indice n.124

Siria: Destabilizzazione controllata
Egitto: Il regime sa solo reprimere
sull’ampliamento della rwm a domusnovas (CI)
sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi
aggiornamenti dalle LOTTE dentro e CONTRO i cie
resoconto del presidio davanti al carcere di Livorno
ROMPERE IL SILENZIO: presidio al carcere di san vittore (mi)
17 maggio: presidio al tribunale di cagliari
lettere dal carcere di augusta (sc)
per UNA PRESENZA SOLIDALE alL’UDIENZA DELL’OP. “SCRIPTA MANENT”
lettera dal carcere di Napoli-poggioreale
lettere dal carcere di milano-opera
Lettera dal carcere di Teramo
Lettere dal carcere di Roma-Rebibbia
saronno: CONTRO IL DASPO URBANO DIFENDIAMOCI DALLA POLIZIA
TORINO REPRESSIONE E COMPAGNI IN CARCERE
lettere da le vallette di torino
Una mattina d'assedio al sistema TAV
milano, all’ospedale san carlo: chi la dura la vince
aggiornamenti su alcune lotte nel territorio di milano
Brasilia, il corteo assalta i ministeri. Temer schiera l'esercito


Siria: Destabilizzazione controllata
Il governo di Berlino unisce esplicitamente gli aiuti umanitari per la Giordania alla collaborazione culturale e scientifica. In ogni caso, tutte le misure sono parte del progetto militare-strategico “Collaborazione alla stabilità nel Medio Oriente”.
La Giordania è diventata una piattaforma per gli investimenti occidentali in Medio Oriente. Da lì partirono nel 2003 le truppe speciali USA per scatenare in Irak la guerra contraria al diritto internazionale. Distrussero gli impianti radar incontrati nella loro avanzata ed occuparono importanti territori attraversati dall'oleodotto irakeno-giordano.
Dall'inizio della guerra in Siria (2011) in Giordania sono state nascoste armi e combattenti. Le persone siriane in fuga dalla loro patria hanno trovato rifugio nei campi profughi allestiti sulla costa giordana.
Il 18 maggio 2017 dei caccia USA hanno bombardato un convoglio militare in movimento nel sud-est della Siria, in cui sono stati uccisi sei militari, feriti tre; sono andati distrutti quattro carri armati comuni e un quinto su cui era montato un cannone controaereo pilotato dal radar. Il convoglio era composto da soldati iracheni e iraniani a loro volta alleati con l'esercito siriano (di Assad), che dovevano prendere posizione lungo la linea ferroviaria Damasco-Bagdad, precisamente ad Al-Tanf località situata sul confine siriano-irakeno-giordano, occupata nel maggio 2015 dall'IS.
Quel bombardamento aereo USA è stato motivato dal fatto che il convoglio si muoveva in un territorio controllato da truppe USA, della Giordania e dell'Inghilterra. L'aviazione USA lo ha colpito perché non si sarebbe fermato di fronte alle intimazioni avanzate dalle postazioni a terra di “unità locali” che avrebbero perciò chiesto all'aviazione USA di intervenire.
A sua volta il comando militare russo dice che Al-Tanf è parte di un territorio in cui Mosca e Washington si trovano unite per evitare simili incidenti. Mosca definisce l'attacco aereo USA come “contrario al diritto internazionale”; il ministro della Difesa USA, James Mattis in merito ha precisato che: “Noi difendiamo e difenderemo le nostre truppe”.
Per la Siria oggi l'attraversamento del confine di Al-Tanf è l'unico collegamento diretto fra Damasco e Bagdad; fattore non solo importante per il commercio, ma anche perché utilizzato per rifornimenti dalle unità combattenti iraniane e irakene alleate alla Siria.
Gli USA, è chiaro, perseguono invece il piano di spezzare quei collegamenti e per mettere nelle mani della Giordania il controllo di quel territorio. Immediatamente dopo “l'incidente” di Al-Tanf, forze speciali norvegegesi sono state trasferite dagli USA in quel territorio in nome della guerra contro l'IS.
Resta la questione: perché gli USA non hanno portato la “alleanza anti-IS” a combattere le postazioni IS vicine a Al-Tanf, ma al contrario hanno attaccato un convoglio militare iraniano-iracheno unito all'esercito siriano? La risposta si trova in un rapporto dei servizi militari segreti USA scritta nel 2012, in cui veniva avanzata l'ipotesi di “stabilire nella Siria dell'est un principato salafita. Questo è esattamente quello che perseguono le potenze che sostengono l'opposizione in Siria per isolare il regime siriano” (di Assad), cioè le monarchie del Golfo (Arabia saudita in testa) e la Turchia. Stati che considerano da sempre “il regime siriano” alla stregua di “base strategica dell'espansione sciita”.
In conclusione, anche Trump lo ha confermato nel suo recente viaggio in Medio Oriente, gli USA, da una parte, vogliono mozzare i collegamenti fra Hizbollah (in Libano), Damasco, Bagdad e Teheran; dall'altra vogliono mettere al sicuro il proprio accesso ai giacimenti petroliferi e del gas collocati nella Siria orientale assieme all'impiego del fiume Eufrate. Nel nord della Siria, ad Hasaka e in futuro a Rakka, il piano della penetrazione USA sta diventando realtà con l'aiuto delle Forze Democratiche Siriane e dell'YPG (Unità di Difesa Popolare Kurde). In ogni caso Washington vuole impedire che Damasco riporti sotto il suo controllo i confini dell'est e del sud del Paese (Siria).

In Siria come in Irak gli USA “giocano” con i kurdi
Nonostante la critica della Turchia, stato membro della NATO, nel nord della Siria (confinante con l'Irak) l'esercito USA arma le unità ad esso alleate, vale a dire le 'Forze Democratiche Siriane' (FDS) e le Unità di Difesa Popolare Kurde (YPG).
Nei giorni scorsi Josh Jacques, maggiore del comando centrale USA nel nord della Siria, ha comunicato che i marines entrati nella provincia di Raqqa dovevano dare sostegno ai soldati-combattenti dell'FDS e dell'YPG. Scopo dell'impegno militare USA in quella regione dunque era ed è “garantire la sconfitta più profonda possibile dello Stato Islamico”.
Già da marzo sono stazionati nel nord della Siria 400 marines USA che, per preparare l'attacco su Raqqa hanno allestito e difeso un avamposto.
Il diritto internazionale dice che nel caso della Siria si è di fronte ad un'occupazione illegale poiché gli USA non hanno agito né su chiamata del governo di Damasco né su intesa con lo stesso. In concreto l' “avamposto” è, per il momento, costruzione di un porto sull'Eufrate nei pressi di Tabka. Gli USA in quel territorio hanno già sequestrato ampi terreni e iniziato a costruire piste di decollo e atterraggio per i loro cacciabombardieri. I media arabi hanno scritto che nel nord della Siria le forze armate USA hanno già costruito 6 aeroporti e altrettante basi militari. Questo avviene in cooperazione con FDS e YPG che vengono regolarmente pagate. Così YPG, per esempio, versa ogni mese ai suoi membri 150-200 dollari; cifra molto più alta del salario medio in Siria - pari a 80 dollari USA. Anche per questo “tutti vogliono lavorare, combattere per le forze armate USA”. Una paga comunque bassa perché non tiene conto di nessun sostegno, per esempio, alla condizione sanitaria, abitativa, scolastica.
La decisione degli USA di armare i kurdi è parte della loro strategia seguita nella regione. E' stato preso a modello quanto realizzato in Irak, dove l'armamento diretto e il sostegno militare verso i kurdi avviene in considerazione del loro obiettivo-appello a costruire uno stato indipendente e quindi una separazione diretta dal Paese Irak che di conseguenza frantuma anche lo Stato.
Gli USA per prendere nelle loro mani la Siria hanno deciso di armare le YPG e di elevare la Turchia a potenza d'ordine nel Medio Oriente. Il governo dell'auto-amministrazione kurda che oggi governa nel Rojava (nel nord della Siria, che comprende i territori di Kamischli, Kobane e Afrin) pare orientato a perseguire piani d'espansione.
Hediya Yousef co-presidente di quel governo in un'intervista pubblica ha illustrato che: “la regione ha bisogno di scambi con il commercio internazionale, condizione realizzabile soltanto con la realizzazione di un corridoio che la colleghi al Mediterraneo. Questo perché oggi, per la nostra regione, non esistono possibilità di commercio né con la Turchia né con la regione autonoma Kurdistan nel nord Irak (governata dal clan Barzani) che non boicottano il Rojava soltanto economicamente, ma che anche combattono. Da qui la scelta di fare assegnamento sul sostegno USA. L'accordo concluso all'inizio di maggio fra Russia, Turchia e Iran a Astana (capitale del Kazakistan), fra le altre cose, prevede l'istituzione in Rojava di “zone di libero scambio”, scelta che, sottolinea Yousef “non corrisponde agli interessi dei kurdi”.
Contemporaneamente il ministro degli esteri della Turchia ha chiesto agli USA di richiamare dalla Turchia il loro inviato speciale “per la lotta contro l'Is”, Brett McGurk, perché sostiene chiaramente il PKK, in Turchia messo fuorilegge, e le unità YPG attive nel nord della Siria. Quelle unità oggi sono alleate degli USA nelle guerra contro l'Isis e hanno giocato un ruolo decisivo nella conquista di Raqqa, roccaforte dell'Is. Anche per questo vengono rifornite dagli USA di armi pesanti. In una recente intervista Erdogan ha tenuto a precisare che: “se le YPG in Siria attaccano l'esercito turco, la risposta sarà immediata e senza ascolto di terzi”.
Lo stato turco censura e bombarda: il 25 aprile caccia turchi hanno bombardato la stazione radiofonica kurda Denge Rojava attiva in quella regione; nell'attacco sono state uccise tre persone. Un giornalista kurdo nel precisare il significato dell'attacco dice: “Ci attaccano perché mostriamo quel che realmente accade in Kurdistan, la guerra, le battaglie”.
Da alcune settimane cova la tensione fra i media kurdi e Eutelsat (azienda satellitare francese). Quest'ultima minaccia di impedire la diffusione dei contenuti inviati da Ronahi TV (rete kurda) dopo che l'ente di controllo turco - riguardo a radio e televisione - ha chiesto a Eutelsat di applicare la censura sul materiale inviato da Ronahi TV.
“Perché vogliono spegnerci? Perché nessuno al di fuori di noi mostra quel che accade. Nessuno mostra il caos che la Turchia e altri Stati provocano qui. Vogliono censurare per far sì che l'opinione pubblica non capisca quel che accade qui”, conclude il giornalista.
Gli attacchi sono parte di una campagna pianificata da Ankara per mettere a tacere i media dell'opposizione kurda in generale. Decine sono i giornalisti sbattuti in galera in Turchia, in gran parte di sinistra e kurdi. La stessa sede di Ronahi TV è sorvegliata con i carriarmati.
Spiega Alan Meisch, giornalista di origine kurda: “Prima, nel regime siriano, non potevo studiare per diventare giornalista o qualcosa di simile. Ma dopo che è scoppiata la rivoluzione (si riferisce al Rojava, in cui abita) nella società c'è stata una rottura, ogni persona è riuscita a trovare il posto che cercava. Così io per esempio sono diventato reporter.” Di conseguenza chi lavora nei media kurdi è deciso a non cedere nulla nella lotta riguardo al permesso di trasmissione. “Noi troviamo sempre un'uscita alla trasmissione, non la fermiamo”, dice Meisch.
maggio 2017, da jungewelt.de


Egitto: Il regime sa solo reprimere
L’Egitto sta attraversando una settimana particolarmente dura che ha visto arresti di attivisti, figure dell’opposizione e operai in sciopero, la detenzione di Khaled Ali (figura di spicco dell’opposizione laica, possibile candidato alle prossime elezioni, in prima linea contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita), la distruzione di case, strutture e villaggi, oltre alle consuete sparizioni forzate, torture e abusi di ogni tipo. Infine, l’ultima delle misure repressive messe in atto dal regime egiziano è il blocco di 21 siti di informazione accusati di “supportare il terrorismo”. Tra questi anche Mada Masr, media egiziano del tutto indipendente e da sempre non allineato.
Una settimana che coincide con l’incontro tra Sisi, Trump e il re Salman, in cui il dittatore ha avuto conferma di beneficiare ancora di quel sostegno politico ed economico internazionale che, di fatto, mantengono in vita lui e il regime che lo appoggia.
Tuttavia, poiché la crisi economica ha ormai ridotto il paese alla fame, il malcontento è diffuso, la possibilità di sommosse popolari non è da escludere e le elezioni presidenziali ormai vicine, il regime ha scelto di proseguire nell’unica cosa che gli riesce bene: la repressione. 30 attivisti e membri di partiti dell’opposizione sono stati arrestati ad Alessandria e in altri governatorati del paese con l’accusa di “terrorismo” e in alcuni casi per “insulto al Presidente” via social media. Molti di loro sono stati prelevati a casa di notte e interrogati per diverse ore senza la presenza dei loro avvocati. Altre 40 persone sono state arrestate per non meglio specificati “crimini su internet”. Qualche giorno fa, di ritorno da un suo viaggio a Roma dove era stato pedinato da agenti del regime, l’avvocato Khaled Ali, è stato arrestato e poi rilasciato con cauzione, ma il suo processo continua “per violazione della morale pubblica”.
A essere presi di mira, come consueto, sono anche i sempre più numerosi episodi di lotta dei lavoratori. Dopo aver indetto uno sciopero iniziato il 3 aprile 2017, 32 operai del cementificio di Tora, sono ora sotto processo e rischiano di perdere il posto di lavoro. Le loro richieste sono quelle di essere assunti, hanno occupato il cementificio dove lavoravano ma 24 sono stati arrestati e prelevati dal presidio che durava da 55 giorni. L’inizio del processo è previsto per il 28 maggio.
Ma non cessano nemmeno i soprusi di un regime il cui consenso è orami basato solo sul terrore. Il 6 maggio una donna, Hanan Badr, in cerca del marito sottoposto a sparizione forzata dal 27 luglio 2013, è stata arrestata mentre faceva visita a uno dei detenuti internati nel carcere di Al-Qanater nei pressi del Cairo, con l’accusa di raccogliere informazione sui luoghi di detenzione con finalità terroristica. Hanan è stata internata illegalmente per 15 ore all’interno di una cella nel carcere di al-Qanater, poi trasferita in un commissariato e poi la procura ha deciso la carcerazione preventiva per 15 giorni alla fine dei quali sono stati nuovamente confermati.
Libertà per tutt*!
25 maggio 2017, da hurriya.noblogs.org


