indice n.130

Gentiloni chiude la legislatura con l’elmetto
Alla canna del gas. A proposito del gasdotto Snam
contro i campi di internamento e di sfruttamento per migranti
G20-AMBURGO: LA REPRESSIONE CONTINUA… LA LOTTA ANCHE!
lettera dal carcere di Augusta (sc)
Lettera dal carcere di Uta (ca)
Lettera dal carcere di Ferrara
lettere da le vallette di torino
Lettere dal carcere di Trieste
usa: Giorni di Rabbia contro Trump e Capitalismo!
Lettera dal carcere di Massama (or)
lettera dal carcere di colonia (germania)
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
SABATO 27 GENNAIO: PRESIDIO al CARCERE di POGGIOREALE
lettera dal carcere di napoli-poggioreale
lettere dal carcere di carinola (ce)
SUI FATTI DI NAPOLI
lettera dal carcere di Agrigento
Lettera dal carcere di Saluzzo (cn)
Lettera di Mauro da Lucca
LA SICUREZZA DELLA DONNA NON È LA mILITARIZZAZIONE
dicembre di fuoco in argentina
sulla lotta in Bartolini a Rovereto

Gentiloni chiude la legislatura con l’elmetto
“Noi andiamo in Niger come aveva preannunciato la ministra Pinotti in ottobre in seguito a una richiesta del governo nigerino pervenuta a dicembre […] la realtà è che noi abbiamo un interesse italiano evidente di organizzare la capacità nigerina di controllo del territorio”, con queste parole Gentiloni, dopo aver difeso il modello Minniti di “gestione delle politiche migratorie”, giovedì 28 dicembre, a legislazione ormai finita e pochi minuti prima di salire al Quirinale, liquida i giornalisti che gli chiedono conto della prossima missione militare. Del resto non poteva che chiudersi con un rinnovato impegno bellico, da lasciare ai posteri, il Governo Gentiloni, che certamente sul fronte della guerra imperialista ha dimostrato grande attenzione. Infatti, a poche ore dallo scioglimento delle Camere, dopo l’approvazione di metà dicembre della Legge di Bilancio 2018, il Governo doveva presentare alle Commissioni parlamentari la deliberazione sulla Legge Quadro per le Missioni Internazionali (Legge Garofani) per il 2018, che contiene anche il nuovo impegno italiano in Niger. Secondo le varie dichiarazioni di Gentiloni e Pinotti l’operazione militare euro-africana nel Sahel, che verrà varata entro la prossima primavera, vedrà quindi la presenza di forze militari italiane schierate in Niger con, da un lato, il compito di addestrare le Forze Armate e di Polizia nigerine e, dall’altro, quello di cooperare con esse nel controllo di un’area strategica al confine con la Libia.
La missione dovrebbe coinvolgere, come dichiarato dal Ministro delle Difesa Pinotti, 470 militari e oltre 100 veicoli e si dispiegherà sul terreno in 3 fasi: all’inizio 30 unità, poi 120 ed entro la fine del 2018 le restanti. La missione “Deserto Rosso”, così si dovrebbe chiamare, si coordinerà con quella francese Barkhane già attiva nello Sahel dal 2014 e con le forze americane presenti nella regione.
Sotto la bandiera del contrasto dei flussi migratori e del terrorismo, propagandata dal governo Pd in piena campagna elettorale, in vista dell’appuntamento del 4 marzo, si concretizza la prima applicazione pratica del Libro Bianco sulla Difesa, il cui decreto attuativo è stato varato a febbraio di quest’anno, che ridefinisce il modello operativo delle Forze Armate italiane alla luce dell’avanzare della guerra imperialista. L’approvazione di tale Disegno di Legge toglie dall’imbarazzo quanti ancora si affannavano a nascondere il carattere predatorio delle missioni di pace fin qui approvate dai vari governi. Infatti, la missione in Niger rientra in quelle giustificate, a rigore di legge, per l’impegno “a tutela dell’interesse nazionale” in un’area, quello del Mediterraneo “allargato”, che è considerata vitale per gli imperialisti italiani e viene identificata dal Libro Bianco stesso come area d’intervento prioritario. Per il Pd questa nuova promessa di guerra, in clima elettorale, è un ulteriore biglietto da visita da inviare alla borghesia italiana per candidarsi come fidato difensore dei suoi interessi, che sempre più massicciamente mirano ad allargarsi e penetrare sempre più a fondo il continente africano, in competizione con le mira degli altri paesi imperialisti, in primis la Francia. Sotto questo aspetto le contraddizioni non sono poche.
