indice n.123

La guerra della Turchia nel nord della Siria e dell'Irak
MANIFESTAZIONE 28 APRILE a quirra: LA NOSTRA LOTTA NON SI FERMA
Napoli: Presidio davanti alla Base NATO
Ma cosa hanno in comune basi militari e galere?
aggiornamenti dalle LOTTE dentro e CONTRO i cie
Nelle carceri turche è in corso uno sciopero della fame a oltranza
Palestina: undicesimo giorno di sciopero della fame
Sabato 20 maggio: Presidio al carcere di Livorno
lettere dal carcere di roma-rebibbia
Lettera dal carcere di Caltanissetta
Lettera dal carcere di Trieste
lettere dal carcere di milano-opera
scritto dal carcere di Napoli-Secondigliano
Lettera dal carcere di S. Michele (al)
LOTTA CONTRO IL TAP IN PUGLIA
TORINO, 1 Maggio 2017: la Questura applica il decreto Minniti
GLI OPERAI DICONO GRAZIE AI LAVORATORI DELL’ALITALIA
La lotta nel settore multiservizi a Pisa e Torino
Brasile: Paese bloccato contro la riforma del lavoro



La guerra della Turchia nel nord della Siria e dell'Irak
Nella notte fra il 25 e il 26 aprile i cacciabombardieri turchi hanno attaccato i territori nel nord-Irak e nel nord-Siria. I bombardamenti, che hanno ucciso decine di persone, erano indirizzati contro roccaforti del movimento di liberazione kurdo. Per la prima volta i bombardamenti turchi non si sono limitati a colpire la regione montagnosa che segna il confine turco-iracheno, nella quale Ankara suppone agisca la direzione del PKK.
Nel nord della Siria è stata distrutta una base delle Forze di Difesa Popolari (YPG) assieme alla sede in cui era installata la stazione della rete radiofonica Denge Rojava.
Nei mesi scorsi erano state condotte provocazioni armate aperte contro l'auto-amministrazione kurda nel nord della Siria che segnano la nuova qualità che caratterizza i recenti attacchi. Intanto l'aviazione armata turca ha contemporaneamente bombardato i territori di insediamento della popolazione jeside in Irak e a Sindschar (territorio e città situati nel nord-Irak). Anche qui è stata distrutta la sede di una radio e numerose abitazioni assieme a una base del partito di Barzani (KDP), strettamente alleato del governo di Ankara, dove sono morti cinque militanti.
Nello Sindschar, dove nel 2014 l'IS ha ucciso e deportate migliaia di persone jesidi, l'attacco della Turchia ha un significato particolare. La popolazione locale, in particolare di origine jeside, è pronta a difendersi oggi contro Erdogan come allora contro l'IS.
Anche nel Rojava (Siria del nord abitata da popolazione kurda) l'attacco aereo è considerato un chiaro sostegno all'IS. “Turchia e IS, Erdogan e Al-Baghdadi sono l'uno uguale all'altro”, ha affermato un combattente dell'YPG di fronte alle macerie di una caserma vicina a Karacok, “per questo quando abbiamo iniziato l'attacco alla città di Raqqa, la capitale dell'IS, la Turchia ci ha colpiti.”
Da settimane Erdogan ha annunciato di voler “ripulire” dai kurdi il nord della Siria e dell'Irak. Martedì 25 aprile le truppe di terra turche sono state concentrate al confine nord siriano di Afrin, dove sono state aperte strade e ponti sospesi su barche, per far strada ad un'avanzata da terra, effettiva. La situazione è uguale al confine turco-iracheno dove da giorni vengono combattute pesanti battaglie fra esercito turco e combattenti del PKK.
Salvo eccezioni, degli attacchi turchi i media degli Stati occidentali non parlano perché i responsabili diretti sono proprio loro: la NATO. Gli USA, per esempio, è certo conoscessero i bombardamenti ancor prima che venissero effettivamente compiuti.
“Il silenzio internazionale ha incoraggiato la Turchia a proseguire con rotture riguardanti il diritto internazionale. Se il silenzio continua la Turchia seguiterà. Se la situazione prende questo verso, dovremo riflettere sulla nostra operazione a Raqqa”, afferma Ilham Ehmed, Presidente del Consiglio Democratico della Siria (*). [Probabilmente si riferisce alla messa in fuga della popolazione di Raqqa presa a pretesto e adoperata dalla Turchia contro il 'confederalismo' e altro, perseguito dal movimento di liberazione kurdo, ndr]

(*) Questa coalizione armata, nota come “Syrian Democratic Forces”, braccio armato del Consiglio Democratico Siriano, controlla l’area del cosiddetto Kurdistan siriano, nel nord della Siria, lungo la linea di confine con la Turchia e con il nord dell’Iraq. È una coalizione multi-etnica e multi-religiosa, al cui interno sono rappresentati per ordine di maggioranza i curdi, ma anche gli assiri, gli armeni e i turkmeni. Si caratterizza come una coalizione che si oppone ferocemente ai gruppi jihadisti, in particolare l’IS. Sul piano internazionale, gode di un forte sostegno da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, in chiave anti-IS.

26 aprile 2017, da jungewelt.de
MANIFESTAZIONE 28 APRILE a quirra: LA NOSTRA LOTTA NON SI FERMA
Ieri, venerdì 28 aprile, l’assemblea di A Foras ha chiamato alla mobilitazione generale contro l’occupazione militare della Sardegna, presso il Poligono di Quirra. Fin dalle 11.00 centinaia di manifestanti sono arrivati con pullman e auto proprie da tutta la Sardegna e anche dalla Penisola al grido “Chiudiamo le basi, fermiamo la guerra”. Ieri il movimento contro le basi è tornato dopo tanti anni a Quirra.
Nella tarda serata della vigilia ai manifestanti è stato comunicato il divieto totale di manifestare, nonostante la comunicazione del corteo fosse stata inviata dagli organizzatori con ampio preavviso. Questi non hanno dunque avuto il tempo di rendere pubblica questa grave presa di posizione da parte della questura e di riorganizzarsi, come successo a Teulada nel 2015.
I manifestanti si sono presentati puntuali al luogo di partenza comunicato, nei pressi del bar di Quirra, un corteo eterogeneo composto da moltissimi giovani, ma anche da coloro che hanno alle spalle molti anni di lotta contro le servitù militari, e sempre più numerose le donne di ogni età. C’erano anche le bandiere, a rappresentare tutti i colori di una Sardegna che non vuole sottostare al ricatto dell’industria bellica, che si impegna giorno dopo giorno per liberare questa terra dai colonizzatori in uniforme e da quella nuova pericolosa simbiosi militare-civile mascherata da ricerca scientifica e tecnologica che promette nuovamente “sviluppo” nei territori già devastati.
La giornata ha, inoltre, visto la partecipazione di numerosi abitanti dei territori gravati dal Poligono, nonostante i tentativi non solo di intimorire le popolazioni che vivono sotto il ricatto delle servitù militari, ma anche le prese di posizione pubbliche che le incitavano ad “arrabbiarsi” contro i manifestanti (come accaduto a Perdasdefogu nei giorni precedenti). Ieri era presente anche il “Kumone Ozzastra Sarrabus”, il comitato locale contro le basi che aderisce ad A Foras.
I manifestanti sono stati fermati già lungo la strada prima di arrivare al luogo di partenza con perquisizioni e provocazioni da parte delle forze dell’ordine. Una volta giunti nei pressi del bar di Quirra, carabinieri e polizia in assetto antisommossa hanno impedito ogni movimento a tutti i presenti. Non solo è stato vietato ai manifestanti tutto il percorso previsto, ma con un provvedimento liberticida sono state bloccate tutte le strade intorno. Chiuso in un budello di poche decine di metri, il presidio ha provato a dirigersi verso il percorso previsto ma il blocco delle forze dell’ordine lo ha impedito, così come non è stato possibile muoversi in altre direzioni: la questura e il dirigente di piazza oggi hanno deciso di sospendere il diritto di manifestare.
Proprio nella giornata dedicata a Sa Die de sa Sardigna è stato negato il diritto di rivendicare l’autodeterminazione del popolo sardo che per noi non può prescindere dalla chiusura delle basi. Un ingente dispiegamento di uomini e oltre una dozzina di camionette delle forze dell’ordine ieri ci hanno impedito di manifestare liberamente.
Dopo alcune ore passate a fronteggiare la celere e a scandire slogan contro le basi e la guerra che nei nostri territori viene quotidianamente testata, i manifestanti intorno alle 5.00 hanno sciolto il presidio. Sulla via del ritorno una parte dei pullman e dei mezzi si sono fermati presso un’area di sosta sulla 125, a sud di Quirra. A questa altezza i presenti hanno effettuato un blocco stradale, anche per denunciare pubblicamente la grave violazione della libertà di manifestare messa in atto dai rappresentanti dello Stato. Con lo slogan “voi ci bloccate a Quirra noi vi blocchiamo tutto” per 30 minuti circa è stata bloccata la ss 125 e sono stati distribuiti volantini agli automobilisti per informarli dei motivi della protesta. In seguito, mentre tutti si apprestavano a risalire sui propri mezzi e sui pullman, è stata effettuata dalle forze dell’ordine una carica immotivata e indiscriminata, quasi a voler sfogare una voglia di menar le mani contro i partecipanti. Per l’ennesima volta la Questura di Cagliari e l’apparato repressivo dello stato hanno mostrato il loro vero volto. Il volto di chi difende la basi militari, di chi difende un’economia bellica insostenibile e nociva per i popoli che subiscono le loro guerre, un’economia che sta distruggendo ambiente e salute in questo territorio, oltre che impedire la valorizzazione delle sue principali risorse, come la Spiaggia di Murtas.
La manifestazione è stata preceduta da un lavoro capillare di informazione e sensibilizzazione nelle scuole e nei territori. E’ stato presentato e discusso pubblicamente il dossier sul poligono di Quirra, primo risultato del lavoro di ricerca condotto dal gruppo di lavoro specifico all’interno di A Foras. Il dossier non si limita a mettere nero su bianco i danni provocati dal PISQ, ma indica anche le possibili strade per uno sviluppo alternativo all’industria di morte.
A Foras ha chiamato ieri ad una partecipazione di massa, che auspichiamo diventi sempre più numerosa, ma anche consapevole e informata. E continuerà a svolgere questo lavoro di informazione a tutto campo. Alle intimidazioni e minacce da parte dei militari e delle forze dell’ordine precedenti la manifestazione, alle 54 denunce relative al corteo di Capo Frasca del novembre scorso alle provocazioni e alle cariche senza motivo, A Foras continuerà a rispondere con calma, fermezza e determinazione.
Altre iniziative sono già in programma:
– La mostra itinerante degli artisti visivi per la scelta del simbolo e delle immagini creative sulla lotta di A Foras, che percorrerà tutta la Sardegna.
– Una grande giornata di mobilitazione a Cagliari per il 2 giugno con un corteo nelle strade della città al mattino e un concerto in serata, con tante iniziative di condivisione e informazione.
La lotta non si arresta. Non accetteremo compromessi né possibilità di mediazione: chiediamo la chiusura definitiva delle basi militari e della fabbrica di bombe RWM, il risarcimento e le bonifiche dei territori, senza i militari o le aziende a loro collegate e la restituzione delle terre alle comunità.
La prossima Assemblea è convocata a Bauladu per domenica 14 maggio.

A Foras – contra a s’ocupatzione militare


Napoli: Presidio davanti alla Base NATO
Ogni giorno il contatore delle vittime di guerre aggiorna in crescendo il suo già impressionante numero. Dalla Siria all’Afghanistan, dallo Yemen all’Iraq, dalla Libia alla Palestina fino all’Ucraina e ai tanti conflitti dimenticati in Africa, è uno stillicidio di morti e distruzioni quotidiane ad opera degli eserciti e degli armamenti delle grandi potenze e dei loro alleati. Da oltre 30 anni, prima con la scusa dell’esportazione della democrazia ed oggi con quella della lotta al terrorismo, NATO ed Europa aggrediscono ed occupano paesi al solo scopo di sottometterli al proprio dominio economico e finanziario.
Più si aggrava la crisi economica, da cui non riescono ad uscire, più si acuisce la competizione tra i grandi predoni in corsa per una nuova spartizione del mondo, per l’accaparramento di risorse, di braccia da sfruttare e nuovi mercati da invadere con le loro merci.
La concorrenza, ormai sempre più sulla punta del fucile, sta determinando un’escalation militare senza precedenti. La provocatoria stretta militare ai confini della Russia e la crescente tensione determinatasi con l’ultimo bombardamento statunitense in Siria, le minacce alla Corea del Nord e gli avvertimenti altrettanto minacciosi al suo alleato, la Cina, con il dispiegarsi di mezzi militari nel Mar Cinese, dimostrano che ci stiamo avvicinando ad un punto di non ritorno: il rischio di uno scontro diretto tra grandi potenze che può portandoci dritti ad un nuovo conflitto militare internazionale.
L’Italia che, come ha ricordato Trump durante la recente visita di Gentiloni negli USA, è l’alleato che impegna più uomini e mezzi negli attuali fronti di guerra, sgomita esattamente come gli altri per difendere gli “interessi vitali” del capitale italiano. Le politiche interventiste del governo e la crescente spesa militare non solo alimentano questa spirale guerrafondaia, ma stanno trasformando il paese in una delle principali piattaforme militari di attacco della NATO. In particolare Napoli, che ospita tutti i comandi logistici della VI flotta e la base di Lago Patria, è uno dei più importanti nodi strategici di questo strumento di guerra facendo, di fatto, di questa città e dei suoi cittadini, un obiettivo sensibile.
Riteniamo quindi quanto mai necessario riprendere la lotta contro la guerra ed il militarismo. L’opposizione all’annichilimento di altri popoli, la difesa degli interessi degli sfruttati contro chi semina morte per i propri profitti, non è più rinviabile.
Per questo invitiamo tutti a dare forza alle iniziative contro la guerra partecipando ai prossimi presidi e alla manifestazione del 1° maggio a Bagnoli fortemente caratterizzata sui temi della lotta contro la guerra.
29 aprile ore 17,00 Presidio e volantinaggio Largo Berlinguer (stazione metro).
13 maggio ore 10,30 – Presidio davanti alla Base NATO di Lago Patria – via Madonna del Pantano, Giugliano.
23 aprile 2017
Rete contro la guerra e il militarismo - Campania


Ma cosa hanno in comune basi militari e galere?
Un contributo sulla lotta alle galere dalla Sardegna
Nell'ambito della campagna pagine contro la tortura si è svolta un'iniziativa per poter stampare e inviare alcuni libri in carcere. A cura dell'edizione Cirtide, la riedizione di due raccolte antologiche a tema anti carcerario e anti psichiatrico che sono state discusse nel corso delle giornate benefit del 14 e 15 aprile a Torino e Milano. Qui di seguito uno dei contributi condivisi durante l'incontro.

Occupazione
37.374 ettari di territorio sono sotto controllo militare con la presenza di poligoni missilistici, poligoni per esercitazioni a fuoco, aeree, aeroporti militari e depositi di carburante. I due poligoni più grandi dello Stato italiano, uno dei quali il più vasto d’Europa con un’estensione a mare oltre l’intera superficie dell’isola stessa, sono qui. Il 60% delle installazioni italiane-Nato si trova qui.
Allo stesso tempo, con il Piano Carceri, metà delle nuove carceri ha trovato collocazione in Sardegna, ben 4 quindi, andando a sancire il più alto rapporto tra detenuti e popolazione residente: ogni centomila sardi ci saranno 168 prigionieri, contro i 97 in Italia.

Subordinazione alle necessità dello stato
La massiccia presenza di basi militari in Sardegna ha di fatto concentrato su un’isola tutto il carico di conseguenze che questa comporta: veleni, malattie, nocività, sottrazione di territorio, distruzione dell’economia autoctona sostituita piano piano da un’economia di dipendenza dalle briciole concesse dalla diseconomia militare. Di fatto si sceglie di concentrare su un unico territorio il peso ingombrante di questa presenza, evitando così una delocalizzazione su tutto il territorio del possibile malcontento e concentrandolo in un’unica zona, più facilmente gestibile da parte dello Stato, soprattutto se questa da sempre ha espresso un contesto di disagio socio-economico e dove le briciole del militarismo sono presentate come la soluzione alla disoccupazione e alla povertà.
Allo stesso tempo la costruzione delle 4 nuove galere fa della “Sardegna, rispetto alla scacchiere penitenziario nazionale, la stanza di compensazione per le altre regioni”, come ci illuminava il passato Provveditore regionale del DAP, Gianfranco De Gesu.
Le nuove strutture, infatti, ospitano in gran parte prigionieri provenienti dalle altre regioni dello Stato Italiano, mentre (sembrerebbe un paradosso ma chi conosce lo Stato sa che non lo è..) decine di prigionieri sardi rinchiusi nelle carceri italiane chiedono di essere trasferiti in Sardegna, trasferimento che sarebbe per altro garantito dalla stessa normativa sulla territorialità della pena ma che di fatto non trova risposta.

Ruolo internazionale-statale
Sin dagli anni ’50, la Sardegna è stata considerata dagli USA e dai suoi alleati “a pivotal geographic location”, ossia un luogo strategico nei piani di guerra degli USA. Si sanciva così un saldo accordo tra la Difesa italiana e quella statunitense dove la Sardegna ricopriva, a sua insaputa, un ruolo centrale nello scacchiere internazionale sia per la sua posizione strategica sia per la possibilità di esercitarsi ed addestrarsi. Nel solo 1999 l’Italia contribuì con oltre un milione di dollari a rinsaldare il suo rapporto di servilismo con gli USA, un rapporto valutato in contributi indiretti, cioè cessione a gratis delle basi allo Stato americano. Oggi i venti di guerra sono cambiati, ma il Mediterraneo rimane per la NATO uno degli scenari strategici: ed ecco che ancora ad oggi, le alte sfere dell’esercito ribadiscono la necessità di tenere la Sardegna come luogo strategico militare e continuano tanto le esercitazioni quanto le partenze dei voli militari dalle basi dell’isola.
Allo stesso tempo la Sardegna da sempre ha rivestito un ruolo centrale nello scacchiere carcerario dello Stato Italiano e non solo. Sin dalla fine degli anni ’90 le potenze Nato sancivano la necessità per gli Stati occidentali di dotarsi di carceri di massima sicurezza, preferibilmente isolate. A partire dal 2009, insieme alla circolare del DAP che sanciva la necessità per “i detenuti sottoposti al regime carcerario speciale di essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero all’interno di sezioni speciali e separate dal resto dell’istituto” si dava avvio al Piano Carceri: in Sardegna spuntavano come funghi 4 nuove carceri, 2.700 posti letto (1.500 per i detenuti provenienti da altre carceri), strutture dotate o di sezioni 41bis o di sezioni AS.

