indice n.121
Le colombe armate dell’Europa
Dall’Irak occupato dagli Stati NATo
Egitto: il regime teme ancora ultras e lavoratori
“In Mali la società è scossa”
migration compact: Un patto scellerato
Nuovi e vecchi CIE: non c'è accoglienza senza rimpatri
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
resoconto del presidio sotto le mura del carcere di novara
Libri al 41bis, la Consulta avalla il divieto
LETTERE DAL CARCERE DI IVREA
in memoria di claudio, torturato nel carcere di asti
milano-opera: Contro l'isolamento
lettera dal carcere di caltanissetta
lettera dal carcere di paola (CS)
Cartolettera di Davide dalla galera de Brukoli
Lettera dal carcere di Massama (or)
Lettera di Antonino da Sulmona (aq)
Lettera dal carcere di Teramo
lettera Dal carcere di Pavia, a proposito di libri
Lettera dal carcere di napoli-Secondigliano
Lettera dal carcere di volterra (pi)
Alessandria: distrutte vetrate del carcere
firenze: NON CHIEDETECI LA PAROLA
Lettera di Mauro da Lucca
UNA LUNGA MATTINATA: IL PRESIDIO A PIAZZALE CLODIO a roma
Trieste: Kabu trasferito dai domiciliari al carcere
in piazza contro il sequestro di Aldo, contro lo schiavismo
cariche alla Toncar di Muggiò (MB)
Le colombe armate dell’Europa
Ulteriori passi nel «rafforzamento dell’Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali.
A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero.
Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi.
Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia.
Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per «contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nordafrica e per proiettare stabilità oltre i nostri confini». Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di «valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner».
Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la «Forza di risposta» Nato di 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa».
L’Hub per il Sud – spiega il segretario generale Stoltenberg – accrescerà la capacità della Nato di «prevedere e prevenire le crisi». In altre parole, una volta che esso avrà «previsto» una crisi in Medioriente, in Nordafrica o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare «preventivo». L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del «falco» Bush sulla guerra «preventiva».
I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di «colombe». Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca.
Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’«ombrello nucleare» Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia.
Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato.
A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko «il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina» e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce «l’illegale annessione russa della Crimea». L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per «anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina», contribuirà a «conseguire la pace nella regione».
21 febbraio 2017), da voltairenet.org
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Missioni militari. 1,5 miliardi per mostrare i muscoli in giro per il mondo
Nel 2017 il contingente italiano di militari in Iraq sarà secondo solo a quello statunitense. A deciderlo è stato il governo Gentiloni, che ha deciso di aumentarlo fino a 1.497 militari, nell’ambito della “Coalizione dei volenterosi” per la lotta contro l'Isis.
I militari italiani avranno anche compiti di ‘force protection’ nell’area di Mosul, in particolare per quanto riguarda la diga, appaltata alla societa’ Trevi. Lo stanziamento previsto per il 2017 é di 300,7 milioni. Il contingente militare in Iraq supera quello ancora operativo in Afghanistan.
Ma non c'è solo l'Iraq, c'è anche la Libia dove è stata avviata l'operazione ‘Ippocrate’, intorno all’ospedale da campo di Misurata. Oltre al personale sanitario, ci saranno infatti dei militari con compiti di ‘Force protection’. In tutto saranno impiegati fino a 300 uomini e lo stanziamento per il 2017 e’ di 43,6 milioni. Per fronteggiare l’immigrazione clandestina e assistere la Guardia costiera libica, lo stanziamento e’ di ulteriori 3,6 milioni. Per proteggere il traffico mercantile e le piattaforme petrolifere antistanti la costa libica (operazione Mare sicuro), lo stanziamento e’ di 84 milioni con 700 uomini. Per l’operazione Sophia-Eunavformed contro gli scafisti nel Mediterraneo lo stanziamento è di 43,1 milioni per 585 uomini.
In questo modo le spese complessive dell'Italia per le missioni militari all’estero nel 2017, saliranno a 1,13 miliardi, ai quali vanno aggiunti 295 milioni per la cooperazione che affianca i militari nei teatri di guerra. Gli uomini impiegati nelle missioni militari all'estero saranno 7.459 militari e 167 agenti delle forze di polizia.
Occorre poi tenere conto che il prossimo anno altri 140 militari partiranno per la Lettonia nell'ambito dello stanziamento di un contingente della Nato. Verrà inoltre rafforzata anche la presenza in altre operazioni in Europa, delle quali quella più numerosa vede impegnati 550 soldati italiani in Kosovo.
Enrico Piovesana, su Il Fatto del 30 gennaio, sottolinea anche il triplicare dello stanziamento (da 5 a 15 milioni) per le operazioni d’intelligence a supporto delle missioni condotte dagli agenti operativi dell’Agenzia di informazione e sicurezza esterna (Aise), attivi soprattutto in Libia, Iraq e Afghanistan. L’incremento è legato alla novità (introdotta un anno fa da Renzi) dell’impiego di assetti militari (forze speciali) a supporto delle operazioni d’intelligence per operazioni segrete.
Secondo l'Osservatorio sulle Spese Militari italiane, nel 2017 verranno spesi 1,28 miliardi di euro contro gli 1,19 miliardi del 2016. Soldi destinati a finanziare l’impiego di 7.600 uomini, 1.300 mezzi terrestri, 54 mezzi aerei e 13 navali in decine di missioni attive in 22 Paesi, nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Indiano.
Da troppo tempo su tutto questo si assiste ad un assordante silenzio, sia in Parlamento che fuori. Sarà il caso che le realtà antimilitariste, antimperialiste, tornino a battere un colpo contro le missioni militari? E non è solo una questione di spese, sono la natura e gli obiettivi di queste missioni che dovrebbero inquietare. Soprattutto quando diventano la proiezione della politica dei fatti compiuti dai quali è sembra rognoso recedere.
15 febbraio 2017, da contropiano.org
Dall’Irak occupato dagli Stati NATO
Segue un’intervista a Souad Naij Al-Azzawi, direttrice del Dipartimento Envirommental Engineering dell’Università di Bagdad, che nelle sue inchieste ha messo a nudo il fatto che, specie nell’Irak del Sud, terreni, acqua e aria come pure boschi selvatici e prodotti agricoli sono colpiti dall’inquinamento. I medici affermano che quei dati sono veri, anche perché nelle regioni indicate il cancro, nelle sue diverse patologie, è realtà grave più che altrove.
I media tedeschi in questi giorni scrivono della ‘battaglia di Mossul’, della ‘fuga di migliaia di persone’, della presa, da parte dell’esercito iracheno, della parte est della città. Questo, corrisponde a quello che lei sa, conosce?
La gran parte dei media diffonde le stesse notizie fuorvianti. Mostrano foto e videoclip nelle quali è possibile vedere come i soldati iracheni e i peschmerga cacciano i combattenti Is dalle strade, come, nei territori da loro controllati, si prendono cura dei civili.
La verità è che da oltre una settimana, giorno e notte i numerosissimi attacchi aerei della coalizione USA e i missili a lunga gittata lanciati cadono-esplodono sui territori abitati, che loro vogliono liberare. I civili muoiono o vengono feriti nelle loro abitazioni colpite, che cadono in rovina. Chi fa ritorno nella sua casa, abita come fosse in una trappola dove manca la corrente elettrica, l’acqua corrente, gli alimentari. Come è successo nelle città di Ramadi e Fallujia: dopo che sono stati distrutti la gran parte dei quartieri, e dopo essersi (la coalizione USA) accertata che i combattenti IS si erano ritirati.
Intanto muoiono le persone ferite nelle rovine delle loro abitazioni perché non c’è nessun mezzo capace di sollevare la montagna di detriti che le seppellisce. Anche se riescono a uscire dalle rovine, nelle vicinanze non c’è più nessun ospedale che possa prendersi cura di loro, perché i bombardamenti della coalizione USA hanno distrutto tutti gli ospedali. Considero che l’annientamento della popolazione irachena sia compiuto di proposito.
Lei sa quante persone vivono ancora a Mossul?
Da quando sono iniziate le operazioni militari hanno lasciato la città circa 200.000 persone, quindi a Mossul, oggi, potrebbero ancora abitarci 800.000 persone.
Conosce le loro condizioni di vita, quel che accade nel quotidiano?
La situazione in città è terribile. Non ci sono luce elettrica, acqua potabile, benzina, alimentari. Come possono riuscire a dormire le persone nel frastuono tremendo dei bombardamenti, durante le battaglie aeree e nella paura incessante che la propria abitazione possa essere abbattuta dal prossimo missile?
Le famiglie non sanno dove alloggiare i loro figli e anziani, parenti e vicini ammalati affinché non vengano feriti o uccisi, dopo che i missili dei “liberatori” hanno colpito le loro case. Mancano medicinali, medicamenti, gli ospedali sono stati distrutti, e così malattie non pericolose possono adesso portare alla morte di bambine/i e persone anziane.
Secondo dichiarazioni del comando centrale US-Airforce, l’ “Alleanza Anti-IS” per parecchi giorni ha colpito l’università di Mossul. Il 18 gennaio ha comunicato: “La liberazione dell’università per l’IS assume un significato di base per le sue operazioni e ricerche. Questo è culturalmente importante per gli abitanti di Mossul e come indirizzo della formazione diviene anche un simbolo importante della città”. Lei stessa, che ha studiato a Mossul ed ha contatti con le facoltà, quali informazioni le giungono sulle università?
L’US-Airforce naturalmente si esprime, mettendo un velo sui propri crimini di guerra. Loro hanno colpito l’intera infrastruttura civile di Mossul: l’erogazione dell’elettricità, gli acquedotti, gli ospedali, gli impianti dell’industria farmaceutica, i depositi alimentari, tutti gli enti dell’assistenza statale, le banche, l’università. E’ accaduto che – ritornando all’esperienza vissuta a Fallujia e Ramadi – è stata compiuta la distruzione voluta e sistematica di tutte le città che si sono opposte all’occupazione USA. L’occupante soprannominò queste tre città (durante l’occupazione dell’Irak iniziata nel 2003) “Triangolo della morte”. Il bombardamento dei quartieri, le numerose morti, la distruzione della vita civile e delle sue istituzioni in queste città fanno parte del piano USA di fare dell’Irak uno “Stato fallito”. Nessuna città deve essere nella condizione di difendersi dalla divisione predisposta del Paese e di impedire che il petrolio e altre risorse nazionali siano sottratte (all’occupante).
Le forze armate USA dicono di aver liberato l’università di Mossul. Io la chiamo distruzione di Mossul compresa l’università. Se avessero voluto liberare la città e salvarne gli abitanti, avrebbero dovuto impiegare una tattica di guerriglia. Ma loro hanno deciso diversamente e considerato che migliaia di civili morti erano “danni collaterali”. Quel che è accaduto in Mossul, nell’università e contro la popolazione è un crimine di guerra.
Il movimento pacifista, intellettuali, scienziati di tutto il mondo fanno accenni, non si esprimono su quel che è accaduto a Mossul. Perché?
E’ molto semplice: la massa ingannevole dell’informazione dei media copre lo sguardo su quello che accade. L’operazione della liberazione è stata compiuta nel momento in cui tutto il mondo aveva gli occhi puntati sul cambio presidenziale negli USA. Non è stato sicuramente un caso che nessuno voltasse lo sguardo sui crimini commessi a Mossul. Oltre a ciò è successo che chi definisce con il nome giusto quel che è accaduto a Mossul viene diffamato, definito sostenitore del terrorismo, dell’IS. In Europa si vuole risolvere in ogni caso il problema profughi. Si pensa che uccidere persone innocenti e distruggere intere città in Irak sia il prezzo necessario per farla finita con l’IS. La questione principale è far tornare i profughi nei loro Paesi, dove possano vivere felicemente.