Tecnicamente, infatti, si tratta di una missione sotto mandato ONU, richiesta dal Governo del Niger, che vedrà coinvolti anche Stati Unti, Francia, Germania e i 5 Paesi del G5-Sahel (Mali, Mauritania, Ciad, Burkina Faso e ovviamente Niger). Alcuni di quest’ultimi, insieme alla Libia, erano presenti anche al vertice di Parigi del 29 agosto, in cui veniva sancito di fatto lo spostamento delle frontiere dell’Europa nel Nord e Centro Africa e la terziarizzazione in quei paesi della gestione della manodopera in eccedenza da rinchiudere in serbatoi-lager pronta all’uso. A quel vertice ne è seguito un altro il 13 dicembre, sempre a Parigi, alla presenza di Germania, Italia, il G5-Sahel, ma anche esponenti dell’Ue, della Nato, dell’Unione Africana, il premier belga e i delegati di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Usa. A conclusione dell’incontro tra i peggiori guerrafondai che l’Africa ricordi è stato pianificato l’invio di militari, sostenuto economicamente da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti rispettivamente con 100 milioni e 30 milioni di dollari, 50 milioni dall’Ue e con 60 milioni dagli Usa. Ecco spiegata la genesi internazionale della missione Deserto Rosso. Certamente dal contesto emergono evidenti due aspetti: da un lato la volontà imperialista condivisa delle borghesie europee di entrare sempre più addentro al continente africano e di difendere militarmente le proprie posizioni; dall’altro un protagonismo europeo su tale fronte che si sviluppa parallelamente all’accelerazione che negli ultimi mesi ha caratterizzato il progetto, tanto amato dalla Mogherini, della Cooperazione Strutturata Permanente sulla Difesa (Pesco). La tanto osannata “difesa europea”, che nelle cuore di Macron dovrebbe concretizzarsi addirittura in un esercito unitario, per ora è agli albori, essendo solo stata firmata l’adesione al progetto a metà novembre da parte di 23 paesi, ma sul piano dello sviluppo e della convergenza industriale la Commissione Ue ha già iniziato a muoversi quest’estate con l’istituzione di un Fondo Europeo per la Difesa che verrà usato per ricerca, sviluppo e acquisizione degli armamenti. Il Fondo avrà una dotazione complessiva di 500 milioni di euro per il 2019 e il 2020, ma punta a toccare quota un miliardo l’anno dal 2021. Senza dubbio questa spinta delle borghesie europee a una maggiore indipendenza dagli Usa rispetto ai piani di guerra futura va letta nel quadro della perdita di egemonia da parte degli imperialisti statunitensi sul fronte mediorientale, rimarcata anche dall’ultima votazione Onu su Gerusalemme. Questo non significa che il polo Nato non cammini comunque coeso in termini generali e lo si vede anche nella prossima missione in Niger, ma senza dubbio con l’avanzare della crisi si sviluppa anche la contraddizione interimperialista e non solo tra i poli imperialisti dichiaratamente rivali ma anche tra gli alleati stessi. Il caso della missione in Niger è esemplare in tal senso: da un lato sono tutti d’accordo sulla “necessità” dell’intervento e pianificano l’invio di militari per potenziare la presenza di quelli già in loco; dall’altro la missione racchiude in sé una lunga serie di contraddizioni tra gli stessi paesi che vi aderiscono, da quella tra l’Ue e gli Usa a quelle tra le varie borghesie europee, che proprio sul fronte africano sono in competizione come Roma e Parigi. Quindi l’operazione nel Sahel è sicuramente un banco di prova per le capacità della tanto sbandierata “difesa europea”, che dovrà dare prova di reggere a fronte dell’intricato nodo di interessi ed egemonie che quell’area rappresenta. Macron gioca in casa, sia perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi, sia perché dall’intervento in Mali nel 2012 la Francia ha sempre mantenuto una consistente presenza militare nella regione. Pertanto, come già ventilato anche negli accordi estivi di Parigi, l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà presumibilmente guidata dai francesi. Parigi ringrazia perché con l’invio dei contingenti europei Macron potrà, pur mantenendo il controllo, ridurre la presenza francese nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli), sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense. Washington, però, non ha limitato il suo intervento nell’area a questo, già da tempo infatti ha inviato nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. Proprio rispetto a questo si evidenzia la contraddizione in seno agli alleati Nato perché la Casa Bianca non integrerà queste forze nella missione euro-africano, riservandosi come sempre il ruolo di battitore libero a garanzia dei propri interessi globali. Anche l’Onu è già presente nel Sahel con 10.000 soldati e 2.000 poliziotti inquadrati nella missione Minusma in Mali. In questo conteso non mancano certo gli appetiti della Merkel a cui fanno gola le risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi. Berlino, già presente militarmente in Mali, ha quindi donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger e potrebbe decidere di assegnare alla nuova missione europea il contingente presente in Mali sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe, considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey, che ne “ospita” anche una americana e una francese. A completare il quadro non può passare inosservata la presenza al vertice di metà dicembre di Riad e Abu Dhabi pronti a sostenere gli alleati occidentali nella penetrazione in Sahel in chiave anti qatariota.