Business economico
Una funzione fondamentale svolta dalle basi è quella di essere luogo di sperimentazione di nuove armi. Sofisticati sistemi targati Fiat, Alenia, Melara, Finmeccanica, Thompson, Aerospatiale, solo per citarne alcuni. Prezzo d’affitto: 50 mila euro l’ora. A questo si aggiunge il contributo della fabbrica di bombe di Domusnovas, nel sud dell’isola, che rifornisce in modo particolare l’Arabia Saudita per perpetrare il suo genocidio in Yemen. Allo stesso modo, le nuove galere sarde hanno rappresentato un’ottima opportunità di profitto per alcune grosse aziende, fiduciarie dello Stato, che in passato avevano trovato di che mangiare nella costruzione delle strutture che sarebbe dovuto servire per il G8 di La Maddalena: 285 milioni di investimento per Anemone srl, Opere Pubbliche spa, Gia.fi costruzione spa.
Basi militari e galere si presentano, dunque, come pezzi di uno stesso puzzle in cui la Sardegna ricopre un ruolo centrale rispetto alle necessità di profitto, di controllo e di guerra del Capitale e degli Stati internazionali.
E, dunque, che fare?
Se guardiamo al quadro delineato, seppur in modo superficiale, è per noi evidente che la lotta alle carceri si inserisce all’interno di un quadro più vasto, ma in modo particolare per la nostra specificità territoriale, deve essere legata alla lotta alle basi e viceversa. Negli ultimi due anni, infatti, la lotta contro l’occupazione militare ha avuto un’importante ripresa, soprattutto, una maggiore coscienza nel comprendere che l’unica via percorribile è quella di una pratica diretta tesa, tanto al coinvolgimento delle genti, quanto alla necessità di inceppare il meccanismo della macchina bellica.
Le manifestazioni di questi ultimi due anni, infatti, hanno avuto sempre un obiettivo ben chiaro: bloccare le esercitazioni. Attraverso il taglio delle reti, gli ingressi dentro i poligoni e altre pratiche si è superato, a nostro avviso, una pratica tesa più alla manifestazione del dissenso che all’azione diretta.
Le prospettive di questa lotta risiedono sicuramente nel radicare questo tipo di pratica sul territorio e trovare anche nuove strumenti tesi sempre al blocco delle esercitazioni e alla contrapposizione verso la presenza militare in generale, ma vi sono altre due importanti aspetti: il primo è quello di connettere la nostra lotta con gli altri territori, la seconda è quella di intrecciarla con altre lotte, in modo particolare quella contro le carceri. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono stati fondamentali i contributi dei compagni e delle compagne che in più occasioni, non solo hanno preso parte attiva alle manifestazioni nell’isola, ma che hanno dato vita ad azioni solidali su loro territorio, spesso in contemporaneità con quanto avveniva in Sardegna.
Un aspetto fondamentale che getta nuove prospettive: da un lato, infatti, siamo convinti che la “delocalizzazione” della lotta rafforzi quelle territoriali e soprattutto possa dare nuove possibilità di blocco (già dallo scorso anno, infatti, cercammo di portare avanti la pratica del blocco in simultanea con altre zone interessati da esercitazioni internazionali); allo stesso tempo rende manifesti e sensibili le mille diramazioni del militarismo che si manifesta tanto sotto l’aspetto delle basi, quanto dei suoi finanziatori (banche, istituti, aziende, università ecc…). Le stesse aziende che vengono a sperimentare le bombe nelle nostre terre sono quelle che hanno sede in tutta Italia: la pratica di blocco delle loro sperimentazioni qui in Sardegna nei giorni di esercitazione avrebbe ancora più forza se questa fosse in parallelo con azioni presso le loro sedi in Italia. Una maglia nella rete che si amplierebbe un po’ di più, un rafforzamento delle lotte territoriali in chiave internazionale.
Allo stesso tempo, lottare contro l’occupazione militare non può prescindere dal lottare contro l’ennesimo strumento dello sfruttamento e del servilismo: la galera. I primi a ricordarcelo sono stati, in realtà, gli stessi prigionieri. Nella nostra corrispondenza con loro, in cui sempre raccontiamo delle lotte esterne e quindi di quelle contro le basi, in tantissime occasioni i prigionieri hanno, non solo manifestato solidarietà alla lotta, ma la necessità di inscrivere questa in un quadro più generale che vuole la Sardegna terra relegata agli interessi dello Stato italiano e agli scagnozzi internazionali. Diventa, quindi, fondamentale incominciare a intrecciare in maniera costante i due discorsi, a portare la lotta contro le basi dentro le carceri e allo stesso tempo quella contro le galere dentro la lotta contro l’occupazione militare.
Così come le basi rappresentano il terreno di base della guerra in atto, così le carceri sono le mura che aspettando di “accogliere” tutti quelli che si oppongono a questo stato di cose. Entrambe sono quindi parte di una stessa ristrutturazione in atto del capitale e degli Stati che riguarda tutti noi.
Galere e occupazione militare, dunque, non possono e non devono essere una questione per pochi. 
Sassari, aprile 2017
collettivo S’idea Libera


aggiornamenti dalle LOTTE dentro e CONTRO i cie
Torino, CPR di C.so Brunelleschi
Sciopero della fame, minacce, espulsioni e rastrellamenti.
L’insofferenza sommersa contro la reclusione si fa strisciante e ogni tanto prova a venir fuori tra i reclusi di corso Brunelleschi, a volte  canalizzandosi verso l’autolesionismo personale, a volte trovando sfogo in modalità ragionate collettivamente.
Lunedì 3 aprile, in serata, un ragazzo dell’area gialla, allo stremo della sopportazione per la prigionia, ha provato a impiccarsi ma i compagni di camera lo hanno tirato giù impedendogli di togliersi la vita. Un’altra goccia in un vaso già sufficientemente pieno che ha fatto prendere la decisione a tutti i ragazzi detenuti nel Centro torinese di iniziare lo sciopero della fame. Così martedì c’è stato il rifiuto totale della sbobba solitamente servita e a mezzanotte tutti i reclusi sono usciti dalle aree minacciando i lavoranti della struttura di bruciare i materassi. Una volta nel cortile per due ore hanno tenuto una battitura contro le inferriate all’urlo di libertà e la polizia non si è fatta vedere.
Uno degli obiettivi era quello di farsi sentire da chi abita nei palazzi vicini, che qualcuno si rendesse conto di vivere fianco a fianco a una prigione come quella. L’effetto sortito tra i “vicini di casa” non è stato però quello immaginato: qualche residente si è lamentato con le forze dell’ordine della situazione di disagio per il quartiere, qualcun altro ha chiamato i giornalisti per esprimere il suo stupore rispetto a questa protesta notturna.
Già mercoledì l’ispettore capo del Centro fa il giro di tutte le aree, accompagnato da una squadretta di celerini muniti di idranti, intimando ai reclusi di terminare lo sciopero della fame, altrimenti ci avrebbero pensato i suoi uomini a risolvere il problema, “a modo loro”. Le minacce in alcuni casi funzionano e diversi reclusi interrompono lo sciopero della fame.
Nell’area gialla molti reclusi decidono invece di continuare lo sciopero della fame e la polizia, tenendo fede alle sue promesse, vi si presenta il giorno dopo, giovedì, per portare via con la forza tre reclusi accusandoli di essere i promotori della rivolta. I tre sono rinchiusi in isolamento con la promessa, questa volta, che lunedì saranno riportati tra i loro compagni.
Lunedì i reclusi vengono però lasciati in isolamento e uno di loro comincia quindi a fare casino chiedendo di poter parlare con l’ispettore capo. Dopo alcune ore il ragazzo viene fatto finalmente uscire dall’isolamento ma, una volta fuori, lo attendono alcuni agenti che lo legano e spingono a forza in un furgone. Nel furgone ci sono già i suoi vestiti e oggetti personali, impacchettati nel frattempo alla bell’e meglio dagli operatori di Gepsa e Acuarinto. Trasportato in aereoporto, il ragazzo viene quindi espulso.
Uno dei due reclusi rimasti in isolamento, temendo di fare la stessa fine, decide di tagliarsi le braccia in più punti. Gli agenti del Centro lo portano dapprima in ospedale e poi, dopo veloci medicazioni, lo rinchiudono nuovamente in isolamento. Fuori dal Centro, sempre nel pomeriggio di lunedì, si raduna un gruppo di solidali che, con slogan e petardoni, tenta di far sentire il proprio sostegno a chi è rinchiuso di là dal muro.
Dal Cpr di corso Brunellechi ci arriva poi la notizia di frequenti rastrellamenti condotti dalle forze dell’ordine nel campo rom di via Germagnano. Secondo quanto ci viene detto, tutte le persone trovate senza documenti verrebbero portate via dal campo, rinchiuse nel Centro, e da qui nel giro di pochi giorni espulse.
Non sono mancati i calorosi saluti di solidali da fuori dalle mura, per portare sostegno a chi non smette di lottare. (13 aprile 2017, da autistici.org/macerie)

Trento: a proposito dei fatti di Roncone
Nella notte tra il 23 e il 24 marzo, a Roncone in Val Giudicarie, qualcuno ha incendiato il portone di una struttura dove sono costretti a stare alcuni profughi. Solo l'allarme lanciato da un vicino ha impedito alle fiamme (e al fumo) di propagarsi. Si tratta, qui in Trentino, del terzo attacco incendiario a sfondo razzista in quattro mesi. Ma se nel caso di Soraga e di Lavarone le strutture per profughi erano vuote, in questo caso chi ha agito poteva anche uccidere.  Un fatto gravissimo, causato da un odio razzista potenzialmente assassino.
Altro che “deficienti” e “decerebrati”, come si sono affrettati a dire i giornali e i politici. Mentre “squadrismo” e “fascismo” sono termini spudoratamente riservati alle lotte che dànno fastidio alle istituzioni, di fronte agli attacchi di Soraga, di Lavarone e di Roncone si evita accuratamente di far riferimento alla propaganda dei gruppi neofascisti, nell'evidente intento di depoliticizzare la benzina razzista. 
Se non sappiamo chi ha materialmente appiccato gli incendi, sappiamo chi li difende pubblicamente, chi sta partecipando, soffiando sul fuoco, a tutte le serate in Trentino dove si esprime contrarietà all'arrivo dei profughi.
Se poi allarghiamo lo sguardo, dove sono nati “comitati” per impedire l'arrivo di immigrati (vicino a Roma, in Veneto, nel Ferrarese, nel Bresciano...), i militanti di Forza Nuova e Casapound erano in prima fila. Per non parlare dell'omicidio di un immigrato a Fermo e del tentato omicidio di un altro a Rimini, sempre ad opera di fascisti.
In Puglia a bruciare vivi degli immigrati, durante lo sgombero del campo di Rignano, ci ha pensato direttamente la polizia. Svegliamoci ora, prima che sia troppo tardi.
I fascisti si organizzano. Il fascismo sociale e di Stato ne fa utili pedine e avanguardisti pronti. Non ci serve un 25 aprile per imbalsamare la resistenza di ieri. Di fronte all'orrore che cresce, c'è bisogno di partigiane e partigiani di un genere nuovo.
Martedì 25 aprile è indetta una manifestazione a Trento, davanti a sociologia.
(Aprile 2017, da abbatterelefrontiere.blogspot.it)
Foggia: Lunedì 24 aprile Corteo Nazionale No Confini No Sfruttamento!
Il 24 aprile a Foggia gli immigrati e le immigrate sono scesi nelle strade per chiedere ancora una volta una vita migliore, senza confini e senza sfruttamento, per avere riconosciute garanzie rispetto ai documenti, alla casa e al lavoro. Accanto a loro centinaia di persone, immigrate e non, venute da tutta Italia, per sostenere e unire le lotte, come è avvenuto il 12 novembre scorso a Roma e il 6 febbraio in diverse parti d’Italia.
La giornata è cominciata alle 12.00 con un presidio fuori dalle mura del carcere di Foggia, in solidarietà alle 17 persone arrestate con l’accusa di devastazione e saccheggio, in seguito alla rivolta dello scorso ottobre dentro il CARA di Borgo Mezzanone. Il presidio ha gridato con forza la sua solidarietà e la sua rabbia. Chi lotta non sarà mai lasciato solo/a! Perché i confini e la restrizione della libertà di movimento colpiscono tutt* coloro che questo sistema non può e non vuole accettare.
Alle 14.00 le centinaia di persone presenti sono partite in corteo, attraversando la città e raccontando le loro storie di lotta e i motivi della loro solidarietà. C’erano immigrati ed immigrate che vivono e lavorano in diversi ghetti d’Italia, dalla provincia di Foggia alla Piana di Gioia Tauro. Chi lotta per l’accesso alla casa e alla residenza, da Roma a Messina. Le persone che vivono e lottano nei centri di accoglienza e nel hotspot di Taranto. E tanti e tante solidali da tutta Italia, Bologna, Bari, Napoli, la provincia di Caserta, Cosenza, Lecce e altre ancora. La protesta ha toccato anche le sedi di Confagricoltura e Coldiretti, le associazioni dei produttori agricoli che da anni ignorano ogni richiesta di incontro con chi lavora in campagna, così come il rispetto dei termini contrattuali, favorendo in questo modo i meccanismi di sfruttamento. Il loro ulteriore silenzio è stato lo stesso della Prefettura e della Questura, che non hanno voluto ascoltare né ricevere nessuno. Al silenzio e alle provocazioni delle forze dell’ordine, il corteo ha risposto andando ad occupare per un paio d’ore il centro della città.
La giornata del 24 Aprile è stato un importante momento di solidarietà e di unità delle lotte di tutti gli sfruttati e le sfruttate. Un corteo che ha voluto dimostrare inoltre che attorno ai lavoratori delle campagne si sta costruendo una battaglia complessiva, che non lascerà solo chi in questi mesi è stato colpito da una repressione violenta fatta a colpi di sgomberi e morti di stato. Continueremo a denunciare che le deportazioni, la repressione, gli sgomberi e i campi di lavoro non possono essere la soluzione per chi lavora in campagna come per nessun*. (26 aprile, da campagneinlotta.org)

CARA di Borgo Mezzanotte, Foggia: devastazione e saccheggio per chi protesta
Nella maxi-operazione di polizia avvenuta nelle prime ore della mattina del 30 marzo, con un dispiegamento di 300 unità di forze dell’ordine, compresi due elicotteri, lo Stato ha arrestato 17 persone che avrebbero partecipato alla rivolta del 27 ottobre scorso nel Cara di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia.
Le pesanti accuse di devastazione e saccheggio, incendio, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale riguardano un totale di 26 persone, di cui 9 sono tutt’ora libere in quanto non rintracciate al momento dell’arresto. Ad oggi 17 persone sono detenute nel carcere di Foggia.
Il reato di devastazione e saccheggio ha già strappato la libertà a tantissime persone, tra cui decine di compagne e compagni che hanno partecipato con tutte/i noi ad alcune delle manifestazioni di piazza più conflittuali degli ultimi anni. Sono diversi i casi in cui le persone immigrate in lotta sono state imputate di questo reato: coloro che parteciparono, ad esempio, alla rivolta che distrusse il CIE di Crotone nel 2012, poi assolti e chi prese parte alla rivolta del 29 dicembre 2015 nel CARA di Mineo, protesta nata per le stesse ragioni per cui è scoppiata quella nel CARA di Borgo Mezzanone dell’ottobre scorso.
Insieme alla dura rappresaglia contro chi lotta, la democrazia affina continuamente il proprio impianto giuridico per scagliarsi, con un sistema integrato di leggi e campi di gestione e controllo, contro tutte le persone immigrate: così il circuito dell’accoglienza è un continuo vaso comunicante con la macchina delle espulsioni. Le ragioni della protesta nel Cara di Borgo Mezzanone, totalmente oscurate dai media, erano infatti legate alla volontà di ottenere i documenti a fronte di un enorme numero di richieste di protezione internazionale respinte; alla possibilità di cucinare i propri pasti, data la qualità scadente del cibo di cui sono costretti ad alimentarsi; alla richiesta del pocket money, di mezzi di trasporto pubblici che possano garantire gli spostamenti quotidiani e del riscaldamento nella struttura fatiscente, in considerazione dell'arrivo del freddo. Il Cara di Borgo Mezzanone, insieme a quello di Mineo e a 7 CPA e 15 SPRAR, rappresenta il gigante bottino della cooperativa sociale Senis Hospes che gestisce quotidianamente la vita di più di 7000 persone incastrate nel limbo forzato della richiesta di protezione internazionale.
Secondo la questura di Foggia, l’operazione che ha portato all’arresto dei rivoltosi è stata eseguita per scongiurare un’ennesima protesta di massa, in un territorio che vede le persone immigrate in continua mobilitazione. Qui lo Stato ha già espresso la propria ferocia nel recente sgombero del Ghetto di Rignano, portando alla morte di Mamadou e Nouhou, due abitanti dell’insediamento, dopo 4 giorni di assedio.
Per scongiurare le rivolte nei grandi Centri per richiedenti asilo, dal Cara di Mineo passando per Bari, Foggia e Castelnuovo di Porto, lo Stato ha da tempo stabilito un piano di dispersione per piccoli gruppi di persone in piccoli centri. Il progetto di accoglienza diffusa, che propaganda l’integrazione, sembra corrispondere a queste caratteristiche.
Al coraggio di chi, in un campo d’internamento, ha partecipato alle sassaiole contro i reparti della celere intervenuti per sedare la rabbia, ai danneggiamenti della struttura decadente in cui le persone sono ammassate e distribuite su giacigli arrangiati, all’attacco al magazzino dove è stipato il cibo scadente, deve corrispondere la nostra solidarietà concreta.
Come Rete Evasioni siamo disponibili a costruire una difesa politica collettiva al fianco delle persone arrestate e parteciperemo lunedì 24 aprile alle ore 12:00 (prima del corteo nazionale previsto in città), al presidio solidale davanti il carcere di Foggia, in solidarietà con tutte le persone recluse e al fianco di chi si è ribellato nel CARA di Borgo Mezzanone. (20 aprile, da inventati.org/rete_evasioni)

Frontiera italo francesce: assolto Felix Croft “accusato di solidarietà”
Felix Croft è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il collegio, presieduto da Donatella Aschero, ha ritenuto applicabile la «clausola umanitaria». La famiglia aiutata da Felix si trovava in uno stato di bisogno tale da rendere l’aiuto lecito.
È la prima sentenza in Italia di questo tenore. Rifacendosi all’articolo 12, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione, i giudici hanno pronunciato la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Felix era stato arrestato il 22 luglio 2016 quando aveva accompagnato una famiglia sudanese da Ventimiglia a casa sua in Francia.
La famiglia era in fuga dal Darfur e anche se in quel periodo era difficile aiutare i migranti in loco - il sindaco di Ventimiglia aveva emesso un’ordinanza che proibiva, per ragioni sanitarie, di dare cibo ai profughi - Felix decide di superare la frontiera.
Felix ha da subito rivendicato il suo gesto umanitario, anche di fronte alla pesante accusa. Per il Pubblico Ministero Grazia Pradella, che aveva chiesto 3 anni e 4 mesi e 50mila euro di multa, quell’atto metteva in pericolo la sicurezza dello Stato. Alla domanda, «Sapeva che portandoli in Francia commetteva un reato?», Felix aveva risposto semplicemente «Sì». Ma oggi il Tribunale gli ha dato ragione.
Il grido Hurriya, libertà in arabo, urlato anche in francese e italiano, è il coro che si sprigiona dalle bocche, fino a quel momento cucite dalla tensione, del centinaio di solidali che hanno accompagnato Croft durante il processo.
«Questa è una pietra miliare per chi si sente impotente e stritolato dalle leggi in questo periodo di immense sofferenze» – dice all’uscita dal Tribunale. «Questa sentenza dice alle persone di non avere paura della loro solidarietà. Se lo Stato è assente le persone devono agire perché la loro umanità è la base sulla quale si fondano le società».
(28 aprile, liberamente tratto da osservatoriorepressione.info)