sull’ampliamento della rwm a domusnovas (CI)
Quello della RWM, terza azienda italiana nel settore degli armamenti, dopo Ge Avio srl e Leonardo, è oramai un nome sempre più tristemente noto, come sempre più deleteria e inaccettabile sta diventando la sua azione espansiva verso una crescita economica che non può rappresentare altro che un la fine per le comunità che sotto la sua ombra, muiono e scompaiono.
Questa multinazionale delle armi tedesca è leader nel settore degli armamenti a livello mondiale. La sua nascita affonda le radici nella Germania del 1889, e passando attraverso le forniture al Reich, arriva oggi ad esportare carri armati, cannoni, munizioni e sistemi integrati in Iraq, Iran, Zaire, Sudafrica, Paraguay, Danimarca, Somalia, Indonesia, Algeria e altri paesi. Una compagnia con un fatturato che nel 2015 contava 2,6 miliardi di euro, fatturato che nel tempo è andato crescendo assieme al numero di morti, non solo nel conflitto in atto in Yemen.
E proprio nel 2016, il governo francese aveva commissionato alla Reinhmetall, un'importante partita di bombe MK, che non ha consentito solo di aumentare considerevolmente un fatturato annuo ma ha conseguentemente anche aperto le porte dell'ampliamento allo stabilimento in questione, sancendo le sorti del paese e relegandolo al ruolo di produttore di morte che gli stessi lavoratori scelgono di supportare e coprire, nel silenzio e nel collaborazionismo.
Ed è proprio nell'Aprile del 2016 che emerge la notizia dell'ampliamento dello stabilimento della RWM di Domusnovas. Si firmano in questi giorni le ultime carte per consentire l'ampliamento in questione, che prevede la costruzione di un Campo prove, denominato 140, che verrà edificato nella località di San Marco (Iglesias) comprendendo anche gli interventi stradali per mettere in connessione lo stabilimento di Domusnovas alla S.S. 130 e S.S. 131 per meglio trasportare e far viaggiare questi carichi di morte dai porti di Cagliari, Porto Canale e Olbia, come dall'aereoporto di Elmas.
E' col nome di SEI Società Esplosivi Industriali, producendo materiale esplosivo per industrie minerarie, che Reinhmetall approda in Sardegna, aprendo sede così prima a Ghedi e nel 2001 a Domusnovas, ma espandendo presto le proprie competenze produttive verso settori del mercato delle armi in crescita e dandosi perciò alla produzione di mine anti uomo e mine marine e bombe per i caccia Tornado.
Dal 2014, la società è andata a crescere, tra le concessioni e i permessi, incoraggiando e incentivando investimenti che vanno a impoverire sempre più un territorio devastato dal ricatto occupazionale e dallo spopolamento. Amministrazioni spesso succubi della stessa politica imprenditoriale che ha portato nel corso di decenni a svendere al mercato della più spregiudicata imprenditoria, intere porzioni di territorio, sottraendole alla ricchezza reale della comunità.
Trattandosi di una zona storicamente asservita al disagio industriale, gli avvoltoi della guerra e dei capitali non potevano che trovare gioco facile nel riuscire ad accaparrarsi l'area di interesse.
Una storia di inoccupazione e scarse prospettive economiche, quella di Domusnovas, vittima di un modello economico parassitario che affonda le sue radici sul modello fallimentare dell'industria sarda, fatto di promesse e disastri, di finanziamenti, politicanti e magnati che hanno aperto le porte della speculazione alle leggi di un mercato assassino e ad un modello economico parassitario.
Lo stesso modello che ha così prodotto oggi circa 250 dipendenti (di cui solo un centinaio sono i residenti presso Domusnovas), per i quali una politica aziendale fatta di silenzio, servilismo e premialismo volti a celare l'orrore assemblato in fabbrica e sganciato altrove, non può rappresentare l'unica risposta, sebbene sia quella che gli operai e le amministrazioni di Domusnovas hanno scelto e difendono a spada tratta, senza riguardo alcuno verso le conseguenze della loro ripresa economica.
La millantata riconversione e la mancata ricerca di alternative economiche su cui impiantare nuove prospettive per la comunità, ha lasciato la popolazione di seimila abitanti abbandonata all'assistenzialismo e all'inoccupazione, avviandola verso gli interessi bramosi di questi signori della guerra, che scelgono e investono sull'ampliamento al prezzo di tante vite, molte di più di quelle della comunità che hanno asservito.
Numerose sono state fin'ora le azioni intraprese contro questa società e i suoi stabilimenti, da parte di numerose realtà, le quali hanno sensibilizzato, bloccato e sabotato questa fabbrica di sterminio, attraverso numerose azioni negli ultimi anni.
La possibilità di creare loro malfunzionamenti nel sistema di produzione, o bloccare dei turni di lavoro nel tentativo di arrecare il maggior danno possibile ai loro profitti e ai loro consensi nel tentativo di arginare il percorso di sangue che la crescita dei loro bilanci e dei loro stabilimenti porta con se.

Milano, giugno 2017


sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi
Dopo 40 giorni di lotta gli oltre mille e cento prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane hanno sospeso lo sciopero della fame, cominciato il 17 aprile.
Nella notte tra venerdì e sabato, dopo venti ore di trattativa nella prigione di Asqelon tra il leader di Fatah Barghouti una rappresentanza di prigionieri e le autorità israeliane è stato raggiunto un accordo in merito al miglioramento delle condizioni di detenzione dei prigionieri politici. L’accordo è stato confermato da due dirigenti dell’Autorità nazionale palestinese, Issa Karake e Qadura Fares, responsabili per il sostegno ai prigionieri.
Dopo 40 giorni le condizioni di salute di molti prigionieri erano peggiorate sensibilmente. In 18 sono stati ricoverati in ospedale. Mentre il governo israeliano attraverso il ministero per la sicurezza interna si opponeva a qualsiasi canale di trattativa con gli scioperanti, i servizi di sicurezza premevano per l'apertura di un negoziato mossi dalla preoccupazione per l'aumentare delle manifestazioni in sostegno dello sciopero nei territori occupati.
Di seguito i contenuti dell’accordo raggiunto.

Issa Qaraqe, direttore della Commissione per gli Affari dei Prigionieri Palestinesi ha parlato in una conferenza stampa domenica 28 maggio in cui ha dichiarato che "l'80 per cento delle richieste" dei prigionieri è stato raggiunto nello sciopero, chiamandolo "un importante risultato per costruire in futuro le basi della tutela dei diritti e della dignità dei detenuti". Gli elementi principali concordati:
1. Estendere l'accesso ai telefoni pubblici per comunicare con i membri della famiglia, in conformità con i meccanismi concordati, con la continuazione del dialogo su questo tema come priorità per i detenuti in tutte le carceri.
2. È stato raggiunto un accordo su una serie di questioni relative alle visite familiari; primo, sopprimere il divieto di sicurezza su centinaia di familiari di prigionieri palestinesi, porre fine alla pratica di restituire i permessi di visitatori e rifiutare le loro visite ai punti di controllo e sopprimere un divieto ingiustificato imposto a più di 140 bambini che erano stati banditi dall'amministrazione della prigione di visitare i loro genitori.
3. Dare un impegno iniziale per abbreviare il tempo tra le visite dei prigionieri Palestinesi di Gaza, per un periodo di un mese, anziché due mesi o più tra le visite.
4. È stato inoltre raggiunto un accordo su una serie di temi legati alle condizioni delle visite della famiglia, che prevedono l'introduzione di abiti e borse e permettere ai prigionieri di fornire e condividere dolci con i bambini e gli altri.
5. Introdurre nuovi standard di visita per i parenti di "secondo grado", come consentire l'ingresso di nipoti in età scolastica e di fornire ai detenuti i cui genitori sono morti di aggiungere uno o due familiari più lontani alla loro lista di visite.
6. L'approvazione formale per il ritorno della seconda visita mensile della famiglia secondo il meccanismo concordato tra il Comitato Internazionale della Croce Rossa e l'Autorità palestinese.
7. Raggiungimento di un accordo sulla clinica della prigione di Ramle, per riportare i malati prigionieri alla più grande "vecchia" sezione della prigione, che è stata rinnovata.
8. È stato raggiunto un accordo sulle questioni relative alle condizioni delle donne detenute, compresa l'inclusione di tutte le detenute nella prigione di HaSharon, aggiustamento del processo di visita con i membri della famiglia, i mariti e i figli, l'introduzione di materiali artigianali, il miglioramento delle condizioni di prigionia, e la creazione di un sistema speciale di trasporto, piuttosto che il "bosta" (veicolo di trasporto metallico), per il trasferimento da e per i tribunali.
9. Per quanto riguarda i figli dei/lle prigionieri/e, sono stati concordati alcuni temi per migliorare le condizioni di detenzione, l'accesso all'istruzione e le questioni connesse.
10. È stato raggiunto un accordo sulla maggior parte delle questioni relative alle difficili condizioni di vita nella prigione di Nafha.
11. Per quanto riguarda i pazienti prigionieri malati che si trovano nella clinica della prigione di Ramle, come sopra indicato, riportare i prigionieri alla sezione riaperta con condizioni umanitarie migliorate, nonché introdurre un nuovo sistema per il trasferimento di questi detenuti con trasporto privato, direttamente a e da i tribunali, piuttosto che attraversare lunghi punti di passaggio sul "Bosta".
12. Distribuzione dei pasti ai prigionieri in transito nel "Bosta" durante i trasferimenti e consentire loro di accedere al bagno durante questo tempo.
13. Approvare l'istituzione in ogni dipartimento di carcere dei "prigionieri di sicurezza" palestinesi di una zona di cucina per la preparazione dei cibi e l'introduzione di attrezzature da cucina, anziché essere nelle stesse stanze con i prigionieri.
14. Permettere fotografie con i genitori una volta all'anno, o con il coniuge del/lla prigioniero/a. In caso di morte del padre o della madre del prigioniero, la fotografia potrebbe essere presa con un fratello o una sorella.
15. Introdurre miglioramenti alla "mensa" (negozio carcerario), con prodotti di qualità superiore, compresi frutta e verdura, tra cui molokhiyeh (piatto tipico) e spezie.
16. Introdurre attrezzature sportive moderne e ricreative nelle zone ricreative.
17. Risolvere il problema del sovraffollamento nelle sezioni delle prigioni e risolvere il problema delle alte temperature attraverso un sistema di ventilazione e raffreddamento.
18. Aggiunta di un'ambulanza attrezzata per il trasferimento dei detenuti in urgenti condizioni sanitarie, stanziate nelle prigioni di Negev, Ramon e Nafha, a causa del fatto che queste carceri sono lontane da ospedali
19. Trasferire i prigionieri nelle prigioni più vicine ai luoghi di residenza dei loro familiari.
Oltre a questi punti, ci sarà un meccanismo per ulteriori negoziati su questioni aggiuntive.
Il comitato dei prigionieri includerà Karim Younis, Nasser Abu Hmeid, Hafez Sharaya, Nasser Oweis, Ammar Merhi e Ahmed Barghouthi.
Tutti i prigionieri che sono stati trasferiti dall'inizio dello sciopero devono essere riportati alle loro locazioni originarie e le sanzioni imposte ai prigionieri durante lo sciopero dalla fame abolite.
Va notato che la prigionia dei palestinesi dalla Cisgiordania entro la Palestina del '48 è totalmente illegittima sotto la Quarta Convenzione di Ginevra.

31 maggio 2016, traduzione da samidoun.net

***
Betlemme, scontri in occasione della visita di Trump
Sono partiti dal campo profughi di al-Deheisheh, a sud di Betlemme, durante la marcia di solidarietà l’intervento da parte dell’Autorità Palestinese ha portato a duri scontri. Arrivata a Betlemme la marcia ha condannato il presidente degli USA Donald Trump e le politiche imperialiste messe in atto dal governo degli Stati Uniti. Hanno espressamente indicato gli USA, attraverso slogan, i responsabili maggiori della condizione palestinese, definendoli “la testa del serpente”. Anche a Gaza si manifestava in solidarietà dei 1.300 prigionieri in sciopero della fame, e nel tentativo di raggiungere il confine i manifestanti sono stati attaccati dalle forze israeliane.
In entrambi i casi i manifestanti chiedevano il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri politici palestinesi che si trovano nelle galere israeliane. Sono in sciopero della fame dal 17 aprile e il trattamento a loro riservato peggiora di giorni in giorno. Pesanti sanzioni e limitazioni di diritti sono normalità in uno Stato occupante che in tutti modi cerca di fiaccare la resistenza di un popolo che non abbasserà mai la testa.

22 maggio 2017, da infoaut.org



aggiornamenti dalle LOTTE dentro e CONTRO i cie
Torino, CPR di C.so Brunelleschi: resoconto del presidio del 21 maggio
Davanti al rinominato Cpr si sono ritrovati una cinquantina di nemici delle espulsioni, ostinati come sempre a tener compagnia per qualche ora ai reclusi dentro, vicini a loro nell’odio per quelle mura detentive.
Interventi al microfono hanno inneggiato alla libertà, cori si sono alzati contro tutte le prigioni, rulli di tamburi e qualche canzone hanno risuonato nell’aria primaverile del mesto parchetto che costeggia il Centro. Ogni tanto, a rompere quest’alternanza, un boato forte di qualche petardo.
I detenuti hanno sentito bene questo calore, tant’è che un ragazzo ha provato a rispondere alle urla solidali e a buttare a terra i pochi suppellettili della camera come protesta contro la reclusione. In una manciata di minuti sono entrati dieci agenti antisommossa e manganello alla mano l’hanno portato nell’isolamento dove gli hanno rotto la testa di botte. All’infermieria interna gli hanno messo un po’ di nastro adesivo con della garza e l’hanno lasciato dolorante con un benestare. Invece qualche solidale fuori, in contatto con lui telefonicamente, ha provato a chiamare un’ambulanza affinché potesse raggiungerlo per migliori cure. Peccato che il reticente operatore telefonico del 118 abbia intavolato scuse di procedura: a suo dire un’ambulanza non può soccorrere qualcuno dentro al Cpr senza l’autorizzazione della questura. Vero o no, poco importa, speriamo solo che mai qualcuno dentro a quell’infausta prigione abbia bisogno di cure veloci, perché di celeri ci sono solo le botte della polizia. Come dimenticare del resto che nel maggio 2008, nell’allora Cpt, Hassan fu lasciato morire sul suo letto con la schiuma alla bocca?
Poco dopo che si è saputo del primo pestaggio, è arrivata la notizia di un secondo ragazzo che è stato portato via dalla polizia con la stessa brutalità e di lui ancora non si sa nulla.
Dopo due ore di presidio fuori dalle mura i solidali, andandosene, hanno deciso di prendere la strada, bloccando il traffico per sostenere in maniera più forte i reclusi portati via e picchiati dalla polizia e, in serata, un saluto rumoroso e rapido con botti e fuochi d’artificio ha rotto il silenzio di Corso Brunelleschi, raggiungendo le orecchie dei reclusi.
Passano gli anni, cambiano i governi, le leggi si sommano alle leggi, ma non cambia nulla sotto il sole se non quando i reclusi si organizzano per distruggere la struttura che li imprigiona. Ad oggi la capienza del Cpr sabaudo è, ahinoi, di circa centoventi posti, ma alcuni ragazzi dormono persino in mensa per la mancanza di spazio. Tutte le aree sono funzionanti, tranne la rossa che è in ristrutturazione e alcune camere di quella bianca ha ancora i segni delle fiamme delle ultime rivolte. (21 maggio 2017, da autistici.org/macerie)

Cpr di Caltanissetta: Adriana in sciopero della fame
Quella che segue è la sbobinatura di una breve telefonata registrata da Radioblackout di Torino con Adriana, richiusa nel CPR di Caltanissetta, di cui già negli scorsi numeri (122) avevamo raccontato la storia, che ora la vede prigioniera in attesa della risposta della commissione per la richiesta di asilo, giacchè, come impone il nuovo decreto Minniti-Orlando, chi ha precedenti penali deve attendere la risposta della commissione territoriale privato della libertà. Ricordiamo solo che Adriana è una donna trans, che ora si trova in un CPR in cui c’è solo la sezione maschile: per “tutelarne l’incolumità” è stata isolata dagli altri prigionieri e alloggiata in un container. La violenza dello stato sui corpi delle donne è come sempre spietata e la transfobia è chiaramente una colonna portante della violenza di genere e del genere.

