nell’abbandono istituzionale, nella repressione sociale e nell’assistenzialismo de-umanizzante e produce un conflitto tra poveri. Incoraggiato dai media come dalle forze parlamentari, questo conflitto ci spinge a farci a pezzi tra di noi per qualche briciola. Il fetore della marea si sta espandendo in tutta Europa ma, abbiamo imparato nostro malgrado, trova le sue espressioni più pungenti nelle provincie insospettabili: in territori apparentemente pacificati, nelle chiese brulicanti, nell’associazionismo democristiano, in gruppi Facebook apparentemente innocui e campanilistici e nei bacini elettorali che si definiscono “di sinistra”.
Eppure, il 10 Febbraio ci suggerisce che è proprio da queste stesse province che dobbiamo ripartire perchè territori dove le relazioni umane sono più fitte, l’opinione pubblica più facilmente influenzabile, le assemblee popolari più visibili e le forze in campo, incluse quelle statali, meno strutturate. Qui l’antifascismo militante si fa anche semplicemente stando in strada, andando a lavoro o sedendo al bar e gli scazzi si gestiscono, volenti o nolenti, davanti a quello stesso bancone.
Questa considerazione, seppur radicata in un contesto di provincia, ha origine nelle riflessioni condivise con tutte quelle realtà urbane che negli anni hanno portato avanti la lotta con costanza e senza le quali il corteo del 10 febbraio non sarebbe stato possibile. Nelle scorse due settimane, a Macerata, ci siamo trovati a gestire una situazione che sembrava essere fuori dalla nostra portata — di Noi Antifa Maceratesi come di tutti i collettivi e le realtà territoriali con cui abbiamo collaborato — e l’unico modo per affrontarla è stato quello di assumere un atteggiamento di irremovibile umiltà. Irremovibile perché non abbiamo voluto cedere di un passo e abbiamo messo i nostri corpi in campo di fronte alle minacce di Minniti o ai tentativi di gruppi neo-fascisti di trovare spazi d’azione nel nostro territorio. E al contempo di umiltà perché siamo tornati a collaborare con realtà territoriali con cui, lo ammettiamo, non dialogavamo da anni, accettando che queste fossero in grado o disposte a percorrere strade che noi, per nostra indole, non ci sentiamo di intraprendere.
Come abbiamo detto dopo il 10 febbraio – e le piazze di Piacenza, Bologna, Venezia, Napoli, Torino, e Palermo hanno dimostrato, e molte altre continueranno a dimostrare – si riparte da Macerata! Ma ora l’euforia del corteo è passata e l’energia va trasformata in lavoro quotidiano. Le domande sono molteplici. Con la stessa irremovibile umiltà vogliamo provare ad offrire delle risposte a partire dalla nostra esperienza. La nostra speranza è che queste risposte possano risuonare in altri territori e stimolare azioni dirette, le cui declinazioni siano di volta in volta radicate nel sentire e nel metodo di ognuno.
Con chi ripartiamo?
Gli eventi di Macerata, con il preambolo del corteo antifascista a Genova e le successive mobilitazioni a Piacenza, Bologna, Venezia, e Napoli, hanno messo fine alla farsa dell’antifascismo istituzionale italiano, sia nelle sue forme organizzative verticiste e centralizzate (ANPI, ARCI, CGIL e LIBERA), che in quelle più propriamente rappresentative (partiti politici parlamentari e istituzioni locali). Il quadro si fa mano a mano sempre più chiaro.
Il ministro Minniti, a parole antifascista, non solo ha lasciato spazio alle organizzazioni neo-fasciste che hanno rivendicato la tentata strage di Macerata ma le ha protette dai cortei antifascisti con manganelli, cannoni d’acqua e lacrimogeni.
Le istituzioni locali, in un territorio con una forte storia di Resistenza come il nostro, hanno risposto creando un clima di paura e tensione nei confronti del corteo antifascista e non verso chi ha rivendicato l’attentato. Non pago, di fronte al presunto arrivo dei “vandali”, il Sindaco Romano Carancini ha chiuso le scuole, incoraggiato la cittadinanza a barricarsi in casa e invitato i commercianti a nascondersi dietro pannelli di compensato e persiane chiuse.
Da parte loro, i politicanti delle segreterie nazionali di Anpi, Arci, CGIL e Libera hanno messo in campo una goffa manovra politica finendo esclusivamente per spezzare le loro organizzazioni. In un primo momento, hanno cercato di appropriarsi della massa di gente che si sarebbe riversata su Macerata. Fallita questa mossa, si sono svincolati dall’organizzazione per lasciarci in pasto ad una potenziale mattanza. Infine, di fronte alla defezione di tante delle loro sezioni locali, hanno tentato di risalire sul carro dei vincitori a corteo compiuto.
Crediamo che la frammentazione dell’antifascismo istituzionale avvenuta a Macerata altro non sia che la logica conclusione di una contraddizione sempre esistita al loro interno e finalmente aperta: quella tra l’autonomia locale e le logiche da mercante in fiera con cui le loro sedi centrali si spartiscono favori politici, poltrone e finanziamenti. Questa contraddizione è stata forse più evidente negli scorsi decenni in seno ai sindacati confederati (CGIL,CISL e UIL). Seppure nelle realtà territoriali alcuni membri partecipassero attivamente alle lotte dei lavoratori, le segreterie hanno non solo permesso, ma attivamente partecipato allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla precarizzazione delle nostre vite, all’allungamento dell’età pensionabile e – proprio in questi giorni attraverso lo sfruttamento del margine interpretativo della L.146/90 – alla limitazione sistematica del diritto di sciopero.
Questa contraddizione non si ferma ai sindacati ma percorre tutto l’ecosistema dell’antifascismo istituzionale. È evidente nella codardia delle segreterie nazionali di Anpi e Arci di fronte alla mobilitazione antifascista del 10 febbraio che tuttavia ha trovato una risposta coraggiosa in alcune sezioni locali (ma non quella di Macerata) che hanno rifiutato, non senza logoramento, il diktat delle autorità centrali.
È evidente nel sistema dell’accoglienza, fatto di lavoratori, spesso in condizioni contrattuali precarie ma coinvolti in movimenti antirazzisti territoriali, che si scontrano con l’approccio assistenzialista portato avanti dalle proprie organizzazioni, fatto di appalti milionari e programmi che infantilizzano i migranti, alimentano il conflitto tra poveri e generano profitti attraverso la creazione di forme di dipendenza impedendo ogni possibilità di emancipazione e auto-determinazione. Ed è evidente persino nei più ampi spazi delle forze parlamentari cosiddette di “sinistra,” il PD in particolare, oramai tenuto a galla solo grazie alla deriva della logica del “votare il male minore” ma palesemente percorso da un totale scollamento dalla sua base elettorale.