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lotte e repressione nei centri di accoglienza in Basilicata
Lo scorso 25 aprile la città di Potenza ha visto per la prima volta un corteo di migranti e solidali sfilare per le sue strade, tra interventi, striscioni, cartelli e cori in inglese, francese e italiano. Uomini e donne che vivono nel limbo dei centri di accoglienza della città e delle zone limitrofe hanno sfidato le continue minacce dei gestori dei centri di accoglienza e delle forze dell’ordine per portare nei quartieri le loro voci, insieme con i/le solidali del CSOA Anzacresa, alcun* altr* provenienti da varie città e la rete Campagne in Lotta. Al termine del corteo si è tenuta un’assemblea in piazza. Dopo una stagione di repressione contro chi ha protestato nei centri di accoglienza di Potenza, con la solidarietà attiva si sono rafforzate le lotte, e nelle strade di Potenza si è levato forte il grido di libertà. Alla paura e ai ricatti per i documenti e alla violenza della Questura si è risposto con la lotta. Nelle piccole città e paesi della provincia italiana, quelli della cosiddetta “accoglienza diffusa” la situazione dei migranti non è affatto pacificata. Pur dovendo contrastare l’ulteriore isolamento e segregazione e il maggiore controllo sociale e poliziesco, i/le migranti continuano ad organizzarsi e lottare contro un sistema che prevede solo sfruttamento e repressione.
Di seguito pubblichiamo alcuni estratti di un documento più esteso sulla situazione dei/delle migranti in Basilicata, redatto a gennaio di quest'anno quindi non aggiornato agli ultimi mesi, ma comunque interessante poiché dà conto del business dell’accoglienza istituzionale, delle lotte portate avanti e della repressione che vede ancora purtroppo delle persone in galera, alle quali va tutta la nostra solidarietà.
Rispetto al resto d’Italia la Basilicata, per quanto riguarda la presenza di richiedenti asilo, rappresenta un’eccezione. Non solo è tra le prime tre regioni con il rapporto più alto tra presenze di migranti nei centri di accoglienza e popolazione residente (3,4 ogni 1000 abitanti, seconda solo al Molise e al Friuli) ma è anche l’unica dove le autorità locali valutano la presenza di centri di prima e seconda accoglienza per migranti come “un’opportunità”. La Regione Basilicata è stata inoltre la prima a rispondere positivamente alla richiesta di accettare uno dei nuovi CPR (Centri Permanenti per il Rimpatrio, cioè per recludere e deportare i/le migranti) previsti dal recente piano del Governo.
In un articolo apparso su La stampa nell'ottobre 2016 si legge che "la Basilicata è una regione dove sui migranti le cifre raccontano un vero e proprio boom. Oltre 44mila migranti hanno un lavoro, al 90% con un contratto. Oltre la metà lavora in agricoltura. Vuol dire che gli stranieri rappresentano il 13% circa della forza lavoro totale, cioè più di un lavoratore su 10 è straniero. Nella zona del Metaponto, le cifre sono anche più elevate: su 34mila lavoratori, 14mila sono stranieri.”
In un comunicato stampa del 13 dicembre 2016, Pietro Simonetti, responsabile del Coordinamento politiche migranti della Regione Basilicata, conferma l’intenzione di estendere ancora l’accoglienza diffusa. Per il biennio 2017/2018 è stato infatti predisposto un bando di 47.654.400 € per l’accoglienza di almeno 2.040 persone.
Al 12 gennaio 2017, secondo i dati ufficiali del Ministero degli Interni, risultano presenti in Basilicata 2.557 richiedenti asilo, 2.103 nei C.A.S. (Centri di Accoglienza Straordinaria) e C.P.A. (Centri di Prima Accoglienza) e 454 negli S.P.R.A.R. (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati). Sono 7 le cooperative si sono aggiudicate la gestione dell’accoglienza nel 2016 in provincia di Potenza: la Cooperativa sociale “Global Service” fa la parte del leone con la gestione di 294 persone in 18 centri di accoglienza a Potenza, Balvano, Brienza, Tito, Savoia, Melfi e altri 9 Comuni. Segue la “Multiservice sud” con 163 persone in 11 centri accoglienza in 5 Comuni, la coop “Opera” con 36 persone, l’Arci insieme alle coop “Sicomoro” e “Città della Pace” con la gestione di 74 richiedenti asilo, la società “Manteca srl” con 159 persone in 26 centri di accoglienza, la Coop “S.S.I” con 48 migranti, l’associazione “Le Rose di Atacama” con 67 e infine la cooperativa “Senis Hospes” con 45 persone.
Apparentemente, questa strategia basata sull’accoglienza sembrerebbe conveniente per tutti: nella Regione arrivano circa 30 milioni di euro all’anno per la gestione dei richiedenti asilo; una decina di imprese sociali provvedono, con queste risorse, ai salari per più di 550 operatori dei centri accoglienza; hotel e altre strutture ricettive hanno incassi garantiti anche oltre la stagione turistica; le imprese dell’agroindustria hanno a disposizione sempre nuova “manodopera a basso costo”; i Comuni possono servirsi gratuitamente dei richiedenti asilo per lavori di pulizia e manutenzione, e nel 2017 riceverà un bonus di 500 euro per ogni migrante “accolto” (per un totale di 1 milione e 135.000 euro). Inoltre, con la presenza dei centri di accoglienza diffusa in più della metà dei Comuni della regione, gli enti locali risparmiano anche sulle spese che dovrebbero sostenere per alloggiare la forza lavoro necessaria alla filiera agricola.
Un’accoglienza positiva per tanti, ma non per tutti: non certamente per le persone gestite, controllate, selezionate e sfruttate nei centri di accoglienza. I richiedenti asilo della Basilicata vedono le loro domande esaminate dalla Commissione di Salerno (e ultimamente, visti i numeri in crescita, anche da quella di Crotone): nel 2015 le domande accolte sono state solo il 18,8%; nel primo semestre del 2016 le domande che hanno ricevuto una risposta positiva sono state il 25%. Anche la Commissione di Crotone ha accettato solo il 37,3 % delle domande presentate nel 2016. Ciò significa che i tre quarti delle persone “accolte” si ritroveranno, con un decreto di espulsione che pende sulle loro teste, a vivere da irregolari (se non si finisce in un CIE/CPR e deportati) senza possibilità di affittare una casa, avere un regolare contratto di lavoro, accedere a cure e istruzione, ricongiungersi con i familiari etc.
Le proteste dei richiedenti asilo in Basilicata, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, sono state frequenti, e si sono scontrate con una durissima repressione delle forze dell’ordine e le grida d’allarme dei Sindaci e dei politici dei Comuni “accoglienti”. Di seguito ne descriviamo alcune, quelle che sono state riportate dai media (o meglio, attraverso articoli che la maggior parte delle volte si basano sulle veline delle forze dell’ordine), e ricordando che le proteste sono molto più numerose, e purtroppo vengono represse nel silenzio a causa dell’isolamento dei luoghi, dell’indifferenza generale e della mancanza di iniziative di solidarietà con i/le migranti.
Il 31 luglio 2015 i 51 richiedenti asilo presenti in un centro accoglienza a Sasso di Castalda (Pz) gestito dalla cooperativa “Opera” avevano protestato in strada “per contestare i tempi lunghi relativi alla concessione di documenti che consentirebbero loro di riprendere il viaggio verso altre mete. Nessuno ha intenzione di fermarsi in Basilicata, ma senza quelle «carte» sono bloccati, «prigionieri», confinati. Qualcuno ha dato fuoco a materassi e suppellettili bloccando il traffico”. Dal dicembre 2014 ancora nessun richiedente asilo era stato chiamato a colloquio dalla Commissione di Salerno. Per il sindaco la protesta aveva rappresentato “una frattura nel rapporto di fiducia” con i migranti: “In questo momento non siamo in condizione di ospitare neanche due soli immigrati. Io non sono più in grado di garantire l’ordine pubblico dopo quel che è accaduto” aveva dichiarato. Nei giorni successivi alcune persone erano state trasferite altrove.
Anche a Chiaromonte (Pz) l’8 agosto 2015 i 68 immigrati del centro di prima accoglienza situato nell’hotel Ricciardi e gestito dalla cooperativa Senis Hospes avevano protestato con forza chiedendo di essere uditi dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, e poter finalmente andare via, e denunciando le pessime condizioni un cui erano costretti a vivere da 8 mesi. Dopo la protesta, il sindaco aveva chiesto al ministro degli Interni e al Prefetto la chiusura del centro accoglienza. Il Prefetto nel giro di pochi giorni emise un decreto di espulsione dal circuito dell’accoglienza per 26 tra i richiedenti asilo che avevano osato protestare. Il 21 agosto furono necessari 70 carabinieri di 3 compagnie diverse e alcuni poliziotti per riuscire a cacciare le persone dal centro accoglienza, dove i richiedenti asilo avevano resistito contro il provvedimento di espulsione per ore, fino a notte inoltrata.
A Matera il 26 agosto 2015 un’auto investe uno dei richiedenti asilo del C.A.R.A. (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) situato nel Fast Motel, nella zona industriale di La Martella, e gestito dalla cooperativa Auxilium. L’ennesimo incidente, dovuto all’isolamento della struttura che obbliga i migranti a muoversi a piedi o in bici anche al buio, scatena la rabbia dei 133 immigrati ammassati nel centro, che scendono in strada e bloccano la circolazione per più di due ore sulla strada provinciale 6 che da Matera porta a Gravina. Arrivano polizia, carabinieri, guardia di finanza, digos, persino i vigili del fuoco e la guardia forestale per reprimere la protesta. Il giorno successivo, 27 agosto, cento richiedenti asilo partono in corteo spontaneo e raggiungono, dopo aver percorso 4 km, prima la caserma dei carabinieri e poi la Questura.
Il 1° settembre 2015 a Nova Siri (Mt) i 36 richiedenti asilo dello S.P.R.A.R. gestito dalla cooperativa “Senis Hospes” protestano contro la direttrice del centro. Solo 5 persone hanno ottenuto la protezione umanitaria, in 5 un diniego e gli altri ancora nessuna risposta. Inoltre non viene erogato il pocket money. Al solito i gestori ricorrono all’intervento della polizia e dei carabinieri per placare le legittime proteste.
A Fardella (Pz) il 3 settembre 2015 due coniugi nigeriani avevano protestato per la decurtazione del pocket money loro dovuto, giustificata dai gestori della coop. “Senis Hospes” dello S.P.R.A.R. con la loro mancata partecipazione al corso di lingua italiana. I due sono stati arrestati e processati per direttissima con le accuse di danneggiamento, percosse e minacce.
Nel febbraio 2016, dopo svariate proteste dei richiedenti asilo, la Procura di Avellino chiude per gravi inadempienze 7 centri di accoglienza. In tutta fretta, senza fornire loro alcuna informazione, 153 migranti vengono deportati come pacchi verso il Sannio, la Puglia e la Basilicata. Otto ragazzi vengono condotti il 23 febbraio nel centro di accoglienza per minori migranti non accompagnati “Villa Signorello” a Irsina (Mt), gestito dalla cooperativa Polis. “Siamo partiti pensando che saremmo potuti stare meglio ma lì abbiamo trovato un posto persino peggiore di questo. C’erano già 60 persone divise in sette stanze. Alcuni che dormivano per terra. Non potevamo proprio restare lì” raccontano i migranti. Decidono di andare via, per racimolare i soldi dei biglietti, vendono scarpe e vestiti, ritornano ad Avellino ma vengono respinti da un funzionario “non sono loro a scegliere dove andare. Io non posso far nulla. Se non vogliono uscire dal programma devono tornare indietro”. L’avvocato che segue le loro domande d’asilo cerca di spiegare ai ragazzi che la soluzione più ragionevole è tornare ad Irsina e provare discutere con gli operatori del campo per avere condizioni più accettabili “Oppure dovete scegliere di uscire dal programma e trovare una sistemazione, presso amici, dove potete essere reperibili per tutte le comunicazioni necessarie ad ultimare l’iter». Ma nessuno vuole tornare ad Irsina. “Siamo esseri umani prima che immigrati” dice uno di loro. Alla fine, in sei sono stati costretti a tornare a Irsina.
Il 24 febbraio 2016 un gruppo di richiedenti asilo dello S.P.R.A.R. di Fardella (Pz) gestito dalla cooperativa sociale “Senis Hospes”, ha iniziato a manifestare il proprio disappunto nei confronti del personale, per i pasti insufficienti e il mancato rispetto delle norme igieniche. “Prima hanno occupato l’ufficio, impedendo agli operatori di uscire e poi hanno transennato con travi di legno, la strada davanti alla struttura ospitante, ostruendo il passaggio di persone e veicoli. Il sit- in si è protratto fino a tarda serata”. Il giorno successivo, 25 febbraio, la protesta è continuata col blocco stradale, alla presenza del Sindaco, che ha chiamato i carabinieri. I migranti si sarebbero rifiutati di togliere il blocco stradale e, dopo un parapiglia, una delle persone è stata arrestata per violenza a pubblico ufficiale e portata a Lagonegro, e gli altri denunciati, e con il sindaco che ne ha chiesto l’espulsione.
A Viggianello (Pz) il 7 luglio 2016 i 16 richiedenti asilo del centro di accoglienza “Hotel Santa Filomena 2” gestito dalla cooperativa Senis Hospes, trasferiti a forza dal centro di Chiaromonte, hanno protestato contro la nuova sistemazione troppo isolata (si trova nel Parco del Pollino) occupando la strada provinciale 4 del Pollino utilizzando picchetti in legno per bloccare i mezzi in transito. Al rifiuto di sciogliere la protesta intimato dai carabinieri, sono avvenuti degli scontri. Due persone sono state arrestate per interruzione di servizio pubblico, resistenza a Pubblico ufficiale, violenza privata e danneggiamento” e il giorno successivo processati con rito direttissimo e condannati dal Tribunale di Lagonegro.
Un richiedente asilo nigeriano si era allontanato dallo S.P.R.A.R. di Fardella (Pz) gestito dalla cooperativa Senis Hospes per seguire a Roma la compagna e il loro bambino appena nato. Tornato a Fardella, gli era stato detto dai gestori che aveva perso il diritto all’accoglienza perché si era allontanato senza comunicazione. Ovviamente ha cercato di opporsi all’ingiusto provvedimento e il 26 settembre 2016 sono arrivati i carabinieri per allontanarlo: per aver protestato e resistito è stato arrestato con l’accusa di violazione di domicilio, violenza privata, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali dolose e danneggiamento aggravato, e processato con rito direttissimo.
Il 30 novembre 2016 vengono chiusi i centri di accoglienza di Tito e Tito Scalo (Pz), in seguito a un controllo dell’ASL che aveva rilevato carenze igienico sanitarie nei locali determinando così un’ordinanza di sgombero disposta dal sindaco. I 42 richiedenti asilo a Tito e i 10 a Tito Scalo sono stati così trasferiti in tutta fretta dagli stessi gestori dei due centri. 18 persone sono state condotte a Chiaromonte (Pz) nel centro di prima accoglienza gestito dalla cooperativa sociale “Senis-Hospes” e il 1° dicembre hanno iniziato una protesta contro la nuova sistemazione e per ritornare a Tito, che ha visto l’intervento dei carabinieri che hanno poi arrestato un ventiquattrenne nigeriano accusato di averli aggrediti.
A Potenza il 2 dicembre tre richiedenti asilo, un nigeriano e due gambiani, avevano protestato per il pocket money con il presidente della cooperativa “Global Service”, che gestisce il centro accoglienza nell’ex Ferrotel. I carabinieri li hanno arrestati con l’accusa di aver chiuso in una stanza e minacciato il responsabile. Si trovano nel carcere di Potenza.
Sempre a Chiaromonte (Pz) una nuova protesta era cominciata il 6 dicembre: “Qui non ci troviamo bene. Vogliamo ritornare dove eravamo prima, perché avevamo avuto la possibilità di lavorare”. “La protesta ha avuto inizio, martedì sera, con un lungo sit-in all’ingresso della struttura gestita dalla cooperativa sociale Senis-Hospes di Senise, nella quale attualmente risiedono 44 persone. 7 dei 18 ragazzi provenienti da Tito, infatti, erano in attesa di trasferirsi da Chiaromonte per un’altra destinazione. I restanti undici, si sono arrabbiati perché volevano andar via anche loro, pertanto hanno fatto le valigie e si sono accampati davanti all’hotel Ricciardi. Il mattino seguente, 7 dicembre, la protesta è continuata e sembra sia avvenuto un diverbio tra gli stessi richiedenti asilo. L’intervento dei carabinieri si è concluso con l’arresto di 4 persone per l’accusa di rissa, danneggiamento, violenza e resistenza a pubblico ufficiale.

27 aprile 2017, da hurriya.noblogs.org


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Svizzera “Lottate con me contro il sistema dei campi”
Uno squat di migranti a Zurigo
Mario Fehr, direttore del dipartimento di sicurezza, ha recentemente emanato una nuova regolamentazione restrittiva per i/le migranti che vivono a Zurigo. Da marzo i/le migranti devono dormire nei bunker sotterranei (costruiti decenni fa come rifugi anti-atomici) se vogliono ottenere il sussidio statale di 7/8 franchi.
A Zurigo sono stati aperti 7 NUK (Notunterkünfte – rifugi di emergenza) a Adliswil, Embrach, Hinteregg, Kemptthal, Kloten, Urdorf and Uster. In questi bunker naturalmente, non c’è luce solare diretta e le persone sono sottoposte a continue vessazioni da parte delle autorità. Tredici migranti illegalizzati hanno deciso che per loro uscire e far parte della società è più importante che conformarsi a ciò che lo Stato dice loro di fare. Uno di loro, che preferisce essere chiamato “con un termine semplice, come «migrante reso irregolare» o «attivista migrante»” ci racconta dell’occupazione, avvenuta a marzo, di un edificio di proprietà della Credit Suisse, in Klosbachstrasse 50, 8032, a Zurigo.

Ciao, puoi dirmi qualcosa della casa?
La casa esiste da un mese ed è previsto un altro mese di vita. L’attuale proprietario è Credit Suisse, che vuole iniziare la costruzione di un nuovo edificio entro un mese. Si tratta di un palazzo di 4 piani, 9 appartamenti, 24 camere e un garage per 10 auto.

Come è nata l’occupazione?
Eravamo un gruppo di persone, migranti e alcuni solidali svizzeri che volevano sostenerci e ci hanno aiutato a comunicare con il proprietario.
Nel corso del tempo i nostri amici svizzeri hanno dialogato con la proprietà, il resto di noi era veramente nel panico perché temevamo potesse accaderci qualcosa di spiacevole con gravi conseguenze per noi. Ma sorprendentemente, tutto è andato veramente bene e abbiamo fatto un accordo per poter rimanere per due mesi.
Noi evitiamo solo di far troppo rumore, puliamo e paghiamo acqua e elettricità. È la terza casa che tentiamo di occupare, quindi siamo veramente felici che sia stato trovato un accordo.