In questo contesto l’interesse italiano ha oltrepassato i confini libici già da un paio di anni e gli ammiccamenti con il Niger, storico satellite francese, hanno portato all’apertura della prima ambasciata italiana nel 2016, a settembre all’accordo di collaborazione militare e oggi all’invio dei militari. Così Gentiloni, in nome degli interessi degli imperialisti nostrani, va posizionando le sue pedine in una partita, quella per la ripartizione dell’Africa, che è in cima all’agenda di tutti i paesi imperialisti.

30 dicembre 2017, da tazebao.org

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VICENZA: GUERRA A CHI INSEGNA LA GUERRA
Dal 2005 la caserma dei carabinieri “Chinotto”, a Vicenza, ospita il Centro di eccellenza delle unità di polizia di stabilità (Coespu). Una scuola che forgia le polizie più feroci al mondo. La guardia costiera libica, responsabile del massacro di migranti in atto nel Mediterraneo, è stata formata anche qui.
Vorrebbero farci credere che il Coespu sia un luogo dove apprendere tecniche di peace-keeping/peace-building per portare ordine laddove regna l'instabilità. E' dai peggiori scenari di guerra che i maestri del Coespu traggono ispirazione per “insegnare la pace”: dall'Afghanistan all'Iraq, dalla Somalia fino ai Balcani.
Vorrebbero farci credere che al Coespu si addestrano le polizie per contrastare la tratta dei migranti. Il traffico di esseri umani è sempre più un pretesto per difendere gli interessi economici di multinazionali che fanno profitti sulla pelle dei popoli. E' la scusante per giustificare missioni militari come il prossimo intervento in Niger, dietro al quale si cela il controllo francese dell'Uranio.
Dal 22 al 26 gennaio il Coespu sarà sede di un corso Osce sul tema della sicurezza lungo le rotte migratorie. A questa esercitazione parteciperanno polizie internazionali che sotto la bandiera “dell'emergenza umanitaria” si riuniranno per studiare pratiche di repressione necessarie a mantenere inalterati gli equilibri tra sfruttati e sfruttatori.
Rompiamo il silenzio, smascheriamo l'ipocrisia.
Presidio: sabato 27 gennaio, ore 15, via G. Medici (Vicenza)

gennaio 2018, Antimilitaristi

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resoconto della manifestazione a ghedi (bs)
Il 20 gennaio a Ghedi (BS) si è tenuta una giornata di mobilitazione con al centro la protesta per la presenza della base militare aerea su quel territorio. Una manifestazione a cui hanno partecipato circa seicento persone provenienti da ogni parte d’Italia, con striscioni, bandiere e musica con canzoni antimilitariste. La giornata a Ghedi si è divisa in due tempi con tre obiettivi. La prima parte si è svolta con un corteo che si è snodato lungo le vie della cittadina per giungere fin davanti alla unità produttiva della RWM, una fabbrica che produce bombe, di proprietà della Rhein Metall, una multinazionale tedesca.