La risultante frammentazione potrebbe sembrare un fattore di indebolimento per le nostre forze, eppure – come hanno dimostrato le larghe presenze in piazza nelle scorse tre settimane – pensiamo che questi eventi fossero necessari a dissolvere le ipocrisie e a chiarire chi sono gli antifascisti oggi.
In breve, crediamo che su questo fronte oggi esistano solo due aree politiche: chi risponde con forza alla responsabilità che la storia ci invita a prendere e chi, nascondendo la testa sotto la sabbia, quella stessa responsabilità la rifiuta. Ciò non significa che al nostro interno rinneghiamo le differenti tradizioni politiche, modalità organizzative e pratiche di piazza e di quartiere. Significa piuttosto che, come la Resistenza ci ha insegnato, di fronte a momenti storici come quello che stiamo vivendo ora si può lottare solo nella certezza che chi ti sta accanto proteggerà il tuo fianco. A Macerata abbiamo capito chi, pur con metodi diversi, quel fianco lo tiene e chi, invece, fregiandosi di rappresentare la memoria dei partigiani, si abbandona alle proprie tendenze autoritarie, si lascia imbrigliare dai propri vertici o sconfiggere della propria codardia e ignavia. I primi sono i nostri compagni di viaggio, i secondi fanno parte delle forze a noi nemiche. [...]
26 febbraio 2018, da contropiano.org
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L'arresto di Moustafa e “Brescia” (Giorgio)
Ieri sera Giorgio, conosciuto da tutti come “Brescia”, è stato prelevato dalle forze dell’ordine in Credenza (Bussoleno, Val di Susa), mentre lavorava come pizzaiolo. Portato via in camice e senza alcune spiegazioni, abbiamo appreso poco dopo dai giornali che è stato arrestato insieme a Moustafa, un giovane operaio della provincia di Pavia, per il corteo antifascista svoltosi sabato scorso (10 febbraio) a Piacenza contro l’apertura di una sede di Casa Pound (organizzazione neofascista candidata alle elezioni).
Giorgio lo conosciamo bene da anni, generoso nelle lotte sociali, a difendere la famiglie sotto sfratto e sempre presente nelle lotte contro il Tav qui in valle, che non a caso è diventata la sua casa. E’ un nostro compagno ed amico.
Come redazione di Notav.info esprimiamo totale solidarietà a Giorgio e Moustafa e ci aggiungiamo a tutti coloro che ne chiedono l’immediata liberazione!
Qui di seguito il racconto di Nicoletta presente al momento dell’arresto e il suo appello per la liberazione dei due giovani.
Sera. Sono circa le venti. Una serata come tante, tranquilla, un po’ sonnolenta, di quest’inverno che non vuole finire.Alla Credenza il forno è acceso e Giorgio al lavoro come sempre, a sfornare pizze e battute.
Ma all’improvviso tutto cambia: entrano otto individui, in borghese, due mascherati; c’è anche una donna. Senza qualificarsi né presentare mandati, prendono Giorgio e se lo portano via, così com’è, in maglietta e grembiule: tutto in pochi minuti, resta appena il tempo di allungargli una felpa.Intanto ad intasare via Fontan si sono materializzati mezzi e uomini armati; anche gli accessi alla via e al centro storico sono presidiati.Giorgio viene imbucato in un’auto e portato via. Terminata la battuta di caccia, i cacciatori scompaiono, in un lampo, e tutto torna uguale, la strada deserta.Qualche passante sorpreso entra a domandare che cosa è successo. Sul banco sono rimaste pizze da infornare, la pala abbandonata, una mestolata di conserva.Piu tardi compare un filmato diffuso dalla polizia di stato: ululi di sirene, una squadretta di uomini neri che spinge su per le scale di un edificio cittadino una figurina bianca, in maglietta e grembiule: Giorgio, il volto serio ma non impaurito, l’unica sembianza umana in mezzo ad una schiera di robot.
Per la Credenza e per chi lo conosce Giorgio è un figlio e un compagno generoso, colpevole di essere antifascista, antirazzista, NO TAV, solidale sempre, vile mai: questa per il potere è la vera, imperdonabile colpa.
Ora Giorgio è in carcere, insieme a Moustafa, un altro compagno arrestato a Piacenza. In tanti anni di lotta abbiamo sperimentato sulla nostra pelle e sui luoghi di vita e di lavoro la violenza del capitale e degli uomini che lo proteggono, con le armi e con la legge.
Contro i fascismi e i razzismi vecchi e nuovi non servono parole, ma fatti, prima che sia troppo tardi. La Costituzione nata dall’Antifascismo e dalla Resistenza vieta ‘la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma’ del partito fascista: siamo dalla parte degli antifascisti che a Piacenza hanno manifestato fedeltà concreta a questo principio.
Vogliamo Giorgio e Moustafa liberi subito. L’antifascismo non si arresta, si pratica e Giorgio Battagliola, Moustafa Elshennawii rivendica!.
16 febbraio 2018, da notav.info
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Comunicato stampa S.I. Cobas sull'arresto di Piacenza
Il S.I.Cobas è a fianco dei manifestanti antifascisti scesi in piazza a Piacenza sabato 10 febbraio. La nostra organizzazione ha convintamente preso parte al corteo nella consapevolezza che l’incedere delle organizzazioni fasciste minaccia prima di tutto le conquiste dei lavoratori.
Le marginalità dei gruppi neofascisti al crumirato organizzato padronale ha già dato i suoi frutti in occasione dell’aggressione avvenuta a Carpiano contro il picchetto degli operai SDA in novembre, che portò all’accoltellamento di un referente del Sindacato e al ferimento di svariati altri e a quanto sappiamo questure ed istituzioni varie nulla hanno fatto prima e dopo il Rai fatto da una squadra di picchiatori salernitani armati di coltello contro il picchetto degli scioperanti.
Anche Piacenza getta ombre inquietanti sul collateralismo dei neofascisti alle organizzazioni padronali, segnalandosi il dinamismo di figure legate alla UGL, nota per essere comparsa da poco nel settore facchinaggio-logistica permettendo alle parti datoriali di adottare contratti peggiorativi rispetto alle conquiste avute dal S.I.Cobas negli ultimi anni, come nel caso di GDN Stradella.