Perché la casa verrà demolita?
Poiché è stata lasciata in stato di abbandono da molto tempo, ora c’è un appartamento ammuffito. Pertanto l’intera casa deve essere distrutta.

Chi vive nella casa?
Siamo migranti provenienti da diversi campi (ossia centri di accoglienza ndt), tutti senza documenti in regola. Abbiamo cercato di invitare altre persone in casa, ma la maggior parte di loro ha paura di perdere il poco che ha ricevuto nei campi. Fino a ora ci sono circa 13 persone.

Come è successo che il gruppo di persone che vive al momento nella casa ha occupato insieme l’immobile?
Per questo gruppo, occupare la casa è stata una reazione alla repressione nei campi. Le condizioni di vita nei campi sono disumane. Fa sì che la gente cerchi altri posti in cui vivere insieme. Avere un posto dove stare in compagnia è una cosa fondamentale per gli esseri umani. Vedendo le case vuote e abbandonate all’incuria di Zurigo, ci siamo detti “perché non vivere lì”? Perché non vivere lì invece che nei bunker, dove si vive come in prigione, dove non hai un posto per organizzarti e lottare per la nostra libertà? Meglio avere uno squat per un breve periodo e con una situazione incerta rispetto a vivere in un bunker. Meglio che essere sempre controllato dalla polizia e costretto a firmare il foglio di presenza ogni giorno. Meglio che sentirsi continuamente invitati dalla polizia a lasciare la Svizzera. Occupare una casa apre le porte al confronto con altre persone in quanto ti possono vedere, possono parlare con te; l’occupazione di una casa ti rende visibile.

Perché era importante per voi occupare da soli la casa?
Da una parte, è importante «firmare con il nome dei migranti» le case. Ci rende visibili, ci rende presenti. D’altra parte, è importante che le persone svizzere bianche e privilegiate ci sostengano. Persone che parlano bene tedesco, che possono parlare con la polizia e con il proprietario della casa. A volte penso di occupare una casa da solo.

Perché c’è una relazione tra il movimento squatter e i/le migranti?
Abbiamo un nemico comune, la repressione. Quindi perché non combattere insieme. In questo momento, la gente si rende conto del modo in cui vorremmo essere supportati. Ad esempio, molte persone vogliono sostenere i/le migranti con lezioni di lingua tedesca, portando cibo e indumenti. Tutto ciò è sicuramente importante, ma i/le migranti hanno bisogno di un posto dove vivere e organizzarsi. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno. Ho avuto l’impressione che alcuni anarchici di Zurigo condividessero la nostra analisi sulla repressione in cui viviamo. Abbiamo trovato le basi della repressione proprio nell’organizzazione dei campi. Così portare le persone fuori dai campi diventa un obiettivo per combattere la repressione. Perché sai, l’obiettivo, come andare avanti e non essere più un “rifugiato”, è sempre nei nostri pensieri. È impossibile rimanere qui senza muoversi, senza darsi da fare.

Qual è l’obiettivo dell’occupazione?
La casa ci permette di avere un luogo dove organizzare la lotta, per costruire la società. Questo è importante. I/le migranti spesso cercano soluzioni rapide per sfuggire alla situazione. Questo è comprensibile. Ma per trovare una soluzione a lungo termine, devi lottare politicamente. Come puoi pensare a ciò che desideri nel clima di repressione tipico dei campi, affrontando ogni giorno sanzioni e punizioni?

Puoi raccontarmi un po’ della tua situazione?
Ho viaggiato attraverso molti paesi e ho rischiato la mia vita per trovare un posto dove vivere. Come musulmano ateo, sono venuto in questa terra con la prospettiva di vivere libero. Ma la Svizzera ha distrutto la mia libertà di movimento e ha cercato di distruggere la mia libertà di pensiero. Mi hanno arrestato ovunque sia stato, mi hanno messo in un bunker insieme a 80 altre persone, dove condividevo la mia camera da letto con altre 20. Dove devo firmare due volte al giorno per ottenere i miei 8 franchi per vivere. Dove dovrei vedere gli stessi volti della gente dell’ORS (L’ORS è una delle organizzazioni responsabili della «supervisione e organizzazione» dei centri di accoglienza) che ti ricorda ogni giorno che la polizia potrebbe venire in qualsiasi momento per buttarti fuori. Come può una società che parla di diritti umani isolare i/le migranti in questo modo togliendo tutta la dignità e il rispetto alle persone?

Cosa mi dici della tua libertà di pensiero?
Penso sempre alle condizioni in cui viviamo. Come posso riconquistare la mia libertà? La mia libertà nella società? Come ho detto, come ateo musulmano, sono venuto in questa terra, con la speranza di essere libero di pensare. Non mi fermeranno leggi razziste adottate dal Dipartimento della Sicurezza governato dal signor Mario Fehr. Per esempio, anche io rifiuto di dimostrare di essere ateo al SEM ( il Segretariato di Stato per la Migrazione) per ricevere un permesso o una carta d’identità che possono essermi tolti con la stessa facilità con cui mi vengono dati.

Ci parli della tua lotta?
Non ho alcun supporto al momento, solo questa casa occupata. E un cuore forte e coraggioso per continuare sulla mia strada lavorando per costruire il mio futuro. Se siete interessati a essere coinvolti in una vera lotta con i/le migranti, non servono i corsi di tedesco (e se dici che la lingua è la chiave io dico che la mia libertà di movimento è la chiave per me) o la giocoleria (mi spiace, scappiamo ogni giorno dalla polizia, quindi non c’è bisogno di altra attività fisica)…

Cosa rispondi alle persone che ti chiedono cosa possono fare per sostenerti?
Io rispondo: lottate con me contro il sistema dei campi. La mia preoccupazione è che ci sono ancora più di 800 rifugiati in diversi campi: Kemptthal, Uster, Kloten, Adliswil, Hinteregg e il mio merdoso bunker di Urdorf. Sono persone che odiano dover stare in quei campi, senza poter lavorare o uscire dall’area loro assegnata, ma non sanno cosa fare. Spero che qualcuno leggendo questo testo decida di andare a visitare quei campi. Sarebbe una grande cosa da fare! Rompere l’isolamento. Portare tutte le cose di cui non avete più bisogno per il nostro nuovo squat perché tutto può essere utile in una casa vuota. Vogliamo essere in grado di muoverci e abbiamo quindi bisogno di poter utilizzare mezzi di trasporto pubblico, auto, biciclette. Pensare al di là delle categorie burocratiche e concentrarsi sui bisogni reali delle persone. Diventare parte della lotta.

29 aprile 2017, da hurriya.noblogs.org tradotto da ajour-mag.ch


Usare la propria vita come strumento di resistenza
Nelle carceri turche è in corso uno sciopero della fame a oltranza
Agire ora: ogni ritardo può costare la vita ai prigionieri politici in Turchia.
Dal 15 febbraio 2017 nel carcere di Sakran (Smirne), e successivamente in altri 18 carceri turche, 168 prigionieri politici e prigioniere politiche hanno iniziato uno sciopero della fame a oltranza. Con la loro azione protestano contro condizioni di carcerazione inumane e le continue vessazioni alle quali sono sottoposti, contro gli arresti di massa arbitrari, la repressione politica e militare della popolazione civile e l’isolamento del rappresentante del popolo curdo Abdullah Öcalan.
Dopo il fallito golpe militare, 45.000 persone sono state arrestate con l’accusa di aver partecipato al golpe e di appartenere all’organizzazione di Fetullah Gülen. Sono stati inoltre arrestati oltre 5.000 esponenti dell’opposizione. I fermi e gli arresti, in particolare di oppositori curdi, alla vigilia del referendum costituzionale del 16 aprile continuano senza sosta. La proclamazione dello stato di emergenza e i relativi decreti legge portano a limitazioni dei diritti garantiti dalla legge e a gravi violazioni dei diritti umani.
La prassi dell’isolamento nelle carceri, trattamenti arbitrari di ogni tipo, torture, maltrattamenti, trasferimenti improvvisi e immotivati, misure disciplinari ingiustificate, la negazione dell’accesso a cure mediche, così come la mancata scarcerazione di prigionieri e prigioniere in condizioni di salute gravissime, sono solo alcuni dei molti problemi in essere.
Deniz Kaya a nome delle prigioniere e dei prigionieri di PKK e PAJK in sciopero della fame ha dichiarato: “L’AKP cerca di intimidire l’opposizione con decreti emanati nell’ambito dello stato di emergenza, arresti e la normalizzazione della tortura. Sono stati arrestati deputati, sindaci, accademici e giornalisti, bruciati interi villaggi scacciando e massacrando le persone. Il primo luogo dove è stato messo in pratica il regime golpista dello stato di emergenza è il carcere di massima sicurezza di Imrali. L’isolamento del rappresentante del popolo curdo Abdullah Öcalan viene allargato a tutte le carceri. Le persone nelle carceri temono per la propria vita. Ogni giorno prigioniere e prigioniere vengono trasferiti da un carcere all’altro, subiscono perquisizioni corporali e torture. I nostri pochi averi durante le perquisizioni delle nostre celle vengono confiscati e le lettere che redigiamo in lingua curda non vengono spedite perché contrassegnate con il timbro ‘lingua sconosciuta’.
Il blocco fascista costituito da AKP e MHP cerca di consolidare la sua dittatura eleggendo Erdoğan a Presidente per mezzo di un referendum. Continueremo a denunciare questo sistema fascista e razzista e a mantenere viva la resistenza. Facciamo appello a tutti i gruppi sociali perché dicano NO nel referendum imposto dall’alleanza AKP-MHP e perché rafforzino la resistenza su tutti fronti.”
A sostegno delle richieste delle prigioniere e dei prigionieri in sciopero della fame, la Comunità Curda in Italia, in contemporanea con le comunità curde in altri Paesi europei da lunedì 10 aprile 2017 inizia uno sciopero della fame a staffetta. A Roma dove la Comunità Curda è impegnata ormai da oltre un anno nella difesa del Centro Socio-Culturale Curdo Ararat, minacciato di sgombero dal Comune di Roma come decine di altre realtà, lo sciopero della fame si svolgerà nell’ambito di un presidio a Piazza Madonna di Loreto dalle 17.00 del 10 aprile 2017.
Facciamo appello alle istituzioni, alla società civile e all’opinione pubblica democratica in Italia e in Europa, perché sostengano le richieste delle prigioniere e dei prigionieri in sciopero della fame e non restino in silenzio perché ogni ritardo può costare una vita:
Miglioramento delle condizioni di carcerazione.
Fine dei fermi e degli arresti legati all’aver espresso opinioni e aver svolto lavoro politico, fine della repressione politica e militare della popolazione.
Fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan.

10 aprile 2017
Comunità Curda in Italia – Ufficio Informazioni del Kurdistan in Italia
Rete Kurdistan Italia

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Turchia, l’esplosione a Diyarbakir è opera dell'ingegno del PKK
Nei giorni scorsi tutti i media hanno riportato dell’importante esplosione avvenuta di una stazione di polizia sede delle squadre dell’antisommossa Turca a Diyarbakir, la più grande città Curda situata nel sud-est della Turchia.
L’esplosione, in un clima tesissimo a meno di una settimana dal referendum costituzionale che potrebbe dare ulteriori poteri ad Erdogan, è stata immediatamente minimizzata dal ministro dell’interno Süleyman Soylu che ha escluso il coinvolgimento del PKK riducendola ad una fuga di gas da un mezzo corazzato in riparazione nell’officina.
Le HPG hanno detto che l’azione eseguita dalla ‘Squadra Vendetta per il Martire Bager e il Martire Dirêj’ contro il quartier generale ad Amed l’11 aprile ha ucciso 83 poliziotti.
Il Media Center delle HPG (Forze di Difesa del Popolo) ha rilasciato un bilancio dell’azione di guerriglia che ha preso di mira il quartier generale della polizia nel distretto centrale di Bağlar ad Amed l’11 aprile.
Secondo la dichiarazione, l’azione eseguita dalla ‘Squadra Vendetta per il Martire Bager e il Martire Dirêj’ ha ucciso 83 poliziotti. L’azione è stata eseguita circa alle 10:45 con la detonazione di esplosivi posizionati dall’unità di guerriglia sotto il compound della polizia attraverso un tunnel lungo 90 metri scavato sotto terra.
Confutando le dichiarazioni delle autorità turche secondo le quali l’esplosione è avvenuta durante la riparazione di un veicolo, le HPG hanno detto che 2.540 kg di esplosivi sono stati piazzati sotto l’edificio dove hanno la base polizia antisommossa, polizia antiterrorismo e unità di intelligence e vengono raccolte le registrazioni delle telecamere di sorveglianza e veicoli blindati. Le HPG hanno dichiarato che l’edificio preso di mira è stato raso al suolo a seguito della detonazione degli esplosivi.
“Secondo informazioni a nostra disposizione, 83 cadaveri sono stati portati via dall’edificio, dove erano presenti 150-200 poliziotti, in appositi sacchi. Inoltre sono stati feriti appartenenti alle squadre del nemico. Come risultato dell’azione, 8 panzer, 10 veicoli Cobra 4 veicoli Ural, 4 veicoli Ranger, 6 veicoli con idranti, 2 scavatrici, 2 macchine Doblo, 12 bus e dozzine di macchine della polizia sono stati distrutti e altri presenti nell’edificio sono stati resi inservibili. Tutti gli edifici del compound sono stati danneggiati e sono rimasti feriti molti poliziotti”, hanno detto le HPG.
Le HPG hanno sottolineato che è stata fatta la massima attenzione prima e durante l’azione, affinché non venissero causati danni a civili e che la quantità di esplosivo era stata predisposta e pianificata di conseguenza.
La dichiarazione afferma: “Questa azione è stata eseguita dalla ‘Squadra vendetta per il Martire Bager e il Martire Dirêj’ in memoria di tutti i nostri compagni che sono caduti martiri nella provincia di Amed e tutti coloro che sono diventati martiri nel recente processo e in risposta alle politiche di repressione, atrocità e tortura nelle carceri del nemico fascista. La nostra squadra che ha condotto l’azione è tornata integra alla base senza incontrare alcuna situazione sfavorevole.” Le HPG hanno rilasciato anche foto dell’azione.

15 aprile 2017, da infoaut.org

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Processo a Amburgo contro Zeki Eroglu, intellettuale kurdo
Nel processo in corso ad Amburgo, giunto alla 12° udienza, contro Zeki Eroglu non esistono prove riferite a fatti penali concreti; l'accusa di fondo è di essere quadro dirigente del PKK che dagli Stati NATO è considerato “associazione terrorista”, nella RFT dunque perseguita sulla base del paragrafo del codice penale 129b (corrispettivo al 270 bis in Italia: “associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale”).
Nel settembre 2011 il ministero della giustizia ha dato disposizione di procedere contro il PKK in conformità al paragrafo 129b del codice penale. Quell'intervento del governo di fatto cancellò la separazione dei poteri, ponendo “il diritto penale nelle mani della politica estera”, come affermò in aula l'avv.sa di Zeki Eroglu.
L'ascolto delle registrazioni telefoniche doveva dare prova che l'accusato era un dirigente del PKK. La corte, dice la difesa di Eroglu, in un'udienza ha sottolineato che: “il tribunale concorda che in Turchia esistono l'assenza sistematica del diritto e crimini di guerra compiuti dalla Stato. Ciò tuttavia - secondo il tribunale - non concede ai kurdi il diritto alla resistenza armata sancito dal diritto internazionale o la resistenza fissata nella Legge Fondamentale della RFT per acquisire i diritti primari. In generale l'atteggiamento dei giudici è testimone di una grossa ignoranza nei confronti dell'accusato e della situazione in Turchia. Loro si nascondono dietro la decisione del ministero della giustizia e dalle loro coscienze rimuovono nei fatti le direttive connesse alla separazione dei poteri.”
In aula Zeki Eroglu in più interventi ha chiarito la storia della repressione sistematica riservata ai kurdi, i massacri compiuti dalla Turchia a cominciare dalla sua fondazione, concludendo che: “Il tribunale ha respinto ogni istanza della difesa e vuole chiudere il processo dopo l'ascolto delle registrazioni telefoniche, perciò mi domando se la sentenza non sia già stata scritta”.
La difesa ha richiesto l'ascolto di un collaboratore, negli anni '90, di un braccio particolare dei servizi segreti turchi responsabile di far sparire le persone, di ucciderle. In diverse interviste l'ex agente ha confermato che l'unità in cui era inserito era responsabile della morte di parecchie centinaia di kurdi finiti sulla sua lista.
Sempre la difesa in aula ha esposto il fatto che “nel 2015, nell'ambito dei lunghi coprifuochi imposti nelle città e nei villaggi del sud-ovest della Turchia (abitati prevalentemente da popolazione kurda) i metodi delle impiccagioni e di far sparire le persone anche oggi vengono impiegati in maniera sistematica.” Al sistema di questi coprifuochi, oggi, appartiene anche la realtà che interi quartieri delle città vengono distrutti dai colpi dell'artiglieria e dei carri armati, immediatamente seguiti dalle forze di sicurezza che uccidono le persone arrestate.
Il tribunale rifiuta sostanzialmente di prendere in considerazione, come prove, i crimini di guerra di ieri e di oggi compiuti dall'esercito turco.