Il corteo voleva protestare contro la RWM le cui bombe vengono sganciate sulle inermi popolazioni dello Yemen (in un solo anno di guerra 9136 morti di cui 2.221 bambini, 16.669 feriti di cui 1980 bambini, 330.582 abitazioni distrutte, 2,4 milioni di sfollati) ma anche contro il complesso militar-industriale italiano che negli ultimi anni ha avuto un incremento dell’esportazione con una fortissima accelerazione con i governi a guida PD. Questo, quindi, il primo obiettivo della giornata di protesta.
Il secondo obiettivo era contestare la base di Ghedi, uno dei siti nucleari sul territorio italiano. Dopo la manifestazione per le vie della città, la protesta si è diretta all’aeroporto dove sono stoccate almeno 20 bombe all’idrogeno B61, che verranno presto sostituite dalle più potenti B61-12 da montare sui micidiali caccia F35. Anche in questo caso la protesta non si è limitata al solo sito di Ghedi ma ha chiesto la eliminazione di tutti i 70 ordigni atomici esistenti in Italia, in particolare ad Aviano, dove sono stoccate bombe all’idrogeno e la verifica che negli undici porti italiani dove attraccano navi e sommergibili a propulsione atomica USA e NATO siano davvero sguarniti di missili con testate nucleari.
La base di Ghedi riveste anche un ruolo importante nelle operazioni di guerra a cui l’Italia partecipa o ha partecipato. Questa base, infatti, è stata attiva in tutte le missioni di guerra dell’Italia a partire dagli anni ‘90, dal Kuwait alla Jugoslavia, dall’Afghanistan fino alla recente guerra alla Libia.
Il terzo obiettivo era proprio quello di denunciare le guerre che l’Italia da decenni ha condotto e conduce in molti paesi del mondo. Per dare un’idea dell’impegno militare italiano all’estero basta ricordare che l’esercito italiano ha 37 basi all’estero dislocate in 23 paesi.
Per questo una delle rivendicazioni della manifestazione è stata quella della chiusura di tutte le basi militari straniere in Italia e di tutte le basi italiane all’estero.
All’ingresso dell’aerobase diversi sono stati gli interventi in rappresentanza delle molteplici sensibilità che hanno dato vita alla manifestazione, tra cui molto importante è stato l’intervento di un immigrato che ha messo in luce come proprio le guerre imperialiste siano uno dei fattori principali degli attuali flussi migratori. La manifestazione si è conclusa ribadendo la necessità e la volontà di estendere la mobilitazione contro le basi militari e più in generale contro la guerra. Un movimento per un lungo periodo assopito ma che da segni di ripresa.
Milano, 4 febbraio 2018


Alla canna del gas. A proposito del gasdotto Snam
La vicenda del gasdotto che ENI e SNAM vogliono erigere lungo tutta la catena appenninica è pressoché sconosciuta anche fra coloro che lottano contro la civilizzazione e contro le mostruosità con cui il capitalismo ogni giorno avvelena le nostre vite.
Vorremmo cominciare a parlare di questo tema, non per fare la solita lagna cittadinista, ma per stimolare la giusta rabbia.
A rendere difficile la trattazione dell’argomento ci hanno pensato i “capoccioni” della Snam che contribuiscono a fare confusione. In effetti questo “coso” non ha nemmeno un nome. L’appellativo istituzionale dell’opera è Rete Adriatica. Un nome ufficiale che non dice nulla, dato che il gasdotto passerà per l’Appennino e non per il mare. Non che se fosse passato altrove sarebbe stato meglio, per quanto ci riguarda. Per rovesciare la mistificazione in piena neo lingua orweliana che gli stregoni del metano cercano di instillare, pensiamo sia giusto chiamare il “coso” gasdotto Snam, così che sia chiaro sin da subito chi sono i responsabili di un’opera tanto nefasta. Il potere non è qualcosa di fantasmagorico, ci sono i responsabili: hanno un nome e un indirizzo. Nel caso di specie si chiamano ENI, la multinazionale della morte che in tutto il mondo innalza la bandiera dell’italico imperialismo, e SNAM, la grande ditta nazionale che si occupa delle arterie energetiche con cui alimentare la mega macchina industriale nella Penisola.
Il progetto del gasdotto Snam è precedente al più noto Tap. In origine prevedeva di portare al nord il metano dal previsto rigassificatore di Brindisi. Ormai è invece del tutto integrato al gasdotto Tap e, nei progetti cancerogeni dello Stato italiano, dovrebbe essere la naturale prosecuzione dell’autostrada del gas che dall’Azerbaigian porterà il prezioso nutrimento energetico per l’industria europea, passando per il Salento e attraversando l’Appennino.