Il razzismo e le continue minacce o aggressioni a esponenti sindacali sono il termometro di un clima che deve essere al più presto mitigato dalla forza e dalla compattezza dei lavoratori, e che deve imporre nelle piazze la propria agibilità politica al di là dei divieti questurini e delle polemiche che l’opinione pubblica borghese può sollevare relativamente alle dinamiche di piazza che ricordiamo vede il più delle volte le forze dell'ordine manganellare i manifestanti con una ferocia anche quando c'è una resistenza passiva da parte loro.
Ci piacerebbe a riguardo vedere un decimo dell’indignazione scaturita sui media dopo il corteo in occasione dei quasi quotidiani pestaggi o sgomberi di picchetti operai da parte delle forze dell’ordine, sia a Piacenza che altrove. Di fronte alla reazione di qualche compagno alle manganellate dei tutori del "disordine" si inscena una gazzarra come se tutti coloro che hanno partecipato alla manifestazione fossero dei delinquenti paragonabili ai fascisti che in barba alle leggi dello stato democratico borghese aprono sedi e aggrediscono qualunque persona immigrata solo perché ha la pelle nera. Ricordiamo, inoltre, che il drappello di poliziotti coinvolto in questa scaramuccia appartengono alla divisione di Bologna, quella che, in barba alle leggi, ha usato le bombolette di gas urticanti per spruzzarle in faccia agli scioperanti presenti ai picchetti della Granarolo. Di fronte a quella che è stata una scaramuccia che è nata in seguito ad un pestaggio di alleggerimento della polizia è stata inscenata una rappresentazione dove, ancora una volta, i manifestanti venivano indicati dai media asserviti alle classi dominanti come dei delinquenti a volto coperto dediti ad azioni delinquenziali e non è un caso che sono scattate le denunce e ad oggi un arresto di un compagno facchino appartenente alla nostra organizzazione.
Ma per noi, lo ribadiamo, ogni antirazzismo e antifascismo parte e deve partire dai luoghi di lavoro. Con questo spirito, e ribadendo con forza che qualunque governo uscirà dalle urne del 4 marzo dovrà fare i conti con l’autorganizzazione dei lavoratori, saremo in piazza a PIACENZA per la liberazione del nostro compagno arrestato e a Roma il 24 febbraio per una giornata che unirà i temi che parlano dello sfruttamento dei lavoratori e contro i padroni e governi borghesi, a quelli connessi alla necessaria costruzione di un argine culturale ed un'opposizione politica ed organizzativa al razzismo dilagante: per il nostro Sindacato non esistono divisioni di razza, sesso o religione. Esiste solo chi sfrutta e chi è sfruttato.
Coordinamento provinciale di PIACENZA del SI Cobas
17 febbraio 2018, da sicobas.org
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Breve cronaca di una giornata di antifascismo militante bolognese
Quando il getto degli idranti colpisce il corteo che sta puntando piazza Galvani, dove si sta tenendo il comizio di Roberto Fiore, sono le 19.30. Circa sette ore dall'inizio di una giornata memorabile di antifascismo militante a Bologna.
E' infatti alle 12.30 che in centinaia di persone, espressione dei centri sociali, dei collettivi studenteschi e delle soggettività antifasciste cittadine. XM24, Crash, Tpo, Stevenson, Vag61, Palestra Popolare Stevenson, Social Log, Lazzaretto, CUA, Staffetta, Labas, CAS occupano tutte insieme la piazza destinata ai latrati xenofobi forzanovisti, soprendendo il dispositivio di sicurezza incaricato di proteggere uno dei peggiori stragisti della destra eversiva del dopoguerra.
Nei giorni precedenti il teatrino istituzionale ha espresso livelli bassissimi, con diversi esponenti istituzionali che si fingono disgustati della decisione della Questura di confermare il comizio in centro ma che poi nella pratica non muovono un dito, e una insistenza quasi maniacale da parte di media e apparati di sicurezza sulla "correttezza democratica" di fare parlare chi ha offerto di pagare le spese legali a potenziali stragisti come Traini.
E' inutile fare appelli a vuoto alle istituzioni, così come lo è cercare visibilità con azioni a spot buone per un video di Repubblica, minoritarie e insufficienti rispetto ai reali punti politici sui quali dare battaglia. L'unica risposta possibile alla provocazione fascista è quella di prendersi la piazza, negandola ai fascisti stessi. E cosi avviene.
Mentre negli interventi al megafono si ricorda chi è Fiore e cosa rappresenta Forza Nuova, legando la causa della resistenza antifascista a quella curda che combatte contro il fascismo islamista dell'Isis, arriva la notizia che un compagno del CUA, Lorenzo, sta venendo prelevato dalla polizia e tradotto in carcere per i fatti di Piacenza. Dal corteo immediatamente si levano voci per lui, per Giorgio, per Mustapha, arrestati il giorno prima. La giornata di piazza è legata indissolubilmente con quelle di Piacenza, di Macerata, di Cosenza. Il fascismo non ha diritto di parola.
Intanto la polizia si organizza. Le camionette arrivano in serie sganciando celerini, decisi a mettere in pratica la politica di "tolleranza zero" annunciata dal Questore a mezzo stampa. Quando il numero è ritenuto adeguato, la celere parte alla carica attaccando violentemente il presidio, che resiste per quanto può prima di attestarsi su via Farini. Piazza Galvani può essere consegnata a chi è diretto continuatore di esperienze politiche che a Bologna il 2 agosto di 38 anni fa fecero 85 morti e 200 feriti.
I manifestanti allora si ricompattano e decidono di muoversi per la città in corteo, fino a raggiungere piazza Maggiore. La polizia blinda tutti gli accessi a piazza Galvani con grate e idranti. Sono circa le 15. Il comizio di Fiore è previsto per le 19.30, manca molto tempo ancora. Così come manca molto tempo al concentramento ufficiale della piazza antifascista, previsto per le 18.30.
Il tam tam sui social richiama centinaia di persone sin da subito, è chiaro che la giornata non può finire con i fatti della mattinata. Il comizio non si deve fare, affermano all'unisono le persone che affollano la principale piazza cittadina. Sono per la maggior parte giovani, studenti universitari e precari, che non possono tollerare un affronto simile nella loro città.
A qualche centinaio di metri di distanza si svolge un "presidio antifascista" lanciato da PD, LeU, Arci, Libera ed altre associazioni legate alla "sinistra" istituzionale. In un clima quasi surreale, al megafono parte "Contessa". Poche decine di persone presenziano svogliate. L'antifascismo istituzionale e demokratico è stato sorpassato dalla realtà: non è possibile coniugare Piano Casa, JobsAct, BuonaScuola, decreti Minniti-Orlando con una retorica antifascista di maniera. L'antifascismo genuino sta dall'altra parte.