Buongiorno a tutti quelli che ci ascoltano, io sono qui in qualità non soltanto di transgender ma anche come persona, come essere umano, perché […] la mia vita è stata rubata dalle istituzioni italiane, io sto chiedendo soltanto la mia libertà, che mi ridiano la mia vita […].
Perché quello che sto passando io, ogni persona che è migrante in Italia oggi può passare per le stesse cose. Perché adesso esiste un nuovo apparato repressivo: anche se una persona ha speso tutta la sua vita a lavorare in Italia, ha versato più di 30 anni di contributi, perché gli era scaduto il permesso di soggiorno da 15 giorni, è andato a finire in un CIE. Tutto questo per la mancanza di lavoro, lo sappiamo tutti che esiste la mancanza di lavoro oggi in Italia […] Ci sono alcune persone che si trovano dentro il CIE che hanno anche il permesso di soggiorno valido, e si trovano qui, non perché hanno commesso un reato, non perché hanno commesso niente […].
Io voglio dare voce a questa storia, che non è solo la mia storia, perché è la mia sofferenza, quello che sto vivendo io, perché lo sto vivendo in prima persona: qui è un Auschwitz, è un vero campo di concentramento, legalizzato e attualizzato nell’anno 2017. Ormai gli immigrati sono presentati soltanto come dei numeri e dei quattrini […]. Quindi noi parliamo qui di milioni di euro e io denuncio anche questo perché lo stato in cui vivono gli altri ragazzi è invivibile, come persone, e stiamo tornando alle leggi razziali nell’anno 2017. Anche io come cittadina emigrante, come cittadina brasiliana, anche io sto pagando e quindi quello che è capitato a me può capitare a qualunque persona domani, anche alla mia mamma, che è sposata: ci sono persone qui che sono sposate, che hanno figli, che sono cittadini italiani e si trovano dentro un CIE per essere rimandati a casa […]. Ho iniziato lo sciopero della fame per la mia libertà perché non ritengo giusto che io stia qui […].” (17 maggio 2017, da hurriya.noblogs.org)

Cpr di Ponte Galeria, Roma : resoconto del presidio del 13 maggio 2017
Sabato 13 maggio, in poco più di dieci siamo tornatx sotto le mura del CPR di Ponte Galeria per portare solidarietà alle recluse ed esprimere ancora una volta il nostro odio per quel lager e chi lo gestisce e ne legittima la presenza. Ad aspettarci una folta schiera di soliti noti stalker, in divisa e non, che evidentemente smaniavano dalla voglia di trovare la prossima preda da dare in pasto allo stato.
La comunicazione con le donne detenute è stata purtroppo unidirezionale, nonostante le nostre speranze di trovarle fuori in cortile dopo l’ora di pranzo. Supponiamo quindi che, come al solito, per spezzare il già fragile legame di solidarietà che cerchiamo di stabilire durante i presidi, i gestori del lager abbiano nuovamente costretto le recluse a rimanere dentro le celle impedendo loro di rispondere ai nostri saluti e cori. Abbiamo provato per due ore a raccontare alle detenute chi siamo e cosa succede fuori da quelle mura, delle lotte portate avanti dai/dalle migranti, dello stato fascista che uccide.
Sappiamo poco di quello che sta accadendo all’interno del CPR in questo momento, poiché le ultime donne recluse con cui eravamo in contatto, Olga e R. (che intanto ha passato le scorse settimane a Rebibbia), hanno finalmente riconquistato la libertà e siamo felici di poterle riabbracciare entrambe fuori da quell’inferno che è Ponte Galeria.
Le ultime informazioni fornite dai giornalisti entrati in quel lager poco tempo fa ci dicono che attualmente sono 63 le detenute, la metà rispetto a due mesi fa, per cui immaginiamo che anche le espulsioni si siano succedute in gran fretta. Gli ultimi annunci del governo ci parlano non solo della volontà di rendere di nuovo funzionale la sezione maschile del lager romano, ma anche dell’esigenza di aprire 11 CPR entro fine luglio. Il bando, che assegna alle prossime ditte complici delle deportazioni l’appalto dei lavori di ristrutturazione della sezione maschile, è scaduto a marzo quindi, che sia rispettata o meno la scadenza di luglio, quel che è certo è che tra qualche mese si ricomincerà a rinchiudere anche gli uomini rastrellati nelle strade di questa città e nei dintorni. Una violenza che, in tutto il periodo successivo alla distruzione della sezione maschile, era stata in parte limitata grazie alla mancanza di posti negli altri lager presenti sulla penisola, anch’essi fortemente danneggiati dalle rivolte degli internati.
Di fronte alla brutalità dello Stato che porta avanti rastrellamenti, reclude e uccide, indicando la repressione come l’unico strumento per mantenere la pace sociale, è certa la necessità di rafforzare la lotta contro le retate, i CPR, il ricatto dell’accoglienza e le deportazioni. Sostenere le lotte portate avanti con coraggio e tenacia da chi vive ogni giorno sulla propria pelle queste oppressioni; non girarci dall’altra parte illudendoci che tutta questa violenza non ci tocchi direttamente. Perché il nostro silenzio spalanca la porta alle loro menzogne.
Non ultimo, un abbraccio solidale ai migranti arrestati perché accusati di aver distrutto il Cara di Borgo Mezzanone e ora finalmente liberi e ai nostri compagni e compagne in carcere a Torino con l’accusa di aver ostacolato un controllo di polizia in quartiere.
Saremo sempre a fianco di chi si ribella a un sistema che ci vorrebbe docili e in catene.
Per la libertà di tutte e tutti! (13 maggio 2017, da hurriya.noblogs.org)

Dal CPR al carcere di Rebibbia
R. è una ragazza di 17 anni che adesso è nuovamente libera dopo essere stata imprigionata prima nel CPR di Ponte Galeria e poi nel carcere di Rebibbia. Qui di seguito riportiamo il racconto della sua storia, che ci dimostra che si può resistere agli abusi e continuare a lottare per la propria libertà.

R. è una ragazza di 17 anni assolutamente consapevole della violenza che lo stato sta agendo su di lei: per questo ha deciso di ribellarsi e raccontare la sua storia.
Ha 10 anni quando scappa con la madre dall’Ucraina e arriva in Italia. Qui frequenta le scuole nonostante i trasferimenti in varie città. A Brescia la madre trova un compagno che negli anni si dimostra autoritario e violento, tanto nei confronti della madre, alla quale impedisce anche di uscire di casa, quanto nei confronti di R. a cui viene anche impedito di vedere la madre.
R. è ancora minorenne, ma decide comunque che questa situazione non è più sopportabile: cerca allora di convincere la madre ad allontanarsi dal compagno e, quando questa si rifiuta, scappa di casa, riprendendosi libertà e indipendenza.
In questo periodo, dopo una rissa in cui lei non era direttamente coinvolta, viene convocata insieme a un’amica in questura per testimoniare ed entrambe vengono recluse in carcere per qualche giorno. L’amica di R. ha il passaporto ed è maggiorenne, ma non ha il permesso di soggiorno e dopo breve viene rimpatriata verso l’Ucraina. R. non ha i documenti con sé, e dopo 4 giorni viene rilasciata con un foglio di via.
Dopo qualche tempo si ritrova nuovamente tra le mani degli sbirri in questura. Lì viene tenuta in cella per due giorni senza che le venga nemmeno comunicato il motivo. Non le vengono dati né cibo né acqua; R. non ha con sé nulla, non un cellulare, non un assorbente, non un cambio, ha solo il certificato di nascita che però senza foto non basta come documento di riconoscimento. Iniziano gli interrogatori durante i quali, ammanettata alla sedia, subisce violenze da parte degli agenti, tanto che alcuni di loro intervengono per evitare che la cosa degeneri. R. non ci sta e nella cella si ribella a gran voce. Viene denunciata per danneggiamento aggravato perché accusata della rottura di una telecamera. Quindi è trasferita al CIE di Ponte Galeria. Solo una volta lì capisce dove è stata portata e cosa comporta e che, in quanto minorenne, in quel posto non ci potrebbe proprio stare. Cerca di contattare la madre in tutti i modi per farsi mandare il passaporto ma, ancora una volta, l’uomo non permette alle due donne di avere contatti e si rifiuta di aiutarla: “sei andata via, mo stai lì, magari quel posto ti raddrizza” le dice al telefono.
R. sa bene come tenere la schiena dritta e non si piega nemmeno di fronte ai controlli e alle perquisizioni delle guardie che per punirla sequestrano ogni oggetto che possa in qualche modo rappresentare autonomia, cura di sé o distrarla dall’oppressione di quel posto: specchi, pettini, accendini e persino le casse della musica, tutto è potenzialmente pericoloso e le viene quindi confiscato. Come in ogni carcere, nel lager di Ponte Galeria la spersonalizzazione delle detenute si attua anche attraverso il sequestro degli oggetti personali.
Ma questo non basta. La violenza dello stato agisce perfino nel supporre che la difficoltà di contattare e ricevere aiuto dalla madre, a causa della presenza di un compagno violento e possessivo, sia falsa, quindi la giudice non le crede, ritenendo impossibile che una famiglia neghi aiuto alla propria figlia: le viene così prolungata la detenzione ad altri 60 giorni per il mancato riconoscimento della minore età.
La storia di R. ci appare emblematica per aprire una riflessione su come la famiglia e i rapporti di potere che si generano al suo interno vengano usati come strumento di dominazione e controllo da parte dello stato patriarcale. Infatti, la narrazione che fa R. fa della sua esperienza davanti ai giudici non viene ritenuta credibile perché questo comporterebbe la messa in discussione dell’idea di famiglia nucleare da fiction, unico luogo di protezione e cura, su cui lo stato stesso basa le sue fondamenta.
Ancora una volta, le pratiche liberticide dello stato puniscono, imprigionano e negano l’autodeterminazione delle singole persone. (6 maggio 2017, da hurriya.noblogs.org)

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Roma: Lo Stato ha ucciso Maguette in un rastrellamento
In questo momento di dolore e rabbia, esprimiamo la nostra vicinanza alle persone care di Maguette e ai fratelli e alle sorelle della comunità senegalese, che in questi anni abbiamo avuto modo di conoscere nelle lotte e nel tentativo comune di respingere la continua repressione dello Stato.
Dopo il blocco del traffico sul lungotevere all’altezza di via Beatrice Cenci e l’accerchiamento della celere con la sua violenza cieca, abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola con alcuni lavoratori senegalesi scampati alla retata di questa mattina, cercando di ricostruire l’accaduto per evitare che l’unica voce sia quella di chi l’ha assassinato.
La mattina del 3 maggio, intorno le 11:30, la Polizia di Roma Capitale ha effettuato uno dei consueti blitz sul lungotevere ai danni dei venditori ambulanti. Queste operazioni sono il quotidiano e s’intensificano dal martedì al venerdì di ogni settimana.
Una macchina in borghese e una volante hanno chiuso la strada da entrambe le parti, lasciando scendere alcuni agenti in borghese e altri in divisa che si sono lanciati nella caccia all’uomo.
Insieme a Maguette c’erano diversi suoi compagni e ognuno è scappato verso una via di fuga in solitaria, cercando di disperdersi e togliersi gli sbirri dalle spalle.
Dopo 40 minuti dalla retata, delle donne si sono avvicinate ai compagni di Maguette, avvisandoli che uno di loro era steso per terra in una pozza di sangue, in via Beatrice Cenci. A quel punto tutti hanno scelto di tornare indietro, trovando Maguette privo di vita, tra le volanti delle forze dell’ordine e un’ambulanza giunta sul luogo. Sul luogo alcune persone hanno testimoniato di aver visto un agente colpirlo alla gamba, facendolo cadere.
Maguette Niang era un signore di circa 50 anni nato in Senegal, che da 25 anni lavorava come venditore ambulante in Italia. Lui e i suoi compagni affrontano ogni giorno, con 20 kg sulle spalle, i rastrellamenti delle forze dell’ordine. Nelle tante fughe che ci hanno raccontato, in molti si rompono le gambe e s’infortunano pur di non farsi sequestrare la merce e poter continuare l’attività lavorativa, cioè l’unico modo che hanno per sopravvivere.
La repressione dei lavoratori e delle lavoratrici ambulanti, in gran parte immigrat*, è da anni una costante: si tratta di una precisa modalità di gestione dei quartieri delle città in cui viviamo da parte delle varie Giunte.
E infatti sempre il 3 maggio si è svolta a Roma una delle frequenti incursioni della Finanza nelle case dei lavoratori senegalesi che vivono a via Campobasso, nel quartiere del Pigneto. A seguito di questa operazione, 3 persone si trovano ancora in caserma e molta merce è stata sequestrata. La strategia scelta dalla guardia di finanza è stata quella di fingersi un’acquirente in cerca di scarpe, bussando alle loro porte per poi dare il via alle perquisizioni. L’operazione che si è svolta a via Campobasso è solo l’ultima di una lunghissima serie, costata già numerose denunce, sequestri e decreti di espulsione agli abitanti senegalesi del Pigneto.
Per reagire all’assassinio di Maguette, i lavoratori e le lavoratrici senegalesi stanno organizzando una manifestazione a Roma, nelle prossime ore sapremo dirvi luogo e ora.
La rabbia è immensa, scateniamola.
3 maggio 2017, da hurriya.noblogs.org

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“CI SIAMO”: LA NOSTRA PROPOSTA, AL QUARTIERE E ALLA CITTA’, PER LO SPAZIO OCCUPATO DI VIA DE STAEL (milano)
Sabato 20 maggio un gruppo di immigrati arabi e africani sub-sahariani ha ridato vita, in questo quartiere, ad uno spazio vuoto da anni e abbandonato al degrado: insieme a loro, siamo in molti a partecipare attivamente a questo progetto; le donne e gli uomini del gruppo “Ci Siamo” sono, infatti, sostenuti dalla “Rete Solidale”, composta da lavoratori e studenti. Insieme vogliamo costruire un percorso che parli di immigrazione, casa, lavoro, e nella pratica, provi a dare soluzione a questi bisogni.
MEGLIO ABITATO CHE ABBANDONATO!
Per questo crediamo che, a fronte di una situazione sociale nella quale sempre più famiglie (sia immigrate che italiane) perdono la casa, lo spazio di via de Stael possa essere una risorsa, e possa aggiungersi alle varie strutture già presenti in città dove italiani e immigrati si organizzano insieme per difendere il diritto ad avere un tetto sulla testa.
NON VOGLIAMO, tuttavia, CREARE UN CENTRO DI EMERGENZA, O UN GHETTO DOVE RINCHIUDERCI: tutti coloro che partecipano, sanno che il nostro è un percorso di lotta, dentro il quale è fondamentale la condivisione delle decisioni e la relazione con gli abitanti del quartiere. Questo è il nostro “modello alternativo” di accoglienza, basato sulla conoscenza reciproca, sulla costruzione di percorsi e rivendicazione di diritti, proprio a partire da quelle condizioni materiali che accomunano tutti i lavoratori, di tutte le nazionalità.
COME “RETE SOLIDALE - CI SIAMO” ABBIAMO GIA’, DA QUALCHE MESE, UN POSTO ANALOGO IN VIA ESTERLE (nel quartiere di via Padova). In questo stabile è attiva ormai da diverso tempo una scuola di italiano, che vede la partecipazione volontaria di studenti e abitanti del quartiere; uno “sportello casa”, che affronta il problema abitativo; inoltre, lo spazio è aperto ad iniziative politiche e di socialità: è ciò che siamo intenzionati a proporre anche in via de Stael.
LE LOTTE DEGLI IMMIGRATI SONO LEGATE A QUELLE DI TUTTI I LAVORATORI!
Gli immigrati sono, tra tutti i lavoratori, quelli più precari e ricattabili. Molti di loro hanno lavorato nelle campagne del sud Italia, o nei cantieri nelle città, dove lavoro nero e paghe da fame costituiscono la base della condizione schiavile in cui sono costretti; senza tutele, senza diritti: esattamente come accade ormai ai lavoratori di tutti i comparti, sempre più sfruttati e perennemente sotto attacco con licenziamenti, ristrutturazioni, aumento dei ritmi e taglio dei salari. Molte sono le situazioni dove i lavoratori rispondono agli attacchi, dai lavoratori della logistica alle tante fabbriche dove gli operai si organizzano. A coloro che fomentano la guerra tra poveri, noi rispondiamo con la solidarietà concreta.
Nei prossimi giorni organizzeremo nello spazio di via de Stael momenti di incontro e conoscenza per il quartiere, e per chiunque sia interessato al progetto.
INVITIAMO TUTTI A PASSARE E CONOSCERCI!