15 aprile 2017, da jungewelt.de


Palestina: undicesimo giorno di sciopero della fame
Mentre i prigionieri palestinesi sono entrati nel loro 11 ° giorno di sciopero della fame per la libertà e la dignità, si sono uniti a loro, con uno sciopero generale di massa in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, il settore del commercio, del lavoro, dei dipendenti pubblici e dell’istruzione.
Ma’an News ha riferito che le strade palestinesi in città, villaggi e campi profughi erano quasi vuote di automobili e passanti.
Negozi, banche, fabbriche, istituzioni governative, università sono tutte chiuse. Le uniche eccezioni allo sciopero sono state le scuole superiori, i servizi medici di emergenza e gli ospedali.
Il 17 aprile, giorno dei prigionieri palestinesi, oltre 1.500 prigionieri palestinesi hanno lanciato lo sciopero della fame per ottenere una serie di richieste, tra cui la fine del divieto delle visite familiari, il diritto all’istruzione, l’assistenza medica adeguata ai prigionieri palestinesi e la fine delle celle di isolamento e della “detenzione amministrativa” – detenzione senza alcuna accusa o processo.
Altri detenuti oggi si sono uniti allo sciopero, come l’ex scioperante della fame Samer Issawi e sei dei suoi compagni del Fronte Democratico per la Liberazione di Palestina nella prigione del deserto del Negev.
Gli scioperi sono stati affrontati dall’amministrazione israeliana con una dura repressione, incluso il rifiuto delle visite legali degli avvocati palestinesi. Di tutti i prigionieri scioperanti solo tre detenuti nella prigione di Ofer hanno ricevuto regolarmente visite legali – tutte le altre visite sono state negate. Questa pratica in corso ha scatenato il boicottaggio dei tribunali militari israeliani da parte degli avvocati palestinesi aderenti a Prisoners’ Society e a Prisoners’ Affairs Commission, in segno di protesta contro il continuo rifiuto delle visite.
Adalah (n.d.tr. Centro giuridico per i diritti delle minoranze arabe) ha evidenziato l’illegalità di questa misura e con una lettera al direttore del dipartimento della Corte suprema presso l’ufficio del procuratore statale israeliano, a nome di sette avvocati, ha chiesto all’amministrazione carceraria di consentire le visite dei legali ai prigionieri in sciopero.
Inoltre, diverse organizzazioni a sostegno dei prigionieri, tra cui Palestinian Prisoners’ Society e Prisoners’ Affairs Commission, hanno presentato una mozione preliminare per poter visitare i loro clienti in sciopero. Una mozione è stata presentata anche per poter visitare Karim Younes, il prigioniero palestinese da più tempo in prigione e che ha già scontato 34 anni nelle prigioni israeliane.
Younes, cittadino palestinese di Israele, è un leader dello sciopero ed è tenuto in isolamento nella prigione di Jalameh con altri leader tra cui Marwan Barghouthi, il prigioniero Fateh, Kamil Abu Hanish del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Anas Jaradat, Wajdi Jawdat e altri scioperanti.
Mercoledì 26 aprile, organizzata dalle associazioni palestinesi nella Palestina occupata del ’48 a sostegno degli scioperanti della fame, si è svolta una grande manifestazione davanti alla prigione di Jalameh.
Oltre al trasferimento e all’isolamento dei leader in sciopero della fame, gli scioperanti della fame sono stati ripetutamente trasferiti e spostati con viaggi stressanti da carcere a carcere, spesso spostati in sezioni di isolamento. I loro beni personali sono stati confiscati insieme alla maggior parte dei loro vestiti; venerdì a molti è stata negata la ricreazione, l’accesso alla “canteen” (negozio dentro la prigione) e la preghiera collettiva. I trasferimenti sono proseguiti.
Giovedì, Asra Voice ha riferito che l’amministrazione della prigione ha trasferito circa 40 prigionieri, scioperanti e non, dalle prigioni Nafha, Ramon e Negev alla prigione di Ohli Kedar. Lì, l’amministrazione della prigione ha svuotato la sezione 8 per trasferci i detenuti senza arredo e senza le forniture di base indispensabili.
I prigionieri scioperanti stanno finendo sale e acqua; ci sono segnalazioni da diverse prigioni che le guardie israeliane e le forze repressive hanno sequestrato le forniture di sale, rifiutando la fornitura di acqua potabile, oltre a fare violente incursioni notturne nelle celle degli scioperanti.
Mercoledì 26 aprile, per la prima volta dall’inizio dello sciopero, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha visitato i prigionieri in sciopero nella prigione di Nafha. Ha registrato messaggi verbali dei prigionieri da consegnare alle loro famiglie. Il CICR ha dichiarato di aver alzato il livello di allerta sin dall’inizio dello sciopero; va osservato che una delle richieste dei detenuti si rivolge effettivamente all’ICRC con la richiesta, per le famiglie dei detenuti, del ripristino delle visite carcerarie coordinate dal CICR di due volte al mese.
Oggi, contemporaneamente allo sciopero generale palestinese, si stanno svolgendo una serie di scioperi della fame in solidarietà. Nella municipalità di Beita il comune sta organizzando uno sciopero di una giornata; a Gaza 400 rappresentanti della Jihad islamica hanno annunciato di impegnarsi in uno sciopero della fame previsto per giovedì 27 aprile.
A al-Khalil, uno sciopero di solidarietà è stato annunciato da numerosi attivisti coinvolti nella campagna #DismantleTheGhetto tra i quali, recentemente rilasciati, Badee Dwaik, Anan Dana, Ishaq al-Khateeb e Younes Arar insieme a Hisham Sharabati e Bassam Shwaiki.
A livello internazionale la National Lawyers Guild sta organizzando, a sostegno dei prigionieri palestinesi, uno sciopero della fame di un giorno di avvocati, lavoratori legali e studenti di diritto in città negli Stati Uniti. Nella città di Tampa, Florida, gli attivisti stanno organizzando uno sciopero di un giorno, mentre le organizzazioni degli studenti dell’Università di Manchester nel Regno Unito stanno attualmente lanciando uno sciopero della fame in solidarietà con i detenuti e per una serie di richieste alla propria università.
A sostegno delle azioni in Palestina e della lotta in corso con gli scioperi della fame, l’organizzazione di solidarietà con i prigionieri palestinesi Samidoun ha lanciato un appello alla mobilitazione dal 27 al 30 aprile 2017 a livello internazionale. Eventi e azioni sono previste a Vancouver, New York, Göteborg, Londra, Berlino, Tampa, Donegal, Armagh, Manchester, Dublino, Belfast, Siena, Bruxelles, Girona, Parma, Parigi, Padova, Atene, Liegi, Torino, Stoccarda e altre città ancora.
Invitiamo tutti i sostenitori della Palestina e gli amici della giustizia a riunirsi e manifestare dal 27 aprile al 30 aprile in solidarietà con i prigionieri palestinesi che scioperano per la libertà e la dignità!
30 aprile 2017, da samidoun.net, in infoaut.org

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Le mamme si uniscono allo sciopero dei loro figli
in solidarietà a tutti i prigionieri
1.500 prigionieri politici palestinesi entrano nel loro quarto giorno di sciopero della fame per ottenere una serie di richieste con lo sciopero della dignità e della libertà, tra cui la fine della negazione delle visite familiari, il trattamento medico adeguato, la fine dell’isolamento e la detenzione amministrativa, la detenzione senza capi di accusa o prova.
All’interno delle prigioni, gli scioperanti continuano ad essere sottoposti a una serie di misure repressive e punitive da parte dell’amministrazione, tra le quali la negazione delle visite legali e familiari, la confisca di abbigliamento, coperte e articoli personali e la rimozione dell’accesso ai mezzi di comunicazione oltre a trasferimenti frequenti e punitivi e isolamento dei i principali leader dello sciopero.
Marwan Barghouthi, portavoce dei prigionieri di Fateh sullo sciopero e importante leader politico palestinese imprigionato, come riferito è stato nuovamente trasferito, questa volta in isolamento nella prigione di Kishon vicino a Haifa. La repressione è proseguita in tutte le prigioni come nella sezione 14 nella prigione di Ofer dove con il pretesto di una “ispezione” ha fatto irruzione saccheggiando le sezioni dei prigionieri .
Circa 70 prigionieri in sciopero sono stati trasferiti alla prigione di Ramle, di cui 40 da Hadarim e 30 da Nafha, Ramon e Ashkelon.
Gli avvocati palestinesi hanno continuato a boicottare i tribunali militari dell’occupazione israeliana in risposta al divieto delle visite legali per i prigionieri in sciopero. Le organizzazioni “Palestinian Prisoners’ Society” e “Prisoners’ Affairs Commission” hanno annunciato il boicottaggio come parte di una serie di misure perseguite dagli avvocati palestinesi per affrontare la negazione dei diritti dei palestinesi imprigionati.
Mercoledì a Tamim Younis, avvocato della “Prisoners’ Affairs Commission” e fratello di Karim Younis leader dello sciopero della fame e il prigioniero palestinese con più anni di detenzione, è stata negata la visita al fratello nella prigione di Jalameh, mentre all’avvocato Shirin Iraqi è stato negato l’accesso ai prigionieri di Gilboa, confermando la continua negazione delle visite legali ai prigionieri.
Altri prigionieri continuano ad aderire allo sciopero. Sidqi al-Maqt, il prigioniero siriano che ha passato più tempo in carcere e proveniente dalle alture occupate del Golan, ha annunciato di essere entrato nello sciopero della fame con una lettera alla rete televisiva al-Mayadeen. Liberato nel 2012 dopo 27 anni di carcere, è stato arrestato nuovamente dal 25 febbraio 2015.
Anche le donne detenute palestinesi nelle carceri di HaSharon e Damon hanno annunciato mercoledì l’inizio di atti di protesta a sostegno dello sciopero collettivo della fame. Le 53 donne prigioniere hanno detto che inizieranno la protesta tornando ai pasti ogni 10 giorni ed intensificheranno la loro partecipazione se non saranno soddisfatte le richieste degli scioperanti. Khalida Jarrar, ex prigioniera e leader del fronte popolare per la liberazione della Palestina, ha sottolineato che “le donne detenute non possono essere separate dai detenuti in generale, soprattutto perché vivono difficili condizioni di vita e molte sono “fiori” (ragazze minori) .” Ha sottolineato che lo sciopero ha incluso diverse richieste di particolare importanza per le detenute, compreso il trasporto privato sul” Bosta “e la fine del rifiuto delle visite familiari.
Jarrar ha osservato che sono state imprigionate diverse donne palestinesi gravemente ferite e disabili, tra cui Israa Jaabis, che ha perso la maggior parte delle sue dita, e Abla al-Aedam che continua a soffrire di una grave lesioni traumatica alla testa. Jarrar ha evidenziato che “i detenuti traggono la loro fermezza e risoluzione dall’ampiezza della solidarietà che ricevono”, esortando un’ampia azione e un lavoro politico e popolare internazionale a sostegno dei prigionieri.
La forte solidarietà popolare con i prigionieri continua ad essere sentita in tutta la Palestina e in tutto il mondo, mentre marce e tende di solidarietà per i detenuti continuavano ad organizzarsi a Arraba, Nablus, Ramallah, Betlemme, Haifa, Gaza, Jenin, Salfit, Arroub camp, Campo di Dheisheh, Bruxelles, Londra, Roma e numerose località palestinesi, arabe e internazionali.
Iman Nafie, ex prigioniera e moglie di Nael Barghouthi, il prigioniero palestinese con la più lunga permanenza nelle carceri israeliane (36 anni già scontati) la cui sentenza è stata recentemente rivista da un tribunale militare di occupazione israeliana e aumentata di 18 anni, ha sottolineato l’importanza del sostegno popolare, ufficiale e politico dei prigionieri. “Questo momento di lotta ha bisogno di sostegno dall’esterno a livello locale, regionale e internazionale. Lo sciopero della fame dei prigionieri è un evento importante con ripercussioni globali “, ha dichiarato Nafie a Asra Media.
Latifa Mohammed Naji Abu Humeid, madre di quattro prigionieri, i fratelli Nasr, Nasser, Mahmoud e Sharif, tutti provenienti dal campo profughi di al-Amari, ha iniziato un sciopero della fame mercoledì a sostegno dei figli e di tutti gli scioperanti nelle prigioni israeliane.
Na’ama Abu Khader, la madre del prigioniero Ahmad Abu Khader del villaggio di Silat al-Zuhr a sud di Jenin, è anche lei in sciopero di solidarietà a sostegno del figlio e dei prigionieri palestinesi. “Ho deciso di aderire allo sciopero a sostegno dei prigionieri e delle loro giuste richieste. Sono detenuti nel cimitero del vivente – Ogni giorno l’occupazione li uccide in quelle prigioni “, ha detto.
Scioperi di solidarietà sono stati anche annunciati da sostenitori internazionali, tra cui un attivista Black 4 Palestina a New York, che ha dichiarato: “Anch’io sono da oggi in sciopero a sostegno della liberazione e dell’autodeterminazione palestinese, in solidarietà con i prigionieri politici palestinesi e quelli sotto occupazione. Resisto e lotto contro le azioni dello Stato e della polizia di Israele e contro il sionismo e l’imperialismo “.
In Algeria, numerosi attivisti civili hanno annunciato il proprio sciopero della fame il 18 aprile a sostegno degli scioperanti per esprimere il loro “sostegno incondizionato alla lotta del popolo palestinese e alla fermezza dei prigionieri palestinesi e per dimostrare che non sono soli . “27 attivisti algerini hanno aderito all’azione a sostegno dei prigionieri.

22 aprile 2017, Trad. Invictapalestina.org, in infoaut.org


Sabato 20 maggio: Presidio al carcere di Livorno
In solidarietà con le persone detenute. Perché quello che è successo a Stefano non accada mai più.
Il 22 gennaio 2017 muore a Napoli, nell’ospedale San Giovanni Bosco, Stefano Crescenzi di anni 38.
Stefano era entrato in carcere il 19 marzo 2013 e sin dall’inizio della sua carcerazione il suo stato psico-fisico si era rivelato del tutto inadeguato a sostenere il regime detentivo. Di lui, infatti, si sapeva che era sottoposto da anni ad una specifica terapia farmacologica poiché, a causa di un grave incidente stradale, soffriva di crisi epilettiche oltre ad essergli stata diagnosticata una sindrome bipolare. Sua madre si era immediatamente recata al commissariato per consegnare a coloro che avevano eseguito l’arresto i farmaci necessari alla salute di Stefano. Nonostante le rassicurazioni lo sforzo della madre risultò vano: i farmaci e la prescrizione medica non furono mai dati a suo figlio…
Durante il suo primissimo periodo di detenzione, passato nel carcere romano di Regina Coeli, Stefano provò a togliersi la vita ma un suo compagno di sezione riuscì a salvarlo. I segnali premonitori di quanto sarebbe accaduto c’erano già tutti ma chi gestisce le vite altrui, i carcerieri nei loro molteplici peculiari ruoli (giudici, secondini, personale medico detentivo, periti di tribunali, colletti bianchi del DAP etc. etc…) non hanno occhi per vedere, accecati come sono dal loro ruolo di potere e di giustizieri. Stefano viene ritenuto uno che finge di stare male, perché in realtà ciò che vuole è uscire dal carcere… Porsi la banale domanda sul “chi non lo vorrebbe?” è legittimo ma ci porterebbe da un’altra parte.
Il Dap (come spesso accade) inizia a fare di Stefano uno dei tanti “pacchetti postali” che di punto in bianco si trovano ad essere trasferiti da un carcere ad un altro. Regina Coeli, Torino e Terni, dove sembra alla fine essere assegnato. In quest’ultimo carcere le condizioni di salute di Stefano precipitano ed i familiari, che vanno regolarmente a trovarlo a colloquio, in pochi mesi si trovano di fronte un ragazzo dimagrito di oltre 50 kg, che si muove su una sedia a rotelle quasi sempre accompagnato da un altro detenuto, che persevera in atti autolesionisti, che non riesce a mangiare ma continua ad essere imbottito di psicofarmaci diversi da quelli che assumeva quando era libero, avendo il personale medico deciso di cambiargli la cura.
Da Terni, Stefano, viene mandato a più riprese ma sempre per brevi periodi nel carcere di Livorno e lì detenuto nel reparto di osservazione. Nel frattempo i suoi familiari presentano varie istanze al giudice competente chiedendo che il proprio caro venga ricoverato in arresto domiciliare presso un ospedale al fine di ricevere le cure adeguate. Il giudice, alla loro terza istanza, decide per una consulenza nominando un medico legale al fine di eseguire una perizia medica. La sera dello stesso giorno in cui il perito redige la relazione medica per la quale, a suo avviso, Stefano non solo è compatibile con la detenzione ma anche le cure ricevute all’interno del carcere sono adeguate, la direzione di Livorno decide di non voler più correre rischi assumendosi la responsabilità della vita di Stefano e, da buon Pilato, se ne lava le mani: lo trasferisce nel carcere di Secondigliano, dove c’è un reparto clinico. Ma ormai è troppo tardi. Da Secondigliano, dopo una settimana, viene mandato urgentemente all’ospedale Cardarelli e da lì al San Giovanni Bosco in reparto rianimazione. Ed è lì che Stefano morirà il 22 gennaio.
Una storia, una storia come tante come troppe. Dall’inizio di quest’anno già 35 detenuti sono morti all’interno delle galere. Una storia alla quale non è possibile rassegnarsi. Non certo i familiari di Stefano i quali con coraggio e determinazione portano avanti la loro personale battaglia affinché quanto accaduto al loro caro non accada più. Queste le parole di Tamara, mamma di Stefano: “Non c’è solo mio figlio. E’ successo a mio figlio? Può essere che se noi denunciamo quanto accaduto la prossima volta questi giudici ci pensano due volte prima di rifare la stessa cosa con un’altra persona! C’è tanta gente che purtroppo finisce in galera! E allora, io lo faccio pure per gli altri! Per mio figlio e pure per gli altri!”.
Ancora una volta l’arroganza degli esecutori della legge, il loro pregiudizio, ha avuto ragione sulla vita di qualcuno decretandone la morte. Ancora una volta il carcere si dimostra uno strumento esiziale. Scopo del carcere è distruggere: l’identità, il pensiero, la dignità, l’agire e persino i corpi di chi lì viene sequestrato. Parlano di “custodia cautelare” ma si trasformano in carnefici!
Sabato 20 maggio ore 15, davanti il carcere di Livorno – via delle Macchie.
Odiando il carcere giorno dopo giorno.
Presidio in solidarietà con le persone detenute e i loro famigliari.
Perché quello che è successo a stefano crescenzi non succeda mai più.

22 aprile 2017, da inventati.org/rete_evasioni


lettere dal carcere di roma-rebibbia
Ciao compagni, sono arrabbiatissimo e volevo denunciare il calpestamento dei diritti fondamentali e delle “sempre più morti senza grida, nel silenzio e nell'ipocrisia del sistema di questo carcere che abbiamo contribuito a creare, per Punire e non per Rieducare o tanto meno Riabilitare, l'indifferenza che noi tutti abbiamo nei confronti dell'altro, c'è, abbiamo sempre una scusa per tirarci indietro, qui c'è il disprezzo alla vita di chi deve dare l'esempio o, anzi, chi lo deve fare per dovere è proprio quello che insegna in modo e maniera che noi tutti viviamo nell'ipocrisia e indifferenza.
Il primo diritto calpestato è quello sancito per la salute e se per il dolore ci si lamenta il risultato è una sanzione disciplinare per aver attirato l'attenzione e poi si è presi per matti e per diversi perché si è innescato un meccanismo di non ribellione anche se i principi fondamentali della Costituzione vengono palesemente calpestati dalle “brave persone”, che poi del fatto che non ti portano in ospedale né per le visite né tantomeno per le operazioni chirugiche già prenotate?
Io dovevo andare il passato 28 di Marzo, ma come scusante per non portarmi mi hanno detto che non c'erano scorte! Se era una causa, di sicuro mi ci avrebbero portato.
Qui si muore senza tante spiegazioni.