Il pomeriggio in piazza Maggiore continua con una comunicazione antifascista cittadina non-stop, fino ad arrivare alle 19.30. Mentre Fiore inizia il suo comizio-farsa, almeno 5.000 persone hanno raggiunto la piazza. Da lì, si muovono verso le Due Torri e da li in piazza Santo Stefano.
Si imbocca quindi via Farini decisi e determinati a raggiungere piazza Galvani. Giunti all'altezza di piazza Cavour, si imbatte nel nuovo blocco poliziesco. Il corteo avanza, la polizia risponde con manganellate mentre da dietro le grate vengono lanciati lacrimogeni e forti getti d'acqua dagli idranti. Alcuni compagni vengono fermati e poi rilasciati.
E' la prima volta dal 1977 che vengono usati idranti contro cortei, ma del resto la gestione della sicurezza della Questura bolognese negli ultimi anni ha prodotto irruzioni di celerini dentro sale studio, sfratti abitativi eseguiti con operazioni da teatro di guerra, sgomberi a ripetizione di esperienze sociali e politiche. C'è poco da stupirsi.
Come fortunatamente non c'è da stupirsi della determinazione con cui la piazza bolognese ha affrontato la giornata, importantissima per ribadire i legami indissolubili tra resistenza antifascista, lotta anticapitalista e conflitto sociale. Negli scorsi anni la città ha dato grande prova di resistenza alla barbarie razzista, contestando ripetutamente nelle piazze e nel lavoro sui territori il principale sdoganatore della peggiore barbarie fascista e xenofoba, ovvero Salvini e la sua nuova Lega di stampo lepenista. Ma anche combattendo contro le peggiori politiche del governo Renzi e la loro traduzione sul territorio da parte della giunta Merola.
Quella di ieri è stata una giornata che si lega alle barricate di ponte Stalingrado e piazza Verdi contro la barbarie leghista, ma che dà anche continuità a quanto successo la settimana scorsa in tutta Italia, contribuendo ad affermare un decisivo metodo di contrapposizione alle peggiori pulsioni razziste fasciste e xenofobe nel paese.
Una piazza preziosa, che nel concludersi davanti al Sacrario dei Partigiani di piazza Nettuno dà appuntamento alle piazze antifasciste a venire, così come alla mobilitazione sui territori contro preferenza nazionale, suprematismo e guerra tra poveri.
17 febbraio 2018, da infoaut.org
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dalla Palermo antifascista e combattiva
Nel pomeriggio di sabato 24 febbraio, almeno cinquemila gli antifascisti e le antifasciste palermitane sono scese/e in piazza per rivendicare la giustezza delle pratiche di antifascismo militante affermate nello striscione d'apertura “oggi come ieri antifascismo militante”, unito alla volontà di riavere in città Carlo e Gianmarco. L'esempio, la cura e la presenza nei territori, la capacità di essere radicati e riconosciuti per un lavoro concreto di trasformazione del presente ha permesso di riempire oggi le strade di Palermo sgonfiando la bolla neofascista cresciuta con la compiacenza dei media e delle forze istituzionali e mostrando come la dimensione antifascista sia viva, intransigente e non strumentalizzabile da chi pensava di addomesticarla per i propri fini elettoralistici. Il previsto comizio di Forza Nuova a Palermo, alla presenza di Roberto Fiore, si è tenuto lontano dal centro, in un albergo in periferia e a porte chiuse.
Per quanto riguarda gli arresti precedenti, il GIP ha valutato le prove, portate dal Pubblico Ministero e dalla questura di Palermo, insufficienti per trattenere in carcere i due giovani antifascisti. Insufficienti le prove documentali che non ricondurrebbero Carlo e Gianmarco al video circolato in rete, insufficienti le motivazioni evidentemente piegate alla crociata politica tesa a garantire agibilità politica e tutela legale ai fascisti. L’accusa nei confronti dei compagni è stata derubricata ad “aggressione con lesioni” e saranno scarcerati con il divieto di dimora nella provincia di Palermo.
Segue il testo che è stato inviato e diffuso ai media in merito a quanto accaduto.
A pochi giorni dall'arrivo in città di Roberto Fiore, atteso in città per un comizio in conclusione della campagna elettorale, Massimo Ursino, uomo di spicco e dirigente nazionale del partito Forza Nuova, è stato colpito in modo esemplare mentre passeggiava per le vie del centro. E' stato bloccato, immobilizzato e legato con del nastro adesivo, poi lasciato a terra senza possibilita' di fuggire.
Chi afferma che esista una 'minaccia fascista', a Palermo come in tutta la Sicilia dovrà ricredersi: questi uomini di poco conto appartenenti a formazioni neofasciste, che fanno di razzismo e discriminazioni il loro manifesto politico nonchè la costruzione della loro identità forte e battagliera, si sgretolano in men che non si dica sotto i colpi ben assestati dell'antifascismo. Infatti non sono in grado di difendere sè stessi, figuriamoci di attuare il loro programma politico. I fatti avvenuti oggi sono la dimostrazione del fatto che sul territorio palermitano esiste chi ripudia il fascismo e non ha timore di lottare per bloccarlo e schiacciarlo, a partire da questi protagonisti del forzanovismo, guerrieri a parole, violenti nelle immagini che evocano forse, ma incapaci di proteggere la propria incolumità e di conquistare qualsiasi forma di potere politico. Palermo è antifascista, nelle pratiche e nella quotidianità di chi la vive. A Palermo non c'è spazio per il fascismo.
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Foggia: antirazzismo e antisessismo ovunque
Dopo le sparatorie di Macerata e Firenze, c'è ancora chi discute se l'Italia sia o meno un paese razzista. Peccato che il razzismo faccia parte della storia italiana fin dalla nascita dello Stato nazione, come una linea nera che attraversa la questione meridionale, le conquiste e i massacri coloniali, l'antisemitismo e la discriminazione contro i e le rom. E a partire dagli anni 80 colpisce senza sosta le persone migranti (dall'Africa ma anche dall'Asia e dall'Europa dell'est) con omicidi, violenze di ogni sorta, rappresaglie. Perdipiù, come anche i fatti di Macerata hanno dimostrato, il razzismo è sempre anche una questione di sessismo. Non solo le donne migranti, in quanto donne, subiscono una doppia violenza. L'odio razzista si fonda su una concezione delle donne come vittime passive, da proteggere e controllare in quanto emblemi e matrici della nazione o della razza, da un lato - o, se straniere o ribelli, come oggetti di brutalità e consumo usa e getta, dall'altra.