20 maggio 2017
retesolidalemilano@gmail.com, Rete Solidale – Ci Siamo


resoconto del presidio davanti al carcere di Livorno
La chiamata per il 20 maggio è nata dall'incontro, durante un volantinaggio al carcere di Rebibbia, di un collettivo di compagni e compagne che si muovono contro il carcere con i famigliari di Stefano, morto a 37 anni nel gennaio scorso (era in carcere dal marzo 2013) - piantonato dalle guardie carcerarie - in un ospedale di Napoli.
Stefano è cresciuto in un quartiere proletario, i Giardinetti di Roma, dove per raccogliere il reddito per tirare avanti ci si trova di fronte, a volte, al “reato” e dunque alla galera. Un percorso affrontato, o anche volontariamente rifiutato, da migliaia di giovani, soprattutto abitanti in città, respinti o comunque sottomessi - in ogni regione, in particolare nel sud - a un mercato e a condizioni di lavoro sempre più gravose e umilianti.
Situazione questa resa possibile dall'ingresso in Italia come in Europa, di milioni di persone fuggite, spinte a fuggire, dai propri Paesi perché devastati e saccheggiati attraverso le guerre comandate dai gruppi industriali e agro-alimentari, dai loro Stati organizzati nella NATO.
Persone che, a migliaia, vengono spinte in carcere (circa un terzo delle 60mila persone in galera oggi non sono di origine italiana). Così nei quartieri, nelle fabbriche come nelle centrali di smistamento merci, negli ospedali come nei cantieri e nelle carceri, l'altolà ai padroni e al loro Stato può sorgere ed estendersi soltanto, come sempre, dall'unità-solidarietà che si deve essere capaci di praticare nella lotta.
La percentuale, rispetto al passato, delle persone uccise, sul totale di chi rinchiuso nelle carceri, si è notevolmente alzata; così come nelle città il controllo sulle persone è realizzato con i mezzi tecnici più diversi, così come tramite i militari e la polizia, come insegna l'“Operazione Strade Sicure”.
Chi in qualche modo si ribella sia sul luogo di lavoro sia nei luoghi dove abita e vive, occupando una casa, oppure opponendosi alla devastazione ambientale – ne è esempio la lotta appena iniziata nelle campagne di Lecce contro l'abbattimento degli oliveti, che ha trovato sostegno concreto dall'esperienza contro il TAV in Val di Susa – trova prima o poi sulla sua strada la repressione.
L'attacco dello Stato si avvale di diversi strumenti, che vanno dal foglio di via all'estensione del “regime” d'isolamento, della tortura, della censura, fino all'arresto in carcere o ai domiciliari. Quest'ultima forma, attuata per smaltire il “sovraffollamento”, oggi è impiegata contro almeno 20mila persone – ora a carico delle famiglie, che s'impoveriscono ulteriormente.
Chi in carcere “non collabora”, chi sceglie di dire di no alla continua sottrazione di libertà e di dignità, chi non accetta passivamente le imposizioni trattamentali di questo o quest’altro istituto di pena, perde la possibilità di accedere ai benefici, oppure non ottiene i 90 giorni l’anno di sconto sulla pena, oppure ancora non può accedere ai progetti di lavoro in carcere. Molte delle persone oggi in carcere non hanno nulla, alcuni nemmeno famigliari o amici fuori che possano sostenerli. Tenere la testa alta in una simile situazione è quanto mai difficile, anche perché i carcerieri utilizzano le differenze anche economiche tra i detenuti per fomentare scontri e giustificare il loro controllo totale.
Chi non accetta le umiliazioni, chi rifiuta ogni “collaborazione” nel processo, come probabilmente è avvenuto per Stefano, viene preso di mira nei modi più vigliacchi. A lui, alto oltre un metro e novanta, ma con lesioni alla testa in seguito ad incidente stradale, il carcere ha negato delle cure adeguate. I carcerieri, compresi gli psichiatri sempre pronti a imbottirlo dei mortali psicofarmaci, i giudici e i pm fuori, invece di curarlo, lo riducono a pesare appena 50 chili, a perdere la capacità di camminare sulle proprie gambe... lo uccidono.
Anche per questo a una settantina di compagni e compagne è riuscito a incontrarsi sotto il carcere di Livorno, una della carceri che ha scelto di “lavarsi le mani” della difficile condizione di salute di Stefano, e a esprimere tutto il dovuto odio verso lo Stato e il sistema carcerario, insieme ai famigliari di Stefano, di Alessandro ucciso a S.Vittore nel febbraio 2012, di Francesco ucciso nel carcere di Monza nel giugno 2013.
La lotta contro il 41bis è più necessaria che mai per far arretrare l'arroganza dello Stato, per dare forza e unire le più diverse lotte che attraversano l'Europa, in particolare la Francia.
Milano, maggio 2017


ROMPERE IL SILENZIO: presidio al carcere di san vittore (mi)
Sabato 17 giugno 2017, a partire dalle ore 12:00, si terrà davanti al carcere di S. Vittore una giornata di musica e lotta denominata “Rompere il silenzio”.
Torniamo ad 1 anno di distanza a riportare la nostra musica e le nostre argomentazioni sotto le mura di questo carcere ma con una gradita differenza: i nostri compagni, che al tempo erano qui rinchiusi con l'accusa di devastazione e saccheggio per essersi opposti tenacemente allo scempio di Expo2015 durante la giornata di lotta del 1 maggio, oggi sono liberi in seguito ad assoluzione in appello.
Torniamo davanti a questo luogo di ingiustizie contro le condizioni detentive disumane; contro la malasanità carceraria, per nulla interessata a curare ma solo a psichiatrizzare il detenuto attraverso la somministrazione di tonnellate di psicofarmaci; contro le sempre più frequenti morti DI carcere, come ad esempio quella di un uomo di 41 anni avvenuta il 21 aprile scorso al carcere di S.Vittore. Con questa giornata di mobilitazione vogliamo ricordare, senza vittimismo né rassegnazione, anche la morte di Alessandro, ucciso il 18 febbraio 2012 sempre nella stesso carcere.
Organizziamo questo concerto affinchè la nostra musica e i nostri interventi oltrepassino quelle mura per raggiungere tutti i detenuti, infondendo in loro la forza della solidarietà, perchè possano non abbassare mai la testa di fronte alla più crudele delle istituzioni totali: il carcere!
Il carcere è infatti l'ultima propaggine (seppur essenziale) della brutalità dell'apparato statale che attraverso le guerre, il saccheggio e la devastazione dei territori e delle risorse (condotti in primis dagli Stati NATO) costringe milioni di persone a fuggire dall'Africa e dal Medio Oriente verso i paesi dell'Europa, Italia compresa.
Questo si traduce, in sostanza, in un'"importazione" di manodopera a bassissimo costo, fondatasui ricatti del permesso di soggiorno - legato al contratto di lavoro -, dei campi di internamento edelle deportazioni, fino ad arrivare alla detenzione in un carcere vero e proprio. Tali condizionilavorative, nel giro di due decenni, si sono estese a tutti i lavoratori e le lavoratrici e si sonoconsolidate attraverso delle leggi, come il "Jobs Act" che aggrediscono principalmente le giovanigenerazioni.Anche a Milano questi strumenti di guerra sono utilizzati da tempo e l'assedio e i rastrellamenticompiuti da centinaia di poliziotti il pomeriggio del 2 maggio nella piazza della Stazione Centraledimostrano soprattutto il grado di legittimità che lo stato vuole assegnare a tali operazionirepressive attraverso a decreti liberticidi come il nuovo Minniti-Orlando.È questo contesto a determinare la morte, il 7 maggio, di un ragazzo di 31 anni del Mali, che siimpicca a un palo vicino alla stazione; vogliamo ricordare questo ragazzo insieme a tutti i morti nelle carceri.
In questa città ci sono delle reti di solidarietà che riescono a unire più persone nella lotta contro ilrazzismo, contro condizioni di lavoro sempre più aggressive, per avere un'abitazione e condizioni di salute e di vita dignitose. La realtà ci dice che queste lotte, che rappresentano la quotidianità di tanti quartieri popolari, devono sempre più scontrarsi contro la violenza dello stato, i suoi eserciti, i suoi tribunali e le sue carceri, che mirano a intimidire, dividere e annientare chi non vuole rassegnarsi a subire.
Riteniamo che l'efficacia della lotta contro la repressione dia la misura di quanto possiamo riuscire a dare continuità e incisività alle lotte che vogliamo portare avanti.
IL CARCERE NON È LA SOLUZIONE MA PARTE DEL PROBLEMA!

Per contatti: olga2005@autistici.org - cordatesa@autistici.org


Contro carcere, isolamento, differenziazione
17 maggio: presidio al tribunale di cagliari
Ripercorriamo qui di seguito i fatti accaduti a partire dalle rivolte nel carcere del Buoncammino nella primavera del 2013. Oggi quel carcere è stato chiuso, i detenuti trasferiti altrove, alcuni sono stati perseguitati per non aver taciuto gli abusi e i trattamenti disumani ricevuti, propri di ogni carcere. Vogliamo che questa udienza diventi occasione per cogliere e ribadire l’importanza di quelle lotte e portare solidarietà a chi è processato per il coraggio e la determinazione nel lottare contro il carcere.

Il 17 maggio è il giorno di una nuova udienza, a Cagliari, del processo contro Davide Delogu per le mobilitazioni avvenute fra la primavera e l'estate del 2013 nel carcere cagliaritano del Buoncammino, ora chiuso. Quel periodo è stato caratterizzato da diverse proteste in tante carceri italiane anche per via del sovraffollamento (quasi 70 mila persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 40 mila posti) che aveva portato ad una condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU), il cui pronunciamento finale era atteso per il 17 giugno 2013 (e poi prorogato al 24 maggio del 2014).
In quel contesto si inserisce la mobilitazione dei prigionieri del Buoncammino, cominciata il 25 maggio, con uno sciopero del carrello durato per quattro giorni, e accompagnata da un comunicato firmato da 301 detenuti. Le richieste riguardavano un'amnistia generalizzata, l'abrogazione dell'art. 41 bis o.p., dell'ergastolo ostativo, della recidiva, dell'art. 4 bis o.p. e, in generale, la fine dei ricatti e della differenziazione che sono propri del trattamento individualizzato e premiale, finalizzato a produrre “collaboratori di giustizia”. Non ultime, vengono denunciate le condizioni di sovraffollamento, la carenza di ore d'aria e di socialità, le condizioni fatiscenti dell'istituto di pena, che insieme provocano malattie derivate dalla detenzione, continui atti di autolesionismo e omicidi di stato, chiamati suicidi. Il comunicato precisa che la data del 25 maggio viene scelta come inizio della protesta perché in concomitanza si svolgeva una manifestazione a Parma “Contro carcere, differenziazione, 41 bis e isolamento, per la solidarietà di classe, a sostegno delle lotte di tutti i detenuti”.
Dopo il blocco totale della posta in uscita, messo in atto dalla direzione del carcere cagliaritano, il 17 giugno inizia uno sciopero dell'aria che si protrae per due giorni e che viene immediatamente attaccato dalle guardie con una perquisizione generale, durante la quale le celle vengono devastate senza alcun ritegno, con una chiara finalità intimidatoria e persecutoria. I prigionieri riescono a far uscire un secondo comunicato, che mette in luce la carenza delle ore d'aria giornaliere e le anguste condizioni dei passeggi, chiamati non a caso “quartini” – nonostante fosse presente un grande passeggio, mai utilizzato –, ed esprime la volontà di unirsi alle proteste e agli scioperi che avvengono in quei giorni in altre carceri. Questo secondo scritto è firmato da 134 prigionieri, che sarebbero potuti essere ben di più, se i detenuti dei due bracci del carcere, isolati tra loro, fossero riusciti a mettersi in contatto. All’esterno di queste carceri in lotta non mancano diverse iniziative solidali e un tentativo di coordinamento di una mobilitazione unitaria per l'amnistia generalizzata, contro la tortura, l’isolamento, le morti e l’ergastolo.
Il 9 luglio il Buoncammino è nuovamente in fermento: nell’ala sinistra del carcere alcuni prigionieri si barricano dentro le celle, bruciano delle suppellettili ed espongono tre striscioni, uno dei quali con scritto “NON SIAMO BESTIE”. Subito con un tam-tam vengono informati parenti, amici e alcuni compagni, che formano un presidio all’esterno. L’aria si surriscalda, è già tramontato il sole. All’interno del braccio si verificano diversi black-out, accompagnati dalle battiture rabbiose, dalle bombole del gas che gettate dalle finestre vengono fatte esplodere verso l’esterno del braccio, e dal bagliore del fuoco appiccato all’interno in diversi punti. Fuori, una calorosa risposta dei presidianti contribuiva ad alimentare il caos facendo scoppiare dei petardi. I barricati pretendono l’arrivo tempestivo dei giornalisti ai quali, dalle finestre, descrivono le condizioni detentive inaccettabili e tutto lo schifo del Buoncammino. Il giorno dopo il direttore passa in ogni cella e minaccia di trasferimento immediato chiunque apra bocca; quando fuori arrivano i compagni per portare nuovamente solidarietà non c’è quasi nessuna risposta: l’intimidazione ha sortito l’effetto cercato e i ribelli barricati vengono trasferiti, come spesso succede, al fine di spezzare la solidarietà tra i prigionieri. Uno di loro verrà pestato e trasferito a Lanusei. Il 9 luglio è anche la data d’inaugurazione del nuovo supercarcere di Bancali (SS), alla presenza dell’allora ministro della Giustizia Cancellieri.
Il 25 luglio Davide viene trasferito al Pagliarelli di Palermo e il 3 agosto gli viene applicato l'isolamento del 14 bis per 6 mesi. Il provvedimento del DAP cita tutta una serie di punti, tanto per mettere più legna possibile sul fuoco, che possano giustificare la sua “elevata pericolosità”: mette in primo piano la sua “intenzione di evadere” e lo indica come “promotore ed organizzatore di forme di protesta” (citando quella del 25 maggio) per i diversi presidi realizzati all'esterno; evidenzia i rapporti disciplinari presi negli ultimi 7 mesi, la sua “contiguità agli ambienti anarchici” e altre varie argomentazioni sostenute dal loro linguaggio tendenzioso. Come da dispositivo, Davide può avere in cella solo il tavolo, la branda, lo sgabello; ha diritto a due ore d'aria da solo, un colloquio al mese (disposto dal direttore) e dovrebbe avere almeno la radiolina, che non gli daranno se non dopo diverse proteste.
Da quella data fino a oggi Davide è quasi sempre stato in isolamento (il 14 bis può durare massimo 6 mesi ma può essere prorogato per soddisfare il sadico piacere del DAP) e non è più uscito dalla Sicilia, passando dalle carceri di Caltanissetta, Agrigento e infine Augusta, da cui ha tentato recentemente di evadere, senza purtroppo riuscirci. I pochi e soli momenti di socialità e comunicazione sono stati quelli per i processi che, nonostante le lunghe e faticose traduzioni, costituiscono occasione d’incontro, di solidarietà e di lotta comune contro il carcere, l'isolamento e la repressione. Non è un caso, infatti, che sull'onda inesauribile dell'emergenza mafia-terrorismo si stia progressivamente generalizzando una legislazione speciale che, tra l'altro, mira a estendere il processo in videoconferenza: se fino ad oggi molte delle richieste di processo a distanza sono state disattese – per i compagni No Tav, come pure per Davide in passate udienze –, il ddl Orlando di riforma della giustizia, attualmente in discussione in Parlamento, punta a rendere normale ciò che era nato come eccezionale, esclusivo per chi sottoposto al 41 bis.
La storia di Davide è una storia comune a tanti altri prigionieri che non sono disposti a barattare la propria integrità e dignità in cambio di qualche beneficio e che per questo vengono puniti anzitutto con l'isolamento totale e prolungato nel tempo, in luoghi lontani da familiari e amici, e privati della possibilità di comunicare. L'isolamento, con le vessazioni accessorie che favorisce, costituisce da sempre una leva efficace in mano agli aguzzini del DAP e ai suoi servi esecutori, per tentare di domare la determinazione a ribellarsi dei prigionieri più coscienti. Così è successo ai prigionieri in lotta a Ivrea, nel novembre dell'anno scorso, trasferiti ad altre carceri e messi in isolamento; così succede a Maurizio Alfieri, di recente trasferito dal carcere di Milano-Opera alla sezione di isolamento di Napoli-Poggioreale a causa della sua irriducibile sete di giustizia; così è successo a centinaia, migliaia di detenuti, che negli ultimi decenni hanno attraversato le carceri speciali, le sezioni di isolamento, l'Alta Sicurezza, il 41 bis, ovvero tutto l'armamentario che la controrivoluzione ha sviluppato e mantenuto, per arginare quel poderoso ciclo di lotte che ha attraversato il nostro paese per almeno un ventennio.
Contro il carcere, l'isolamento, la differenziazione e la violenza assassina dei padroni, del loro stato e dei loro cani da guardia: il 17 maggio davanti al tribunale di Cagliari.
Per sostenere le ragioni delle lotte portate avanti nel carcere di Buoncammino e nelle carceri di tutta Italia.
Per continuare la lotta, il 20 maggio saremo davanti al carcere di Livorno, per non dimenticare Stefano Crescenzi e tutti gli altri morti di stato.
Per leggere integralmente i comunicati e le lettere giunte dal Buoncammino nel 2013 si vedano gli opuscoli n.80 e 81 in www.autprol.org/olga

15 maggio 2017, OLGa

L’udienza è stata rinviata al 26 ottobre 2017. Alcuni compagni solidali, i parenti e gli amici di Davide si sono trovati per un presidio fuori e dentro il tribunale: all’esterno è stato volantinato il testo sopra riportato, all’interno del tribunale si è riusciti a salutare Davide, girando intorno alle guardie che lo scortavano per strappare un saluto e un abbraccio di solidarietà e complicità alla sua indomita sete di libertà. Al termine dell’udienza ci si è riuniti tutti e tutte all’esterno per attendere il blindato che lo ha riportato al carcere di Massama (Oristano) e salutarlo ancora una volta prima del ritorno in Sicilia.


lettere dal carcere di augusta (sc)
Riportiamo alcuni scritti di Davide Delogu, che il 1° maggio ha tentato di evadere dal carcere dove è imprigionato. Il primo sono stralci di una lettera, scritta appena dopo la tentata evasione; seguono poi il comunicato di Davide per una campagna per l’autoliberazione e un’ultima lettera con il racconto della sua impresa non conclusa.