Non esageriamo se ci permettiamo di dire che si tratta di una delle opere più gravi partorite dalle menti perverse degli scienziati della morte. Un impianto lungo quasi 700 km, che in maniera originale anche rispetto a precedenti “grandi opere” questa volta attraverserà una catena montuosa “in verticale”, da sud a nord. Settecento km di scavi nel cuore delle nostre montagne. Un cratere di un diametro di 40 metri imposti per legge come servitù permanente, per ragioni di sicurezza. Insomma una autostrada di 40 metri che per 700 km taglierà boschi, scaverà rocce, attraverserà fiumi. Un impatto devastante sarà dato dalle centinaia di nuove strade che verranno edificate per raggiungere i luoghi ameni dove si svolgeranno i lavori. Strade che prevedono l’attraversamento di camion pesanti e mezzi di lavoro. E che in buona parte rimarranno per sempre, per agevolare la manutenzione e per raggiungere il gasdotto nel caso di incidenti che richiedano interventi straordinari.
Non amiamo insistere sui dati tecnici, che spesso diventano materiale di scambio nelle trattative fra lo Stato e i riformisti, ma per questa volta alcuni elementi dobbiamo sciorinarli necessariamente affinché ci si renda pienamente conto della pericolosità di un’opera da impedire con ogni mezzo. Per esempio, il territorio interessato è da sempre soggetto a terremoti. Nell’Appennino c’è un grosso terremoto – un terremoto “da 300 morti”, per usare categorie non scientifiche ma umanamente comprensibili – ogni tre anni, in media. Costruire un gasdotto in un territorio del genere è un grave pericolo per la natura e per gli umani che vivono in queste montagne. Il gasdotto infatti passerà in città come Sulmona, L’Aquila, Norcia, Foligno, ben note alla cronache.
Non c’è ovviamente alcun dibattito né alcun appello alla ragionevolezza da fare con coloro che hanno come unico parametro il profitto. Se citiamo questi elementi è solo per comprendere e incazzarci; per agire. L’unica lingua che capiscono i burocrati dello Stato, i manager delle multinazionali, i loro protettori armati, è la forza.
Un gasdotto di settecento chilometri è una mostruosità. Ma settecento chilometri di lavori sono anche un punto di debolezza. Con l’azione diretta possiamo farli impazzire.
Purtroppo però con le lotte risorgono anche i vecchi parassiti della politica. Come gli zombi negli horror di serie B degli anni ’80, certi professionisti dell’ecologismo riformista si rialzano ogni volta che credi di averli eliminati. E così si parla di “coordinamenti”, fronti democratici e popolari, assemblee cittadine. Luoghi dove, redivivi, ti ritrovi i professionisti del monologo, i presenzialisti, coloro che hanno il portafoglio abbastanza gonfio e l’agenda abbastanza vuota, da potersi permettere di partecipare a tutte le assemblee in tutto l’Appennino e anche giù fin nel Salento, dove parlamentare e far passare la propria linea.
Proprio perché pensiamo che il gasdotto Snam sia qualcosa di troppo grave per essere lasciato in mano alle miserie della politica, per informare su un tema poco conosciuto, ma soprattutto per discutere su come combattere questo progetto, nelle prossime settimane incontreremo in diverse città le compagne e il compagno che dall’Umbria hanno scritto l’opuscolo “Alla canna del gas”. Un’analisi, a partire dalla Valnerina, sul gasdotto Snam, sui capitalisti che lo vogliono, e sullo stato di salute dei movimenti che sostengono di combatterlo.

gennaio 2018, villa Vegan Occupata, via Litta Modigliani 66

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Melendugno (Le): Fermate due betoniere dirette al cantiere Tap
Il 4 gennaio 2018 un centinaio di manifestanti hanno bloccato due betoniere dell’azienda Minermix dirette al cantiere TAP. Il blocco stradale è iniziato alle 17 ed è riuscito ad intercettare, nei pressi di un incrocio che da Melendugno porta a San Foca, il passaggio dei due mezzi che trasportavano calcestruzzo. Il blocco si è protratto fino alle 19.30 ed è stato efficace anche perché un paio di manifestanti si sono arrampicati su uno dei due camion occupando il tettuccio, mentre i serbatoi d’acqua delle betoniere perdevano per strada il loro contenuto. Vani i tentativi dei reparti di polizia, carabinieri e guardia di finanza che hanno provato a liberare il passaggio.