La lotta dei lavoratori e delle lavoratrici migranti delle campagne, in Puglia come in Calabria e altrove, non diversamente dalle storie dei e delle migranti più in generale, racconta però un altro aspetto del razzismo. Quello degli spari e delle percosse non è che la punta dell'iceberg di un fenomeno ben più profondo e strutturale: le politiche migratorie e quelle sull'asilo che negano, limitano e tolgono in qualsiasi momento l'accesso alla casa, al lavoro, ai documenti e ai servizi; la discriminazione e la destinazione ai lavori più precari, pericolosi e malpagati, i ghetti e i campi di lavoro, i centri di espulsione e di accoglienza. Tutto questo è razzismo, anche se legale e democratico.
Non si tratta quindi di episodi sporadici né delle "gesta di un folle": è qualcosa che succede quotidianamente e dappertutto, nell'infantilizzazione e criminalizzazione delle persone richiedenti asilo, negli sfratti e nelle espulsioni, così come nello sfruttamento estremo che sta alla base della filiera agro-industriale. E non è neppure un problema di semplice ignoranza da risolvere con l'educazione alla diversità e le cene inter-etniche: è una faccenda di potere e di profitto, che riguarda tutte e tutti.
I fatti delle ultime settimane, dagli attacchi fascisti e razzisti alla repressione brutale dello stato e alle dichiarazioni di chi ha raccolto voti fomentando l'odio e la violenza, dimostrano quanto sia urgente una riflessione molto più ampia sulle origini e le pratiche del razzismo e del sessismo in Italia, dalle istituzioni alle strade, contro cui ci si deve organizzare in maniera compatta. E soprattutto dimostrano come razzismo e sessismo siano uno strumento indispensabile sia per mantenere saldo il controllo dello stato sui cittadini, attraverso misure di sicurezza sempre più serrate e repressione, sia per salvaguardare gli interessi del capitale, che sullo sfruttamento dei lavoratori basa il suo profitto.
Lottare contro tutto ciò non è facile. Come Rete Campagne in lotta, crediamo che sia indispensabile partire dalle lotte reali delle persone che subiscono il razzismo, sostenere le loro pratiche di autorganizzazione e metterle in comunicazione le une con le altre. Soprattutto oggi, quando "l'antirazzismo democratico" della sinistra istituzionale e associativa mostra tutta la sua ambiguità e inutilità, o peggio ancora cerca di bloccare le rivolte perché cominciano a mettere a rischio i loro privilegi, come abbiamo visto a Firenze e come vediamo da anni nelle campagne del sud con la finta "lotta al caporalato" e la vittimizzazione dei lavoratori in funzione di pratiche assistenzialiste e neo-colonialiste messe in atto da sindacati e associazioni.
Una linea, speriamo, si sta forse tracciando: da una parte questi individui che si svegliano una volta all'anno quando ci scappa il morto e chiedono pieni di indignazione non di abbattere ma di riformare e perfezionare l'accoglienza "degna", le prigioni per migranti, o al massimo di sistemare un po' la legge sulla cittadinanza o quella sul caporalato; dall'altra parte ci sta chi crede che combattere contro il razzismo significa combattere contro le frontiere e lo sfruttamento, per le case e i documenti per tutte e tutti.
I lavoratori e le lavoratrici delle campagne lottano tutti i giorni per sopravvivere e per inceppare questi meccanismi di discriminazione, malgrado le condizioni terrificanti in cui sono costretti-e a vivere. Continuano ad organizzarsi e a ribellarsi nonostante abitino in container, tende, baracche o in centri sotto stretta sorveglianza, spesso senza acqua corrente né elettricità, senza documenti e subendo gli abusi costanti della polizia, lavorando fino allo stremo per un pugno di euro. Contano anche loro le vittime della violenza razzista, di cui però nessuno parla. Sare Mamoudou, ammazzato per il furto di un melone a Foggia il 22 settembre 2015; Sekine Traoré, ucciso per mano di un carabiniere l'8 giugno 2016 alla tendopoli di San Ferdinando; Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, morti il 3 marzo 2017 nell'incendio del Ghetto di Rignano sotto sgombero; Becky Moses, anche lei morta in un incendio, a San Ferdinando, il 20 gennaio 2018. La lista è tragicamente lunga, perché si muore tutti i giorni sulle strade, sul lavoro, nei ghetti - e anche queste morti sono frutto del razzismo, quello istituzionale.
Questi lavoratori e lavoratrici hanno organizzato per lunedì 19 marzo una manifestazione a Foggia, per rivendicare ancora una volta: documenti, un lavoro regolare e una casa. E scenderanno in piazza anche con l'intenzione di raccontare la loro verità e produrre una narrazione diversa da quella che i media danno degli immigrati in Italia. Nè criminali nè vittime, i lavoratori e lavoratrici delle campagne sono compagni e compagne che lottano anche per noi e che dobbiamo sostenere.
Contro questo razzismo strutturale che divide e che uccide, oggi più che mai, utilizziamo l'arma della solidarietà, sosteniamo i percorsi di autorganizzazione, schieriamoci dalla parte delle rivolte che nascono ogni giorno.
IL 19 MARZO DAI GHETTI SCENDIAMO DI NUOVO IN PIAZZA!
Foggia - Piazzale della Stazione, ore 10:00
marzo 2018, da facebook/comitatolavoratoridellecampagne
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Su due serate in Trentino contro il fascioleghismo
Venerdì 9 febbraio a Trento e domenica 11 febbraio a Rovereto ci sono stati due cortei non autorizzati, il primo contro la commemorazione delle “vittime delle foibe” organizzata da Casapound e il secondo contro il comizio elettorale di Salvini. Crediamo valga la pena di raccontarli un po' nel dettaglio.
Il corteo di Trento è stato pubblicizzato con qualche giorno di anticipo, non appena si è saputa la data della presenza di Casapound. La settimana prima si è tenuto in città un incontro pubblico contro la falsificazione storica operata dal Giorno del Ricordo (selettivo), mentre si è deciso di incentrare la manifestazione del 9 febbraio sull'oggi, sui campi di concentramenti in Libia, sul ruolo del governo Gentiloni-Minniti e dell'Eni, nonché sul diffondersi dei gruppi fascisti e del rancore razzista. Prima i fatti di Macerata con le relative prese di posizioni politiche, e poi la notizia dell'arrivo di Salvini a Rovereto, ci hanno spinto a lanciare, il venerdì stesso, un appuntamento in piazza anche per la domenica, e a pensare i due cortei come conseguenti.