1° aprile 2017
Maurizio Bianchi, via R. Majetti, 70 - 00156 Roma


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Morire nell'indifferenza
Cari compagni, scrivo per raccontare un fatto che mi ha turbato molto, mi riferisco al suicidio del nostro amico Carmelo Mortari, che ha preferito farla finita tagliandosi la gola, un gesto estremo, ponderato nei minimi dettagli, perché dopo essersi tagliato la gola si è messo a letto sotto le coperte, perché nessuno poteva accorgersi di niente, sia perché era ubicato in cella singola, sia perché avrà commesso l'insano gesto di notte, infatti il mattino successivo chi se n'è accorto è stato il lavorante addetto alla distribuzione della colazione.
Ma a parte il modo in cui si è tolto la vita, quello che mi ha sconcertato di più è come mai nessuno non si sia accorto del suo profondo malessere. Mi riferisco non solo alla custodia che ha il dovere di riconoscere certi “campanelli d'allarme”, ma anche ai compagni di sezione che, anche se lo vedevano tutti i giorni, non sono riusciti a capire cosa stesse succedendo nella testa di Carmelo. Una parte di me però pensa che nessuno l'abbia voluto aiutare realmente. La depressione ci isola, perché vista come una malattia contagiosa, tutti in questo contesto evitano di parlare con chi “se la soffre” o meglio con chi si piange addosso in ogni momento della giornata.
E' vero che non è bello ascoltare i problemi degli altri quando se ne ha di propri e magari anche peggiori, ma questo meccanismo dove ci porta però?!? A far sì che pian piano risolveremo da soli i problemi del sovraffollamento con i suicidi? I numeri parlano chiaro: sono almeno quaranta ogni anno i morti in carcere! Perché???? Quanti di questi si potevano e si possono evitare?
Basterebbe un po' più di solidarietà, di empatia e magari un po' più di fiducia da parte delle istituzioni, far si che la condanna da espiare venga fatta in modo dignitoso, tutti possiamo sbagliare, ma questo non deve precludere i nostri diritti, una seconda possibilità va data comunque a tutti. Roberto.

fine marzo 2017
Roberto Calia via R. Majetti, 70 - 00156 Roma


Lettera dal carcere di Caltanissetta
[...] Qui la situazione è sempre la stessa, anzi c'è stato qualche piccolo cambiamento in meglio, in quanto hanno aperto una sezione alle “8 ore” previste dal nuovo regolamento, diciamo che è ancora in fase di sperimentazione, nell'attesa che ne aprano un'altra.
Immagino, avrete saputo dell'ultimo suicidio di un detenuto egiziano che sarebbe dovuto uscire dopo una settimana, e sinceramente ancora oggi non si è riusciti a capire come sia potuto accadere un fatto del genere, e nel frattempo. A distanza di qualche settimana un altro suo paesano ha tentato di suicidarsi, ma è stato scoperto in tempo ed è stato salvato.
A dire il vero, ad oggi, non si è capito le ragioni di entrambe le azioni, considerato che non c'erano alcun movimento o provvedimenti provocatori. Perciò si potrebbe dedurre ad una mancanza di supporto psicologico [...]
Nell'attesa continuo a leggere e scrivere, perciò vi pregherei di volermi i testi …
Un forte saluto “Ribelle” a tutti/e voi. Appassionatamente Calogero

29 marzo 2017
Calogero Lo Monaco, via Messina, 94 - 93100 Caltanissetta

Lettera dal carcere di Trieste
Carissim* compagn* di OLGa, sono Eddi Karim. Ho ricevuto l'ultimo vostro opuscolo e anche la lettera precedente… avevo le dita della mano destra ch'erano quasi rotti dal colpo del blindo. Ora mi sento un po' meglio ed eccomi che ho ricominciato a corrispondere e scrivere dal lager di Trieste dove si vedono abusi ogni giorno sia fisici che psichici. Come è successo quasi due mesi fa ad un compagno anarchico che è stato picchiato da un parassita mascherato con una divisa statale solo perchè ha baciato la sua ragazza: questo parassita se le presa con lui picchiandolo nello stanzino dicendogli “vuoi fare il porco” ecc...
Ho querelato la dottoressa, sostituta del dirigente sanitario, perché veniva solo a rompere i coglioni ai detenuti, non si interessava della loro salute e la sua medicina si chiamava “resisti, vedrai che passerà”. Il giorno dopo che ho inviato la denuncia alla procura di Trieste è stata sospesa.
Qui lavorano solo 58ter (che è un art. del regolamento carcerario che dispone la premialità verso i prigionieri che collaborano) anche cinque mesi all'anno, mentre gli altri aspettano più di 10 mesi per lavorare 1 mese all'anno.
Il mangiare è schifo, se lo dai a un cane ti denuncia. Ogni pomeriggio la cena è acqua con qualche pastina in mezzo; cibo che offende anche un coccodrillo. Qua a Trieste non si sentono italiani ma superiori a tutti.
Io sto sempre lottando con la penna e il cervello e con il vostro aiuto, quello dei compagni di Venezia.
Un saluto a Maurizio Alfieri (ora trasferito a Napoli Poggioreale), a Davide e a tutti i detenuti in lotta. Eddi

7 marzo 2017
Eddi Karim, via del Coroneo, 26 - 34133 Trieste


lettere dal carcere di milano-opera
Ciao, ho ricevuto il tuo scritto pochi giorni fa [20 giorni dopo la data della spedizione, ndr]. Oltretutto si vedeva che era stata aperta e richiusa, ho chiesto spiegazioni ma non ne ho avute, non mi sono messo a litigare per non abbassarmi ai loro livelli di indegnitudine, vogliono occultare tutti gli abusi e le torture che ci fanno qui alla Cayenna. Di Maurizio sapevo tutto, forse già sai che ora si trova al Centro Clinico, però non so dirti il perché.
Ora ti racconto l'ultimo gesto indegno compiuto dalle guardie che perquisiscono i famigliari. La settimana scorsa un mio amico ha fatto il colloquio. Sua moglie all'ingresso è stata puntata dai cani, gli sbirri non si sono degnati di farla ripassare tra i cani per essere sicuri che il cane avesse puntato proprio lei tra tutti i famigliari, ma l'hanno portata in una stanza e l'hanno spogliata fino all'intimo.
Ora, togliamo il fatto che questo amico non ha “MAI” fatto uso di droghe, come lui, pure sua moglie è pulita, tolto questo, ma come cazzo puoi spogliare una donna senza la certezza che avesse qualcosa di illecito. Questo amico mi ha detto che ha fatto un'ora di colloquio con sua moglie che piangeva per l'umiliazione subita. Ti rendi conto dove arrivano 'sti indegni. Queste sono tutte torture psicologiche che subiscono i famigliari al colloquio.
Altra cosa, accaduta parecchi giorni fa, un mio carissimo amico, quasi un fratello, sempre ai colloqui, quando ha finito il colloquio fuori dalla porta l'aspettano un ispettore, un agente graduato e un agente semplice. L'ispettore gli diceva che l'avevano beccato, lui non capiva, poi l'hanno portato in uno stanzino e l'hanno spogliato nudo, gli hanno pure controllato l'ano. Questo mio amico è rimasto male per tutto questo, non capisce il perché di quel gesto; erano sicuri che aveva del fumo imboscato...
Però qui non do' tanto la colpa agli sbirri che fanno (esageratamente) il loro lavoro, ma a quei detenuti indegni e infami che sputtanano e vendono detenuti come loro per qualche lavoro fisso, qualche relazione e qualche comodità. La Cayenna è dura fare e non tutti hanno la forza mia, di Maurizio e di molti (fortunatamente), altri, che non chiniamo la testa per poi prenderlo nel culo, al massimo glielo buttiamo noi in culo a loro.
Ultimamente ci stanno togliendo qualche agevolazione. Cose piccole e banali, nulla di che, cose fastidiose come le zanzare, ed è con il fastidio che ci vogliono far scoppiare.
Per farti un esempio: avevamo il congelatore (dove mettiamo la carne, i gelati, i surgelati, i ghiacci per la borsa frigo l'acqua o bibite), comunque, questo congelatore stava in corridoio dove a tutte le ore avevamo libero accesso, ora l'hanno chiuso in uno stanzino e ci sono solo due orari per prendere ciò che ci serve. Per più di un anno è stato nel corridoio e non ci sono stati problemi, ora, che inizia il caldo, hanno ben pensato di chiudere il congelatore in questa stanza, col divieto di metterci dentro le bottiglie d'acqua, così ci fanno fare l'estate a bere piscia calda.
Ma tutto questo è colpa nostra, più che altro di un detenuto stupido che si è ubriacato e poi ha fatto un bel casino; a causa sua pasghiamo noi. Ci dà molto fastidio che ad oggi usano ancora il metodo: “per uno pagano tutti”, sperando che la gente si pieghi, ma non hanno capito un cazzo.
Caro amico mio sono giunto ai saluti, ti invio il mio più caloroso abbraccio con affetto e stima... un grosso saluto a tutti/e compagni/e a pugno chiuso e sempre a testa alta.

fine marzo 2017

***
Seguono due lettere di Maurizio, la prima da Milano-Opera e la seconda da Napoli-Poggioreale, dove è stato recentemente trasferito.

Carissimi/e compagni/e, eccomi ancora una volta a raccontarvi le infamie di questi vermi vestiti di autorità che insieme al magistrato di sorv. Maria Grazia Moi sono convinti che tutto è concesso… ma dovranno ricredersi perché non gli basterà isolarmi, come hanno fatto, in una sezione di 41bis che è stata chiusa ed ora hanno messo solo me.
Quando esco da lì mi dovrei spogliare, fare le flessioni e alzare i testicoli… ma mi rifiuto di farlo; solo il 17 marzo 2017 ho fatto le flessioni e mi sono spogliato perché sennò non mi facevano fare il colloquio. Ma quel giorno avevo preso il brigadiere per il petto e stavo per pestarlo, così prima del colloquio mi avevano trovato un biglietto da postare sul Web e i bastardi mi avevano tolto tutto dalla cella: spazzolino, dentifricio, acqua, sigarette, vestiario, mangiare ed ogni cosa.
Così non ci ho visto più e mi sono messo a spaccare tutto, prima un mobiletto di ferro e con quello ho fatto a pezzi tutte le finestre e soprattutto il plexiglass [materia plastica usata usato nella fabbricazione di vetri di sicurezza, in questo caso, le “bocche di lupo” come nel carcere di Alessandria, ndr] che copriva le finestre e mi dava claustrofobia. Erano 3 giorni che chiedevo di toglierle e mi prendevano per il culo; e il giorno che mi hanno portato qua, appoggiandomi in una cella ho rotto una televisione e gli ho detto “qui non ci posso stare”, perché non ho reati di 41 o 416bis (associazione di stampo mafioso). Alla fine mi hanno messo in una cella piccola per cui dopo una notte di casini, perché sbattevo porta e finestre e yogurt contro le telecamere, le finestre mi creavano ansia, al mattino mi hanno spostato in un camerone. Ma c'era lo stesso problema di ansia. Così dopo 3 giorni e la cella liscia, dopo il ritrovamento della lettera è esplosa la mia rabbia.
Sono venuti i garanti dei detenuti e mi hanno detto che lì non potevano tenermi; ho loro raccontato che ero salito sul muro del passeggio, che sono sceso dopo le promesse di merda che mi avevano fatto: di togliere il plexiglass… alla fine ci ho pensato io… carogne, e mi hanno lasciato 10 giorni senza niente; mi hanno tolto l'accendino, loro mi accendevano le sigarette. Ma possono stare sicuri che ogni giorno li farò impazzire se non mi trasferiscono o mi portano in isolamento a scontare il loro infame 14bis.
Avrete saputo che il 1° marzo quella “criminale” mag. Di sorv. (Maria Grazia Moi) mi ha vietato di presenziare al 14bis. Lei è peggio dei carnefici, è una frustrata, infelice, una che non conosce le leggi, le usa per farsi onore, merita solo disprezzo. Non ho mai parlato male di una donna, ma adesso capisco perché qui a Opera tutti i detenuti erano felici quando dicevano che aveva un “cancro” e tutti esultavano. Io le auguro di guarire, perché sarà più dura per lei vivere con il rimorso di avere una coscienza sporca, pensando a tutto il male che ha fatto nella sua vita. Al mio avvocato ha detto che sono un criminale, un delinquente e molto altro. Come si permette a sputare e vomitare sentenze, se non mi conosce? Che vada affanculo sta fascista torturatrice.
Mi hanno detto che devo pagarla per Terni ed io ho detto che rifarei quello che ho fatto e sono felice di quello che fate, perché le vostre voci saranno la mia voce.
Noi passiamo per dei terroristi, loro pestano, massacrano, uccidono, seviziano, torturano, applicano il 14bis con la complicità di giudici collusi, poi scrivono “la legge è uguale per tutti”, che schifo. Se volevano a me toglievano il 14bis. Ci sono le telecamere che dimostrano la mia innocenza, le testimonianze ecc. Sono solo dei luridi-schifosi-peggio delle feci che si trovano per strada… scusate i termini ma sono proprio incazzato.
Mi hanno fatto buttare il mangiare di casa. Ho fatto 5 giorni di sciopero della fame e ho perso 5 kili. Adesso aspetto i garanti che mi hanno detto di stare calmo, che ci pensano loro. Renderò loro la vita impossibile se non mi tolgono di qua. Di sicuro non mi ammalerò e non accetto farmaci, perché questo è quello che vorrebbero. Li farò prendere a loro gli psicofarmaci.
Con me vogliono piegare tutte le nostre lotte. Io non cederò, piuttosto muoio, però è dura e solo voi potete dare battaglia per tutto.
Compagni/e, la posta non la ricevo più… un abbraccio fraterno a tutte/i voi con ogni bene. Baci anarchici, Maurizio sempre No Tav.

***
Ciao, spero che stiate tutte/i bene, non posso dirti lo stesso di me, perché da come vedi mi hanno trasferito "nell'inferno di Poggioreale" e qui gli abusi sono prassi consolidata.
Tutto questo dopo il secondo 14 bis "innocente", grazie a quei signori di Opera e al tribunale di sorveglianza [di Milano, ndr]. Avrai saputo che mi hanno respinto il reclamo del 14 bis; ho intenzione di impugnarlo e andare alla corte europea dei diritti dell'uomo.
Mi hanno messo in una sezione isolato da tutti, in una cella dove all'esterno c'è un cancello chiuso a chiave e ci sono altre celle con gente malata psichica.
Da me non possono venire neanche i lavoranti, non mi consentono di mandare una sigaretta a nessuno, quando esco chiudono tutte le altre celle, a chi parla con me chiudono il blindato e lo spioncino.
Il passeggio è un letamaio, è tutto sporco e i muri cadono a pezzi, in alto c'è una gabbia arrugginita e ogni volta mi cade la ruggine in testa. Anche in cella c'è l'intonaco che cade: ieri ho dovuto buttare il mangiare perché era caduto un pezzo di muro.
Poi, non ti dico il vitto… neanche gli animali lo mangiano; meno male da oggi mi arriva il vitto in bianco, almeno mi posso mangiare la pasta. Pensa che la sera, il mangiare che avanza dal carrello rimane a sette-otto metri dalla mia cella: ti lascio immaginare la puzza, l'altra sera è rimasto il pesce e anche gli agenti si lamentavano.
Non mi fanno portare la radiolina al passeggio e ogni volta mi perquisiscono. Sono stato male tre notti e qui non ci sono gli infermieri, per via che la Asl ha tagliato i fondi, per cui la notte si può morire nel più assoluto silenzio e menefreghismo. […]
Sto aspettando di sapere se sono assegnato qui, di sicuro non ci voglio stare e farò di tutto per partire e in sezione troverò tanti che la pensano come me. […]
P.S.: pensa che nelle altre celle sono tutti in pigiama come i vecchi O.P.G… pazzesco!
Bacioni, TVB, Maurizio.

10 Aprile 2017
Maurizio Alfieri, via Nuova Poggioreale, 177 - 80147 Napoli

***
PROTESTA AL TRIBUNALE, MILANO, 11 APRILE 2017
Alcuni compagni e compagne e alcuni famigliari, solidali con i carcerati in lotta, si sono dati appuntamento l’11 aprile davanti al tribunale di Milano, perché il 1° marzo scorso, il giudice di sorveglianza, esortato dalla direzione del carcere di Opera, dai carabinieri, dalla digos &Co., aveva negato l'ingresso in aula a Maurizio, allora detenuto nel carcere di Opera. L’udienza doveva affrontare un ricorso, presentato da Maurizio, contro il 14 bis, l’ennesimo, che gli avevano comminato ma improbabili motivi di sicurezza e ancora meno probabili disposizioni restrittive del provvedimento di 14 bis, avevano autorizzato le guardie a caricare Maurizio sul furgone e riportarlo in carcere.
L’udienza si era svolta senza di lui e i solidali in corridoio non avevano potuto fare niente per impedirlo. Siamo quindi tornati davanti al Tribunale, dove abbiamo diffuso un volantino che raccontava di quanto successo il 1 marzo; inoltre, abbiamo colto l’occasione per srotolare uno striscione con scritto “BASTA ISOLAMENTO E ABUSI A OPERA” e, infine, ci siamo spostati con un piccolo corteo rumoroso dall'ingresso centrale ad uno laterale, che immette direttamente nel corridoio dove si trova il tribunale di sorveglianza.
Abbiamo già riportato nello scorso opuscolo le parole di Maurizio, ma qui vogliamo ancora sottolineare che “Sono arrivati a questo punto perché i loro crimini vogliono tenerli impuniti ed instaurare un clima di terrore tra i detenuti sottoposti al 14bis, che lottano per i diritti di tutti/e.” Questo è quello che succede nel carcere di Opera a Milano, così come in tutti gli altri istituti di pena (carcerari o di altro tipo di detenzione, come i CPR per migranti o le REMS per i malati psichici): chi non accetta di stare in silenzio di fronte agli abusi e al continuo svilimento della propria dignità umana, viene punito, perseguitato, trasferito lontano da casa e dai propri affetti, oppresso ulteriormente – per quanto possibile – dentro le mura del carcere, attraverso l’uso di strumenti afflittivi come il 14 bis, l’isolamento punitivo, la censura della posta…
La protesta dello scorso anno a Opera ha comportato diverse punizioni per chi ha scelto di lottare: chi è stato messo in isolamento, chi ha subito provocazioni, a volte estese anche alle famiglie che andavano al colloquio, chi è stato spostato di cella, fino a Maurizio, trasferito a Poggioreale. SOLIDARIETA’ AI CARCERATI IN LOTTA!

Aprile 2017, Milano - OLGa
scritto dal carcere di Napoli-Secondigliano
Lo scritto, precisa Pierdonato, è destinato alla stesura di un libro sull'ergastolo ostativo il cui scopo è di riportare a galla quei resti di umanità lasciati spesso sotto una crosta di rabbia, sofferenza, dolore. Tematica libera, varia, dove emerge la forza della parola, attraverso racconti differenti, eterogenei, disparati: dai giornali, a quelli evocativi, di fantasia ecc. “Io ho scritto un soliloquio, monologo, una sorta di lettera autobiografica, dove è confluita la mia esperienza detentiva. Un abbraccio, Pierdonato.”