I media tedeschi spesso sottolineano che in Irak c’è una “guerra di religione”. I sunniti combattono gli sciiti e viceversa. Cristiani, jesidi, assiri si difendono. E’ così?
Le tensioni fra i gruppi religiosi vengono create dall’occupazione per conquistare l’Irak, per controllare e mettere le mani su ogni risorsa. Vengono imposte da quanto sta scritto nella Costituzione americana e favorite da un processo confessionale politico. Per interi secoli gli iracheni hanno vissuto assieme. Quel che accade oggi è un conflitto di interessi fra i quali compiere l’occupazione dell’Irak. Realtà che dai grandi media viene invece rappresentata come ‘guerra di religione’.
Le minoranze religiose e di popolo, come la popolazione kurda, sono sostenute dagli Stati occidentali. Francia e Germania, per esempio, hanno armato e addestrato i peschmerga kurdi, gli USA hanno formato battaglioni jesidi e assiri, l’Iran sostiene le milizie sciite e tutti insieme rafforzano l’esercito iracheno. Perché?
Gli iracheni sono il popolo delle civilizzazioni mesopotamiche, che sono diversissime e però unite nella loro civilizzazione. Quando USA e Inghilterra decisero di portare sotto il loro controllo tutte le risorse petrolifere nel Mediterraneo Orientale, decisero anche che Israele doveva estendersi, muoversi liberamente nella regione. A loro era chiaro che quell’obiettivo poteva essere raggiunto soltanto se dividevano l’Irak in tre o anche più piccoli territori. Questa frammentazione ha attraversato le diverse entità di popolo comprese le rispettive religioni che combattono l’una contro l’altra. Oggi tutte queste realtà, per la loro lotta e sicurezza, hanno bisogno degli USA e della NATO. Quel che accade oggi non è nient’altro che il perfezionamento di quanto avviato con la guerra all’Irak nel 1991 con le sanzioni-ONU, il regime delle zone di sicurezza: cioè, la distruzione dell’Irak.
26 gennaio 2017, da jungewelt.de
Egitto: il regime teme ancora ultras e lavoratori
Son trascorsi 6 anni dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011 e tre anni dalla presa del potere dell’esercito egiziano che attraverso uno dei suoi membri, l’ex generale al-Sisi, ha di fatto instaurato una sanguinaria dittatura. In questo periodo tutti i tentativi di protesta, ribellione, espressione di malcontento sono stati cancellati da misure di repressione straordinarie e brutali. Il rapporto del centro al-Nadeem che si occupa della riabilitazione contro le violenze e le torture ha registrato nel 2016: 384 assassini di Stato, 980 sparizioni forzate, 535 casi di tortura.
Anche quest’anno, il 25 gennaio, nonostante l’assenza di ogni protesta o commemorazione, una decina di ragazzi sono stati arrestati solo perché giudicati “sospetti” e ora si trovano in carcere per 15 giorni in attesa dei risultati dell’indagine.
Vittima della repressione sono stati anche gli ultras in occasione del quinto anniversario del massacro di Port Said avvenuto il 2 febbraio del 2012. In quella notte 74 tifosi della squadra Ahly del Cairo, per ordine del Consiglio superiore delle forze armate e del ministero dell’Interno, vennero uccisi all’interno dello stadio, le cui porte vennero appositamente chiuse. Fu una vera e propria vendetta del regime contro una tifoseria schierata a favore della rivoluzione e protagonista nelle varie battaglie per le strade e le piazze d’Egitto.
In questi giorni sono partiti degli arresti preventivi, nei confronti di cinque di loro che sono stati prelevati forzatamente dalle proprie case e portati in commissariato, tutto per impedire ai tifosi, alle famiglie e agli amici di commemorare i compagni assassinati.
Durante la perquisizione delle abitazioni la polizia ha sequestrato t-shirt, adesivi, sciarpe, fumogeni, fuochi d’artificio. Tanto è bastato per accusare gli ultras di “incitazione alla protesta non autorizzata e al disturbo della quiete pubblica, formazione di un gruppo illegale, possesso di esplosivi”. I cinque, di età compresa tra i 21 e i 30 anni sono adesso detenuti, sotto indagine, per 15 giorni. Altri 4, con gli stessi capi di accusa, sono invece in libertà provvisoria.
Nella sera di mercoledì, invece, almeno 80 tifosi sono stati arrestati in maniera preventiva nei quartieri e nei caffè limitrofi allo stadio del club al Cairo.
Il regime egiziano ha dispiegato anche tutte le sue forze per impedire e sopprimere anche ogni sorta di movimento dei lavoratori, sia del pubblico che del privato.
A causa della fortissima crisi economica che il paese sta attraversando, le misure di austerità (dettate dal FMI) e l’aumento dell’inflazione, le proteste sono andate avanti anche nel 2016. Lavoratori e lavoratrici, così come uomini e donne in pensione, non smettono di chiedere migliori condizioni di lavoro, aumento di salario, bonus e quant’altro potesse attenuare la morsa delle pesanti misure economiche. La risposta del regime, naturalmente, è stata e continua ad essere impietosa.
Così 27 lavoratori civili attendono in carcere dal 23 maggio 2016, il verdetto del tribunale militare che li vede imputati per “incitazione allo sciopero e blocco della produzione della compagnia” in seguito a due giornate di sciopero.
Due lavoratori e sindacalisti del trasporto pubblico sono ancora in carcere, sotto indagine, e accusati tra le altre cose di “formazione di una cellula terroristica”. 4 loro compagni, invece, sono stati scarcerati dopo aver pagato la cauzione
L’ultima aggressione delle forze di polizia i lavoratori e i sindacati indipendenti risale a gennaio, nel governatorato di Suez. 27 operai di una fabbrica di olio, tra cui membri e dirigenti del sindacato sono stati arrestati e messi sotto accusa per aver incitato allo sciopero. Il 30 gennaio una sentenza li ha scagionati da ogni accusa. Ora gli avvocati stanno lottando affinché siano riassunti dall’azienda che li aveva licenziati.
3 febbraio 2017, da hurrya.noblogs.org
“In Mali la società è scossa”
Segue un’intervista a Olaf Bernau attivista della rete transnazionale “Interazione fra Africa e Europa per la libertà di movimento e l'equo sviluppo”.
Amadou Ba negli ultimi 13 anni ha vissuto in Germania, per la prima volta il 27 ottobre 2016 è stato espulso pur difendendosi con efficacia. Come mai è stato deportato in Mali?
In ottobre il caso di Amadou aveva fatto scalpore perché lui, segnato dal rimpatrio forzato, si era immischiato fra i passeggeri dell'aereo diretto in Mali, che con forza esortavano la polizia a lasciarlo in pace, a non soffocarlo. Così Amadou riuscì a scendere dall'aereo e a rimanere in Germania.
In questi giorni Amadou, assieme ad un altro maliano, Mamadou Drame, è stato di nuovo espulso mediante il trasporto in macchina - direttamente dal centro d'espulsione negli uffici dell'aeroporto di Duesseldorf verso Bamako (capitale del Mali). Sull'aereo particolare predisposto al volo, sul quale sono stati portati Amadou e Mamadou, c'erano due piloti e tre poliziotti. Ousame Diarra dell'Associazione degli Espulsi Malesi (AME), un'organizzazione che in Mali accoglie e si prende cura delle persone rimpatriate, espulse, ha confermato che Amadou e Mamadou sono atterrati a Bamako.
Perché a quell'espulsione viene attribuita importanza? Per il fatto che l'ambasciatore del Mali in Germania si sia recato, assieme a sua moglie, nel carcere d'espulsione dove ha incontrato Amadou e Mamadou poco prima del loro imbarco sull'aereo speciale?
La spettacolarizzazione delle espulsioni in Mali è stata discussa in parlamento, pubblicamente: si è così conosciuto che il governo ha sottoscritto con l'Europa un accordo relativo alle espulsioni, definito “dichiarazione d'intenti”. In aula sono esplose le proteste. L'ambasciatore maliano è corso nel carcere di espulsione per placare l'atmosfera; avrebbe fatto di tutto, e così il governo maliano, per impedire le espulsioni. Il fatto che non ci sia riuscito dipenderebbe esclusivamente dalla determinazione dello Stato tedesco a compierla. Alle interrogazioni in parlamento se lui, l'ambasciatore, aveva prorogato e controfirmato i passaporti di Amadou e Mamadou, la sua risposta è stata: “non ricordo”. Questa è una menzogna.
L'ambasciatore è entrato negli uffici del carcere senza informarsi prima del caso in questione. Ha mostrato alle due persone in espulsione una lettera da lui, presumibilmente, inviata al ministero dell'Interno tedesco, in cui chiedeva il riesame del caso. In segno di “aiuto per il ritorno”, ha messo nelle mani di Amadou e Mamadou 500 euro. Una manciatina, se si pensa che inviavano ogni mese alle loro famiglie 50-100 euro.
In Mali il tema delle espulsioni è considerato molto rilevante?
Sì. La società maliana è stata scossa da quelle espulsioni. All'aeroporto di Bamako, Amadou e Mamadou sono stati accolti da 15 giornalisti; con loro si è svolta una conferenza stampa. In Mali la libertà di movimento – chiamata “mobilità” - è ovviamente considerata diritto, esattamente come in Germania.
Nella tradizione degli africani, l'emigrazione, è indubbiamente segnata dal fattore economico. Le fonti di reddito a sostegno dello sviluppo, dopo l'oro e il cotone, sono le rimesse delle persone emigrate alle loro famiglie. I Paesi come il Mali sono stati resi poveri dagli, così chiamati, “adeguamenti strutturali” compiuti dai Paesi industriali occidentali, i cui costi sono tanto più elevati delle fonti di reddito della popolazione.
Come si può spiegare che lo Stato tedesco spenda denaro, disponendo un minicharter per espellere due persone?
E' stata disposta la guerra psicologica per creare intimidazione. Alle persone emigrate dal Mali viene segnalato: lo Stato tedesco non teme né i costi né le difficoltà per liberarsi di loro. Lo stesso Stato minaccia, fra l'altro, anche tutte le persone che attraversano i Paesi confinanti con il Mali, Senegal, Niger, Costa d'Avorio… Il governo tedesco utilizza il clima politico interno attualmente dominante. Spera così di guadagnare punti fra la popolazione, invece di dare ascolto alla critica di aver perso ogni misura.
La sua conclusione?
Lo Stato tedesco, collegando la propria espansione economica al controllo dell'immigrazione, reprime brutalmente i maliani emigrati. Questo ricatto non è nuovo, adesso però viene inasprito. Di conseguenza anche la resistenza si organizza. Gli attivisti africani lavorano mano nella mano con gli europei: un nuovo tipo di lotta di classe.
9 gennaio 2017, da jungewelt.de
migration compact: Un patto scellerato
«Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica, possiamo ora chiudere la rotta libica». Lo ha detto il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro presidente del consiglio Paolo Gentiloni con il leader libico Fayez al-Sarraj, per bloccare le partenze dei migranti attraverso il canale di Sicilia.