A Trento, davanti a Sociologia, ci troviamo in un centinaio. Le recenti aggressioni neofasciste e soprattutto la sparatoria del fascioleghista Traini rendono gli animi carichi di rabbia e di volontà di vendetta (“L'antifascismo non è una sfilata, Macerata va vendicata” è uno degli slogan). Il corteo autodifeso raggiunge la piazza poco distante dal punto in cui si radunano una ventina di militanti di Fratelli d'Italia e in seguito una cinquantina di Casapound. La zona è blindata dalla Celere e dai carabinieri in antisommossa. Gli interventi e gli slogan dei compagni proseguono fino a quando la commemorazione finisce e i fascisti se ne vanno. È piuttosto chiaro che tale contestazione lascerebbe a tutte e tutti un sentimento di frustrazione, per il fossato tra gli slogan di battaglia e la realtà immediata. Si riparte in corteo, mentre i reparti antisommossa rimangono in piazza a presidiare il nulla. Nel percorso viene bersagliata con uova di vernice la sede di Fratelli d'Italia. Poi il corteo passa, in pieno centro, accanto ad un negozio (il Funky), il cui titolare (Nicola Paolini) è un nazi che aveva accoltellato qualche anno prima un ragazzo antifascista ad Arco. Qualcuno pratica a mazzate un foro nella vetrina antisfondamento e qualcun altro vi inserisce il tubo di un estintore che viene poi azionato, provocando ingenti danni al negozio di abbigliamento, l'indomani chiuso e svuotato. Scritte sui muri spiegano il perché dell'azione, che viene assunta dal corteo (e anche nei giorni dopo, quando escono pubblicamente le responsabilità di Paolini). Urge dare una risposta ai fascisti, a chi li legittima e protegge, al sistema di cui sono i servitori. In varie altre città gli inviti alla calma non vengono raccolti. Con questo spirito, nonostante il preavviso risicato, si lancia l'appuntamento a Rovereto: Macerata va vendicata. Che questo spirito non sia solo quello dei compagni in senso stretto, lo si comprende, lo si sente. E infatti anche domenica sera, senza manifesti né grandi proclami, ma con intenti chiaramente affermati, ci troviamo di nuovo in un centinaio, con una composizione che riflette abbastanza bene la rete di solidarietà che le lotte hanno costruito negli anni.
In piazza si arriva alle 20,00 già con scudi, caschi e bastoni. Uno dei due striscioni dice: “Traini soldato di Salvini. La bomba sociale siete voi, basta buonismo lo diciamo noi”. La Questura probabilmente non si aspetta una contestazione di un certo tipo, infatti la Celere è presente in forze più ridotte rispetto al venerdì (una quarantina di agenti invece del centinaio abbondante di due giorni prima). Rimedia schierando un blindato di traverso e un altro verso i manifestanti. Siamo in corso Rosmini, sul viale principale di Rovereto. Si comincia con un elegante gesto atletico: un compagno strappa di corsa una bandiera a un gruppetto di leghisti e torna con passo molleggiato nel corteo; a strappare l'infame drappo ci pensa una signora magrebina di passaggio. Un gruppetto di contestatori si sposta verso l'ingresso secondario della sala, il cui portone viene chiuso dalla polizia, perché non riuscirebbe a garantire l'accesso ai leghisti. Quando, poco dopo le 21,00, si capisce che dal lato opposto del viale rispetto a dove c'è il corteo sta arrivando Salvini, partiamo provando a sfondare il cordone della Celere. La carica parte violenta, aiutata dal blindato che avanza a lato dei poliziotti e rende ancora più problematica la già difficile tenuta degli scudi-striscioni. Persi questi ultimi, i cordoni dei compagni non riescono più a reggere, quindi retrocedono. La carica della Celere viene fermata prima dal getto di un estintore e poi, creatasi la giusta distanza, dal lancio di bottiglie, sassi e un paio di bombe carta. Il corteo retrocede compatto e si assesta qualche decina di metri dopo, mentre qualcuno manda in frantumi i finestrini di due auto dei carabinieri e della polizia in borghese. Qualcuno comincia a disselciare il porfido; la Celere indossa le maschere antigas. Compaiono due grandi scritte: “Macerata terrorismo fascista. Vendetta” e “Salvini mandante di Traini”. Dopo un'altra mezz'ora di interventi (la compagna al megafono è un vero e proprio martello!), il corteo riparte e, vergate un po' di scritte sui muri, si scioglie in un'altra parte della città. Qualcuno vorrebbe continuare, mentre per altri “va bene così: si è fatto quello che si è detto”. Il corteo si conclude.
Mentre il patetico questore di Trento, in un'intervista a tutta pagina su “L'Adige”, invita “l'opinione pubblica” a isolare gli anarchici, attaccando espressamente la gente che ha lottato con noi in questi anni, facciamo alcune considerazioni.
La nostra capacità di reggere il corpo a corpo con la Celere è quella che è, ma domenica bisognava provarci con tutto il cuore. In tanti ci hanno detto che dietro le prime file non si sono mai sentiti in pericolo, e li ringraziamo per essere scesi in strada nonostante la paura (che non era la loro soltanto, perché gli eroi sono roba da film) e di essere rimasti fino alla fine. A chi pontifica da lontano dicendo che “non sono questi i metodi”, rispondiamo: “Trovatele voi le forme di protesta che vi soddisfano, ma fatelo; perché quando il razzismo apre il fuoco, ogni silenzio, ogni rinvio a una non meglio precisata “cultura” (che poi molto spesso è pura e semplice ignavia) è complicità”. Altri, che in strada c'erano, hanno fatto notare che sarebbe stata una buona tattica quella di aspettare con un piccolo gruppo l'arrivo di Salvini anche oltre il cordone della Celere, di modo che un altro punto di contestazione facesse dividere la polizia. Con più tempo a disposizione e un altro po' di gente, avremmo potuto farlo. Magari alla prossima occasione...
Le posizioni razziste stanno dilagando nel sociale e i gruppi neofascisti ovviamente ne approfittano. La sinistra (anche “di movimento”) ha cercato in tutti i modi di disarmare le risposte di piazza alle aggressioni squadriste e alla tentata strage di Macerata. In vari, invece e per fortuna, hanno fatto l'esatto contrario: soffiare sulla rabbia.