Quando è stato chiaro che il calcestruzzo trasportato era oramai inservibile, i manifestanti si sono allontanati di propria iniziativa, incassando una bella vittoria. L’impasto nelle betoniere se miscelato troppo a lungo perde le sue qualità e diventa inutilizzabile (in genere dopo due ore). Difatti i mezzi non hanno più proseguito per il cantiere ma son dovuti rientrare nella loro sede per sversare il carico ormai inservibile. Crediamo anche che l’azienda abbia preso un bello spavento in quanto la sosta prolungata dei mezzi può arrecare danni ancora più ingenti nel caso in cui il calcestruzzo trasportato si solidifica all’interno della betoniera.
Attualmente nel cantiere TAP stanno lavorando alla preparazione del pozzo di spinta per il microtunnel. Da qui entrerà in azione una talpa meccanica che scaverà sotto la spiaggia per ricollegarsi in mare con la conduttura proveniente dall’Albania. Il calcestruzzo serve a consolidare il terreno con dei “pali secanti” interrati necessari a definire il perimetro stagno del pozzo.
Questa parte dell’opera di scempio se l’è aggiudicata la SAIPEM (gruppo ENI) che sta lavorando già da un mese con delle aziende locali quali la Minermix di Galatina (Le) e Donato Coricciati Srl di Martano (Le), oltre a I.CO.P. SpA di Udine. Altro personale lo sta reclutando tramite l’agenzia Adecco. Dopodiché SAIPEM si occuperà anche della posa dei tubi che attraversano l’Adriatico e dello scavo per il tunnel di approdo in Albania.

10 gennaio 2018, comunellafastidiosa.noblogs.org


contro i campi di internamento e di sfruttamento per migranti
Cpr di Torino: Tarik, come sbarazzarsi di un uomo
La storia di Tarik si consuma all’interno di gabbie e nel loro sistema di vasi comunicanti. Tarik aveva il permesso di soggiorno familiare, essendo sposato con una ragazza italiana, ma è finito in carcere per una lite sanguinosa. Quando si trovava in carcere a Cuneo, nella stessa prigione hanno portato proprio l’uomo con cui aveva avuto il diverbio e nonostante avesse chiesto formalmente il divieto di incontro, i secondini gli hanno lasciato la cella aperta e hanno permesso tra i due nuovamente lo scontro. A rimetterli a posto sono state però le guardie stesse che sono intervenute pestandoli entrambi. Dopo questo episodio Tarik è stato trasferito tumefatto al carcere di Vercelli e lì ha chiesto di parlare con il direttore che, certamente più per togliersi un onere che per magnanimità, l’ha fatto accompagnare in infermeria dove gli effetti delle percosse sono stati fotografati e passati agli atti. Quelle immagini sono la base di una denuncia che Tarik ha sporto contro i secondini che l’hanno pestato. Caso vuole che poco dopo aver dato via alla procedura, gli sia arrivato il diniego di rinnovo di permesso di soggiorno. La motivazione? Una poco argomentata pericolosità sociale.
Così alla fine della carcerazione, nonostante una vita e una famiglia in Italia, Tarik il dicembre scorso è finito al Cpr sabaudo in cui, ancor più che gli altri reclusi, è stato minacciato continuamente dalle forze dell’ordine e già due volte hanno provato a deportarlo. La prima è stata il 9 di gennaio da Caselle ma la sua resistenza all’aeroporto gli ha assicurato un po’ di tempo. Riportato in c.so Brunelleschi ha iniziato uno sciopero della fame a oltranza. Nonostante il forte indebolimento fisico causato da venti giorni senza cibo e una documentazione psichiatrica riguardo a problemi pregressi, ieri sono tornati in forze per cercare di deportarlo e di nuovo non ci sono riusciti.
Tuttavia a pestarlo, per l’ennesima volta, ce l’hanno fatta. Le forze dell’ordine con lui ieri si sono divertite mentre i lavoranti dell’ente gestore Gepsa e gli infermieri hanno fatto finta di niente. Tutta questa attenzione su di lui non può che lasciare il dubbio sul fatto che certi carcerieri stiano cercando di difendersi da un processo con delle prove evidenti di pestaggio e che sia questo a perseguitarlo anche una volta finito fuori dalla galera, senza più documenti ma con un nuovo cartellino, quello di pericolosità sociale.