È la vittoria del cosiddetto Migration Compact (Patto per l’immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto dall’allora ministro degli esteri Gentiloni. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo Ue con la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro, regalati a un despota come il presidente turco Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani, iracheni e afghani in fuga da situazioni di guerra.
«I 28 paesi Ue hanno scritto con la Turchia una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. È un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri» ha sottolineato ha affermato C. Hein del Consiglio Italiano per i Rifugiati.
Visto il successo (!!) di quel patto, il governo italiano lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a nome dell’Ue, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un paese oggi frantumato, dopo la guerra assurda che abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e l’Ue hanno riconosciuto Fayez al-Sarraj come il legale rappresentante del paese, una decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar. Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a Tripoli.
Il piano dell’Europa prevede di creare in Libia una “linea di protezione” (una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi di stato Ue a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del Migration Compact. La Ue vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui partono i migranti.
Per ora l’Ue ha scelto cinque paesi chiave: Niger, Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo soldi per lo sviluppo. Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora ministro degli esteri Gentiloni, ha visitato Niger, Mali e Senegal. Si è soprattutto focalizzata l’attenzione sul Niger. È significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella capitale del Niger, Niamey. Scrive il missionario Mauro Armanino da Niamey, capitale del Niger: «I “buoni” sono l’Ue, l’Italia, il Migration Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari. I “brutti’ sono migranti irregolari… Noi preferiamo stare con i “brutti”, coloro che ritengono che migrare sia un diritto!». […]
6 febbraio 2017, m.nigrizia.it
Nuovi e vecchi CIE: non c'è accoglienza senza rimpatri
Proseguiamo dallo scorso opuscolo l'analisi sullo stato attuale dei vecchi CIE, ribattezzati CPR, di prossima apertura, per “capire sul serio cosa c’è dietro i proclami e gli slogan” facendo “un’azione lucida di discernimento tra ciò che è propaganda e ciò che non lo è”. (da Macerie - Storie di Torino).
Segnaliamo la pubblicazione di due decreti legge, il primo per il contrasto dell'immigrazione (d.l. 17 febbraio 2017, n. 13: Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale); il secondo inerente il tema della sicurezza delle città (d.l. 20 febbraio 2017, n. 14: Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città). Per chi fosse interessato, possiamo inviare il testo integrale.
L’attacco terroristico al mercatino di Natale avvenuto il 19 dicembre a Berlino, compiuto probabilmente da un cittadino tunisino che era sbarcato in Italia e aveva trascorso un periodo di reclusione nel CIE di Caltanissetta, è stata la miccia per riproporre (spandendo paura tra la popolazione per convincerla così ad accettare silente qualsiasi provvedimento sulla “sicurezza”) il tema dell’identificazione dei e delle migranti ma soprattutto della loro espulsione.
Le voci e gli articoli con le dichiarazioni roboanti del politico di turno sull’argomento hanno continuato a intasare i giornali, anche grazie al piano immigrazione studiato dal governo e propagandato dal Ministro degli Interni Marco Minniti, che ha ribadito in Parlamento che “Severità e integrazione” (severità per i migranti economici che non avrebbero titolo di restare in Italia, e integrazione per i/le poveri/e migranti che scappano dalle guerre – sponsorizzate, finanziate e armate da quegli stessi paesi che si trovano ora a dover fare i conti con i loro effetti) “sono le due linee guida che noi seguiremo, ed è mio profondo convincimento che il principio di severità consenta anche di avere un principio di maggiore integrazione. Non si intendono naturalmente innalzare i muri, siamo un Paese che ha salvato vite umane e continuerà a farlo accogliendo coloro che fuggono da guerre e persecuzioni, ma con la stessa determinazione con cui stiamo ospitando chi ne ha diritto, intendiamo anche agire nel contrasto nei confronti dell’immigrazione irregolare“.
Ora tralasciando il fatto che l’UE, a dispetto delle dichiarazioni del Ministro, sta pensando a un vero e proprio “muro marino” che prevede il rafforzamento ulteriore delle operazioni navali già presenti nel Mediterraneo e la fornitura di mezzi e formazione alla guardia costiera della Libia (paese da cui parte circa il 90% delle persone che raggiungono la Fortezza Europa), la determinazione nel contrasto dell’immigrazione “irregolare” dovrebbe passare per i CPR, acronimo per Centri di Permanenza per il Rimpatrio, un mix dei due precedenti nomi (il primo cambio di nome fu fatto nel 2008 quando i CPT-Centri di Permanenza Temporanea vennero rinominati CIE).
Nelle audizioni alle Commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato di mercoledì 8 febbraio, il ministro Minniti ha illustrato le linee programmatiche del suo dicastero e si è soffermato sulle differenze che ci sarebbero tra le nuove strutture e i vecchi CIE: avranno 1.600 posti sul territorio nazionale; saranno piccole strutture da un centinaio di posti; saranno distribuiti su tutto il territorio nazionale; serviranno per detenere le persone in attesa dell’espulsione; saranno fuori dai centri urbani e vicino a infrastrutture per il trasporto.
Nonostante il tentativo (per ignoranza o pura propaganda?) del ministro Minniti di far credere che “i vecchi CIE” fossero luoghi adibiti all’accoglienza delle persone migranti, ci chiediamo quindi quali siano le novità a parte il nuovo acronimo, visto che i CIE, sin dalla loro origine, sono serviti all’identificazione e all’espulsione, non hanno mai avuto grandi dimensioni (con alcune eccezioni), avevano una capienza totale di circa 1.800 persone (*), erano posti fuori dai centri abitati (con alcune eccezioni ad esempio Torino) e sono stati pensati come diffusi su tutto il territorio nazionale.
Non riusciamo quindi a capire in che modo i nuovi lager proposti si differenzino da quelli attuali, a meno che non si voglia considerare la sbandierata trasparenza della governance, ossia “i poteri di accesso illimitati al garante dei diritti dei detenuti in queste strutture”, come discontinuità rispetto al passato. Inoltre secondo alcune fonti giornalistiche anche i tempi di permanenza massima all’interno dei centri subirebbero modifiche passando dagli attuali 90 giorni a 135.
Guardando nel suo complesso il programma ministeriale, è chiaro invece l’impianto proposto che prevede:
- la differenziazione delle persone che si spostano dai paesi di origine nelle due categorie migranti buoni/e che hanno diritto al riconoscimento della protezione internazionale e migranti cattivi/e ovvero i cosiddetti “migranti economici” da rimpatriare;
- l’esternalizzazione delle frontiere, in particolare con la Libia da dove parte la maggioranza delle persone che sbarca in Italia;
- il rafforzamento e la stipulazione di accordi bilaterali con i paesi verso i quali si vorrebbe deportare le persone migranti (e ricordiamo che tra questi ci sono regimi sanguinari come Turchia, Egitto, Sudan, Mali);
- la stretta sulla cosiddetta “accoglienza” con la proposta di eliminare il secondo grado di giudizio per quello che riguarda le domande di asilo (le cui percentuali di diniego in primo grado sono altissime);
- la riapertura di strutture detentive dove rinchiudere le persone in attesa della deportazione;
- il lavoro gratuito “volontario” imposto alle/ai richiedenti asilo
Questo programma è quindi del tutto in linea con le politiche europee che intendono rafforzare i confini deportando gli indesiderati.
Dopo aver istituito sotto il governo Prodi questi lager della democrazia alla fine degli anni 90, inseguendo sullo stesso terreno le posizioni delle Lega Nord (ai tempi in grande ascesa), le linee programmatiche del governo attuale a distanza di 20 anni, sembrano essere improntate alla stessa logica. Risulta evidente lo spostamento verso l’approccio securitario delle politiche in materia di immigrazione fortemente sbilanciate su supposte “esigenze” di sicurezza, di chiusura, di garanzie e controllo, come dimostra una circolare del 26 gennaio del Ministero degli Interni che invita (o per meglio dire, ordina) alle questure di Roma, Brindisi, Torino e Caltanissetta di riempire i Cie corrispettivi di persone di origini nigeriane entro il 18 febbraio, anche a costo di rilasciare anticipatamente altri reclusi.
La disposizione dipende dalla stretta collaborazione nelle identificazioni con l’ambasciata della Nigeria e dalla presumibile organizzazione di un volo charter. Questo significa che, in linea con la circolare del capo della polizia Gabrielli del 30 dicembre (dove si legge che "appare necessario conferire massimo impulso all’attività di rintraccio dei cittadini di Paesi terzi in posizione irregolare, in particolare attraverso una specifica attività di controllo delle diverse Forze di Polizia. Sarà necessario a tal fine fornire loro specifiche indicazioni affinché, in caso di rintraccio di detti stranieri, assumano diretti contatti con gli Uffici Immigrazione delle Questure territorialmente competenti cui spetta l’avvio delle procedure per l’adozione dei provvedimenti di espulsione"), verranno effettuate, non solo nelle città in questione, retate mirate contro uomini e donne subsahariani con lo scopo imprescindibile della deportazione.
(*) Capienza dei CIE chiusi (per le rivolte dei reclusi che li hanno distrutti): Gradisca: 248 posti; Milano, 132 posti; Crotone: 124 posti; Bari Palese: 112 posti; Bologna: 95 posti; Catanzaro, Lamezia Terme 80 posti; Modena: 60 posti ; Trapani, Milo: 204 posti; Trapani, Serraino Vulpitta: 43 posti.
CIE aperti ad oggi: Roma, Ponte Galeria: capienza originaria di 360 posti poi ridotta a 250; attualmente in funzione a capacità ulteriormente dimezzata con attiva solo la sezione femminile, dopo che quella maschile è stata distrutta a seguito di una rivolta nel dicembre 2015; Torino: capienza originaria di 180 posti, ridotta oggi a 90 per i numerosi danneggiamenti in seguito alle rivolte; Caltanissetta, Pian del Lago: 96 posti; Brindisi: 83 posti.
15 febbraio 2017, liberamente tratto da hurriya, noblogs.org e autistici.org/macerie
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QUALCHE RIFLESSIONE SU NUOVE POLITICHE EUROPEE, DEPORTAZIONI E CIE
9.00 di mattina, come ordinariamente succede a Milano un plotone di polizia e carabinieri attraversa le vie di un quartiere popolare, il Giambellino, per effettuare uno sgombero. L’occupante, un ragazzo senegalese viene portato alla stazione di polizia più vicina con la scusa dell’identificazione e dopo essere stato trasferito in questura centrale viene trattenuto coercitivamente fino alla mattina seguente. Eppure sta terminando le procedure per il permesso di soggiorno insieme ad un avvocato. I sospetti che non si trattasse di una semplice identificazione vengono confermati, l’avvocato viene infatti chiamato a prendere parte all’udienza per la convalida d’espulsione che con un colpo di mano la questura aveva imbastito durante la mattinata. L’udienza infine non ha luogo; le carte mostrate attestano la posizione regolare in Italia e quindi l’impossibilità legale di praticare l’ espulsione. Eppure in quella stessa giornata altri ragazzi di diverse nazionalità che si trovavano in questura, senza la possibilità di essere assistiti da un avvocato amico nella loro difesa, sono stati espatriati.
Questo episodio ci si è sembrato indicativo ed un punto di partenza per poter (saltando dal caso particolare a considerazioni più generali) condividere alcune riflessioni sulla pratica sempre più diffusa delle espulsioni dirette, che a noi suona meglio, più vero, chiamare deportazioni. Speriamo queste possano servire come spunti in un dibattito di più ampio respiro.