Più si aspetta e più l'antifascismo democratico (di fatto complice con il razzismo di Stato targato PD) guadagnerà terreno. E poi... solo i morti viventi fanno calcoli quando la “linea di condotta” dovrebbe dettarla la rabbia.
Quando si vuole battersi, i mezzi si trovano. Se il fascioleghismo non si può sconfiggere solo nelle piazze (dove è ben protetto), ricominciare a disselciare la pacificazione sociale è comunque fondamentale anche per tutto il resto. Più lo si fa, più si impara a farlo.
compagne e compagni dal Trentino
14 febbraio 2018, da roundrobin.info
Lettera dal carcere di Regina Coeli
[...] Vi tengo al corrente che dal 19-12-2017 per un processo per rapina ho avuto molti interrogatori da parte del magistrato. Per questo motivo mi trovo qui. Come sapete io mi trovavo nel carcere di Velletri, ma ora sono qui di transito per il processo che comincerà il 16-05-2018 e vi terrò al corrente degli sviluppi del processo. [...]
Da quando sono trasferito non sto passando un buon periodo. Ma con la rabbia che ho in corpo vado avanti a testa alta. Questo è un carcere di passaggio, e quando ci stai più di tanto diventa invivibile e insopportabile, per non parlare della popolazione carceraria. Vedo solo gente inutile e che un discorso serio non lo puoi fare. Vedo gente piangere tutto il giorno per pochi mesi da farsi. E per chi come me che se ne è fatta tanta di galera al solo sentirli diventano pesanti.
C'è un compagno di stanza che dorme sulla terza branda, che non è consentita, circa due settimane fa è caduto dal terzo letto e si è rotto un braccio. Gli ho fatto fare le fotocopie dell'infermeria dove c'è il certificato e dove hanno scritto la relazione che si è fatto male e il certificato di pronto soccorso dell'ospedale dove l'hanno ingessato il braccio. Ne avrà per 30 giorni.
Comunque gli ho consigliato con questi certificati e insieme all'avvocato, di fare una denuncia, primo perché la terza branda non ci deve stare ed è fuori legge, e per secondo perché venga risarcito in soldi. Già l'ho fatto precedentemente in un'altra occasione. Di questa persona che vi sto parlando, già è stato chiamato all'Ufficio Comando per la procedura. Ma questi servi dello stato lo istigavano, dicendogli che non era vero che era caduto dal letto, ma che aveva dato un cazzotto dal nervoso al muro. Cosa che è falsa, anche perché ci sono n° 4 testimoni.
Per ora vi mando un caloroso saluto a tutti, e la mia sincera solidarietà per tutti i prigionieri di queste patrie galere. Contro il sistema-contro lo stato- contro gli ordini. “Un buon carcere è un carcere che brucia”. Anarchico Romano Ribelle Ombra. Grazie a presto.
25 febbraio 2018
Claudio Perrone, via della Lungara, 29 - 001165 Roma
Lettera dall' “obbligo di soggiorno”
Ciao a tutti/e cari compagni di Olga. Esultate insieme a me, perché finalmente é stata riconosciuta la mia innocenza; dopo 5 anni e 6 mesi di detenzione ingiusta il P.G. Della Corte di Appello di Catania (dopo l'annullamento con rinvio della Cassazione) ha chiesto la mia assoluzione che la Corte ha accolto, perciò tutto é finito.
Intanto mi devo scusare con tutti/e voi per la mia lunga assenza e contestualmente vi devo ringraziare per il supporto morale che mi avete dato in questi lunghi anni.
Ho sempre saputo e capito l'importanza della vostra associazione, ma ora, da libero mi rendo ancora più consapevole e convinto che grazie a voi tutti/e, che con il vostro impegno e costanza, aiutate i disperati, gli indifesi ed impotenti di fronte alle ingiustizie, ad opera di altra gente che con la sete di giustizialismo a tutti i costi, di carrierismo, non riescono a distinguere il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto; ma il male peggiore é, che a pagarne le spese (con la galera infame) sono i più deboli, impotenti di fronte a tanto potere incontrollato ed autonomo, calpestando i diritti umani, sacrosanti ed imprescindibili, con la soppressione e l'arroganza che li contraddistingue.
Sappiate che uscendo dal carcere, mi sono subito ritrovato con 3 anni di sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno, che ovviamente ho impugnato, e già mi hanno fissato l'udienza al 21 febbraio, quindi come potete ben capire, la persecuzione non è finita, certo in confronto a quello che ho vissuto, questa è una bazzecola, ma mi domando e dico: “Perché, questo accanimento? Non è bastato quello che mi hanno costretto a subire in tutti questi anni?”
La perseveranza di questa gentaglia che si definisce il tutore della legge è veramente impressionante oltre che devastante per la dignità umana, in particolare in uno stato di “diritto”, anche se in realtà viviamo in uno stato di doveri e di obblighi.
Intanto, - visto che sono ristretto con l'obbligo di soggiorno nel mio paesino, composto da 4.500 anime, dove più o meno ci conosciamo tutti, ed è difficile sviare la sorveglianza dei carabinieri e dei loro confidenti -, che sono tanti -, mi sto occupando di farmi risarcire, sia per l'ingiusta detenzione che per il sovraffollamento carcerario, a proposito di questo ultimo, dovete sapere che, per quanto riguarda il calcolo della superficie utile delle celle, non vengono calcolati come ingombro, gli arredamenti mobili (tavoli e sgabelli), pensate un po'! Ciò significa che quando non serve il tavolo, e si vuole più spazio, si toglie e si mette sul letto, questa è la loro concezione, ma in ogni caso, con tutto ciò, nella maggior parte dei casi, il problema spazio minimo rimane, perciò invito tutti detenuti d'Italia a farne richiesta, sia per lo sconto di pena che per il rimedio risarcitorio in denaro, in ogni caso, quando avrò ottenuto il rimedio risarcitorio sarà mia cura e premura, mandarvene una copia dell'ordinanza poiché costituirà un precedente giurisprudenziale, a cui il singolo detenuto potrà fare riferimento, senza contare quella di Torreggiani, Sulemajnovich, ecc.
A questo punto, se per voi va bene, sarei ben lieto di continuar a ricevere il vostro opuscolo per poter dare il mio contributo testimoniale sulle problematiche carcerarie e giudiziarie. Un forte saluto a tutti/e voi, a fuoco tutte le galere e i fantocci che le sostengono. Sinceramente Calogero.