[…] mi trovo in una cella liscia tutta sigillata, senza niente, mangio per terra ma con la dignità di sempre di non essere mai soggiogato da ciò che impongono i miti di infallibilità che si costruiscono sulla perfezione del potere carcerario. Vi sono sempre degli spazi, delle falle che rilevano la sua debolezza.
Unica mia sfiga è stato il vento, che ha spezzato per ben due volte i bastoni legati di lungo che sorreggevano gancio e corda. Ho perso tempo per aggiustarli e alla fine sono riuscito ad agganciare il muro di cinta, ma vi erano già fuori le sentinelle armate pronte a sparare, considerando che ho iniziato l’azione arrampicandomi dal passeggio e avendo pochi minuti a disposizione.
Ho proposto una campagna di liberazione che dovrebbe già essere pubblicata su Croce Nera Anarchica.
Per avere questa penna, il bollo e i fogli ho dovuto battagliare per 5 giorni. Ora sono in attesa del consiglio di disciplina, del trasferimento e della conseguente applicazione del fottuto 14 bis.
Non so neanche se partirà questa, perché qui la tensione si taglia a lamette.
Lotta per la liberazione! Un abbraccio! Davide.

Isolamento di Brucoli, 5 maggio 2017
Davide Delogu, C.R. Contrada Ippolito, 1 - 96011 Augusta (SR)


MINE NON VAGANTI (…FORSE…)
Siamo Anarchici in galera, chi da anni, chi da meno, e combattiamo quotidianamente la guerra contro la dominazione, faccia a faccia col nemico, dentro le loro gabbie. Conviviamo il rifiuto e il disprezzo, scontrandoci con l’autorità carceraria e il suo disciplinamento sbarrocratico ogni giorno.
Siamo perciò mine che non vagano (per ora…), le cui deflagrazioni, come i fatti recenti e passati insegnano, creano scompiglio, danni materiali e la frantumazione della logica carceraria (che in quanto anarchici è già stata demolita!). Trasmettendo certamente importanti stimoli vitali d’azione all’interno di una complessa palude desolante, per viversi la propria anarchia, qui, ora, subito!
Nel mio continuare a viverla come mina che non vaga (…forse…), apro con i fatti una campagna (per chi vuole accoglierla, altrimenti faccio da solo come ho sempre fatto) di autoliberazione che parta da se stessi, dalle proprie paure, dai dogmatismi, dall’indignazione, dai chiacchiericci, dai compromessi, dalla rassegnazione, dalle sbarre, dall’apatia e dalla desolidarizzazione, che fuori da queste mura sono troppo tangibili e dannose per restare “indifferenti”.
Non credo vi sia bisogno di spiegare ulteriormente un’azione dignitosa fatta per riprendere la vita nelle proprie mani.
Voglio finalmente mandare a tutti/e i compagni e le compagne arrestat* nell’ OP. “Scripta Manent” un grande abbraccio di lotta e solidarietà da mina non vagante, dato che ho scritto diverse volte a tutt*, con un riscontro di soli due compagni. [Davide si riferisce al blocco della corrispondenza tra lui e i compagni anarchici in AS2. n.d.r.]
Un abbraccio di guerra a tutti gli anarchici prigionieri. Per l’anarchia ora!

Presoni e Brucoli, 25 Aprile 2017
Davide Delogu
da autistici.org/cna

***
1° MAGGIO D’ATTACCO PER L’ AUTOLIBERAZIONE DAL CARCERE DI BRUCOLI–AUGUSTA
Obbiettivo: Evadere
Esito: Evasione non conclusa (che non è un fallimento!)
Causa: Il fortissimo vento bastardo!
Progetto: Riscattarmi allargando lo sguardo sovversivo della vendetta e lanciare una campagna di atti per l’autoliberazione.
Braccato in ogni spiraglio di movimento, con tutte le conseguenze maniacali di controllo che questo implica nel vissuto quotidiano carcerario che mi mette in cella 21 ore al giorno, per agire ho aspettato l’ultima perquisizione del 30 maggio, burlandomi dei carcerieri anche durante le battiture che fecero durante la giornata. Le ore d’aria che trscorro si fondano tra l’ elaborazione teorica e pratica che mi ha portato a raggiungere un perfetto piano di fuga, giacchè viene individuato un limite del controllo nella sua sofisticata complessità del meccanismo di controllo, delle falle, che si posso rintracciare in qualsiasi galera e che ne rivelano le sue intime debolezze.
Nonostante la soggezione che vorrebbero imporre sull’infallibilità che si costruiscono dal totalitarismo e perfezione del sistema carcerario, in realtà vi sono sempre degli spazi. Uno spazio del carcere che ho occupato e liberato dal momento in cui è iniziata l’azione.
Era una giornata di vento molto forte e la scelta del primo maggio derivò da un concreto calcolo tattico, in cui ci fu una consistente mancanza di personale, tanto da utilizzare la guardia addetta al monitoraggio diretto delle telecamere dei passeggi per aprire e chiudere questi ultimi. Che poi abbia combaciato con questa giornata di lotta, che si rinvigorisca allora la quotidianità delle azioni dirette anarchiche, che purtroppo è a livelli molto bassi. Eludendo dunque il controllo visivo della guardia dal passeggio mi arrampico sul tetto come una scimmia pronta a tutto e corro come un fulmine per tutto l’edificio, arrivando nel punto in cui sono saltato giù da un’ altezza di 4 metri, dirigendomi sotto la finestra della cella dove stavo io , per recuperare i 7 bastoni nastrati, legati e incollati di lungo, alla cui sommità vi era legato un gancio di ferro (che si trova all’interno di tutte le celle di tutte le galere, basta un’osservazione attenta) e alla base di quest’ ultimo vi era collocata saldamente la lunga “corda” intrecciata. Il tutto era stato lanciato la notte dalla finestra della cella facendo un buco nella dura e snervante griglia di ferro.
Prendo quindi la mia lancia di libertà e inizio ad arrampicarmi velocemente sulla ringhiera interna per portarmi davanti al muro di cinta. Sapevo che le telecamere della perimetrale registravano senza visione diretta, come pure sapevo che il sistema antievasione, cioè la rete antiscavalcamento coi relativi sensori d’allarme, non era in funzione. Inizio subito con gli occhi scintillanti a sollevare i 7 bastoni funzionali ad appoggiare il gancio nel muro di cinta o direttamente nella trave della rete, ma un’ infame raffica di vento fortissima mi trancia in due la mia lunga asse, avvertendo un colpo al cuore per la merdosa sfiga, venendo giù tutto il materiale meticolosamente preparato. Non perdendomi mai d’animo mi adopero nel riassemblare la parte danneggiata con delle cordicelle che mi sono portato dietro e slegando e strappando il punto di giuntura in prossimità del danno, facendomi perdere minuti preziosi.
Terminato il lavoro rialzo immediatamente il mio lungo bastone armato e mentre stavo sul punto di agganciare delle raffiche di vento più forti di prima mi sballottano da una parte all’altra per cercare di sostenere l’equilibrio spaccando di lungo un’intero bastone e spezzandone un altro! Porci maledetti! Non posso credere a tutta questa sfiga! Non dandomi per vinto, riprendo il lavoro di aggiustamento, eliminando il bastone inutilizzabile e il pezzo spaccato con cordicelle e materiale delle giunture. Sono già passati dieci minuti e tra altri dieci si accorgeranno della mia assenza. Quando per la terza volta, sbavando di rabbia, rialzo l’artefatto artigianale contro l’opprimente muro di cinta, come avevo già previsto, con la perdita di quasi due metri di bastone, quelli rimasti non furono sufficienti per poter agganciare e anche cercare di lanciarlo è stata impresa inutile. Cazzo!
Non può finire così e allora corro nella parte interna del carcere in direzione dello scarico-carico merci e mi porto dietro un bidone grande della spazzatura, lo colloco ai piedi dell’infame muro e ci salgo sopra insieme a quello che ne resta della mia unica arma di fuga che tiro su, ma ancora non arriva, però manca poco.
Riesco, alla fine, ad agganciare con ripetuti lanci. Finalmente!
Ma intanto sono passati circa venti minuti e quando mi arrampico nella corda per raggiungere la cima, dall’altra parte del muro c’era una sentinella pronta a spararmi, mentre gli altri mi circondavano da sopra il muro e da sotto.
Questa operazione era stata calcolata nel portarla a termine in 45 secondi dove già mi vedevo correre nei boschi circostanti!
Per niente sconfitto, ma in collera con tutta questa mala sorte, mi conducono in cella liscia e dopo 11 giorni mi viene di nuovo applicato per 6 mesi il 14bis.
La liberazione passa anche dalla libertà dei corpi da dentro le gabbie che ci rinchiudono e nessun isolamento totale può castrare la passione di sentirmi più vivo, più libero, per un presente d’attacco che meriti di esser vissuto, per un’anarchia da realizzare ora.
Oltre all’appropriazione del tempo per evadere, colpendo l’ordine costituito, senza riuscire nel mio intento per cause non dipendenti dalla mia volontà, l’azione voleva anche essere un mio contributo alla campagna di atti di auto liberazione lanciata da me, per gli impazienti, i nemici dell’autorità, per chi vuole mettersi in discussione senza freni di automatismo.
Sociopatico, per lanciarsi nella cospirazione.
Ricordiamoci che le scelte che facciamo oggi dettano il presente e quello che avverrà poi. Ovviamente mai domo, anche perché non si è conclusa la vicenda, saluto tutti i refrattari che hanno deciso ora di agire.
Un abbraccio per l’anarchia ai compagni imprigionati e a quelli non sottomessi.

Davide Delogu



per UNA PRESENZA SOLIDALE alL’UDIENZA DELL’OP. “SCRIPTA MANENT”
SEMPRE PER L’ANARCHIA
Il 5 Giugno 2017, si svolgerà a Torino l’udienza preliminare del processo per l’Operazione “Scripta Manent”, in cui vengono contestati a vario titolo, la costituzione e la partecipazione ad associazione sovversiva, diversi attacchi esplosivi a firma Federazione Anarchica Informale contro Carabinieri, politici, giornalisti e aziende impegnate nella costruzione di carceri e Centri di Permanenza Temporanea, nonché i reati di istigazione a delinquere e apologia di reato per alcuni scritti apparsi sulla pubblicazione di Croce Nera Anarchica.
Gli accusati sono 15, di cui 7 tuttora rinchiusi nelle sezioni AS2 di Ferrara, Alessandria, Rebibbia. I compagni e le compagne incarcerati sono sottoposti ad un continuo accanimento e ulteriori restrizioni nelle possibilità di comunicare, sia tra loro che all’esterno. Nonostante ciò, proseguono nella loro lotta contro questo sistema di dominio, mantenendo alta la conflittualità attraverso azioni di rivolta e contribuendo al dibattito tra anarchici e nemici dell’autorità.
In particolare:
- Nel Gennaio 2015, 7 anarchici prigionieri nell’AS2 di Ferrara, a seguito di una battitura di protesta e un acceso diverbio con le guardie, sono stati sottoposti a 15 giorni di isolamento ognuno a turni.
- Nell’Agosto 2016, l’anarchico Alfredo Cospito ha distrutto il vetro divisorio tra la sala colloqui e lo stanzino delle guardie, in solidarietà ai membri della Cospirazione delle Cellule di Fuoco prigionieri, per questo affronterà a breve ulteriori 15 giorni di isolamento.
- Nei giorni successivi all’Operazione “Scripta Manent”, l’anarchica Anna Beniamino e l’anarchico Alfredo Cospito hanno condotto uno sciopero della fame ad oltranza per porre fine all’isolamento e al divieto di incontro tra arrestati.
- Nei mesi di Settembre e Ottobre 2016, l’anarchico Marco Bisesti si è rifiutato di sottoporsi al test per la Tubercolosi al suo arrivo in carcere, a causa di ciò, ha scontato un lungo periodo nei sotterranei di Rebibbia.
- Nel mese di Novembre 2016, l’anarchico Alessandro Mercogliano si è rifiutato di sottoporsi ai riti di identificazione (foto e impronte) all’arrivo nel carcere di Ferrara. Ha appena scontato 15 giorni di isolamento.
- Nel mese di Dicembre 2016, l’anarchico Marco Bisesti, ha danneggiato le vetrate dell’ufficio guardie interno alla sezione AS2 dove si trova rinchiuso nel carcere di Alessandria, non pago, una volta in cella ha distrutto i pannelli opacizzanti installati sulle bocche di lupo. Anche per lui 7 giorni di isolamento.
- Dal 3 al 13 Maggio 2017, l’anarchico Alfredo Cospito ha intrapreso uno sciopero della fame contro la censura diventata più soffocante dopo la conclusione indagini, per cui praticamente tutta la corrispondenza è bloccata, sia in entrata che in uscita.
Allo stesso modo altri compagni tenuti in ostaggio dallo Stato, pagano sulla loro pelle la loro irriducibilità:
- La censura pressoché totale colpisce l’anarchica Maddalena Calore, rinchiusa nel carcere di Uta (CA).
- I compagni recentemente arrestati a Torino, hanno deciso di rifiutare e resistere al prelievo coatto del DNA, all’interno della questura.
- L’anarchico sardo Davide Delogu, a seguito di un tentativo di evasione, si trova in regime di isolamento punitivo dal 1 Maggio nel carcere di Augusta (SR) e ne avrà per 3 mesi. Si trova attualmente in cella liscia.
Solidarizzando con i nostri compagni, solidarizziamo con tutti coloro che lottano contro le galere dall’interno.
Per noi, rimanere spalla a spalla con i nostri compagni, significa anche assumerci collettivamente tutto ciò loro contestato, in quanto parte della lotta degli anarchici, dei rivoluzionari e dei ribelli.
Chiamiamo quindi ad una presenza solidale davanti l’aula bunker del carcere “Le Vallette” di Torino, Lunedì 5 Giugno 2017, dalle ore 09:00 in concomitanza con l’udienza preliminare del processo per l’Operazione “Scripta Manent”.

Pisa, 21 maggio 2017
Anarchici e Anarchiche, Assemblea “Sempre a Testa Alta”
da autistici.org/cna


lettera dal carcere di Napoli-poggioreale
Ciao, spero che stiate tutte/i bene, non posso dirti lo stesso di me, perché da come vedi mi hanno trasferito "nell'inferno di Poggioreale" e qui gli abusi sono prassi consolidata.
Tutto questo dopo il secondo 14 bis "innocente", grazie a quei signori di Opera e al tribunale di sorveglianza [di Milano, ndr]. Avrai saputo che mi hanno respinto il reclamo del 14 bis; ho intenzione di impugnarlo e andare alla corte europea dei diritti dell'uomo.
Mi hanno messo in una sezione isolato da tutti, in una cella dove all'esterno c'è un cancello chiuso a chiave e ci sono altre celle con gente malata psichica.
Da me non possono venire neanche i lavoranti, non mi consentono di mandare una sigaretta a nessuno, quando esco chiudono tutte le altre celle, a chi parla con me chiudono il blindato e lo spioncino.
Il passeggio è un letamaio, è tutto sporco e i muri cadono a pezzi, in alto c'è una gabbia arrugginita e ogni volta mi cade la ruggine in testa. Anche in cella c'è l'intonaco che cade: ieri ho dovuto buttare il mangiare perché era caduto un pezzo di muro.
Poi, non ti dico il vitto… neanche gli animali lo mangiano; meno male da oggi mi arriva il vitto in bianco, almeno mi posso mangiare la pasta. Pensa che la sera, il mangiare che avanza dal carrello rimane a sette-otto metri dalla mia cella: ti lascio immaginare la puzza, l'altra sera è rimasto il pesce e anche gli agenti si lamentavano.
Non mi fanno portare la radiolina al passeggio e ogni volta mi perquisiscono. Sono stato male tre notti e qui non ci sono gli infermieri, per via che la Asl ha tagliato i fondi, per cui la notte si può morire nel più assoluto silenzio e menefreghismo. […]
Sto aspettando di sapere se sono assegnato qui, di sicuro non ci voglio stare e farò di tutto per partire e in sezione troverò tanti che la pensano come me. […]
P.S.: pensa che nelle altre celle sono tutti in pigiama come i vecchi O.P.G… pazzesco!

10 maggio 2017 [Visto della censura]
Maurizio Alfieri, via Nuova Poggioreale, 177 – 80147 Napoli


lettere dal carcere di milano-opera
Ciao, come prevedibile, da qui si risponde alle lettere, tenendo conto dei problemi nel riceverle. Di cose da scrivere ce ne sono, per esempio quanto accaduto ad alcuni di noi nelle settimane scorse. Le mamme venute in visita per il colloquio, sono state fatte spogliare dalle guardie, fino a far loro togliere l'assorbente per tagliarlo a pezzi; anche alle figlie, ai figli che le accompagnavano è stato imposto di spogliarsi, di fare l'urina. Tutto ha avuto esito negativo, non è stata trovata traccia di droga.
Altro fatto che colpisce tante persone qui rinchiuse riguarda il rigetto dell' “affidamento provvisorio” (decretato dal magistrato di Sorveglianza Maria Grazia Moi). Un documento che si può “impugnare”, attraverso l'avvocato, ma entro 3 settimane, richiedendo la documentazione al carcere che però non risponde, rendendo così impossibile la fissazione della “camera di consiglio”. In tutto questo bisogna tener conto degli ostacoli innalzati dai carcerieri anche alla comunicazione postale e telefonica con gli avvocati.
Si è saputo del trasferimento di Maurizio a Poggioreale, che è un carcere molto duro, speriamo che non lo trattino male. Là, come qui, è necessario lottare, tenere la testa alta. Un forte abbraccio con affetto e stima, un saluto a pugno chiuso e sempre a testa alta.