Europa, questa parola in altre parti del mondo evoca oggi un sogno di vita, di cambiamento, di salvezza. Eppure in Europa, dicono i suoi governanti, non c’è spazio, così il sogno si infrange sulla realtà. Lo testimoniano le alte percentuali di dinieghi delle richieste per il permesso di soggiorno (media 60%), l’innalzamento di veri e propri muri e l’intensificazione dei controlli sui confini. Non meno importanti i patti bilaterali che i vari governanti europei stanno stringendo con i leader africani, a volte dittatori, alla ricerca di alleati per bloccare il flusso migratorio alla sua sorgente. Trattati privilegiati con Sudan, Mali, Nigeria, Niger, Etiopia, Senegal, Tunisia, Egitto e Marocco. L’Europa propone finanziamenti ed armi a quegli stati che si renderanno disponibili di accettare rimpatri collettivi dai paesi europei e che si faranno carico di fermare le persone in transito attraverso l’istituzione di campi profughi e controlli più severi ai loro confini.
Il quadro geopolitico che si va a delineare richiama le vecchie strategie degli “stati cuscinetto”, stati che, in cambio di privilegi economici e militari, promettono oggi di garantire la protezione dell’Europa da un esterno (barbaro) rispetto ad un interno (civilizzato). Denaro in cambio di repressione, lontano dai nostri occhi però, così che non ci siano impicci umanitari. In altri termini, esternalizzazione dei confini, ovvero la delega di operazioni di controllo e difesa.
E’ significativo anche notare il progressivo irrigidimento dei criteri per l’accettazione della richiesta d’asilo. Oltre ad essere sempre meno le nazionalità riconosciute in diritto di richiedere la protezione internazionale, sono anche aumentati i parametri che vengono valutati, caso per caso, dalle commissioni europee. Infatti, assume un ruolo di primo piano il profilo personale di ciascun individuo che viene visionato durante il percorso d’“accoglienza”. In questo ambito, saranno sicuramente avvantaggiati coloro i quali si sottoporranno senza troppe resistenze a prestazioni di lavoro non retribuito e sopporteranno in silenzio le disumane condizioni dei centri d’accoglienza e il razzismo che li circonda. Se vuoi restare, devi subire. Semplice. Del resto, è noto come negli anni l’immigrazione sia servita a creare sempre nuova forza lavoro facilmente ricattabile, dunque a più basso costo di quella autoctona.
Sul territorio italiano, però, parrebbero essere presenti molte più persone rispetto a quelle che possono rientrare in queste logiche di ingerenza. I patti con i leader africani che prevedono accordi sulla liceità di trasferire coercitivamente uomini dall’Europa ai loro paesi di origine senza poi assumersi la responsabilità del loro destino sono, infatti, entrati all’ordine del giorno sull’agenda del Ministero degli Esteri.
Deportazione vuole indicare uno spostamento coatto di persone. Ogni giorno pullman di compagnie complici di queste politiche (per esempio Rampinini e Riviera Trasporti, ma ce ne sono molte altre) partono dalle città di frontiera, come Como e Ventimiglia, o dai grandi centri urbani di passaggio, come Milano o Genova, diretti verso Hotspot o CIE del sud-Italia al fine di ricollocare quella che viene registrata come un’eccedenza umana. Non è trascurabile anche la presenza di voli dagli aeroporti italiani (di compagnie tra cui ricordiamo Mistral Air e Bulgarian Air) ai paesi d’origine come strumento per rendere più efficaci le deportazioni. Tutto questo è possibile grazie ai trattati bilaterali sopracitati con i quali i paesi europei si garantiscono la legittimità di compiere gesti inumani.
Questo è un chiaro progetto di gestione e controllo del flusso migratorio, votato a chiudere spazi di vita libera e conservare quelli di business. I bisogni e i desideri di queste persone non contano nulla.
Di qualche settimana fa la proposta di riaprire i CIE in ogni regione d’Italia per garantire un più efficiente funzionamento del sistema di deportazioni. Saranno più piccoli, dotati di una capienza probabilmente di massimo 100 persone, atti a garantire una permanenza non superiore ai tre mesi. Questa ristrutturazione si deve al timore di nuovi disordini interni. Non casualmente saranno vicino agli aeroporti, dunque isolati.
Quando vennero istituiti nel 1998 i CPT (poi chiamati CIE, ora CPR) erano 13 ora ne sono rimasti 4 (Torino, Roma, Brindisi, Caltanissetta). La breve storia di questi istituti ha visto passare molte persone e succedersi una serie di rivolte. La disumanità delle condizioni e la determinazione di chi vi veniva rinchiuso a ribellarsi hanno in pochi anni portato alla chiusura della maggior parte di questi. Ricordiamo con gioia l’incendio di Milano che aveva parzialmente distrutto le strutture del CIE di Corelli poi chiuse nel 2014.
Ricapitolando sommariamente: dopo un difficoltoso, a volte tragico, viaggio, i migranti arrivati in Italia passano attraverso uno degli Hotspot del sud-Italia per una prima identificazione. Da lì comincia il cammino verso l’Europa ma le frontiere gradualmente si chiudono e i più finiscono nei circuiti dell’accoglienza. La maggioranza, coloro i quali si vedono negare da una commissione il permesso di soggiorno, si trovano sul territorio illegalizzati. Senza i giusti documenti, una semplice identificazione può significare il trasferimento in un CIE in attesa dell’espulsione. Cosa succede dopo, nessuno lo racconta, a nessuno interessa, non interessa ai giornali, tantomeno a chi effettua e comanda le deportazioni. Sballottati e gestiti come merci, secondo logiche di puro business.
I nazisti non facevano qualcosa di diverso. Campi, sfruttamento, deportazioni.
Migliaia di persone si recano sugli usci del vecchio continente, e i governi europei o sbattono loro le porte in faccia, o le aprono a condizione che queste si lascino sfruttare come bestie. Molti di coloro i quali riescono a entrare senza chiedere il permesso, saranno rinchiusi in centri detentivi e poi espulsi per l’unica ragione di voler esistere in questo dato luogo. Spesso vengono rimpatriati in paesi dove la loro vita è a rischio.Non possiamo rimanere a guardare. Chi pensa deve agire. Che il fuoco dei CIE illumini ancora le notti!
10 febbraio 2017, Assemblea No Borders Milano
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VENTIMIglia: Aggiornamenti da una frontiera
La situazione a Ventimiglia è peggiorata nuovamente. Da qualche giorno il Centro della Croce Rossa che ospitava le persone in transito ed alcuni richiedenti, ha deciso di non accettare nuovi arrivi (motivazione ufficiale: lavoro di ristrutturazione). Non è dato sapere se riaprirà e quando. Almeno 150 persone adesso vivono in strada senza la possibilità di usufruire di bagni e cibo. Oggi all'ora di pranzo la Caritas distribuiva un bicchiere di latte ed una banana a testa.
La permanenza in strada per le persone è pericolosa: la polizia italiana continua a rastrellare le strade di Ventimiglia per attuare trasferimenti forzati verso il Sud Italia (uno o due pullman al giorno di Riviera Trasporti).
I minori presenti al Centro della Croce Rossa sono stati fatti uscire e lasciati in mezzo la strada; solo alcuni di loro hanno trovato ospitalità in Chiesa. La notte del 5 febbraio un'altra persona ha perso la vita nella tratta ferroviaria Ventimiglia-Menton investito da un treno, mentre provava a superare il confine Italo francese.
5 febbraio 2017, da noborders20miglia.noblogs.org
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma - Ponte Galeria
Retate nelle strade, stupri, soprusi e continue violenze nei centri di detenzione: questa è la quotidianità che lo stato offre alle donne migranti. Uno stato fascista e razzista fondato su machismo e cultura dello stupro; al di là dei propagandati progetti della polizia in difesa delle donne contro la violenza di genere, questo è uno stato che dice di proteggerti e nella realtà, al contrario, si trasforma in un ulteriore pericolo per la tua libertà e la tua vita.
Questo è ciò che è successo a Olga (nome di fantasia), una delle tante donne che spesso trovano il coraggio di liberarsi dalle loro relazioni violente. Olga è una donna ucraina che, nel momento in cui si è rivolta alle forze dell’ordine per denunciare le violenze agite da quello che era il suo compagno, è stata rinchiusa nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, perché la sua condizione di “irregolare” ha prevalso sulla sua richiesta di aiuto. Non si tratta di un caso isolato: ogni giorno le migranti devono vivere sulla propria pelle gli effetti di questo stato che le umilia, le sfrutta, le criminalizza e imprigiona per perpetuare poi le stesse violenze all’interno delle mura infami di un CIE.
Prima di Olga era toccato, verso metà gennaio, a undici donne di origine marocchina, arrivate dalla Libia e sbarcate sulle coste italiane, che sono state prelevate e portate in una struttura per migranti in Calabria, descritta come un centro di grandi dimensioni simile a una prigione, da cui non potevano uscire e dove la polizia le scortava anche in bagno. Si tratta con ogni probabilità del CPA/CARA di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Dopo una breve permanenza sono state trasferite, a inizio febbraio, nel CIE (ora CPR) di Ponte Galeria, dove sono state avviate tutte le procedure per la richiesta di asilo politico. A seguito di questa richiesta, è stato comunicato loro che verranno ugualmente trattenute lì per due mesi, senza fornire altre spiegazioni. Sappiamo che i tempi di permanenza all’interno del CIE, che riguardino processi di identificazione o di elaborazione delle domande d’asilo, sono spesso arbitrari e possono variare dai 30 ai 90 giorni. Dopo essere state accolte solo da gabbie e polizia, le donne si son viste quindi negata anche la possibilità di conoscere il motivo della loro detenzione. Per questo hanno deciso di ribellarsi e lottare contro questa privazione della libertà, inziando tutte insieme uno sciopero della fame. Obiettivi di questa lotta sono inoltre quelli di denunciare le precarie condizioni di vita all’interno del CIE e il bisogno di conoscere il destino a cui le autorità le hanno condannate. Diffusasi la notizia all’interno del lager, anche altre recluse hanno appoggiato questa scelta unendosi allo sciopero.
Lo sciopero della fame è terminato venerdì 24 sera, dopo che il direttore del CIE si è recato lì per parlare con le donne che protestavano promettendo di considerare le loro rivendicazioni e risolvere la situazione. Si è trattato ovviamente di false promesse e dei soliti raggiri con cui i carcerieri cercano sempre di calmare le acque per far sì che in quel lager non si muova alcuna voce di malcontento. Questa è la famosa buona gestione di Gepsa (multinazionale francese della carcerazione privata) che tanto viene decantata da media e operatori, una gestione fatta di repressione, infantilizzazione, ricatti e inganni continui. Nonostante la fine dello sciopero, la rabbia delle recluse non si è placata, anzi è aumentata dopo aver constatato di essere state prese in giro.