20 gennaio 2018
Calogero Lo Monaco
lettera dal carcere di Cuneo
Ciao, scrivo dal carcere di Cuneo. Vi dico subito che non so il motivo per cui mi hanno trasferito qui, in un carcere speciale, non sto per niente bene. Non riesco a contattare l'avvocato, voglio dirgli che faccia di tutto perché mi tolga da questo posto. Non vedo perché uno ad 81 anni debba stare sempre chiuso e ristretto così. Vi dico che sto trovando molto lungo. Fate sapere come si sta qui a Cuneo, a tutte le testate giornalistiche, tramite internet. Non è possibile che una persona anziana sia chiusa qui dentro, anzi vi dirò di più, qui è pieno di anziani, non so come fare, si sta malissimo, non ti curano e come dicevo si sta in cella dal mattino alla sera.
Questa non è la mia calligrafia, sta scrivendo per me un amico che si chiama Sergio. Lui è qui con me e vede come sto... Non riesco a pensare, non riesco a ragionare, sto male. Concludo dicendo che ho bisogno del vostro sostegno. Quando potete venite a trovarci e fatevi sentire! Qui non ci ascoltano!
Un grande abbraccio da Ennio Tepepa e dalla popolazione qui detenuta.
Cuneo, 6 marzo 2018
Ennio Sinigaglia, via Roncata, 75 - 12100 Cuneo
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Ennio Sinigaglia, detto "Tepepa", da dicembre 2017 si trova di nuovo in carcere. Ennio è stato uno tra i più noti rapinatori del torinese, e ha già passato quasi 40 anni della sua vita in prigione. Ricapitoliamo le sue ultime intricate vicende giudiziarie che a oggi lo hanno portato al carcere di Cuneo a 81 anni.
Nel settembre del 2016, Ennio viene arrestato insieme ad altre persone, con l'accusa di essere uno dei componenti di una banda che nei mesi precedenti avrebbe compiuto una serie di rapine a uffici postali, gioiellerie, ville e ristoranti. Per lui, il Procuratore Ferrando dispone la custodia in carcere a causa "della caratura del personaggio", ma qualche tempo dopo il giudice commuta la misura in arresti domiciliari.
Il 4 ottobre 2016 Ennio esce di casa per andare a ritirare la pensione alle poste, ma viene arrestato dai carabinieri, che lo portano in carcere per per evasione. Viene condannato a 9 mesi di reclusione e posto ancora una volta agli arresti domiciliari. Passa poco più di un mese, e l'8 novembre Ennio viene nuovamente arrestato - sempre per evasione - mentre prende il caffé nel cortile interno del bar del palazzo in cui vive. Il giorno dopo viene trasferito al carcere delle Vallette.
Si arriva così al 2017, quando il 24 gennaio, dopo aver patteggiato una pena a 1 anno e 10 mesi di reclusione, Ennio viene scarcerato, con obbligo di dimora e firma quotidiana. La Procura fa però ricorso in Cassazione e ad aprile Tepepa deve tornare in carcere.
Novembre 2017 Ennio torna agli arresti domiciliari ma per l'ennesima volta il 2 dicembre viene nuovamente portato alle Vallette. Questa volta per un errore, ma intanto a 81 anni è rinchiuso in carcere e da pochi giorni è stato trasferito a Cuneo dove sta subendo un regime più ristretto.
RACCOGLIAMO SUBITO L'APPELLO DI ENNIO!
DOMENICA 25 MARZO, ALLE 18.30 DAVANTI AL CARCERE DI CUNEO
16 Marzo 2018, da infoaut.org
Lettera dal carcere di Lucca
Sono stato arrestato il 2 febbraio 2018 e associato al carcere di Lucca, dove al momento mi trovo in stato di isolamento. Il 3 febbraio il pubblico ministero ha convalidato l'arresto in custodia cautelare in carcere – i reati ipotizzati (art. 56 codice penale) con la circostanza aggravante di aver commesso un fatto esponendo a pericolo la pubblica incolumità, con ulteriore circostanza aggravante della recidiva reiterata e specifica infra-quinquennale.
E' stata lanciata una molotov contro il garage di esponenti dell'estrema destra 'Casapound'. Il signor Salvini con la sua campagna che ha fatto contro i campi Rom e contro il flusso emigratorio è andato a creare una campagna anti-immigrati, creando così in parte d'Italia e soprattutto in Toscana un forte dilagamento di esponenti dell'estrema destra naziskin, Forza Nuova e Casapound.
Basta vedere quello che è successo a Macerata che un individuo dopo aver sparato faceva il saluto fascista. Quindi non dite perché ho compiuto un tale atto, perché l'unica spiegazione plausibile che se l'ho fatto, l'ho fatto perché andava fatto punto.
Ci sarebbe da chiedersi se quanto sta avvenendo se una certa responsabilità non sia associata anche al nostro silenzio nell'aver permesso a tutte queste merde di alzare la testa che se ognuno di noi avessimo fatto un passo più lungo oggi tutto questo dilagamento di fasci non ci sarebbe.
Io ci ho messo il volto e non me ne pento di ciò che ho fatto. Ma vorrei dire questo, che a volte sarebbe opportuno che ognuno di noi facessimo la nostra senza fingere di non vedere e di non sentire, ma di vedere e sentire per cose meno plausibili.
Non sono qui per criticare dei compagni-e in generale, perché rimango più che convinto che quando volete fra di voi nasce complicità e affinità. Ma se così fosse allora mi domando perché questa complicità e affinità non debba essere fatta per certi evenienti di cose. Io credo che a volte bisogna trovare il coraggio di portare avanti le stesse mie conclusioni – io sono fatto per azioni dirette, evitando di fare meno chiacchiere e più fatti. L'atto compiuto è stato fatto con responsabilità e con determinazione. Bè chi vuole capisce.
E l'attentato al distributore di benzina 'Eni' multinazionale chiedo venga diffuso.
Non ricorrerò né al patteggiamento né al rito abbreviato, ma rito normale.
Vi abbraccio caramente Mauro.
(spedita verso meta febbraio)
Mauro Rossetti Busa, via S. Giorgio, 108 - 55100 Lucca
In una lettera successiva Mauro ci dice di aver ricevuto lettera e libri a lui inviati e di far parte delle attività comuni anche se l'aggravante di finalità di terrorismo non è caduta. Il pm nella convalida dell'arresto gli contestava l'aggravante di finalità di terrorismo (280 bis), mentre nella convalida pare che il Gip non l’abbia chiesta. Si vedrà.
27 febbraio 2018
Mauro Rossetti Busa, via S. Giorgio, 11 (c.c.) - 55100 Lucca