Inizio di maggio 2017

***
[...] Ho visto quanto la galera ti tenga lontano dalla realtà e quanto non serva ad un cazzo, se non a farti incazzare di più e ad allenarti con regole e una “rieducazione” che non stanno in piedi e che un domani in libertà non ti serviranno a niente. Perché in fondo fuori, tranne a qualche persona realmente libera e con il cuore buono, non fotte a nessuno di noi carcerati. Questo penso sia anche per via della disinformazione sul mondo carcere, o meglio della malainformazione, perché, a chi sta in alto gli sta bene mantenere questo clima e modo di pensare sulle galere e su chi ci sta dentro perché penso, che se si dicesse realmente e senza filtri cosa c’è dietro la legge, le carceri e i detenuti – non dico tutti perché sarebbe impossibile ma neanche la metà del popolo – qualcuno inizierebbe a pensarla in maniera diversa e si libererebbe da tutte quelle paure che lo Stato gli fa vivere per farli sentire in perenne pericolo, per fargli credere che lo Stato protegge e tutte queste cazzate qui. Dario Fo diceva: fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere e saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono, la conoscenza ti fa dubitare, soprattutto del potere, di ogni potere.
Ora, non so se l’ho scritta giusta e se c’è qualcosa di sbagliato mi scuso, ma comunque il non fare conoscere è uno strumento di controllo ed in Italia è molto usato – o meglio – fanno conoscere solo quello che gli fa comodo o gli fanno conoscere solo cose distorte.
Se ci pensi è una follia che ci sia un’intera nazione che non sa realmente cosa gli accade intorno e in più ora lo Stato ha trovato un nuovo modo per mettere ancor di più a tacere la loro, se c’è, voglia di conoscenza. Con tutti ‘sti cazzo di telefonini, internet e cazzate varie, li tengono rinchiusi in una gabbia senza che neanche se ne accorgano e così hanno fatto morire il vero valore delle cose. Penso soprattutto ai giovani, cazzo hanno mille amici su Facebook, poi se vai a vedere realmente ne conoscono dieci, il valore dell’amicizia è altro, non è scriversi da un computer, o mettere i “mi piace”, le faccine e ‘ste stronzate qui. Io mi ricordo quand’ero ragazzino, giravo compagnie di quindici, venti, trenta ragazzi e ragazze, un bordello, si eravamo più o meno vestiti tutti uguali per via della moda del momento, però era un’altra cosa, sai le prime canne, il farsi belli per andare in cerca di ragazze, il menarsi alle giostre o in altre zone per le cazzate, il prendersi per il culo, il parlare in slangs inventati al momento, le sigarette ecc... tutte cose che un ragazzino si perde e un domani che cazzo ha fatto, niente, minchia, questi passano accanto alla vita senza realmente viverla, e come ha scritto Alda Merini “il grande premio dell’uomo è la sua vita” ma se non vivi sta vita alla fine non hai vinto nessun premio, boh, sta cosa di vedere sempre più i ragazzi impigliati sempre più nella ghiotta spirale digitale, mi manda fuori di testa... scusami se mi sono dilungato su questo discorso ma mi ripeto, questa cosa mi manda fuori di testa, cazzo, sono uscito dopo tanti anni di galera e ho visto cose assurde, sembrava di vedere gente portata al guinzaglio da ‘sti I phone, tablet, telefonini e cazzate simili, assurdo credimi, non riesco a farmene una ragione. [...]

Milano-Opera, 15 aprile 2017


Lettera dal carcere di Teramo
Carissim* compagn*, ho ricevuto alcuni giorni addietro il “nostro” opuscolo ricco di lettere e articoli militanti e vi ringrazio per il bel calendario sulla Resistenza che ora fa bella mostra nella mia cella.
Essendo il 25 aprile alle porte approfitto di questa mia per fare a voi tutti compas del collettivo i miei auguri per la festa di liberazione. Senza retoriche ci tengo a dirvi che siete degni del sacrificio dei valorosi partigiani e che possa quindi la loro stella continuare ad indicarvi la via.
Sono passati ormai 72 anni da quel 1945 e come ogni lustro l'ANPI tornerà a sfilare nelle piazze italiane. Questo rito è ormai vuoto e sembra più un cerimoniale per autocelebrarsi. Cosa resta infatti di quello spirito che portò migliaia di uomini e donne a salire sui monti per organizzare la Resistenza ai vili nazi-fascisti? Niente!
Non voglio aprire una polemica, ma davvero c'è da vergognarsi davanti a quello che l'antifascismo è diventato. Le destre avanzano. I fasci aprono le loro sedi nei nostri quartieri e le istituzioni non si nascondono più dai loro disegni reazionari. Tutti si appellano alla Costituzione quando vedono il fascismo rialzare la testa, ma è ormai evidente che lo stesso, oggi come ieri, faccia comodo agli interessi dei potenti.
C'è una preoccupante deriva razzista che questo smemorato Paese sta prendendo, e non vorrei che l'errore del Partito Comunista Italiano, per intenderci, quello che sottovalutò quel porco di Mussolini e i suoi infami fasci, si ripeta.
Si dice che la storia insegna e se così fosse voglio credere che le persone non restino a guardare. Abbiamo tutti il nostro compito di mobilitarci e di riorganizzare una nuova resistenza perché non si arrivi nuovamente a quel punto di non-ritorno. Una nuova resistenza che unisca tutti i sinceri antifascisti e che finisca di liberare l'Italia da ciò che resta di quel periodo. E fidatevi che resta tanto, ma sono molto bravi a nasconderlo. Resta il codice Rocco, resta la cultura repressiva nelle Forze d'Ordine, restano simboli e rituali e si riaffacciano, con la copertura dei loro protettori, organizzazioni che si rifanno al ventennio.
Diventi quindi il 25 aprile non una passerella ma un momento di riflessione che ricordi a tutti che la libertà va guadagnata con l'impegno attivo e allo stesso tempo difesa da chi, in nome della sicurezza, vorrebbe oggi limitarla.
Dalle carceri alle piazze… Resistenza! Davide

23 aprile 2017
Davide Rosci, Località Castrogno, Strada Rotabile - 64100 Teramo


Lettere dal carcere di Roma-Rebibbia
[…] arriviamo alla riflessione che stavo maturando in questi giorni dopo aver appreso che nonostante io sia qui allo stesso reparto (G9) da più di 7 anni, a detta dell'educatrice che in tutti questi anni ho visto solo 5 volte (per 4 anni non ci ha mai parlato), mi abbia detto che non mi hanno ancora chiuso l'osservazione e che non c'è un minimo di una sintesi fatta!
In teoria da ormai sette mesi sono rientrato nei termini per richiedere i permessi premio! L'educatrice senza conoscermi, mi ha detto che è presto solo perché mi mancano ancora 9 anni! Così a prescindere! Senza tener conto che in tutti questi anni non abbia mai avuto sanzioni ecc. ecc.! Ma quello che mi fa più “rabbia” è che mi hanno negato il diritto di chiedere il permesso che spetta al magistrato decidere!
Comunque io ho già preparato l'istanza che invierò con o senza il loro consenso, poi se il magistrato rigetterà per mancanza di relazione lo impugnerò! Ormai è diventata una questione di principio! Perché chi ci dovrebbe “rieducare” non fa il proprio lavoro?
Grazie ancora, a presto, Roberto.

inizio di maggio
Roberto Calia, via R. Majetti, 70 - 00156 Roma

***
Il Politically correct resti fuori dal carcere
L'amministrazione penitenziaria ha deciso di proibire l'uso della parola “cella”, da sostituire con “camera di pernottamento”. Insomma si deve nascondere che i condannati al carcere stanno espiando una pena, e invece sono occupanti di caritatevoli ospizi notturni.
Tutto questo gronda di ipocrisia, ossia falsità. Falsa anzitutto la dizione: semmai si dovrebbe parlare di “camera di sovraffollamento”, in cui i detenuti vivono, non solo la notte, nelle condizioni incivili che sappiamo. Falso, e per di più offensivo, il modo di nascondere la realtà della pena: così come si offende, ad esempio, lo spazzino chiamandolo “operatore ecologico”, perché a torto si considera privo di dignità il suo lavoro.
Lo stesso vale per il detenuto, che non è un pernottatore ma una persona che l'espiazione della pena rende titolare di diritti: secondo l'art. 27 della Costituzione il diritto a un trattamento non contrario al senso di umanità.
Si parla sempre di trasparenza dell'Amministrazione Pubblica: non sarebbe allora il caso che il ministro Orlando, che mostra di occuparsi della concretezza delle riforme e non dei nominalismi, ci faccia sapere quali sono i funzionari che gli italiani pagano perché facciano qualcosa di utile per i detenuti, e invece perdono tempo a cercar di nascondere il loro stato. Resta fermo il punto che la civiltà di un Paese si vede dalle sue carceri. E dalle sue celle. E questo la dice lunga.
Grazi ancora ragazzi, anche questa volta mi è arrivato il vostro opuscolo e il giornale ed anche un libro, voi non sapete quanto è importante un libro, porta la mente in una dimensione diversa dal carcere.

inizio di maggio 2017
Marco Costantini, via R. Majetti, 70 -00156 Roma


saronno: CONTRO IL DASPO URBANO DIFENDIAMOCI DALLA POLIZIA
“Più ci si allontana da uno sguardo poliziesco sull'ambiente, più ci si avvicina allo scontro con la polizia”.
Viviamo tempi mediocri. Un'epoca orfana del sogno e della dignità, un'epoca di barbarie e di costante guerra e distruzione. Un'epoca in cui non desta scalpore il fatto che un quotidiano nazionale di fronte ad un suicidio (ci riferiamo al ragazzo che si è tolto la vita in stazione Centrale a Milano impiccandosi) grida al degrado. "Un corpo penzolante in pieno centro? Parbleu! Levate quella carcassa, se no arrivano le mosche!" Ecco cosa sono le città in cui viviamo: un palcoscenico di recitanti. Ognuno ha il suo posto, ognuno ha il suo ruolo, nella grande recita collettiva di questa società che deprime le nostre vite ed esporta armi e morte in giro per il mondo. In questa fiera dell'apparenza recitiamo a tal punto la nostra parte da non riuscire nemmeno più ad individuarci come tali: attori, comparse, grazie alle quali è possibile il mondo per come è.
E di chi dovrebbe essere la responsabilità di una fabbrica di morte e distruzione come la Aermacchi se non di tutti noi?Lo spettacolo deve continuare, e così la politica recita anch'essa la sua parte. Sono programmati e pensati i post al veleno di Salvini sui social network, sono programmate e pensate le reazioni della popolazione. Il teatrino della democrazia è evidente più che mai, eppure ancora fatica ad essere individuato come tale.
L'attuale ministro dell'Interno a targa PD, Marco Minniti, oltre ad aver legiferato sui migranti delle vere e proprie leggi razziali (a i rastrellamenti in stazione Centrale a Milano ne sono l'evidenza lampante) ha anche regalato ai sindaci un nuovo strumento, comunemente noto come Daspo Urbano.
Il Daspo Urbano, nome scelto dall'opinione pubblica per la somiglianza con il provvedimento di repressione all'interno degli stadi, è inserito nel decreto legge che dispone nuove norme "urgenti in materia di sicurezza delle città". L'obiettivo è allontanare, per un tempo che arriva a 6 mesi, tutti quegli individui che presentano comportamenti difformi e indisciplinati alla pubblica moralità e al pubblico decoro. I poveri, i migranti – o più in generale tutti quegli indesiderabili considerati ai margini della cosiddetta società civile – sono solo scomoda polvere da nascondere sotto il tappeto. Non sta bene avere i poveracci in giro, che se ne stiano nelle loro topaie in periferia.
Centrale in questo provvedimento è il potere messo nelle mani del Sindaco, che può, a sua completa discrezione, distribuire Daspo Urbani a destra e a mancaLe infrazioni maggiormente contestate, ad oggi, sono il bivacco, il consumo di alcolici in strada, gli imbrattamenti e l'occupazione di edifici. Ad essere salvaguardati, insomma, devono essere soltanto immagine, ordine e profitto.
Viviamo tempi mediocri. Siamo certi che i più plaudiranno a questo ennesimo giro di vite che rende le città in cui viviamo ancora più soffocanti. Che dire della richiesta di maggiore controllo e maggiore sicurezza in una società securitaria come la nostra, in cui la Polizia è onnipresente in ogni forma possibile (caporeparto, telecamere, ufficiali giudiziari, psichiatri, droni, controllo del vicinato, social network, controllori)? Nella tranquilla e terribile quotidianità accadono catastrofi, ma camminiamo talmente a capochino da non avvertirle. Il Daspo Urbano è l'ennesimo strumento liberticida e classista in mano ai sindaci in un periodo in cui le violenze poliziesche e sul posto di lavoro si susseguono. A Saronno la Polizia Locale targata Fagioli è sempre più militarizzata e armata, le frontiere con la Svizzera sono più blindate che mai, utilizzando anche l'Esercito. Vi ricordate il pestaggio di Talla da parte della Polizia Locale? E Beppe Uva ammazzato dai Carabinieri a Varese?
Stringono il recinto? Sfondiamo il cancello! Contro retate, deportazioni, rastrellamenti, controlli! Contro ogni polizia!
Sabato 3 giugno PRESIDIO contro il DASPO URBANO, ore 15 in p.za Portici (Saronno, VA)

maggio 2017, da collafenice.wordpress.com

TORINO REPRESSIONE E COMPAGNI IN CARCERE
Il 3 maggio di mattina presto, con una buona varietà di mezzi, tra camionette e autovetture, la polizia e i carabinieri (e i ROS) hanno fatto irruzione nell’ex scuola materna di via Alessandria, nell’occupazione di corso Giulio 45, in quella di via Borgo Dora 39 e in alcune abitazioni private per portarsi via Antonio, Giada, Antonio, Camille, Francisco e Fabiola. Un settimo compagno non viene trovato e tutt’ora è uccel di bosco.
L’arresto è motivato da un episodio avvenuto al termine di una serata di autofinanziamento svoltasi all’Asilo Occupato tra il 26 e il 27 febbraio, quando alcuni compagni risposero alle provocazioni di una pattuglia dei carabinieri che si era fermata davanti al posto. I compagni sono inizialmente accusati di sequestro di persona, danneggiamento del mezzo, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale.
La mattinata repressiva non si è comunque fermata agli arresti. Le forze dell’ordine oltre a portare via i sei compagni, hanno all’Asilo occupato danneggiato gli attrezzi da lavoro, spaccato vetri e porte e, anche se dev’essere verificato ancora con certezza assoluta, sequestrato i soldi della cassa benefit. La nota più interessante è quella delle perquisizioni, giustificate da un’altra inchiesta, come la prima condotta dal Pm Rinaudo: hanno portato via tutti i computer, hard disk, alcuni cellulari e cercavano bombolette spray e alcuni capi d’abbigliamento per l’identificazione di chi il 5 aprile ha imbrattato le sedi di Iaad e Lavazza.
Non ce ne stupiamo, i nuovi padroni del quartiere esercitano in quattro e quattr’otto i lori interessi, quelli economici e quelli repressivi. La mattinata è stata dunque lunga e dopo la perquisizione polizia e carabinieri si sono intrattenuti ulteriormente per permettere ad alcuni tecnici dell’Iren dell’Italgas di controllare gli allacci dell’Asilo; l’operazione è infatti terminata solo quando l’approvvigionamento di gas è stato tagliato. Quest’azione ha ricevuto però una risposta immediata: compagni e complici hanno percorso alcune vie del quartiere fino ad arrivare in una sede dell’Italgas in corso Palermo per vergare con la vernice sulla facciata la loro infamia. Il piccolo corteo è passato poi vicino alla nuova sede dirigenziale della Lavazza intonando cori per la libertà, contro il colosso del caffè e il suo palazzo scintillante.
Il Tribunale del Riesame ha poi stabilito la scarcerazione di Giada, Camille e Fabiola, mentre ha trattenuto Antonio, Francisco e Antonio al carcere delle Vallette, perchè le case indicate per i domiciliari non sono state reputate adatte. Le compagne si trovano ora ai domiciliari con tutte le restrizioni.

maggio 2017, liberamente tratto da autistici.org/macerie

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Riportiamo alcune righe scritte da Camille, Giada e Fabiola quando ancora stavano all’interno della patria galera. In quei giorni all’interno delle Vallette hanno potuto passare la socialità insieme e mettere un po’ di pensieri sulla carta fino a che un giorno hanno risposto a un saluto rumoroso di compagni fuori e hanno speso qualche parola colorita contro la secondina celermente arrivata a redarguirle. Per questo sono state denunciate per oltraggio a pubblico ufficiale e hanno sospeso loro le due ore di socialità quotidiana, quelle in cui in sezione si può stare in cella in compagnia fino a un massimo di quattro detenute.