Non manca il sostegno di chi, pur fuori dal lager, decide di essere nemica e mimico di ogni frontiera. Sabato 18 febbraio, un gruppetto di poco meno di trenta solidali è tornato sotto le odiose e odiate mura del CIE di Ponte Galeria. Dal microfono aperto si sono succeduti diversi interventi in più lingue, in cui ricordavamo alle recluse chi siamo e perché siamo lì fuori, sottolineando ancora una volta che non andiamo lì per fare promesse, per chiedere un CIE più umano e lenzuola pulite o per sostenere un’accoglienza “degna”. Siamo lì perché detestiamo carceri e carcerieri, avversiamo i confini e questa società che li costruisce e ne ha bisogno. Andiamo in quel luogo ignorato da tuttx e ci torneremo ogni volta che sarà necessario, ogni volta che le recluse ce lo chiederanno o quando si ribelleranno a chi le tiene segregate in cella. Torniamo perché la lotta contro le galere e a sostegno delle persone immigrate che vivono combattendo ogni giorno i soprusi di questa Europa fascista, che le lascia morire in mare, o “le salva” per poi richiuderle in un centro d’accoglienza, o le perseguita per strada sbattendole poi in un centro di detenzione, è la lotta di tuttx noi che desideriamo la liberazione totale. Cori, musica, interventi che hanno raccontato cos’è successo nell’ultimo periodo in altri CIE o cosa succede qui a Roma, e in special modo a Ostia, dove ogni forma di organizzazione autonoma di migranti e solidali viene criminalizzata e ostacolata, anche grazie al sostegno dei gruppi fascisti locali. Mentre le nostre voci provavano a superare quelle mura, a un tratto davanti ai nostri occhi passava un pullman scortato da una macchina della guardia di finanza, con a bordo probabilmente alcune donne rastrellate durante il recente sgombero di un campo rom a Palermo. Inutile specificare l’arroganza e la prepotenza delle guardie nella scelta di quella dolorosa sfilata pur sapendo della nostra presenza (o forse proprio sapendolo); forse vano allo stesso modo confessare la totale impotenza e frustrazione provata in quell’attimo, che però ancora una volta ci spinge a credere nella necessità di continuare la lotta, creare nuove complicità, organizzarci insieme e diventare sempre più una spina nel fianco dei nostri nemici.
Per finire, una nota di gioia sono sempre le risposte delle donne recluse, che più volte ieri sono riuscite insieme a far arrivare le loro voci e grida al di là delle sbarre scaldandoci il cuore. In un luogo di privazione come quello del CIE (o dovremmo iniziare a dire CPR da ora in poi per adeguarci alla nuova lingua dei nazisti al governo), anche urlare per rabbia o felicità diventa pericoloso e impossibile, ed espone le recluse a continue minacce da parte degli sbirri e degli operatori che le obbligano a smettere, così come è successo anche ieri. Infatti, le minacce sono divenute concrete la sera, quando coloro che hanno mostrato la loro rabbia con urla e battiture sono state private del pasto.
Torino: ancora fuoco al CIE di via Brunelleschi
È inaspettato il momento in cui, nonostante la calma apparente che striscia in superficie, si manifesta la rabbia di chi è rinchiuso dentro a una prigione per senza-documenti. Dopo qualche mese più o meno quieto, sabato 4 febbraio dentro al Centro di corso Brunelleschi è stato appiccato un piccolo incendio a una stanza dell’isolamento utilizzando coperte, carta e asciugamano. A quanto pare l’accaduto è in risposta al fatto che i lavoranti di Gepsa abbiano fatto orecchie da mercante riguardo ad alcune richieste espresse dai reclusi: più volte si sono lamentati che la stanza fosse sporca del sangue di un ragazzo che si era tagliato il braccio e che aveva inghiottito due bottigliette di shampoo per protestare contro la sua detenzione, ma nessuno è arrivato a pulire. A quel punto a qualcuno è balenato in testa che il fuoco potesse essere oltre che un buon metodo per igienizzare anche molto più eloquente. Da che si sa è subito però intervenuto l’ispettore che, accompagnato da finanza e militari, ha acquietato la situazione sotto la minaccia di un intervento violento.
Ma il malessere dentro al Cie torinese è più forte oramai da qualche giorno soprattutto perché il riscaldamento dell’intera struttura non funziona, quindi niente caloriferi e niente acqua calda. Il giorno seguente i reclusi dell’area blu hanno rifiutato sia il pranzo sia la cena, facendo inoltre un po’ di parapiglia contro i lavoranti che lo avevano servito. Subito dopo un ragazzo tunisino e uno nigeriano sono stati portati via, forse nell’ufficio dell’ispettore, mentre i serata si è fatta vedere anche la celere, che però non è entrata. I problemi di funzionamento sono tanti, tant’è che i reclusi dell’area gialla sono stati trasferiti allo scopo di lasciar lavorare gli operai a un guasto e la stessa cosa avverrà probabilmente anche ai ragazzi di quella viola. Solo nell’area verde è per ora tutto a posto ma solo perché è stata appena riaperta, dopo una ristrutturazione generale, proprio per accogliere i reduci delle aree da risistemare. Insomma i lavori sono incessanti da tempo oramai, ma sembrano non riuscire a tornare alla pari dei tanti danni, non solo quelli causati dalle rivolte.
Riguardo ai numeri, da che sappiamo, pare che i reclusi oggi siano un po’ più di cento con un ricambio tra deportazioni ed entrate quasi sempre alla pari. Proprio giovedì 26 gennaio in 27 sono stati prelevati a Torino e rimpatriati in Nigeria con altri connazionali provenienti dal Cie di Caltanissetta, dalla Polonia e dalla Germania. Non a caso la deportazione di rilevanza internazionale con volo Fiumicino-Lagos è stata organizzata in collaborazione con l’agenzia europea Frontex.
In seguito alle 27 deportazioni quasi immediatamente ci sono state 19 nuove reclusioni, tutti ragazzi provenienti da città del nord Italia, specie Milano e Bergamo, in seguito a retate in strada.
Non è mancato il sostegno ai reclusi in lotta, come giovedì 16 febbraio, quando si è tenuto nella sala conferenze regionale di corso Regina un incontro piuttosto interessante: la presentazione del dossier 2017 sui richiedenti asilo della Fondazione Migrantes. Un gruppo sociale così profumato, anzi in odor di santità come solo chi è legato alla Conferenza Episcopale Italiana sa essere. Non per nulla a barcamenarsi tra statistiche, retoriche dell’accoglienza e preghiere in prosa è proprio il massimo esponente torinese che si potesse tirar fuori dal cilindro, o per meglio dire dalla papalina viola. Ci riferiamo all’arcivescovo Cesare Nosiglia, interrotto nel suo discorso da una decina di nemici delle deportazioni e delle frontiere che, sollevatisi dal pubblico, hanno ricordato a lui e ai presenti in sala il ruolo della Madre Chiesa nella gestione dell’immigrazione in Italia, al netto delle parole edulcorate lì propinate. Il riferimento è soprattutto quello a Le Misericordie Srl che hanno costruito un bel profitto tra la gestione degli Hotspot e dei Cara nel sud Italia.
In questo pomeriggio conferenziale i porporati erano ben accompagnati dai rappresentanti delle istituzioni, non ultima l’assessora regionale all’Immigrazione Monica Cerutti che, mentre le retate per le strade sabaude sono all’ordine del giorno, non smette mai di spremersi le meningi per capire come far sì che siano reclusi solo i senza-documenti che delinquono. Beh, ci viene da dire che in tal contesto abbia potuto ben consultarsi con gli esperti della variazione della pena nei gironi tra purgatorio e inferno; chissà che a breve non abbia l’illuminazione e faccia la sua proposta di detenzione selezionata con sommersi e salvati. I contestatori, invece, dopo aver distribuito all’uditorio qualche foto di un ragazzo che nell’isolamento di corso Brunelleschi si è cucito per protesta le labbra si sono allontanati al grido di “Fuoco ai Cie!”.
Nel pomeriggio di domenica 19 febbraio circa ottanta persone hanno tenuto un rumoroso presidio fuori dalle mura del Cie torinese, ora rinominato per volontà ministeriale Cpr. A protezione di quelle infauste mura i reparti di celere e una schiera nutrita di agenti in borghese hanno anticipato come al solito i nemici delle deportazioni.
Per evitare che sentissero i solidali fuori a tutti i reclusi è stato impedito di uscire dalle proprie aree, ma alcuni ragazzi hanno ben pensato di “darsi voce” da soli iniziando una protesta che ha coinvolto soprattutto l’area bianca e quella gialla, dove sono stati bruciati alcuni materassi; all’interno dell’isolamento invece qualcuno ha lanciato il pasto per terra. La reazione delle forze dell’ordine non si è fatta attendere troppo e la celere è entrata in entrambe le aree spegnendo l’incendio e circondando con caschi e manganelli i reclusi. Questa situazione di stallo è durata circa un’ora e prima di andare via dall’area bianca le forze dell’ordine hanno portato fuori due persone, un marocchino e un nigeriano. I poliziotti hanno poi abbandonato anche l’area gialla, ma per farvi ritorno dopo quindici minuti e prelevare altri tre ragazzi nigeriani perché sospettati di essere gli autori dell’incendio.
Intanto su corso Brunelleschi i presidianti hanno continuato a intonare cori di sostegno alle rivolte, trattenendosi davanti al Centro fintantoché la situazione non è tornata alla calma ed è rientrata la minaccia del manganello della polizia. Sul finire del presidio dei fuochi d’artificio hanno illuminato l’imbrunire per dare il giusto saluto ai rivoltosi.
Qualche ora dopo, da che sappiamo, la celere è entrata di nuovo nell’area gialla per fare una perquisizione alla ricerca di accendini: hanno messo praticamente tutto a soqquadro, ma non hanno trovato nulla. Verso le nove di sera sono tornati nell’area gialla i tre ragazzi nigeriani, a quanto pare senza conseguenze penali, e durante la notte hanno fatto ritorno anche i due prelevati dall’area bianca. Secondo una stima dei reclusi ci sarebbero più di cento persone all’interno e un ragazzo nell’isolamento continua ad avere la bocca cucita ed è in sciopero della fame da circa dieci giorni.
CIE di Brindisi-Restinco: altri tentativi di suicidio, autolesionismo e incendi di rivolta
Anche in quest’ultima settimana di gennaio si sono verificati, purtroppo, alcuni tentativi di suicidio e autolesionismo al Cie di Brindisi. Sempre con lenzuola legate intorno al collo, lo scorso 27 gennaio due reclusi hanno minacciato di togliersi la vita per protesta alle dure condizioni che il Cie impone. Tra i due reclusi uno è minorenne, un giovane tunisino di 17 anni, il quale si è anche tagliato su più parti del corpo. L’altro – anche lui tunisino – è recluso da 8 mesi, dopo che i continui ricorsi con esito negativo per ottenere il permesso di soggiorno hanno protratto la sua permanenza nel centro. È chiaro che scelte come lesionare il proprio corpo o suicidarsi sono indotte dalla totale condizione di isolamento e la difficoltà a difendersi dagli abusi quotidiani. Come da prassi, il solito manipolo di guardie è entrato per fermare i due reclusi. Secondo le testimonianze di A, anche il direttore del centro ha assistito alla scena.
Il giorno dopo, lo stesso minorenne che ha tentato il suicidio ha riprovato ad autolesionarsi con una siringa sul collo e, successivamente, un materasso è andato a fuoco. Pare che il breve incendio di protesta si riconduca all’impedimento dell’intervento di soccorso dell’ambulanza, richiesto dagli stessi reclusi che avevano telefonato al 118 per il ragazzo. La direzione di Auxilium non ha fatto altro che far agire altre guardie dotate di manganelli che hanno perquisito le tre sezioni. Dopo qualche ora al ragazzo è stato promesso un trasferimento dal Cie a una comunità nei pressi di Bari. Promessa che poco dopo si è rivelata un bluff per espellerlo con volo di linea dall’aeroporto di Bari-Palese a quello di Tunisi-Cartagine. Le guardie lo hanno deportato legandolo con del nastro adesivo sul sedile, sia in auto da Restinco all’aeroporto che in aereo.