LA TERRA DESOLATA
C'è un'esigenza in ogni essere umano, della quale non si può fare a meno, ed è quella di apprendere per tutta la vita. Gli esperti la chiamano “educazione permanente”.
Anche per chi vive in carcere, vale lo stesso discorso. Il carcere è un “deserto”. Metafora di ciò che manca, come privazione, come assenza.
Il deserto, luogo dove la vita è appesa ad un filo. Dove sopravvivere diventa molto difficile, per mancanza di quelle condizioni essenziali all'esistenza. Luogo dove poche creature riescono a resistere e a non “morire”. Luogo arido per eccellenza. Luogo dove affrontare l'ignoto.
“E quando il deserto avanza, guai a coltivare deserti, dovremmo coltivare… Oasi”
L'oasi invece, inteso come piccolo territorio riposante, distensivo. L'oasi come luogo ricco di frescura, di sorgenti, di pozzi. L'oasi come luogo fertile, come luogo per metabolizzare le proprie privazioni e il proprio dolore.
L'oasi come coltivazioni di interessi (che pur se fortemente limitati esistono) come desiderio di imparare nuove cose, desiderio di spaziare in altri orizzonti, desiderio di “conquistare” nuovi territori di conoscenza e scongiurare il rischio di diventare esso stesso un deserto.
Chi vive nel buio del carcere per troppo tempo, come me da 22 anni, rischia se stesso di diventare buio. Vivere nell' “abisso” per un lasso di tempo enorme, rapportato alle speranze di vita umana, rischia di diventare... carcere. Può accadere così di non riuscire a vedere più il deserto, di non sapere più distinguere ciò che è, da ciò che non è deserto, perché esso stesso è diventato deserto. Di mutare senza accorgersene. La prigione è una creatura orrenda, metà uomo e metà edificio.
Lo studio, l'arte, la cultura, diventano “medicina doloris” forniscono le chiavi interpretative per comprendere la realtà, a cominciare da sé stessi. Lo studio ti permette di individuare collegamenti e relazioni tra le teorie studiate e la vita quotidiana.
E quindi non uomini del deserto: “soli, stanchi, in crisi, stufi, annoiati, disillusi, senza entusiasmo, demotivati, appiattiti. Chiusi nel proprio guscio di rabbia, rancore e dolore”. Ma lo studio, come un come un continuo miglioramento ed educazione. Abbandonando la strada dell'autocommiserazione, del piagnisteo, della lagna. E poiché… la vita non è altro che una sfida è meglio allenarsi.
Può accadere che proprio lì nel deserto (se si è forti e virili) capiti di riprendersi la vita in mano, senza buttare così via il tempo, ma usarlo per crescere continuamente. Giacché non è il tempo di per sé a farci crescere, ma come noi lo usiamo. Tirare fuori da una condizione negativa, condizioni positive; trasformando le difficoltà in opportunità.
Così paradossalmente proprio nel deserto, in un luogo così ostile, può avvenire che si possa incontrare sé stessi. Qui ho incontrato Pierdonato il tutto il suo essere. Ho dialogato con lui senza maschere. Qui l'ho analizzato. Qui in questa terra desolata, ho rovistato in ogni angolo e spazio del suo cuore e della sua anima. Un viaggio in lungo e in largo, guardando le luci e le ombre con il coraggio dovuto.
Qui nei cunicoli bui della mia esistenza, in una cella del carcere, con vista… sull'anima, ho effettuato un profondo scavo autobiografico. Qui mi sono autodisciplinato.
Qui ho dovuto affrontare e risolvere i molti problemi legati alla sopravvivenza. Ogni giorno il deserto mi ha messo alla prova. Nel deserto ho incontrato il vuoto e il nulla. Ho imparato a gestire le ansie, le vessazioni, le provocazioni, i disagi. E così tutte tutte queste parti sparse di me le ho messe insieme traendone energia.
Lo studio (iscrivendomi da privatista al liceo delle scienze umane) è diventato così un elemento anche della vita interiore. Quelle conoscenze che acquisivo, sono riuscito poi a saldarle alle inquietudini e ai dubbi che quotidianamente mi assillano, al bisogno di amore, di felicità, di libertà, che albergavano in me stesso.
Non è facile “vivere” forzatamente in un luogo in cui non vuoi vivere, ma che sei costretto a vivere. Dove ogni cellula del tuo corpo rifiuta questo posto. Ed è stato proprio qui che mi sono chiesto: “Dove potrei… 'incontrare' meglio Pierdonato se non qui nella privazione più assoluta? E così è stato”.
Questo mio essere incatenato ad una pena che non finisce mai. Che si estinguerà con la mia morte, in una condizione del genere può chiaramente configurarsi una condizione psico-fisica di “abisso”. Luogo dove tutto sembra finire, dove tutto sembra dissolversi. Una pena che consiste nel non farci vivere la vita, pur vivendola.
Ma può incredibilmente anche non essere così, se proprio in questo luogo s'impara a scandagliare sé stessi. Quando al saggio arsero la casa, egli cosse uova nella cenere. Posso ritornare… “LIBERO” (naturalmente parlo di una dimensione mentale, interiore). Coloro che non sono sereni nella loro mente, nel loro cuore, non potranno esserlo mai in nessun altro posto.
E poiché le azioni di chi vive in carcere sono destinate a ripetersi “AD INFINITUM” sono fuggito dalle abitudini stereostipate, dagli automatismi, sono fuggito da gesti e azioni superficiali, privi di senso, dalle parole vuote, senza VITA, dove il cuore e lo spirito non riescono a convivere.
Terra desolata, nella quale la solitudine può diventare conoscenza di sé, può diventare occasione, di stare con sé stessi, dove ho ribaltato la mia persona profondamente. Ho trasformato così la dura esperienza del carcere d … improduttiva a esperienza produttiva.

21 marzo 2017
Pierdonato Zito, via Roma Verso Scampia, 350 - 80144 Secondigliano (Napoli)


Lettera dal carcere di S. Michele (al)
Ciao ragazzi, eccomi di nuovo con la penna in mano per esporre il mio disappunto riguardo a quello che succede qui alla Casa di Reclusione di Alessandria S. Michele che, essendo un “penale” dovrebbe fare l'opera di recupero e reinserimento dei detenuti nella società civile. Premetto che da questa società civile italiana abbiamo da prendere ben poche lezioni perché loro insegnano solo come farla franca, mettendo in atto reati come corruzione, concussione, abuso di potere, appropriazione indebita, falso in atti d'ufficio, scarso rendimento sul lavoro e tanto altro che tutti ben sanno.
Abbiamo il 4° governo non eletto da nessuno, un ministro della Giustizia che si è montato la testa e vuole fare il primo ministro. Non è in grado di occuparsi degli istituti penitenziari e vorrebbe amministrare uno Stato? Parlano di questa nuova forza politica (5 Stelle) come dei dilettanti allo sbaraglio, come se loro fossero dei professionisti, ma l'unica cosa di cui sono capaci è essere inconcludenti in ogni cosa che devono risolvere. Ma in una cosa non li batte nessuno e cioè mentire. Lo fanno ormai in modo automatico, senza rendersi conto dell'evidenza che gli sbatte in faccia come un treno in corsa e sì! Siamo proprio invidiosi di questi colletti bianchi che delinquono e non pagano mai.
Poi c'è la questione che in questo Stato di polizia ci sono molti magistrati che vogliono mettersi a fare politica e l'Italia è diventata un tribunale globale, dove noi non siamo più cittadini ma sempre imputati o sospettati di qualcosa perché siamo nell'unico paese dove esiste il libero convincimento e la discrezionalità dei giudici e come nell'antica Roma: pollice verso “su” te la cavi, pollice verso “giù” sei fritto e tanti saluti alla democrazia e al diritto.
Noi qui ad Alessandria nel nostro piccolo, in quanto a quello che ho appena scritto, non siamo secondi a nessuno. Abbiamo un magistrato di Sorveglianza che gli ho chiesto un permesso con la scorta per andare al cimitero a trovare mio fratello mancato recentemente e lui come risposta mi ha scritto che da mia madre al cimitero non mi manda! Ma mia madre è viva e vegeta. Quindi siamo in mano a queste persone e mi astengo da qualsiasi commento.
Qui ad Alessandria nessuno va in permesso: in barba alla rieducazione e al reinserimento. Ho lavorato distribuendo il vitto dell'amministrazione ai detenuti e non ero definitivo, quindi non soggetto a pagare il “mantenimento carcere”, ma l'ufficio dei conti correnti “caso strano”, con la scusa che il sistema si è informatizzato si è trattenuto il mantenimento con risposta scritta del direttore (al reclamo) che “non si può stravolgere quello che è palesemente un abuso in atti d'ufficio”.
Ma qui si fanno la barba con le regole, ma se le infrangiamo noi, ci tolgono subito i benefici o le pene alternative. E nonostante siamo detenuti siamo molto indignati e, rapportandoci con chi ci governa a tutti i livelli, non siamo convinti che è giusto espiare una pena in questo Paese che è da riformare nella sua totalità.
Ma tornando al carcere di S. Michele di Alessandria, chissà se il D.A.P. o il ministero della Giustizia mandano qui un'ispezione seria e competente sull'operato di chi amministra questa realtà completamente fuori da ogni regola giurisdizionale, noi come detenuti siamo pronti ad essere ascoltati per evidenziare le carenze ormai incancrenite da anni di disinteresse totale da parte di chi dovrebbe far sì che tutto si svolga secondo le regole (come succede nel carcere di Bollate).
Non capiamo perché ogni carcere agisce secondo chi lo amministra e nel nostro caso, noi siamo in grado di scrivere che i responsabili sono: l'educatrice signora Romina Rossi, il dirigente Area educativa signor Piero Valentini, il direttore signor Domenico Arena e il magistrato di Sorveglianza signor Giuseppe Vignera. Questi signori prendono uno stipendio (pagato dai cittadini) per non operare al fine della rieducazione e al reinserimento di noi detenuti. Quindi una volta che ritorneremo in libertà l'unica cosa che abbiamo imparato è prendere soldi senza faticare, lavorare e operare nel compito che ci hanno assegnato a svolgere senza sfogare frustrazione personale su quella professionale.
L'unica consolazione è che prima o poi usciremo in libertà e che dio ce la mandi buona.
P.S. Qui tutti i detenuti vogliono il trasferimento.
Saluti da Roberto.

9 aprile 2017
Roberto Porcedda, via Casale 50/A - 15122 S. Michele (Alessandria)


LOTTA CONTRO IL TAP IN PUGLIA
Da più di due mesi si è intensificata la lotta contro il progetto del TAP, che sta per Trans Adriatic Pipeline, gasdotto di oltre 4000 km attraverso il quale giungerà in Italia gas dall’Azerbaigian, passando per Turchia, Grecia, Albania e infine l’Adriatico, il Salento (provincia di Lecce) per collegarsi in Italia alla rete della Snam. Gli abitanti di Melendugno e dei comuni limitrofi, insieme a tanti solidali da tutta la Puglia e non solo, stanno cercando di impedire l’ennesima grande opera, tramite la quale a guadagnarci sono come sempre lo stato e le solite multinazionali, in questo caso la Tap Ag, con sede a Baar in Svizzera, a discapito della terra, del mare e delle persone che abitano quei luoghi. Così come era stato per gli inizi della mobilitazione contro il TAV (il treno ad alta vellocità per realizzare il quale hanno distrutto vallate e montagne della Val di Susa), anche in questa lotta contro il TAP sono diverse le anime che si incrociano: dagli abitanti, ai sindaci e altri rappresentanti delle istituzioni, agli attivisti e i solidali. Nell’ultimo mese si sono viste le immagini della polizia che carica e manganella i rappresentanti stessi dello stato con tanto di fascia tricolore addosso; ogni giorno e ogni notte un presidio nei pressi dell’area del cantiere ha dato un segno visibile e tangibile della ferma volontà di non lasciare quel pezzo di terra nelle mani della multinazionale di turno. Verso metà aprile, si è arrivati ad una sospensione di questa prima fase dei lavori - ovvero l’espianto degli ulivi rimasti, circa una quarantina - rimandata a fine ottobre, anche in vista dell’inizio della stagione turistica. Per alcuni questa notizia ha rappresentato un traguardo positivo, una battaglia vinta; per altri invece uno dei tanti giochetti con cui chi ha il coltello dalla parte del manico cerca di abbindolare gli abitanti e i solidali. Purtroppo, come spesso accade, aveva ragione chi pensava male: nella notte tra il 26 e il 27 aprile, un enorme di spiegamento di polizia ha occupato l'area del cantiere, circondato il presidio No Tap bloccando i manifestanti, per realizzare a tradimento l'espianto degli ultimi 43 ulivi secolari. Nel frattempo le ruspe sono intervenute per distruggere le barricate erette nei giorni scorsi.
aprile 2017, da fonti varie

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La guerra in casa
Segue un volantino diffuso a Lecce durante una manifestazione no Tap del 2 aprile.

“Noi dobbiamo sgomberare l’area in ogni modo”. Queste le parole di un dirigente di polizia soprannominato “sicario”, di fronte a dei manifestanti seduti per terra che tentano di impedire ai camion di una subappaltata di Tap di uscire dal cantiere e portare via degli alberi d’ulivo, preludio di un inizio dei lavori per la realizzazione del gasdotto sulla sponda italiana. In questi giorni il vero volto dello Stato lo stanno conoscendo in tanti: manifestanti, singoli, addirittura sindaci con le fasce tricolori. Lo Stato, il suo Governo e il suo Parlamento passano sopra tutti quanti, non risparmiano proprio nessuno: la terra, gli alberi, le persone, le idee, il cuore, i corpi. Ciò che importa è tutelare la multinazionale Tap, di cui anche lo Stato italiano è parte, tramite Saipem e Snam, e consentirle di eseguire i lavori utili a costruire un’opera che nel Salento nessuno vuole e per le più svariate ragioni. E così lo Stato e l’Economia fanno vedere che cosa vuol dire essere in guerra, agire contro le popolazioni e i territori, ed è ciò che accade in ogni parte del mondo laddove gli interessi economici, il denaro, il profitto, lo sfruttamento delle risorse, della natura e delle persone sono la quotidianità.
In questi giorni ci sentiamo più vicini all’Iraq, all’Afghanistan, all’Azerbaijan, alla Nigeria, al North Dakota dove le risorse vengono depredate e i luoghi colonizzati. Ed è questo che è diventato il Salento ormai da decenni. Le nocività ambientali si aggiungono una a una, dall’affare Xylella che vuole favorire la trasformazione dell’agricoltura tradizionale in industriale, alle cosiddette energie rinnovabili, passando per Ilva e Cerano fino ai rifiuti tossici interrati da decenni nelle campagne salentine. Ora si aggiunge il gasdotto Tap il cui responsabile per la sicurezza, presente nel cantiere, è un contractor, un ex parà al soldo delle multinazionali in giro per il mondo. Un altro pezzo di guerra che ci deve far aprire gli occhi. L’autodeterminazione e la rabbia dimostrata in questi giorni da tanti individui che tentano di bloccare i mezzi di Tap, accerchiati da centinaia di uomini di forze di polizia, per impedire di espiantare gli alberi è una delle risposte che si potevano mettere in campo. Insieme al forte vento di tramontana, anche aneliti di vita e di sogno continuano a soffiare e le scintille attizzano il fuoco.
No Tap, no Stato, no Capitalismo.
Nemici di Tap
Aprile 2017, da informa-azione.info


TORINO, 1 Maggio 2017: la Questura applica il decreto Minniti
In un Primo Maggio che stava passando alle cronache per la pioggia e la stitichezza di presenza delle forze politiche e sindacali – con presenze ai minimi storici – ci pensano le alte dirigenze cittadine delle forze di Polizia a dare significato politico alla presenza delle istituzioni.
Alcuni siti on-line - brilla su tutti la filo-governativa La Repubblica – scandiscono una cronaca già confezionata e di tranquillizzante conferma delle versioni ufficiali. Si blatera di “guerriglia” e provocazioni quando, se provocazione c'è stata, è quella di un cordone di celerini comandato dall'alto, frappostosi improvvisamente tra l'ultimo spezzone “di partito” e l'inizio dello spezzone sociale.
Era, non a caso, l'unica parte viva di una sfilata altrimenti muta e ridotta all'osso, con gli scarni numeri di rappresentanza di una casta politica e sindacale unicamente interessata alla riproduzione del proprio - privilegiato - posto di lavoro (discorso questo, vero tanto per i vari bonzi sindacali quanto per i celerini lautamente stipendiati e difesi da tutti i partiti politici).
La componente più partecipata della giornata racchiudeva i soggetti protagonisti delle lotte che attraversano questa città e i suoi circondari: centri sociali, lotta per la casa, studenti, lavoratori della logistica, sindacati di base, migranti, movimento NoTav.
Numerosi interventi dal furgone hanno attaccato la vuotezza delle celebrazioni istituzionali, denunciando la sostanziale continuità nel governo della città, con una sindaca e un presidente della regione che aprivano, a braccetto, lo striminzito spezzone di testa. Questo è il risultato. Nonostante l'esperienza nel movimento NoTav, appena arrivano nei tavoli imbastiti delle istituzioni, si fanno abbindolare... speriamo in buana fede.. ma iniziamo ad avere dei dubbi... dai meccanismi ben oliati di concertazione da parte della questura tesi ad un'unica cosa.. accontentare partiti (pd) e sindacati. La sindaca Appendino aveva tra l'altro dichiarato ai media, a inizio giornata, che la polizia sarebbe stata invisibile e che la piazza sarebbe stata aperta e agibile a tutti.
Abbiamo visto qualcosa di molto diverso: a metà di via Roma, un folto schieramento di celere ha spezzato il corteo, pretendendo di bloccare l'entrate in piazza San Carlo della componente autorganizzata e conflittuale. È partita, immediata, una carica a freddo contro quella parte di corteo che aveva da dire cose poco concilianti. Evidentemente la striminzite rappresentanze della Cgil, oggi rappresentante unica dell'“unità sindacale”, non gradivano l'irrompere in quella piazza dei soggetti non garantiti e non rappresentabili dai loro organismi.
Questa parte del corteo non ha comunque accettato di essere bloccata e zittita, continuando a più riprese a pretendere l'agibilità della piazza e a portare il proprio dissenso. Le cariche, indiscriminate e ingiustificate (lo riconosce oggi perfino La Stampa) si sono ripetute per ben 4 volte. Nel corso di una di queste, tra numerosi contusi, è stata fermata anche una compagna, catturata durante una carica in cui era caduta a terra, e successivamente condotta in Questura.
Emerge, sempre più chiaramente col passare degli anni, il ruolo sempre più politico e di sostituzione svolta dalla Questura in questa città. Al venir meno della presenza delle componenti politiche e sindacali istituzionali (e del senso di questa presenza), le forze di polizia emergono come soggetto politico. Effetti, tra gli altri, del decreto Minniti recentemente approvato: a sentire certi discorsi, i Prefetti si montano la testa e sentono di poter disporre come vogliono di uomini e gestione delle piazze.
La determinazione con cui il corteo ha sopportato le cariche e guadagnato la piazza, è però il segno chiaro di una indisponibilità sociale ad essere confinati negli spazi perimetrati da chi lavora solo per la pace sociale. Non tutti sono disposti ad accettare un Primo Maggio pacificato, per noi rimane un giorno di lotta!