Stanche di guardare
Stanche di guardare i notiziari che parlano ogni anno di migliaia di morti in mare. Stanche di guardare le forze dell’ordine rastrellare le strade su base etnica. Stanche di guardare chi non può pagarsi un affitto e finisce in mezzo ad una strada. Stanche di guardare persone che scappano dai vigili con in mano i loro sacchi di merce a basso costo. Stanche di guardare gli sgherri dello Stato che uccidono e sentir ripetere che sono incidenti di percorso.
Stanche di guardare abbiamo deciso di non subire più le ipocrisie di quest’epoca e di esprimere chiaramente la nostra rabbia contro ogni guerra, ogni divisa, contro ogni struttura per il controllo e la gestione dei migranti, contro ogni carcere e chiunque viva dello sfruttamento altrui.
Abbiamo deciso di vivere in un quartiere in forte riqualificazione dove lottare significa anche non abituarsi mai a guardare la politica portare avanti il proprio operato indisturbata, ma fare casino quando sgomberano interi palazzi o staccano allacci abusivi.
Nelle stesse strade in cui vengono aperti negozi, ristoranti e locali d’élite, infatti, si compie una vera e propria pulizia sociale, per esempio spostando il Balon e il Suk e cacciando chiunque sia considerato indecoroso. A Torino, come in altre città in Italia e in Europa, l’obiettivo è anche quello di pacificare quartieri detti “popolari”, ma speriamo che questo non avvenga senza difficoltà.
Il 3 Maggio siamo state arrestate assieme ad altri compagni con l’accusa di esserci messe in mezzo ad un controllo dei carabinieri. È sotto gli occhi di tutti la sistematica cadenza con cui la repressione sfonda le porte di chi ha deciso di non arrendersi all’ineluttabilità del presente. Ad essere sotto accusa è, infatti, la nostra volontà di continuare a cercare complicità e momenti collettivi di resistenza.
Ci saremo ancora come spine nel fianco di una società che ci vorrebbe obbedienti, remissive e rassegnate, convinte che la libertà si possa trovare nella trasformazione alchemica dell’indifferenza in solidarietà, dell’isolamento in auto-organizzazione e della paura in azione.

Giada, Kam, Fabiola
15 maggio 2017

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Sul prelievo coatto del DNA
Sempre dal carcere delle Vallette, il racconto di un compagno, ancora imprigionato in quel carcere, sul prelievo coatto del DNA e di come tentare di rendere difficile questa pratica disgustosa, ennesimo delirio del controllo statale.

Scrivo qualche riga per raccontare quanto è avvenuto durante il nostro arresto di qualche giorno fa, relativamente alla permanenza nella questura di via Grattoni, a Torino e al procedimento identificativo.
Le parole che seguono, come spero si capisca, non mirano ad impressionare nessuno, ma a condividere una piccola esperienza sulle modalità repressive della controparte, in particolare sul prelievo del Dna, di cui in Italia si sa ancora ben poco.
Appena arrivati in questura per formalizzare l’arresto siamo stati sottoposti ai controlli di rito, fotosegnalazione e prelievo delle impronte.
Una volta completata questa fase hanno iniziato a chiamarci per il prelievo del Dna; anche se in quel momento eravamo separati, come del resto in quasi tutte le fasi dell’identificazione, tutti e tutte avevamo in mente cosa fare. Avendo già discusso sulla questione Dna e interessati a capire se ci fosse spazio di manovra per opporsi, abbiamo deciso di rifiutare il prelievo e resistere.
Una volta comunicato il nostro rifiuto, Digos e polizia scientifica hanno iniziato a parlottare, mimando gesti di quello che sarebbe stato il prelievo con la forza.
Detto ciò, io e un altro compagno, una volta messi insieme, abbiamo acceso entrambi una sigaretta. Non appena abbiamo iniziato a fumare, dopo qualche tiro, cinque agenti della Digos ci si sono gettati addosso nel tentativo di sottrarci le sigarette, dopo un po’ di strattonamenti una di queste è stata trovata, un’altra no. Così uno di noi è stato messo da parte per essere perquisito e malgrado ciò nulla è stato rinvenuto.
Un agente della Digos visibilmente innervosito dall’accaduto, è ritornato indietro e tra le cicche spente per terra, lasciate là dalle decine e decine di fermati ogni giorno e magari dagli stessi agenti della polizia, ne ha presa una a caso dal pavimento e l’ha messa in una busta con su scritto: “Dna + nome e cognome”. Alla richiesta di verbalizzare l’accaduto è stato risposto un netto rifiuto.
Dopo un’ora si è iniziato con il prelievo vero e proprio. Uno ad uno a turno siamo stati portati in un ufficio della polizia scientifica. Racconterò ciò che è accaduto a me.
Sono entrato nell’ufficio e sono stato ammanettato e messo a sedere, sulla mia sinistra è stato piantato un treppiedi con una telecamera. Di fronte a me due uomini in camicia della scientifica, dietro di me 5 o 6 agenti della Digos. Due carabinieri in uniforme, infine, a presenziare alla cerimonia.
Comincia lo spettacolo, la telecamera inizia a registrare, viene aperta la busta del Ministero con il materiale, un funzionario di polizia recita una formula di rito a cui io rispondo negativamente. Tale formula ha il sapore della sentenza. Così gli agenti della Digos, aiutati dai carabinieri, si buttano su di me, mani al collo, testa all’indietro, stringono forte, cercano di farmi spalancare la bocca, mi danno colpi nel ventre e con le dita cercano di scavare le guance e nel costato. Intanto si avvicina uno dei due in camice e con il tampone mi preme con forza sulle labbra serrate. Mi tappano il naso, non riesco più a respirare, apro la bocca, l’agente ci ficca dentro il tampone per più volte. Mi lacrimano gli occhi, ho un conato di vomito, sono pieno di bava sulla faccia. L’operazione si ripete una seconda volta, sempre peggio e neanche i presenti, forse novizi della pratica, sembrano gradire la scena.
Finisce tutto, chiuso il sipario, ma senza applausi.
Queste quattro parole scritte volevano dare una fotografia su ciò che accade in caso ci si rifiuti di aprire spontaneamente la bocca, oltre che mostrare come il prelievo, come detto nella prima parte del testo, si presti alla completa arbitrarietà di chi lo effettua raccogliendo campioni un po’ come meglio crede.
Molti diranno: “Cosa ti aspettavi da un prelievo coatto? Un invito a cena?”
Personalmente mi aspettavo questo. Certo viverlo non è esattamente come pensarlo, ma ero pronto a questo. Soprattutto ero interessato a capire cosa possiamo fare, dove ci possiamo spingere, cosa ci possiamo inventare per impedire, contrastare e non normalizzare questa pratica abominevole, disgustosa come chi la esegue.

Uno degli arrestati a Torino il 3 maggio 2017
16 maggio 2017, da autistici.org/macerie

PER SCRIVERE AI TRE COMPAGNI ANCORA ALLE VALLETTE:
Antonio Pittalis, Antonio Rizzo, Francisco Esteban Tosina
c/o casa circondariale Lorusso e Cutugno, via Maria Adelaide Aglietta 35 - 10151 Torino

lettere da le vallette di torino
Carissim* compagn* di OLGa, vi scrivo dalla 3a sezione del blocco A del carcere delle Vallette. Insieme ad altre cinque persone sono entrato qui da circa 20 giorni fa in seguito ad un'operazione repressiva di carabinieri e polizia in alcune case occupate di Aurora a Torino. Vi scrivo per raccontare, soprattutto agli altri prigionieri sparsi per l'Italia, qualche piccola notizia su questa struttura.
In sezione siamo cinquanta persone, soprattutto detenuti di origine straniera. E' inutile dire che la maggior parte della gente rinchiusa qui dentro, lo è per reati di un certo tipo, direttamente o indirettamente legati alla necessità e volontà di fare soldi, il più delle volte alla necessità di sopravvivere. E' evidente che questi corridoi e queste sbarre, salvo rarissimi casi, hanno una funzione ben precisa, cioè quella di rinchiudere una porzione particolare della popolazione, la porzione povera ed esclusa. In queste celle ci sono gli abitanti dei quartieri marginali della città, i miei vicini di casa di Barriera, Falchera, Porta Palazzo…
Il lavoro manicheo delle forze dell'ordine, non a caso, si concentra soprattutto in alcune zone in cui viviamo. Retate e rastrellamenti per le strade, operazioni di “Pulizia Urbana” che uniscono insieme arresti, sfratti, sgomberi ed espulsioni di senza documenti. Il delirio securitario attuale, le nuove disposizioni legislative e l'utilizzo di strumenti come il “Daspo Urbano” vanno in una direzione ben precisa. Sebbene si sviluppino costantemente strumenti repressivi alternativi (ma non meno afflittivi), le carceri si andranno a riempire sempre di più.
Il carcere delle Vallette, come molti sapranno, è una gigantesca cloaca. I muri cadono a pezzi, i pavimenti si sgretolano, le docce della sezione sono completamente ricoperte dal verde delle muffe, l'aria è priva di qualsiasi copertura (o meglio, ci sono resti di una distrutta dal tempo), così che quando piove devi forzatamente rientrare in cella. Inoltre, sempre più spesso, i secondini entrano nelle celle quando tutti siamo all'aria per effettuare delle perquisizioni in nostra assenza. Dal 3 maggio è già avvenuto per ben tre volte. Questi sono solo alcuni dei disagi che i prigionieri patiscono.
Purtroppo è da tempo che qui dentro non accade nulla d'incisivo, le timide mobilitazioni di qualche anno fa sono ormai un ricordo sbiadito tra alcuni detenuti.
Ora come non mai è arrivato il momento di riprendere il filo del disorso, fuori e dentro queste mura, e reagire!
Un saluto a tutt* i/le prigionier*, in particolare ai tragazzi del carcere di Ivrea che si sono ribellati alle vessazioni dei secondini e a Maurizio Afieri e Davide Delogu che indomiti continuano a piegare le sbarre di questi luoghi. LIBERTà! Antonio

23 maggio 2017
Antonio Rizzo, via A. Aglietta, 35 - 10151 Torino

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Il 10 maggio (credo) un ragazzo della Sezione 10 dei Nuovi Giunti nel Blocco B ha iniziato a fare casino di notte. La prima notte si sentiva il rumore di mobili e letti messi in movimento. Sembra che le guardie lo stiano picchiando. Noi della Sezione 9 non capiamo! E' difficile parlare con i lavoranti, con chiunque altro. La notte successiva dalla stessa cella, che si trova fra la 10 e la 9 Sezione, dove c'è la scrivania degli aguzzini, escono urla. Alcuni della nostra sezione riescono a parlare con il ragazzo lì rinchiuso, cercano di calmare le sue ansie di uscire ai domiciliari. Anch'io riesco a mettere la testa fra il piccolo buco che c'è fra le sbarre, non vedo niente. Calma. La terza notte di nuovo casino. Si sparge la notizia che lo hanno trasferito ai domiciliari. I lavoranti della 9a Sez. non sanno dire niente. La quarta notte non ci sono più urla, rimaniamo tutti chiusi 20 ore, come minimo, in cella, eccetto i lavoranti: il portavitto e quello della pulizia.
Sembra che i rivoltosi riescono a strappare un po' di attenzione dagli aguzzini; come quando uno di Cuneo, vicino a me, fa casino dopo aver preso il latte quasi scaduto della “Abil”, latte scremato arricchito con 0,1% di materia grassa contenente proteine del latte. Dopo la visita di tre aguzzini, che dopo le minacce gli portano qualcosa per calmare il dolore insopportabile di panza. Tutta una mattinata di vomiti e dolori fortissimi alla pancia.
Ci sono tanti momenti, costanti, ripetuti di cui vorrei scrivere, ma la mia posta di entrata e uscita arriva in ritardo o non arriva! Dopo quasi 20 giorni riesco ad agire “meglio” e a contenere i miei impulsi. Il carcere è una merda e va contestato fino alla sua distruzione. Tanti dicono che è normale pagare le cazzate! Va bene, capisco che ci sono forme e forme di imparare a fare cazzate e di pagarle diversamente.
C'è bisogno di approfondire i discorsi contro la detenzione. Partendo dalla base che è fuori, dove c'è l'abbondanza di tanti e il niente di altri. Furti, rapine, spaccio e le minacce sono i reati più contestati dall'(in)giustizia dello stato. Senza dimenticare che prima di uscire ti prendono il DNA – ultimo metodo che può dare all'investigazione certezze impensabili un tempo sulle origini fisiche di chi ha compiuto il “reato”.
Ciao Francisco.

26 maggio 2017
Francisco Esteban, via A. Aglietta, 35 - 10151 Torino

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Ciao amici scrivo dal carcere di Torino, siamo sotto dittatura e fuori non si sa: aspettiamo un mese per il carico si un vaglia; le docce, una è rotta da più di 6 mesi e siamo più di 40 in sezione; non esiste una fornitura per le persone che non riescono a fare la spesa. E' un posto assurdo!!!
Bisogna che la gente conosca le condizioni carcerarie in cui vivono più di 50.000 detenuti di tutta Italia.
A Davide Delogu che leggevo quando ero detenuta a Vercelli dico 'forza, non mollare mai'. Nooooo agli abusi. Siiiiii a un mondo libero, sempre a testa alta!!!
In attesa di vostre notizie vi invio i più cari saluti, Cristina.

Cristina Bossi, via A. Aglietta, 35 - 10151 Torino


Una mattina d'assedio al sistema TAV
Pur essendo un lunedì mattina, il popolo notav non ha fatto mancare la presenza al convegno “road show” organizzato da Telt (Tunnel Euralpin Lyon Turin) all’Unione Industriale di Torino per presentare i benefici (e bandi di gara leggiamo) del tav sul territorio e sulle imprese piemontesi.
Una premessa scandalosa che non ci ha lasciato indifferenti e per questo ci siamo mobilitati e siamo giunti questa mattina di buon ora disponendoci in tutte le vie di accesso alla sede dell’Unione industriali. Ad aspettarci, come sempre un esercito di polizia, nervoso e schierato in antisommossa fin da subito per difendere i vari personaggi che dovevano partecipare al convegno e lo stuolo di ruffiani in giacca e cravatta.
Un piccolo assedio che dalle 9 all’ora di pranzo si è fatto sentire e vedere, infastidendo i pochi, c’è da sottolinearlo, che sono passati per partecipare allo show.
Una bella mobilitazione che ha rilanciato una delle pratiche vincenti del movimento in tutti questi anni, ovvero l’essere presenti ogni volta che il sistema tav mette la testa fuori dai comunicati stampa e dalle veline passate ai giornali.
Era importante denunciare pubblicamente i rapporti di potere tra Tav e impresa perchè nonostante le balle che vengono divulgate, la Torino Lione è un’ opera interamente pubblica, pagata con i nostri soldi, non c’è nessun investimento privato e nessun imprenditore si sognerebbe mai di finanziarne neanche un centimetro di tasca propria. Conosciamo bene questa “capacità d’impresa” che negli anni ha devastato più territori e tessuti sociali di qualsiasi cantiere. Facile usare i soldi di tutti per dare vita ad un corridoio merci ingiustificato e sopratutto inesistente senza rischiare di tasca propria nulla.
Ma sappiamo che funziona così e non siamo i primi a scoprirlo: politica ed impresa viaggiano a braccetto alimentandosi l’una con l’altra, unite dai flussi finanziari generati dalle nostre tasse!
Noi ci abbiamo messo del nostro, con il coraggio e l’allegria di sempre, non facendoci intimorire dagli scudi e dai manganelli, conquistandoci qualche metro in più di agibilità spingendo con le nostre braccia, quelle delle notav, che hanno superato lo sbarramento, facendo pressione sui solerti celerini.
Intorno alle 12 abbiamo deciso di muoverci e fare un piccolo corteo intorno alla sede dell’Unione Industriale.
Ci siamo lasciati con una promessa, che diventa una richiesta a tutti i notav d’Italia: non vi lasceremo mai parlare tranquilli del nostro futuro senza stringervi d’assedio nelle vostre fortezze! Invitiamo tutti a organizzare presidi e dimostrazioni in ogni città dove si svolgerà l’inqualificabile “road show”, perchè c’eravamo, ci siamo e ci saremo sempre!
Avanti notav!