Milano, febbraio 2017
resoconto del presidio sotto le mura del carcere di novara
Nella giornata di sabato 18 febbraio 2017 circa ottanta compagni e compagne dalla Lombardia, dall'Emilia, dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Toscana e dalla città di Novara, si sono ritrovati fuori dal carcere di Novara, per protestare contro la circolare del DAP che nega i libri in regime di 41 bis e contro i recenti trasferimenti dal carcere di Ivrea alle altre carceri piemontesi.
La giornata è stata preceduta da un volantinaggio ai famigliari, sabato 10 febbraio, durante il quale le guardie carcerarie sono uscite in gruppo dal carcere disturbando il volantinaggio. Non contenti, sono arrivati anche digos e rinforzi, ma si è comunque riusciti a volantinare ai parenti che si recavano al colloquio e informare del presidio.
Al nostro arrivo, sabato pomeriggio, abbiamo trovato la strada che gira intorno al carcere chiusa da dei jersey sormontati da una rete metallica, appositamente installati lì e presidiati dalla celere, per impedire il giro intorno al carcere che, come sempre, ci teniamo a fare, per far sì che ci sentano tutti.
Per fortuna, il carcere di Novara non è così grande, quindi con l'impianto audio a disposizione siamo riusciti a farci sentire e ad avere qualche risposta da dentro.
Abbiamo affisso due striscioni: "Il carcere non è la soluzione ma parte del problema" e "41bis uguale tortura".
Gli interventi al microfono sono stati numerosi e hanno dato conto della campagna Pagine contro la tortura, sottolineando le condizioni sempre peggiori di chi sta al 41 bis, dopo la risposta della Corte Costituzionale che ha, di fatto, dato ragione al DAP (attendiamo le motivazioni per poter approfondire).
Fra gli altri interventi, quello di un collettivo di Novara ha comunicato l'intenzione di rilanciare una giornata di lotta nel mese di marzo, dedicata espressamente alla repressione, che in città è diventata particolarmente soffocante.
Ci sono stati vari momenti di battitura lungo la cancellata del carcere e anche qualche fuoco d'artificio, al grido di "Freedom, Hurriya, Libertà" e "Fuori tutti dalle galere, dentro nessuno solo macerie".
Alcuni tra coloro che non hanno potuto partecipare al presidio, hanno inviato contributi, che sono stati letti al microfono, come i compagni del collettivo sassarese S'idealibera e Nicoletta Dosio dalla Val di Susa.
Milano, febbraio 2017
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GALERE: NON UNA QUESTIONE PER POCHI
Solidarietà ai prigionieri in occasione del presidio che si terrà sabato 18 Febbraio sotto il carcere di Novara.
Il 18 Febbraio, sotto il carcere di Novara, compagni e compagne si troveranno sotto le mura di un’altra patria galera per esprimere solidarietà ai detenuti ed aggiungere un altro tassello alla lotta contro le carceri, in modo particolare contro la tortura del 41 bis.
Il presidio fa parte di una mobilitazione partita da collettivi e individualità all’inizio dell’agosto del 2015 quando prese avvio la campagna Pagine contro la tortura per denunciare e lottare contro l’ennesima privazione, riservata (per ora) ai detenuti in 41bis: divieto di lettura, sostanzialmente, divieto di leggere ciò che si vuole. Riprendendo, infatti, un provvedimento che oltre 10 anni fa era stato proposto dall’allora ministro della Giustizia Castelli, il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) ha disposto una circolare con la quale si vieta ai detenuti stretti in 41bis di ricevere libri o riviste dall’esterno, sia che questi vengano spediti, sia portati dai familiari o dall’avvocato.
Il DAP prevede che il prigioniero possa fare richiesta all’amministrazione carceraria che dovrebbe così far avere il libro richiesto al detenuto. Immaginate con quanta solerzia il carcere ha desiderio di far entrare libri in carcere, per di più se di un certo peso politico. Risultato, come dimostrano già i reclami dei detenuti in 41bis, i libri non arrivano.
Il presidio di Novara è, inoltre, un atto concreto di solidarietà verso le vessazioni e le torture subite quotidianamente dai detenuti: nell’ottobre scorso nel carcere di Ivrea i detenuti che protestavano vennero violentemente pestati e alcuni trasferiti e messi in isolamento.
Eppure, il divieto di lettura, i pestaggi compiuti dietro quattro mura, per di più se lontani dall’abitato, possono sembrare cose che riguardano pochi, chi le subisce o al più qualche manciata di individui solidali. Eppure la nostra terra, quella sotto i nostri piedi, ci racconta una storia diversa.
La Sardegna da sempre ha rivestito un ruolo centrale nello scacchiere carcerario dello Stato Italiano e non solo. Sin dalla fine degli anni ’90 le potenze Nato sancivano la necessità per gli Stati occidentali di dotarsi di carceri di massima sicurezza, preferibilmente isolate. A partire dal 2009, insieme alla circolare del DAP che sanciva la necessità per “I detenuti sottoposti al regime carcerario speciale di essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero all’interno di sezioni speciali e separate dal resto dell’istituto” si dava avvio al Piano Carceri: in Sardegna spuntavano come funghi 4 nuove carceri, più di 285 milioni di euro per 2.700 posti letto (1.500 per i detenuti provenienti da altre carceri), strutture dotate o di sezioni a 41bis o di sezioni AS.
Così come la Nato anni or sono decretò per la Sardegna un futuro di militarizzazione per il suo importante ruolo nel Mediterraneo, così ancora una volta l’isola venne scelta per diventare una terra di carcerazione. Basi e carceri, due tasselli di uno stesso puzzle, quello che delinea una nuova strategia degli Stati per il controllo capillare del sociale, per i piani di conquista di altri territori, per una logica sempre più introiettata in ognuno di noi che lo stato ci protegge.
Le basi, come le carceri, rappresentano una sottrazione di territorio alle popolazioni. Le basi, come le carceri, rappresentano l’uso e abuso della Sardegna agli interessi del capitale. Le basi, come le carceri, sono i due volti di una stessa occupazione militare.
Così come le basi assicurano la possibilità di organizzare i conflitti oltre mare, così le carceri rappresentano una funzione repressiva basata sull’isolamento totale dei prigionieri sia dal loro contesto di riferimento sia dentro le carceri stesse; una funzione di controllo poiché sono un oggettivo presidio militare sul territorio; una risposta all’immaginario securitario che ha come obiettivo quello di far del Regime speciale un Regime per tutti poiché le norme di inasprimento che ora vediamo solo per alcuni prigionieri saranno piano piano allargate a tutti gli altri.
Il carcere è parte integrante della ristrutturazione in atto del capitale, è il braccio armato che ci si sta stringendo intorno, le mura che aspettano di “accogliere” tutti quelli che si oppongono a questa guerra in atto.
La galera, dunque, è ancora questione per pochi?
SOLIDARIETA’ AI DETENUTI IN LOTTA
SOLIDARIETA’ AL PRESIDIO SOTTO IL CARCERE DI NOVARA
Sassari, febbraio 2017 - Collettivo S'idealibera
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Dal 2015, ormai in maniera "legittima" (come espresso recentemente dalla Corte Costituzionale) chi è sottoposto al regime carcerario 41 bis può ricevere libri soltanto acquistandoli per il tramite dei carcerieri; si va dunque a determinare il blocco di qualsiasi forma di stampa attraverso qualsiasi tipo di corrispondenza, il che restringe ulteriormente la socializzazione in carcere e la possibilità di relazione con l’esterno.
Come abbiamo avuto modo di affermare più volte, il 41 bis (e la sua progressiva estensione) si colloca tra quelle misure cosiddette "emergenziali" con cui lo Stato mira a formalizzare rapporti di forza a sé favorevoli: la ristrutturazione del sistema penitenziario in termini di individualizzazione del trattamento, la differenziazione tra i prigionieri e l'attribuzione di poteri sempre maggiori alla direzione penitenziaria ed alle guardie sono strumenti che mirano ad aumentare le capacità di gestione del potere statuale ed allo stesso tempo a far sì che questo sistema di barbarie venga progressivamente ritenuto naturale.
Il presidio sotto il carcere di Novara di questo sabato - a cui parteciperemo e che rilanciamo - sarà una nuova occasione per mobilitarsi contro l’isolamento che questa direttiva vuole ulteriormente amplificare, e contro l'azione degli apparati statali - sempre più pressante in ogni ambito della società e dei rapporti sociali - volta a disciplinare corpi e menti, piegandoli alle esigenze di uno scenario di guerra in atto che si dispiega sia sul fronte esterno che su quello interno.
"La criminalità consiste nella egoistica ricerca del profitto e del successo ad ogni costo, nella sopraffazione dei deboli, nello sfruttamento, e tutto ciò è roba vostra. Consiste nell’accettare il carcere diventando dei delatori, degli opportunisti, dei ruffiani per ottenere privilegi, concessioni, libertà anticipata, calpestando i compagni di pena, ingannando l’opinione pubblica, con falsi pentimenti, tradendo tutto e tutti e prima ancora se stessi. Io rifiuto tutto questo, anche se questo rifiuto mi costerà caro". (Sante Notarnicola al processo d’appello, Milano, dicembre 1971).
Perché saremo tutt* meno liber* finché resta in piedi una prigione!
I compagni e le compagne del CPA Firenze Sud
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Nei giorni scorsi è tornata più volte alla ribalta dei giornali locali, e non solo, la questione del carcere di Ivrea.
Dalle visite di Radicali e Sel, che denunciano pessime condizioni di vita all'interno della struttura, alla notizia di domenica 29 gennaio secondo la quale il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) avrebbe emesso un ordinananza di chiusura della cosiddetta "cella liscia", nella sezione di isolamento, e di interdizione dell" utilizzo della sala di attesa per le visite mediche".
I sinceri democratici propongono niente botte ma un efficiente impianto di sorveglianza, lo Stato cerca di metterci una pezza. Per non parlare della notizia riportata su Stampa e fogliacci locali vari dell'espulsione di un detenuto marocchino che, dopo aver guidato la rivolta nel carcere, avrebbe progettato un attentato ad Ivrea e dichiarato di voler sgozzare americani ed inglesi. Si tratta di un tale falso da far scomodare anche il Procuratore di Torino Spataro che dà smentita della notizia alla Stampa. L'articolo sarà pubblicato nelle ultime pagine con una risposta della redazione secondo la quale la notizia sarebbe giunta direttamente dal Viminale.
La disinformazione che galoppa, la paura del nemico arabo e barbuto che alimenta ogni genere di controllo e restrizione di libertà in una società marcia fino all'osso e colpevole della distruzione di interi Paesi, non solo in Medioriente ma ovunque nel mondo. Quello di cui invece non si parla sono le conseguenze che subiranno i detenuti coinvolti in questa vicenda. Perchè saranno proprio loro a dover pagare per il loro gesto di ribellione. Attraverso le corrispondenze mantenute con i detenuti, prontamente trasferiti a Novara, Cuneo, Vercelli, siamo venuti a conoscenza della richiesta di rapporti disciplinari e continuo isolamento che stanno scontando.