Infine, il primo di febbraio, è andato in scena il terzo tentativo di espulsione di Tarik: dieci poliziotti lo hanno avvolto nelle coperte e portato a Caselle. Per resistere all’imbarco forzato Tarik ha ingoiato due lamette, che però non hanno fermato gli agenti né hanno impedito che fosse portato immediatamente a Roma. Una volta sceso dall’aereo Tarik è riuscito a fare due telefonate, una alla moglie e una al fratello, ma subito dopo gli è stato tolto nuovamente il telefono.
Il 31 gennaio, nel pomeriggio, nell’area viola del cpr, un detenuto ha ingoiato un cacciavite di 23 cm davanti a poliziotti e guardia di finanza. Si è poi rifiutato di farsi visitare all’interno del Cpr e nemmeno in ospedale, per paura di ricevere delle terapie troppo pesanti. Nel frattempo sia i compagni di reclusione sia i solidali fuori, hanno chiamato più volte un’ambulanza che non è mai arrivata. Al terzo tentativo degli agenti di entrare nell’area per portarlo in infermeria, un ragazzo si è parato davanti al compagno per difenderlo, chiedendo spiegazioni ai poliziotti. Questi ultimi non hanno esitato a prenderlo per la bocca e trascinarlo fuori dall’area, dove è stato poi inseguito dagli agenti. Tutti i detenuti dell’area viola per protesta si sono rifiutati di rientrare nelle stanze e hanno rifiutato la cena.
Da fuori le mura non mancano le iniziative di solidarietà: i saluti volanti e i presidi che mensilmente radunano compagne, compagni e solidali, che permettono anche di aggiornare chi sta dentro il Cpr su quanto succede negli altri lager degli stati europei come la rivolta di Pian del Lago a Caltanissetta, in seguito alla quale, dopo un tentativo di fuga di massa, purtroppo fermato dalla polizia, il centro è stato evacuato per poter essere ripristinato o come a Parigi, dove in seguito ad una fuga bloccata dalle guardie, i reclusi hanno deciso di oscurare le telecamere con della carta igienica e bloccare le porte antincendio, appiccando il fuoco in dodici stanze, devastando così l’area e privando la struttura di 57 posti.
Nel Cpr torinese l’area rossa è stata riaperta da poco, dopo i lavori di ristrutturazione in cantiere oramai da mesi, portando la capienza del centro agli attuali 145 posti circa. E se non fosse per le due aree bruciate e distrutte durante l’ultima rivolta di novembre, la struttura sarebbe tornata a pieno regime come non lo era oramai da anni. (liberamente tratto da autistici.org/macerie)

San Ferdinando. Le lotte di chi abita nella tendopoli, le morti di stato e gli approfittatori
Un incendio, avvenuto nella notte del 27 gennaio, nella tendopoli di San Ferdinando (RC), ha provocato la morte della ventiseienne Becky Moses, il grave ferimento di altre due persone di cui non si conoscono i nomi, la distruzione di centinaia di tende e baracche autocostruite e dei documenti e dei pochi beni di centinaia di abitanti delle tendopoli. Gli abitanti della tendopoli di San Ferdinando hanno iniziato a raccontare una verità diversa sul questo incendio: testimoni della tragedia, infatti, raccontano che l’incendio è scoppiato alle due della notte, ma che i pompieri non si sono presentati fino alle cinque, ben tre ore dopo, e muniti di una sola camionetta. Inoltre le forze dell’ordine che militarizzano la zona da più di un anno si sono ben guardate dall’intervenire.
Dopo la tragedia, la cui responsabilità ricade interamente sul sistema di sfruttamento, gestione e repressione istituzionale, la violenza contro i/le abitanti delle campagne viene ora propagata dalle ipocrite prese di posizione di ONG, associazioni, partiti, liste elettorali, sindacati, giornalisti.