22 maggio 2017, da notav.info


milano, all’ospedale san carlo: chi la dura la vince
Alla fine l'Usi sanità del San Carlo e del San Paolo assieme ai lavoratori, ai pazienti e ai cittadini della zona 7 di Milano hanno vinto la loro battaglia: il servizio di elisoccorso resterà all'aereoporto civile di Bresso. La costruzione della nuova base hems (helicopter emergency medical service) prevista all'interno del giardino dell'ospedale San Carlo è stata fermata.
La Regione e le due direzioni generali dell'Areu e dell'Asst Santi Paolo e Carlo hanno dovuto fare un passo indietro su questo progetto assurdo e pericoloso sulla pelle dei lavoratori e della popolazione e sono state costrette a farlo a seguito delle continue campagne di controinformazione svolte dalla sola Usi sanità, degli incontri pubblici, delle raccolte di oltre 1.000 firme tra i residenti, delle mobilitazioni e presidi dei lavoratori della sanità, sino a diverse interrogazioni regionali.
Ma non è finita qui! Altre battaglie ben più pesanti si profilano all'orizzonte e tutte derivanti dall'applicazione nefasta della nuova legge 23/2015 di riordino del servizio sanitario regionale, che accorpa diverse aziende ospedaliere fra loro ma chiude interi reparti e servizi scaricando i costi sul personale della sanità e sui cittadini.
La chiusura del punto nascita all'ospedale San Carlo è una di queste. Se non ci mobiliteremo in fretta assisteremo alla soppressione delle degenze nel reparto di ostetricia, la chiusura delle 4 sale parto, della camera operatoria per il cesareo, del pronto soccorso ginecologico, della chiusura della nursery sino alla chiusura di 5 posti letto di patologia neonatale nel reparto di pediatria. Tutte strutture messe a nuove e con attrezzature all'avanguardia costate milioni di € e che andranno dismesse.
Ma ancora più grave per le donne incinte sarà la chiusura del servizio del punto nascita che tuttora svolge oltre 1.000 parti l'anno e che a breve verranno dirottati ed effettuati presso il reparto di ostetricia dell'ospedale San Paolo, con inevitabili disagi se non rischi per chi deve affrontare kilometri per partorire e trovarsi in una struttura sovraffollata e col personale prossimo al collasso.
Anche in questo caso il mantra che si sente spesso da parte di chi si occupa di salute è
che manca il personale medico ed infermieristico e poi bisogna risparmiare. Peccato che gli stessi che predicano in questo modo sono proprio quelli collusi con il “malaffare” e stanno affossando il servizio sanitario pubblico a tutto vantaggio del privato.
Invece che chiudere vogliamo che i soldi stanziati dal SSN (48 milioni di € per l'ospedale san carlo e 42 milioni di € per l'ospedale San Paolo) vengano impiegati per le ristrutturazioni e per la messa a norma dei due ospedali e si dia avvio ad una nuova politica di assunzione del personale di assistenza, che ormai è ridotta allo stremo, va sempre più tardi in pensione ed invecchia sempre più.
Perchè se aspettiamo che venga costruito il nuovo polo ospedaliero, se consideriamo i tempi di realizzazione delle opere pubbliche in italia, se (e come dicono) i soldi statali destinati alle ristrutturazioni del San Paolo e del San Carlo verranno dirottati per la costruzione del nuovo ospedale (individuato prima a San Cristoforo ed ora al Ronchetto) e se quest'ultimi non verranno messi in sicurezza nel più breve tempo possibile, correremo il rischio di non trovare nessuna delle tre strutture sanitarie in tutta la zona sud e ovest di milano in grado di erogare assistenza alla popolazione per i prossimi 10-15 anni.

Milano, 8 maggio 2017
USI - sanità ospedali San Carlo e San Paolo


aggiornamenti su alcune lotte nel territorio di milano
In lotta le lavoratrici dell'Hotel Room Mate a Milano
Segue il testo del volantino diffuso in occasione dei due presidi tenutisi davanti al Mate Hotel, hotel di lusso vicino al Duomo, che hanno visto la convinta e rumorosa partecipazione di diversi lavoratori della logistica, di altri settori e solidali, in risposta ai licenziamenti avvenuti a danno di quattro lavoratrici che avevano osato scioperare il 1° maggio contro le pessime condizioni salariali e di lavoro a cui sono sottoposte. La reazione padronale è stata immediata: prima (3 maggio) il danno, la sospensione dal lavoro, poi (il 16 maggio) la beffa: l’assegnazione in un’altra sede, nelle campagne romane (a 600 km da Milano)!
Ma non finisce qui!

Noi lavoratrici e lavoratori dell’Hotel Room Mate, stellato albergo milanese in zona Duomo, proprio il 1° maggio decidevamo di entrare in sciopero per protestare:
– contro i massacranti ritmi di lavoro dovuti al cottimo,
– contro il contratto pirata usato dalla cooperativa per coprire lo stesso lavoro a cottimo,
– per il pagamento puntuale del salario (l’ultimo busta paga è quella di gennaio 2017),
– per il rispetto della salute e della sicurezza (mancano gli strumenti più elementari per lo svolgimento del lavoro).
Queste nostre rivendicazioni esprimono chiaramente un contenuto politico di lotta contro il dilagante neo-schiavismo, cui molti lavoratori/lavoratrici sono costretti.
Per questa ragione, la risposta padronale è stata la nostra immediata sospensione dal lavoro, un evidente preludio al licenziamento.
Non ne possiamo più di queste nuove forme di schiavismo, vogliamo far sapere a tutti che: dormire una notte in un albergo di lusso, come il Room Mate Hotel, costa almeno 300 euro, mentre gli addetti alla pulizia delle camere sono pagati 2 euro, e devono fare il lavoro entro 30 minuti! E le camere sono grandi, vanno dai 20 ai 35 mq, escluso il bagno.
Dopo Expo, a Milano gli alberghi sono diventati una bella fonte di affari: la Settimana del mobile ha visto il tutto esaurito e un balzo in avanti delle tariffe!
E così i padroni degli alberghi e i loro compari (immobiliaristi e finanzieri) si mettono in tasca una bella pacca di quattrini. Mentre noi lavoratori prendiamo quattro soldi e dobbiamo anche stare zitti: mazziati e cornuti.
Ciò che avviene al Room Mate avviene in tutti gli alberghi di lusso di Milano e di tante altre città, motivo per cui invitiamo tutti i lavoratori e le lavoratrici di questa categoria a unirsi a noi. Facciamo sentire la nostra voce, difendiamo le nostre condizioni di vita e di lavoro!

Ritirati i licenziamenti alla GLS di Sesto Uteriano (Mi)
La mattina del 9 maggio si é svolto un picchetto davanti alla GLS di Sesto Ulteriano contro la repressione che la cooperativa ha messo in atto contro Mendoza, delegato degli operai che hanno ripreso la lotta, dopo le vittorie del 2015 che avevano imposto l'applicazione integrale del CCNL di settore.
- Rispetto delle 39 ore settimanali
- Riduzione dei carichi di lavoro (aumentati dall'azienda per sopperire all'aumento del costo della forza lavoro dopo gli scioperi del 2015
- Rispetto delle indennità di mansione previste dal CCNL
- Piena agibilità sindacale per gli operai
Questa la piattaforma di lotta, inaccettabile per i padroni che, falliti i tentativi di corruzione di Mendoza, passano alla repressione coaudiuvati dai delegati sindacali opportunisti e corrotti (tanto da diventare capi) e in meno di tre settimane erogano 5 provvedimenti disciplinari (per un totale di 15 giorni di sospensione più una sospensione cautelare per inaffidabilitá produttiva.
Detto questo, il picchetto sostenuto attivamente da diverse delegazioni operaie del SOL, dagli operai dell'INNSE e dai promotori del 1°maggio in via Padova, si é portato a casa la riapertura della trattativa per la cancellazione dei provvedimenti contro Mendoza. Un risultato collettivo che traccia a nostro parere la strada corretta da seguire, fondata all'unità operaia nella lotta.
Nota aggiuntiva: alcuni dei delegati operai presenti, mentre picchettavano, organizzavano, seppure a diatanza, il blocco di 4 filiali SDA, in sciopero contro il "licenziamento verbale" di un attivista sindacale di Vimodrone. Avanti cosi!

Aggiornamento dai cancelli della Innse (24 maggio)
Dodicesima settimana di presidio delle portinerie della Innse contro i licenziamenti e contro la nuova richiesta di altri 11 mesi CIGS per “riorganizzazione” che il padrone ha chiesto. Nuova batosta per il padrone.
Ieri il giudice del lavoro, nell’udienza riguardante il provvedimento disciplinare contro un nostro delegato, ha detto chiaramente all’azienda che lui non procederà a comminare i giorni di sospensioni richiesti dall’azienda e che il tribunale del lavoro di Milano non può essere tirato in ballo per questioni di litigi di nessun conto ed ha invitato il legale dell’azienda a trovare un accordo con il nostro avvocato.
Nella sostanza questa è una nuova tegola sulla testa del padrone che ora deve rinunciare a colpire un operaio con dei giorni di sospensione.
Una delegazione di operai oggi si è recata negli uffici dell’assessorato al lavoro del Comune di Milano per incontrare l’assessore Tajani.
All’assessore e al suo staff abbiamo chiesto esplicitamente che deve intervenire immediatamente sul comportamento antisindacale e sugli atteggiamenti da caporalato del lavoro che i dirigenti della Camozzi continuano ad attuare nei rapporti con gli operai. é assolutamente impensabile che l’azienda continui ad applicare questi metodi che di fatto finiscono in perenni scontri con le guardie giurate di guardia alla portineria, solo per capire quando un operaio deve rientrare al lavoro perchè ha finito il suo periodo di cassa e non viene avvisato.
Abbiamo fatto un’altra richiesta precisa all’assessore. Noi vogliamo una sede sindacale all’interno dell’area della fabbrica per fare le nostre assemblee ed esercitare la nostra attività sindacale. Perciò abbiamo chiesto all’assessorato di darci una sede, per noi individuata nella vecchia sede della RSU situata davanti alla mensa aziendale, per poter svolgere le assemblee e per avere un minimo di agibilità.
Come il Comune di Milano ha concesso nel 2009 aree di sua competenza alla Camozzi, e come ora si appresta nuovamente a concedergli altri 9000 metri quadri gratuitamente, anche noi rivendichiamo il diritto di avere una sede in fabbrica e non fare le nostre assemblee quotidiane davanti ai cancelli della Innse.
Per questo motivo rivendichiamo l’uso di una sede sindacale all’interno della fabbrica.
Il presidio della portineria da parte dei licenziati e dei cassa integrati va avanti costantemente tutti i giorni dal 3 marzo. La nostra battaglia per rispondere alle denunce del padrone, ora più che mai, è quella di raccogliere il maggior numero possibile di fondi per sostenere tutte le nostre spese legali che cominciano ad essere consistenti.

Le ragioni politiche del picchetto alla Motta
La vertenza della Motta Alfedo SpA, una conceria ultra-centenaria di Cinisello Balsamo, é uno dei classici esempi di macellazione sociale e ben rappresenta il quadro economico e politico borghese contemporaneo.
Dopo decenni di accumulazione di profitti il padrone per continuare a far fruttare il suo capitale sceglie di trasferire la produzione laddove il costo del lavoro é minore.
E così noi operai, che con la nostra fatica decennale abbiamo creato le sue fortune, oggi diventiamo solo un ostacolo da eliminare.
Quindi? Semplice! Non ci restano che due alternative:
1) Farci cogliere dal pietismo verso chi lamenta il calo dei profitti e dichiara di essere costretto a scendere (per il momento) dalla sua nave di lusso e salire sulla sua personale scialuppa di salvataggio (quella che gli permette di traghettare la sua attività di sfruttamento in un'altra fabbrica, di sua stessa proprietà, a Madrid).
2) Attaccarci al nostro interesse operaio e rifiutarci di affogare per tenere a galla quella scialuppa.
I Sindacati Confederali, sottoscrivendo l'accordo di mobilità del 4 maggio 2017, che autorizza i licenziamenti di 20 operai in cambio di un elemosina che Motta potrà (forse) decidere di devolvere ai condannati a morte, hanno deciso di schierarsi a favore della prima ipotesi mostrando ancora una volta da che parte stanno. Gli operai che non vogliono sacrificarsi sull'altare del profitto invece scelgono la seconda ipotesi.
La resistenza degli operai dell'INNSE, ci ha insegnato che é nostro dovere tentare di rovesciare la nave che ci affonda sulla testa; e che, se proprio dovessimo morire, travolti dalle onde della crisi... il suo vecchio comandante morirà con noi!
Queste le ragioni dello sciopero di lunedi 22 maggio davanti alla fabbrica.
L'obiettivo sindacale é molto semplice: cancellare l'accordo con CGIL-CISL-UIL!
Della serie: se ci sono operai disposti a farsi licenziare... che firmino le loro dimissioni volontarie. Gli altri invece lotteranno per impedire lo spostamento della fabbrica in Spagna e non per alzare il prezzo della carne umana macellata.
NO AI LICENZIAMENTI! VIA I CONFEDERALI DAL SINDACATO OPERAIO!
LA FABBRICA É NOSTRA E NON LA MOLLIAMO!

Comitato di Lotta Operai Motta - SOL COBAS


Brasilia, il corteo assalta i ministeri. Temer schiera l'esercito
Sono almeno 150.000 i manifestanti che, arrivati da tutto il Brasile, ieri hanno inondato le strade della capitale per chiedere le dimissioni di Michel Temer, messo al potere alla fine di agosto quando l’ex presidente Dilma Rousseff, messa in stato di accusa per impeachment, era stata definitivamente destituita dalla carica. Temer è al centro delle proteste dopo che un quotidiano brasiliano ha rivelato che tra i materiali dell’inchiesta “Lava Jato” (lo scandalo che ha interessato praticamente tutti i partiti per i 3 miliardi di dollari pagati dal colosso petrolifero statale Petrobras), figura anche una registrazione in cui l’attuale Capo dello Stato avrebbe comprato il silenzio dell'ex presidente della Camera, Eduardo Cunha (accusato di corruzione e in carcere dall'ottobre scorso) per non essere tirato in ballo a sua volta nell’inchiesta.
Ma la rivolta contro la corruzione si inserisce in un contesto segnato già da una forte opposizione alle politiche del governo in materia di lavoro e dall’insofferenza verso le misure di austerità varate da Temer, che hanno portato a pesanti tagli alla spesa pubblica.
Durante l’imponente corteo di ieri, che ha puntato verso il palazzo presidenziale, sono esplosi violenti scontri con la polizia: i manifestanti hanno affrontato con sassi e molotov le migliaia di agenti schierati nella capitale, che hanno sparato sulla folla gas lacrimogeni e granate stordenti ma anche colpi di arma da fuoco (si parla di almeno 5 persone ferite dai proiettili).
Scontri e assalti hanno interessato diverse zone dell’’Esplanada dos Ministérios’, l’area che riunisce i centri del potere della capitale e del paese. I manifestanti hanno dato l’assalto al ministero dell’agricoltura, appiccando il fuoco ad alcune parti dell’edificio, e hanno cercato di invadere anche quello dell’economia.
A quel punto tutti i ministeri sono stati evacuati e Temer ha dato ordine di schierare l’esercito per le strade di Brasilia. Il provvedimento, varato in tutta fretta facendo ricorso all’articolo 142 della Costituzione federale, sarà in vigore fino al 31 maggio, ma il presidente si è detto pronto a prolungarlo se le proteste non si placheranno. La decisione, formalizzata da un apposito decreto e comunicata dal ministro della Difesa, ha suscitato un rimpallo di responsabilità e critiche tra maggioranza e opposizione.
Nel frattempo la Corte Suprema ha aperto un’inchiesta per intralcio alla giustizia contro Temer, che ha però gridato al complotto lasciando intendere di voler rimanere saldamente aggrappato al potere di fronte alle richieste di dimissioni.
Nella crisi politica e istituzionale che scuote il Brasile, il governo ha perso anche Sandro Mabel, assessore speciale di Temer, contro il quale sono state avviate indagini per corruzione e intralcio alla giustizia. È il quarto assessore del presidente ad andarsene in 5 mesi.

25 maggio 2017, da infoaut.org