1 maggio 2017, da infoaut.org


GLI OPERAI DICONO GRAZIE AI LAVORATORI DELL’ALITALIA
Questa lotta è maturata nel corso degli ultimi 15 anni e giunge oggi al respingimento di un “pre-accordo” discusso fra sindacati venduti e Alitalia, cioè il governo.
A notte fonda l’annuncio del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda: “È stato firmato dalle parti un verbale di confronto che riporta la struttura di un possibile accordo… i miglioramenti ci sono stati sia per gli esuberi sia sulle esternalizzazioni che nei tagli al costo del lavoro… I sindacati si sono riservati di tenere un referendum che si terrà già la prossima settimana”. Gentiloni, capo del governo: “Mi auguro che il punto di incontro sia confermato dai lavoratori”. Luigi Gubitosi, presidente esecutivo designato di Alitalia, si è detto soddisfatto del verbale di confronto tra azienda e sindacati, che verrà ora sottoposto a referendum, “anche perché è stata rispettata la linea di demarcazione fra costi e guadagni fissata dagli azionisti. Per rispondere alla richiesta delle banche azioniste Intesa e UniCredit di avere una garanzia pubblica, il governo punta al coinvolgimento di Invitalia (1), con una norma ad hoc” cioè ricapitalizzazione alimentata dallo Stato con le tasse perché “gli azionisti hanno infatti subordinato la partecipazione alla ricapitalizzazione della compagnia all’intesa con il sindacato. E il governo aveva posto la data di ieri come scadenza per l’accordo, con l’obiettivo di far decollare oggi l’operazione finanziaria da poco meno di 2 miliardi di euro”. Alitalia è un’azienda privatizzata con soldi pubblici fin dal 2008. (Citazioni da 'Il Sole 24 Ore', del 14 aprile 2017)
Il verbale di confronto Il preaccordo raggiunto tra Alitalia e i sindacati, sintetizzato in un verbale di confronto, fissa una serie di misure tra cui la riduzione degli esuberi tra il personale di terra a tempo indeterminato da 1.338 a 980 e la riduzione del taglio degli stipendi all’8%. “Il verbale sarà firmato dopo il referendum tra i lavoratori chiamati a esprimersi sui termini dell’intesa”. I padroni, il loro giornale per definizione, sanno che, per quanto domata, la classe operaia è capace di risposte di rottura, libere da ogni vincolo. Così è andata. Mentre i sindacati apertamente oggi venduti, CGIL, CISL, UIL e UGL se pure con parole diverse in sostanza si sono trovati a dire che “abbiamo fatto il massimo possibile”...
Lavoratrici e lavoratori Alitalia, “non hanno messo la firma” sui loro licenziamenti, sul taglio della loro busta-paga. Il NO dei lavoratori Alitalia alla pre-intesa firmata da azienda, governo e Cgil, Cisl, Uil e Ugl ha ricevuto quasi il 70% dei voti, in un referendum che ha visto la partecipazione della quasi totalità dei dipendenti.
Era la terza volta in dieci anni che i lavoratori Alitalia venivano messi davanti all’alternativa o accetti tagli occupazionali e salariali, accompagnati da aumento dei carichi di lavoro e diminuzione dei diritti, oppure si chiude. Come per Almaviva (2), Fiat Pomigliano, Innse e altre cento crisi industriali, azienda, governo e sindacati complici avevano preparato il solito piatto: “riduzione del danno” e pistola puntata alla tempia di chi lavora.
Il “piano industriale” concertato è stato giustamente letto come l’ennesimo pezzo di carta fasullo prodotto in 25 anni di distruzione. Fu allora che – capo del governo il banchiere Ciampi – venne stabilito che i vettori europei si sarebbero nel tempo ridotti a soltanto tre: British Airways, Lufthansa ed Air France, con Alitalia destinata a finire sotto l’ala transalpina insieme a Klm), la spagnola Iberia in promessa agli inglesi e la Swissair ai tedeschi.
A quella decisione seguirono quindici anni di amministratori incaricati di impoverire progressivamente Alitalia, con i conti in attivo, attraverso scelte strategiche suicide. Ad esempio: l'abbandono dell’area manutenzione (Atitech, così eccellente che i tedeschi andavano lì per revisionare i propri aerei) e l’assurda concentrazione del business sul “medio raggio”, ossia sul segmento più esposto alla concorrenza delle compagnie a basso costo, che il governo provvedeva a favorire al massimo concedendo i diritti di atterraggio e decollo senza alcun limite; mentre in Francia e Germania viene “protetto” il vettore di bandiera centellinando i permessi, rifiutando le tratte più redditizie.
Nel 2008 – al momento della prevista privatizzazione – Berlusconi aveva infilato la sua “cordata italiana” e fatto saltare l’accordo europeo con Air France, mettendo soldi pubblici per far riuscire l’operazione e dimezzando i dipendenti.
La nuova crisi aveva portato a scegliere, Etihad (3) (tanto per dire, perché in pratica succede piuttosto di essere scelti) società finanziaria dell'Arabia Saudita come nuovo “partner strategico”. Conseguenza: altri licenziamenti, altri tagli salariali, altri precari sottopagati al posto di lavoratori esperti.
Se lo Stato si limita a fare da osservatore e “facilitatore” delle logiche di mercato, il destino è segnato: le imprese più grosse (quelle multinazionali meglio supportate dai propri Stati di appartenenza) mangeranno le più piccole distruggendo occupazione.
La proposta avanzata dal sindacato USB (Unione Sindacale di Base), si chiama nazionalizzazione: “Attenzione: non stiamo affatto dicendo 'lo Stato deve salvare l’azienda mettendoci i soldi'... per 'facilitare i privati'. No. Alitalia va nazionalizzata e costruita ex novo come vettore internazionale credibile, a partire dai 120 aerei e 24 milioni di passeggeri che sono il suo attuale punto di forza. Qui davvero non c’è alternativa. Se il mercato non può e non vuole porsi il problema della vita civile e produttiva di uno o più paesi, ci deve per forza pensare una mano pubblica, collettiva, solidale, responsabile, scientifica. In Italia come in tutta Europa. Alitalia parla a tutti. Sarebbe bene che tutti rispondessero. Non c'è soltanto da salvare un’azienda e 12.000 lavoratori, ma da rovesciare una tendenza alla distruzione di tutto a favore di pochissimi.”

Note:
(1) Invitalia è l'Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, di proprietà del Ministero dell'Economia.
(2) Via al piano del governo per ricollocare i 1.666 lavoratori del call center Almaviva di Roma licenziati al termine di una drammatica trattativa nei mesi scorsi: il governo infatti metterà in campo circa 8 milioni di euro per cercare di ricollocare tutti i lavoratori. L'intervento è complesso e prevede tre diversi strumenti di incentivazione per una somma da investire su ogni lavoratore fino a 15mila euro: alle società di collocamento. (da La Repubblica del 16 febbraio 2017)
(3) Etihad Airways è la compagnia aerea di bandiera degli Emirati Arabi Uniti e ha sede ad Abu Dhabi. Istituita con un regio decreto nel luglio 2003, Etihad ha iniziato le operazioni di volo a novembre dello stesso anno. Il nome deriva dalla parola araba "unione" (الإal-ittiḥād). La compagnia effettua oltre 1.000 voli settimanali verso 96 destinazioni sia passeggeri che cargo in Medio Oriente, Africa, Europa, Asia, Australia, America del Nord e America del Sud, con una flotta di 85 aerei Airbus e Boeing. Nel 2012 Etihad ha trasportato 10,3 milioni di passeggeri, con un incremento del 23% rispetto all'anno precedente, ottenendo un fatturato di 4,8 miliardi dollari e un utile netto di 42 milioni di dollari.
In data 10 agosto 2014, Etihad conclude un accordo per l'acquisizione di un'importante quota(49%) di azioni di Alitalia.

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Avevano chiesto ai lavoratori dell’Alitalia di suicidarsi e volevano anche il loro consenso.
Azienda, sindacati, governo, tutti uniti per far ingoiare un “accordo” che prevedeva 980 licenziamenti subito e migliaia di altri in prospettiva; il taglio di un terzo del costo del lavoro; la riduzione “media” dell’8% degli stipendi.
Tutto questo per salvare Alitalia? No. I tagli degli stipendi e del personale insieme a un po’ di soldi pubblici, dovevano lavare un po’ la faccia all’azienda per renderla più appetibile da parte di un investitore straniero.
Praticamente una cura dimagrante per incentivare la vendita dell’azienda e far guadagnare miliardi di euro agli azionisti, in aggiunta ai miliardi che sono stati a loro elargiti in questi anni dallo stato.
I lavoratori hanno giustamente bocciato l’accordo a larghissima maggioranza.
I lavoratori dell’Alitalia ci hanno dato una lezione importante. Ci hanno detto che nonostante i ricatti e le minacce non si possono più sopportare sacrifici sulla nostra pelle.
Ci hanno detto che i nostri rappresentanti sindacali in realtà rappresentano l’azienda e i padroni, perché insieme all’azienda e ai padroni volevano far loro ingoiare un “accordo” che li condannava alla miseria e alla disoccupazione.
Con il 67% di contrari all’accordo, i lavoratori Alitalia hanno completamente delegittimato i vertici sindacali dei principali sindacati italiani.
E’ già cominciato il fuoco di fila di borghesi grandi e piccoli che si stanno scagliando contro i lavoratori Alitalia che non avrebbero amor di patria, che sarebbero legati ai loro privilegi e sguazzerebbero vivendo sulle spalle della collettività, come se non fosse vero il contrario e cioè che i signori borghesi vivono di privilegi, campando da secoli sulle spalle degli operai.
Senza vergogna, si ripresenteranno i sindacalisti con un nuovo accordo che sarà uguale al vecchio. E’ un film già visto. Cercheranno con ogni mezzo di dividere i 12.500 dipendenti Alitalia e costringerli ad accettare il loro suicidio.
Ma il voto del referendum all’Alitalia apre una nuova fase. I lavoratori mordono il freno, non sono più disponibili a sacrificarsi per salvaguardare i privilegi dei padroni. Hanno capito che dietro alle parole “salvaguardare l’azienda”, “interesse della collettività”, “economia italiana”, ci sono gli interessi delle banche, degli azionisti e dei loro servi della politica e del sindacato.
E’ il primo passo. I padroni stanno da una parte e chi lavora sta dall’altra. I maggiori sindacati e il governo stanno dalla parte dei padroni.
Il risultato del referendum dimostra che un solco profondo e incolmabile è ormai tracciato tra lavoratori e dirigenti sindacali, che costoro non rappresentano più nessuno e che trovano la loro forza solo nell’appoggio dichiarato dei padroni.
E’ il momento per gli operai di organizzarsi in modo indipendente. Basta con i sindacalisti filo padronali. Basta con i politici “che stanno con i lavoratori” e difendono gli interessi degli azionisti. Noi dobbiamo guardare ai nostri interessi.
Facciamola finita con un sistema che arricchisce i pochi e condanna alla miseria la massa della popolazione. Organizziamoci su questi obiettivi. Organizziamo il Partito Operaio.

24 aprile 2017, da operaicontro.it


La lotta nel settore multiservizi a Pisa e Torino
In Italia in questo settore oggi si contano circa un milione e mezzo di lavoratori – nella stragrande maggioranza lavoratrici – dei servizi mensa e pulizie presso grandi multinazionali nei grandi appalti pubblici: soprattutto scuole, università e ospedali.
La paralisi delle trattative è stata sbloccata ulteriormente oggi con la proclamazione dello sciopero generale di settore da parte di tutte le sigle confederali, in risposta anche ai tentativi padronali di attaccare le malattie e gli infortuni. Questo per tentare di imporre nel nuovo contratto la non retribuzione dei primi tre giorni di malattia e la riduzione del periodo di comporto, ovvero il periodo in cui godere dell'infortunio senza perdere il posto di lavoro, da 12 a 10 mesi. In questo settore il monte ore settimanale già non supera la media delle 24 ore settimanali, costringendo tantissime donne a cercare un doppio impiego o a indebitarsi per sostenere le spese di mantenimento. Da qui la decisa fermezza delle lavoratrici nel respingere ulteriori saccheggi sul salario.
A Torino è andato in scena "il funerale dello stipendio". Le lavoratrici della Dussmann (cooperativa tedesca) hanno sfilato in centinaia dall'ospedale Molinette fino alla sede della Confindustria di Torino dietro un carro funebre. "Rappresentano i soldi che ci vogliono levare e che già sappiamo che se firmiamo il nuovo contratto non rivedremo mai più" hanno spiegato. "Molte di noi hanno figli da mantenere ora ci riducono le ore, guadagneremo 300 euro al mese, chi anche meno" dice Stefania, che fa le pulizie all'ospedale da 13 anni "pretendono però lo stesso livello di pulizia, con 40% in meno di tempo di lavoro. Avremo 3 minuti per ogni stanza da pulire. Ma cosa ci si fa con 3 minuti? Manco un uovo ci si cuoce!". "Io spero che i pazienti e gli utenti si sveglino" spiega Giulia, un'altra lavoratrice "ne va anche della loro salute, l'igiene è fondamentale in un ospedale ora invece ci vogliono spingere a lavorare male!".
A Pisa, dove nel contesto delle mobilitazioni dell'8 marzo le lavoratrici delle pulizie della multinazionale Sodexo in appalto presso gli ospedali Cisanello e Santa Chiara lanciarono uno stato di agitazione per il miglioramento delle condizioni di lavoro, la battaglia non si ferma. Questa volta lo sciopero ha visto decine e decine di donne scendere in piazza davanti alla rotonda del pronto soccorso di Cisanello per poi dirigersi all’interno dell’edificio 30, dove sono state occupate, simbolicamente, delle aree accanto al CUP (luogo di prenotazione e pagamenti dei ticket per le visite): due ampie stanze che le lavoratrici hanno subito allestito con decine di cartelloni, tavoli, sedie.
Dopo circa due ore e mezzo di occupazione delle aule interne all’edificio ospedaliero, le lavoratrici hanno preso tende, gazebo e cartelloni e si sono spostate in corteo all’edificio 200, centro direzionale dell’azienda ospedaliera. Qui hanno incontrato il direttore generale. In seguito alle giornate di sciopero Sodexo ha inviato sei 'lettere disciplinari' ad altrettante lavoratrici.
Il direttore generale non può “mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi” dicono le lavoratrici “bensì ha il dovere di vigilare sull’appalto”. L'azienda continua “a rimandare le trattative a date da destinarsi” le lavoratrici sono ben determinate a proseguire sulla strada della lotta e della mobilitazione. Lo stato di agitazione infatti continua fino a raggiungere un accordo che recepisca:
1) aumento delle ore contrattuali per i part time fino a 6 ore e conseguente diminuzione dei carichi di lavoro;
2) corsi di formazione e materiale idoneo per lo svolgimento corretto delle procedure;
3) indennità di rischio per il riconoscimento retributivo del lavoro in ambito ospedaliero;
4) premio di produzione di 100 euro mensile.

31 marzo 2017, liberamente tratto da infoaut.org


Brasile: Paese bloccato contro la riforma del lavoro
Un movimento di massa con alla sua testa la classe operaia industriale. E’ quello che in queste ore sta paralizzando l’intero Brasile con scioperi e blocchi della produzione in diversi distretti industriali in risposta alla riforma generale del lavoro, che intende cancellare i diritti conquistati con lo Statuto dei lavoratori, innalzare l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e a 62 per le donne, e decurtare drasticamente la pensione di reversibilità.
Il Brasile è un paese dove la disoccupazione coinvolge 14 milioni di persone e che è attraversato da una profonda crisi dei salari. L’attacco del Governo Temer, al potere grazie a un golpe bianco istituzionale, prevede il ridimensionamento della forza contrattuale dei lavoratori e sancisce una forte libertà di licenziamento da parte dei padroni.
I lavoratori di tutto il paese organizzati nei diversi sindacati di settore si sono mobilitati bloccando i principali nodi dell’economia brasiliana: industrie, trasporto su ferro, trasporto marittimo, uffici pubblici, ospedali, scuole e università. Intere città sono completamente paralizzate dallo sciopero. L’estensione della lotta è talmente vasta che persino le forze di polizia stanno valutando d’incrociare le braccia.
In lotta anche i lavoratori dei servizi. Una risposta dura e combattiva risultante di una serie di processi che hanno attraversato il Brasile negli ultimi anni. Nessuno, però, fino ad oggi era riuscito a portare l’attacco al cuore degli interessi economici del grande capitale brasiliano, come sta succedendo, invece, in queste ore.
La protesta nella sola periferia industriale di San Paolo ha visto un’adesione dell’85% nelle più importanti fabbriche metallurgiche con un blocco della produzione in Ford, Mercedes-Benz, Volkswagen e General Motors con oltre 70.000 operai che hanno lasciato il lavoro per aderire alla lotta. In Bosch, CNH, Volgo, Renault, Volkswagen i lavoratori hanno bloccato le autopiste con picchetti e barricate dando fuoco a pneumatici.
Nella fabbrica Marco Pòlo oltre 10.000 operai metalmeccanici hanno lasciato il lavoro.
La protesta si è estesa a macchia d’olio e la radicalità della battaglia in relazione all’attacco del Governo ha fatto da detonatore per per tutto il movimento operaio brasiliano, che vede crescere sempre più la propria consapevolezza rispetto alle metodologie di lotta da mettere in campo.
Picchetti e astensione dal lavoro si sono verificati nelle fabbriche chimiche, nelle raffinerie e nella siderurgia.
Sono soltanto alcuni dati del tutto parziali di quello che è uno dei più importanti scioperi generali da decenni in Brasile.
Una bella gatta da pelare per la burocrazia sindacale, che sta sudando sette camice per riportare gli operai negli schemi della concertazione e dell’accordo al ribasso. Uno dei principali sindacati, Forza Sindacale ha chiesto al Governo di rinegoziare il ridimensionamento del ruolo dei sindacati al tavolo delle trattative, per evitare il collasso del proprio apparato burocratico di stipendiati, arrivando a far pressioni sul suo partito di riferimento (Solidarietà) per fare un accordo con Renan Calheiros, senatore destituito per corruzione, e emendare la riforma.
In questo quadro magmatico di precipitazione del conflitto, le organizzazioni sindacali legate al Partito del Lavoro (CUT e CBT) stanno provando a cavalcare la protesta per polarizzarne il potenziale in una logica di sostegno elettorale a Lula il prossimo anno.
La burocrazia sindacale, però, sbaglia se pensa di poter utilizzare la classe operaia come una pedina in una partita a scacchi. Quando il proletariato entra in conflitto col governo dei padroni cresce la sua consapevolezza. Il risultato reale della lotta non è tanto la vittoria in sè, ma la crescita complessiva della coscienza e l’allargamento dell’autorganizzazione dei lavoratori.
Il governo golpista di Temer è il frutto delle politiche di compromesso sociale portate avanti dal PT. Le stesse che hanno fatto sprofondare il proletariato brasiliano nella disoccupazione e nello sfruttamento.
Le ragioni dei lavoratori, che reclamano salari dignitosi, case, la fine della povertà e dello sfruttamento, non sono in alcun modo conciliabili con quelle della proprietà privata, degli imprenditori brasiliani e della crescita dei saggi di profitto.
Lo sciopero generale in Brasile dimostra concretamente e ancora una volta, fuori da qualsiasi astrazione concettuale, che la classe operaia industriale rappresenta il centro dello scontro tra Capitale e Lavoro, se non altro per il suo ruolo peculiare nella produzione delle merci e nei processi di valorizzazione; che la sua scesa in campo nel conflitto sposta in maniera decisiva i rapporti di forza. Quanto questa forma radicale di lotta saprà trovare gli giusti canali di organizzazione per vincere lo diranno soltanto gli eventi. Certo è che una svolta decisiva sembra essersi affacciata all’orizzonte in Brasile.
Il movimento operaio brasiliano può allearsi soltanto con sè stesso e con i lavoratori degli altri paesi dell’America Latina; imparare attraverso la lotta a educarsi ala propria autorganizzazione. Soltanto sulla base di una propria democrazia assembleare – operaia e popolare – può costruire una società senza classi, che ridia dignità a tutti gli oppressi, sulle cui vite imprenditori, politici corrotti e burocrazia sindacale hanno costruito nel capitalismo i propri privilegi.

29 aprile 2017, da lavocedellelotte.it