E' partita infatti la richiesta di regime 14 bis per Angelo Grottini, detenuto nel carcere di Vercelli, a cui già veniva ritardata e censurata la posta. Si trova in isolamento e al freddo. Surco Edoardo, trasferito nel carcere di Novara, si trova in isolamento e denuncia le condizioni della struttura sempre pessime. Non gli sono stati consegnati opuscoli, volantini e articoli di giornale. Dolce Marco, detenuto nel carcere di Ivrea, parla di una calma apparente scandita dalle frequenti tensioni con le guardie. Continua ad essergli negata una importante visita medica. Infine Matteo Palo, che per aver scritto la prima lettera di denuncia di ciò che era accaduto nel carcere di Ivrea, pur non partecipando alla rivolta, si é ritrovato in isolamento e gli sono stati impediti i colloqui con i familiari.
In generale il tentativo da parte dell'istituto di Ivrea e di tutte le istituzioni carcerarie, è di isolare e punire tutti coloro che hanno partecipato alla rivolta di quella notte.
Per noi poco importa quello che scrivono i soliti pennivendoli dei giornali locali e nazionali, i quali denunciano l'esistenza di una cella dedita alla tortura solo per dichiararla da ristrutturare o che spalleggiano i piagnistei continui degli aguzzini che lamentano carenza di personale (una squadra antisommossa contro un individuo limitato è ancora troppo poco!).
Continuiamo a pensare che le disuguaglianze di questa triste società non si potranno colmare infliggendo anni di carcere a chi infrange una legalità, fatta per mantenere in piedi i privilegi della classe dominante. A fronte di tale repressione ed occultamento dei fatti, sosteniamo inoltre che la rivolta accaduta ad Ivrea non sia l'unico obbiettivo raggiunto ma un inizio per infondere coraggio e speranza a chi è dentro, per continuare a lottare per la propria libertà.
febbraio 2017 - Ribelli canavesani, Castellazzo Assediato
Libri al 41bis, la Consulta avalla il divieto
La costruzione di un sistema carcerario disumano fa un notevole passo avanti. La Corte Costituzionale,ieri, ha ribadito la legittimità del divieto di ricevere e spedire libri per i detenuti sottoposti al 41 bis. Come si dovrebbe ricordare, si tratta di quel regime di "massima sicurezza" che lo Stato riserva a detenuti per reati di associazione mafiosa o per "terrorismo".
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, competente territorialmente per il carcere speciale di Terni, in seguito al ricorso di un detenuto.
La norma contenuta nell'art. 41 è una classica scappatoia che consente di annullare tutto il resto di un regolamento che si presenta ancora come "garantista" dei diritti dei detenuti, in quanto viene dato al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria – ossia al ministero – il potere di emanare circolari e direttive che vietano praticamente tutto.
La questione sollevata riguarda soltanto libri e riviste provenienti dall'esterno, inviati da parenti e amici, mentre teoricamente non colpisce il diritto a tenersi informati comprando, attraverso il carcere pubblicazioni di ogni genere. E questa limitazione consente per esempio al parlamentare del Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia, di gioire "democraticamente". "La sentenza della Corte è un respiro di sollievo per l'efficacia del 41 bis. Nessuno mette in discussione la possibilità del detenuto anche in regime di 41 bis di leggere e studiare, ma la possibilità che ciò avvenga anche attraverso la possibilità di ricevere dall'esterno o spedire all'esterno libri e riviste. Ma ci immaginiamo a quale mostruoso lavoro sarebbe stata costretta diversamente la Polizia Penitenziaria che avrebbe dovuto garantire che in nessun modo questo via vai di testi potesse contenere messaggi nascosti volti a mantenere in funzione la relazione criminale? Si pensi ai sodali che spediscano al boss detenuto Guerra e Pace".
Come si vede, la motivazione reale è semplicemente quella di scaricare la polizia penitenziaria di un compito ritenuto "gravoso". La libertà di comprare testi e riviste è però a questo punto seriamente limitata, perchè i libri acquistabile tramite carcere sono soltanto quelli in distribuzione al momento della richiesta. Dunque diventa impreovisamente irreperibile tutto ciò che è stato "reso" dalle librerie alle case editrici o ai distributori.
In secondo luogo, i detenuti più poveri (in genere quelli politici) non potranno avere accesso ai libri già comprati e magari rimandati a casa (c'è ovviamente anche un problema di spazio fisico nelle celle, oltre a limitazioni regolamentari al numero di libri e riviste che è possibile tenere con sè). E quindi un diritto teoricamente mantenuto diventa praticamente inesigibile…
Infine, si potrebbe disquisire a lungo sulla estensibilità a piacere della contestazione del reato di "terrorismo" (ogni paese del mondo, Italia in primo luogo) definisce "terroristi" con una certa facilità I propri oppositori politici. E anche quella di associazione mafiosa, da qualche anno, è diventata parecchio arbitraria. E' notizia di pochi giorni fa, per esempio, che la contestazione di questo reato è caduta per tutti gli imputati al processo di "Mafia Capitale" (da Alemanno a Carminati), fermi restando ovviamente tuti gli altri reati (corruzione, ecc).
Una dimostrazione empirica su come sia allo stesso tempo facile "evocare" determinati reati associativi e molto più complicato dimostrarli in tribunale. Mentre sulla sottrazione di diritti elementari come quello all'istruzione si può procedere d'autorità senza più incappare negli strali della Consulta.
9 febbraio 2017, redazione di contropiano.org
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“Art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario
La Corte costituzionale, nell’odierna Camera di Consiglio, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e lett. c), della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui consente all’amministrazione penitenziaria, in base a circolari ministeriali del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza, il divieto di ricevere dell’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa”. (Dal palazzo della Consulta, 8 febbraio 2017)
E’ dell’8 febbraio u.s. la notizia della decisione della Corte costituzionale di dichiarare legittima la direttiva del DAP circa il divieto di ricevere libri, stampe e riviste per le persone rinchiuse nelle sezioni di 41-bis. Di fatto tale divieto impedisce di studiare e leggere, quindi di trovare delle forme di evasione dalle quotidiane 23 ore di cella. Ore sempre uguali, giorni che si susseguono senza sosta e senza nulla che li differenzi l’uno dall’altro.
Ora il così detto “diritto” ha blindato tutto. Per buona pace di quei “sinceri democratici” che ricorrendo a legislatori e tutori dell’ordine democratico confidano nella possibilità di “ristabilire dei criteri di garanzia che siano, forse minimi, ma non del tutto "scriteriati". Insomma gli uomini e le donne sono pur sempre sotto l’egida della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, perbacco!“
Ebbene si sbagliano evidentemente. Ora i guardiani della costituzione, così beatamente lontani da quelle sezioni di 41-bis ideate, costruite e affinate al solo scopo di torturare per piegare la volontà delle persone rinchiuse per farne dei delatori, hanno mostrato il loro pollice verso e l’infame circolare non potrà più essere messa in discussione. Impossibili i ricorsi in quanto inutili eventuali accoglimenti da parte di magistrati di sorveglianza.
La guerra interna prosegue senza apparenti ostacoli e i prigionieri, si sa è storia, altro non sono se non ostaggi.
Non abbiamo mai confidato in quei loschi individui, che la vita altrui la conoscono solo attraverso codici, rinchiudendola in astratte categorie e che dopo aver sancito la legittimità della tortura, ritornano indolenti ai loro lauti banchetti, alla loro impunità e meschinità. Quindi per quanto ci riguarda non è finita qui.
Roma, febbraio 2017 - Rete Evasioni
LETTERE DAL CARCERE DI IVREA
Seguono due lettere dal carcere di Ivrea, la prima collettiva, che riprendono le ragioni delle proteste del novembre scorso e che testimoniano la volontà a continuare a lottare resistendo alle vigliacche ritorsioni dell’amministrazione penitenziaria. Non mancheremo di raccogliere questi appelli a cominciare da venerdi 31 marzo, giornata di mobilitazione sotto il carcere di Ivrea.
Noi sottoscritti, vorremmo esporre alcuni problemi significativi all'interno della casa circondariale di Ivrea, per cercare di far capire le condizioni di vita in cui siamo costretti a sottostare, premettendo che è giusto pagare per i propri errori, ma non è giusto perdere la propria dignità, essere neutralizzati e non poter accedere a nessun programma riabilitativo.
La situazione è grave, tanto che negli ultimi venti giorni si sono verificate tre tentate impiccagioni, che ovviamente nessuno sa, perché in questo istituto tutto viene messo a tacere. Senza contare i fatti di autolesionismo (gravi), che avvengono per cercare di essere trasferiti in tutti i modi. La vita qui è usurante, per il corpo e per la mente, porterebbe qualsiasi persona umana alla depressione e al suicidio. Detto questo vorremmo fare alcuni esempi facilmente capibili, sintetizzando il più possibile.
Il carrello del vitto non è a norma, in quanto non segue le normative HACCP: ogni alimento viene lasciato raffreddare a temperatura ambiente, giovando quindi alla proliferazione batterica (salmonellosi, sighellosi).
I materassi sono scaduti, pieni di muffa, sporchi e fradici, in più non vengono cambiati dal 2010, mentre la normativa parla di tre, massimo quattro anni di utilizzo.
Il dentista è assente, in pratica viene ogni anno bisestile.
La mancanza operativa dell'area educativa (con riservo di risposte, quando per caso li si vede nei paraggi del campo minato, cioè noi).
Vogliamo parlare delle buste paga, o meglio dello sfruttamento delle paghe mensili, che variano da quella porta vitto, che è di 110 Euro, se non sei definitivo, mentre per chi è definitivo è pari a 55 Euro. E così vale per chi fa le pulizie e per i cucinieri, che prendono 230 Euro mensili, per 10 ore lavorative.
I corsi di formazione vengono retribuiti solo dopo quattro o cinque mesi, ma con la pretesa che la presenza sia costante altrimenti rischi un rapporto disciplinare. Per non parlare poi dei prezzi del sopravitto, che noi acquistiamo settimana per settimana. I prezzi sono alti più del dovuto su ogni singolo prodotto: tre lamette 5 Euro, non ricambiabili. Ci sarebbe da fare una verifica tra prezzi interni ed esterni.
Si fa presente che non vi sono linee comunicanti con l'esterno, telefonicamente parlando, sufficienti alle necessità dei detenuti. Chi non è di nazionalità italiana ha maggiori difficoltà comunicative con i propri famigliari.
Non vi sono uscite di sicurezza in caso di incendi notturni, ci sono i finestroni senza aperture per i fumi tossici. Circa 20 giorni fa, nelle ore serali, con la chiusura di entrambi i blindati, si è verificato un episodio di incendi e appunto il fumo si spargeva nelle varie sezioni.
Il vitto lascia molto a desiderare, o meglio, forse non sono in grado di comporre ciò che arriva. Sarebbe da riguardare il "menù" dell'infermeria e la presenza dei dottori: per qualsiasi cosa prescrivono Brufen e Tachipirina.
Poi viene il problema della posta in entrata, il sabato non si riceve nulla e senza nessuna spiegazione logica.
Le udienze con direttrice e comandante sono come un sei al gratta e vinci.
Le celle, o meglio la metratura, è fuori norma per due persone.
La fornitura di carta igienica è di due rotoli al mese; poi ci sono due litri di detersivo, al mese e, ciliegia sulla torta, una spugnetta.
Per quanto riguarda il progetto di reinserimento, l'area educativa dice di avere le mani legate, perché non vi sono progetti con l'esterno, mentre noi abbiamo saputo che ci sono delle borse lavoro.
Le ripercussioni per chi intende manifestare le condizioni della detenzione e della struttura e di chi cerca di gestirla sono molto forti. Si chiede un serio e imminente intervento, ma questa volta con prospettive di sviluppo a favore e non con restrizioni a causa della segnalazione fornite.