Gli e le abitanti che lavorano come schiavi alla mercé di caporali senza scrupoli, sfruttati nei campi in cui lavorano a testa bassa, adattatisi a vivere in tendopoli abbandonate, senza acqua e servizi igienici, tra rifiuti, fango e sporcizia, si vedono ora propinare nei comunicati e nel racconto dei media l’umanità dei membri di associazioni che aiutano e gestiscono gli immigrati, di sindacati che li difendono, organizzano, tendono a infonder loro “coscienza” del loro stato, di giornalistx coraggiosx che girano nei ghetti a raccontare e fotografare il “degrado umano” di questi luoghi.
È tutto un rattristarsi per le disumane condizioni di vita, un appellarsi ai politici di turno per porre fine a questo orrore, a salvare le povere vittime impotenti che vivono nei ghetti. Ciò che viene cancellato da questa narrazione, il che rappresenta una ennesima forma di violenza e repressione, nonché premessa per nuove violenze di stato, sono le voci, le storie, le continue lotte, le chiare rivendicazioni di case, documenti e contratti, l’autorganizzazione, la solidarietà e il mutuo appoggio – che malgrado tutto esistono – di chi vive nelle campagne. E questo è comprensibilmente necessario, da parte delle istituzioni che reprimono, dei padroni che sfruttano, delle organizzazioni umanitarie e di sinistra che si rendono complici. Non si ricorda nemmeno come la tendopoli andata a fuoco fosse l’ennesima struttura provvisoria statale, descritta come soluzione umanitaria dopo la rivolta del 2010, e man mano abbandonata dalle istituzioni, che hanno spento l’illuminazione della zona, sospeso il ritiro dei rifiuti, interrotto gli allacci elettrici nelle tende, ridotto al minimo la fornitura di acqua, tutto ciò come forma di dissuasione per chi veniva a viverci e per costringerli così a spostarsi in altre tendopoli, finanziate con centinaia di migliaia di euro.
Non viene descritto il controllo militare pervasivo e costante della zona della tendopoli, le continue minacce e intimidazioni contro gli/le abitanti, le retate e gli arresti dei senza documenti, le frequenti perquisizioni a tappeto di tutte le tende e baracche, la repressione che colpisce anche le/i solidali che supportano le lotte.
Dopo l'incendio, molti abitanti della tendopoli denunciano di aver ricevuto un foglio di espulsione da parte delle forze dell’ordine. La polizia si è presentata più volte chiedendo alle persone senza documenti di segnare il proprio nome promettendo regolarizzazioni per poi portarsi le persone in questura e comunicare l’obbligo di lasciare il paese. Allo stesso tempo, una persona che si era recata in questura per fare richiesta di asilo è stata trattenuta e pare che verrà trasferita in un CPR anche se ancora non si hanno notizie certe.
Hotspot, centri di prima (CARA, CAS) e seconda accoglienza (SPRAR), CPR e tendopoli di “terza accoglienza” come questa fanno parte di un unico sistema integrato di controllo e gestione della forza lavoro immigrata. E la storia di vita di Becky Moses è purtroppo esemplificativa a riguardo: dopo due anni di attesa di una risposta alla domanda d’asilo in uno SPRAR, fiore all’occhiello della presunta buona accoglienza, a Riace, considerato un modello di ospitalità e integrazione, aveva ricevuto un diniego (come il 60% e più dei richiedenti) ed era stata buttata in strada senza tanti complimenti. Come tantx, solo in una tendopoli aveva potuto trovare un riparo grazie a dei conoscenti, nell’attesa del ricorso.
Le soluzioni che nel tempo sono emerse, cavalcando simili morti e incendi, sono sempre e ancora le stesse: più controllo statale, nuove tendopoli di stato – sempre definite temporanee e provvisorie, si intende, sempre viste come un meno peggio – sempre più simili a prigioni, più polizia, nuove leggi anti-caporalato. Dopo l’iniziale indignazione, ONG, associazioni, partiti, liste elettorali, sindacati, giornalisti, in nome di presunti piccoli miglioramenti e della “necessaria” sinergia con le istituzioni, avallano e cooperano nell’attuazione di queste politiche, fino alla prossima morte, fino alla prossima tragedia. Le persone scampate all’incendio sono state ammassate, e vengono ora gestite, nelle solite strutture provvisorie: poco più di 100 in una tensostruttura, montata in zona dalla protezione civile, altre centinaia in un adiacente capannone. Il prefetto ha rafforzato la sorveglianza delle forze dell’ordine di 24 ore su 24, “al fine di impedire eventuali disordini o turbative dell’ordine pubblico”. (da faceboo