Ci sarebbe anche da riguardare il momento con i parenti, nelle ore previste: chi viene da lontano e desidera effettuare quattro o cinque ore di colloquio può farlo dalle 9 alle 12 mentre i parenti li fanno uscire e attendere, dalle 12 alle 13, perché gli agenti devono andare a pranzo, mentre sarebbe molto più logico dare un cambio e non lasciare anziani e bambini fuori nel periodo invernale, con pioggia o neve.
Non possiamo portare una torta o un panino che un bambino gradisce di più.
13 febbraio 2017
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Con queste mie parole voglio farvi capire come le istituzioni e in particolare la C.C. di Ivrea tratta le persone che come me hanno esposto i pestaggi e gli abusi subiti.
Da dopo il 24 Ottobre 2016 qui nel carcere sono stato escluso da tutti i corsi, dal volontariato e dal lavoro, se non che su turni faccio il lavorante delle pulizie, che per necessità famigliare ho dovuto fare.
Da allora continuano insulti e provocazioni nei miei confronti, fino a che, onestamente, l'altra sera del 4 febbraio, non ce l'ho fatta più ed ho risposto all'assistente. Lui davanti a tutti ha urlato: "è colpa sua se adesso abbiamo le mani legate e non possiamo più toccare nessuno" e si riferiva ai pestaggi del 24 ottobre 2016.
C'è stato un battibecco che si è portato avanti fino alla domenica mattina, quando di nuovo a parole l'assistente mi ripeteva le stesse cose e poi dicendomele proprio indirizzate a me. A quel punto gli ho dato del buffone, ma purtroppo costui, non potendosi attaccare a niente, perché sono una persona molto educata, ha esposto denuncia nei miei confronti per minacce, dicendo che gli avrei detto "ti aspetto fuori", ma questo non è vero. Gli ho solo dato del buffone, tutto qui.
Per fortuna sia la sera prima, sia la mattina dopo, ci sono dei ragazzi che possono testimoniare l'accaduto. Questa è un'ingiustizia per tutti i compagni che come me non approvano questo potere che le guardie hanno sui detenuti, ti tolgono quel poco di dignità che ti rimane, dopo essere finito qui dentro.
Un saluto, con affetto e stima. Matteo.
febbraio 2017
Matteo Palo, C.so Vercelli 165 - 10015 Ivrea (TO)
in memoria di claudio, torturato nel carcere di asti
Lo scorso 11 gennaio è morto Claudio Renne, uno dei detenuti che denunciò le torture subite nel carcere di Asti. Claudio era ricoverato alle Molinette dal 27 dicembre perché rifiutava di andare in ospedale, ma nella stessa giornata si era convinto e lo avevano trasferito; stava molto male.
Il 10 dicembre del 2004, Claudio Renne, all’epoca 30enne, di Novara, e Andrea Cirino, oggi 37enne, di Torino, reclusi nella casa circondariale di Quarto per reati contro il patrimonio, hanno avuto un diverbio con un agente della polizia penitenziaria. Tornato dai colleghi la guardia ha raccontato di aver subito un’aggressione da parte dei due detenuti. A quel punto è partita una spedizione punitiva contro Renne e Cirino, portati da un gruppo di agenti nella sezione isolamento, dove sono stati denudati e tenuti in celle prive di vetri nonostante il freddo. I due detenuti sono stati quotidianamente picchiati, insultati, privati del sonno e della possibilità di lavarsi, tenuti senza materassi, lenzuola, coperte e con il cibo razionato. Segue uno scritto in memoria di Claudio.
Ciao, mi chiamo Claudio Renne, sono morto l’undici gennaio 2017 alle Molinette di Torino dove sono stato trasferito dal carcere. Vi chiedo di essere ricordato perchè ho subito atti di tortura terribili in un carcere del nostro paese, nel 2004 ero in carcere ad Asti, un carcere denominato la piccola Abu Graib, dove i pestaggi, le violenze erano all'ordine del giorno, tutti sapevano della “squadraccia” composta da 15 elementi, di una ferocia inaudita, sicuri di non venire mai scoperti perchè protetti da un solido muro di omertà.
Non avrei mai potuto pensare che toccasse anche a me passare per le loro mani, un giorno mi sono messo in mezzo in un diverbio tra una guardia carceraria e un altro detenuto [Andrea Cirino, anche Lui ha subito inenarrabili torture]. La guardia racconta ai colleghi di essere stato aggredito, dopo poco mi vengono a prendere e da quel momento per me comincia l’inferno, mi portano nella cella "liscia" accanto alla cella di isolamento, mi denudano, era il mese di dicembre, i vetri alla finestra erano rotti, mi danno una vecchia coperta, senza materasso sono costretto a stare sdraiato per terra, dentro la stanza non c’era niente, ne un letto, ne sedie, ne un tavolo.
Sapevo che alcuni di loro facevano uso di droghe e alcool, ero terrorizzato. Cominciano da subito a picchiarmi, avevo i capelli lunghi stretti in un codino, dopo poco era tra le mani di una guardia, me lo aveva strappato di netto con un colpo fortissimo, a forza di botte ero pieno di lividi, le costole rotte, bruciature sulla pelle. Ogni volta che sentivo gli anfibi che percorrevano il corridoio mi stendevo a terra coprendomi la testa e rannicchiandomi per parare i colpi, non finivano mai, e poi tornavano e tornavano ancora, la notte se cercavo di riposare un attimo dallo spioncino arrivavano urla e insulti per tenermi sveglio, mi davano pochissima acqua, e il cibo era solo pane che intingevo nell’acqua, all’interno della stanza non c’era acqua corrente per lavarmi e neanche un cesso decente, non so più quanto é durato, non voglio ricordare troppo, ricordare le violenze atroci che ho subito mi fa ancora troppo male nel fisico e nella mente.
Un giorno é arrivata una donna, forse un’assistente, mi fa portare in ospedale, partono le indagini, per paura, non volevo denunciare le torture, ma poi l’ho fatto, non potevo stare zitto davanti a tutta quella mia sofferenza e sapendo che questi pestaggi erano all’ ordine del giorno.
Adesso vorrei non essere dimenticato, spero che si continui a chiedere a gran voce la legge sul reato di tortura, sono 27 anni che aspettiamo, intanto continuiamo a masticare rabbia pensando ai torturatori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto a Genova, ai morti ammazzati dallo Stato nelle carceri, ai torturatori che picchiano cantando “faccetta nera”, passerà ancora tanto tempo, chi é torturato, affamato, privato di ogni diritto, ha paura e la paura fa comodo a padroni, governi e servi dello Stato, é il più potente dei sistemi di controllo, la paura ci toglie la libertà, la dignità, il coraggio. A proposito, nel mio caso dieci guardie carcerarie sono state assolte, per le altre cinque nessuna condanna: la tortura in Italia non esiste ma i torturatori si..
febbraio 2017
Pinuccia, Santo Stefano Belbo (Cn)
milano-opera: Contro l'isolamento
La mattina del 1° marzo una decina di compas ha raggiunto l'aula del tribunale di sorveglianza nel palazzo di giustizia di Milano dove era fissata, dallo stesso tribunale, la “camera di consiglio” che avrebbe dovuto esaminare il “reclamo” avanzato dal compagno Maurizio (Alfieri) contro l'isolamento 14bis-ter in cui è chiuso nel carcere di Opera dal novembre scorso su decisione della direzione di quel carcere. In udienze “non penali”, come questa la presenza del pubblico non è ammessa. Ci siamo allora fermati nel corridoio.
Maurizio è stato tradotto dal carcere al tribunale, ma non l'hanno portato in aula perché “non può presenziare in quanto sottoposto al 14bis-ter”, così ha specificato il presidente del tribunale all'avvocatessa che chiedeva spiegazioni sul ritardo dell'udienza. E, in seconda battuta, ha detto all’avvocatessa, incaricata da Maurizio della sua difesa, che era stato rimandato indietro a causa di motivi di ordine pubblico dovuti alla presenza nel corridoio di alcuni solidali. Infatti, già in prima mattinata, abbiamo visto che dirigenti dei carabinieri e della polizia sono entrati in quell'aula dove molto probabilmente hanno inventato con i giudici il pretesto per impedire di esprimersi contro l'isolamento nelle carceri dentro il palazzo che lo copre e legalizza.
Nel disporci a proseguire la lotta contro il carcere, sabato 4 marzo comunicheremo l'accaduto a chi si reca a colloquio con i propri famigliari e agli amici chiusi nel carcere di Opera.
Seguono aggiornamenti di Maurizio, che voleva fossero diffusi nella giornata del 1° marzo, e il volantino distribuito la mattina dell’udienza nei corridoi del tribunale.
Maurizio ci fa sapere di essere felice ad aver sentito i/le compagni/e e solidali che manifestavano c/o il tribunale il 1° marzo contro l'ingiusto 14bis che gli hanno applicato e che lui a testa alta si è dichiarato innocente, ribadendo che l'isolamento e il 14bis non fermeranno la sua ribellione contro uno sporco sistema fatto di torture-Abusi-Violenza e Illegalità. E se gli confermeranno il 14bis con le prove che Maurizio è innocente, allora il tribunale di sorveglianza darà conferma di essere complice di veri criminali, dell'illegalità e dell'ingiustizia.
Grazie a tutte/i i/le Compagni/e sorelle, fratelli e solidali che erano vicini a Maurizio, racchiusi nel suo cuore insieme a lui eravate tutte/i presenti in aula, avete scaldato il suo cuore che in questi quattro mesi e mezzo hanno tenuto al freddo. Ma Maurizio con la sua tenacia e forza d'animo ha sempre lottato contro gli scheletri nell'armadio dei suoi carnefici, senza se e senza ma.
Gli hanno bloccato centinaia di lettere senza un motivo, basta essere anarchici, a Maurizio basta sentirli/e oltre le mura per non sentirsi solo. Questo abbatte le sporche mura che lo vorrebbero sottomesso e remissivo. Ma Maurizio ricorda a costoro che: uscirà a fine pena a testa alta senza che mai si sia fatto calpestare la dignità, ed avendo sempre aiutato tutti con la massima solidarietà; ed è fiero di essere quello che è, un uomo a cui tutti vogliono bene e Maurizio non si sentirà mai solo.
Un abbraccio con ogni bene a tutte/i coloro che insieme a me il 1° marzo hanno scaldato quel freddo tribunale (marziale) di Milano per ricordare che le lotte contro le prevaricazioni non si fermeranno mai.
Per scrivergli:
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)
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Nel febbraio dell'anno scorso nel carcere di Opera, che rinchiude oltre mille persone (fra le quali un centinaio sottoposte al regime 41bis), ha preso vita una protesta contro la quotidianità devastante imposta dai carcerieri - dal direttore fino all'ultima guardia.
L'iniziativa è stata intrapresa dai prigionieri del 1° Padiglione che hanno scritto e diffuso, all'interno del carcere e fuori, l'urlo “Dalla Cayenna di Opera” dove sono esposte cinque richieste (riportate qui sul retro del volantino) che marcano il segno della protesta. A sostegno di quelle richieste, dentro, sono state raccolte immediatamente 128 firme.
Per tentare di frenare la mobilitazione, nel volgere di alcune settimane, la direzione ha chiuso in isolamento (14bis della durata di 3 mesi “prorogabili”) il pugno di ribelli che secondo sue stime erano 'a capo' della protesta. Invece, anche a causa della risposta repressiva, la lotta sia dentro sia fuori si è estesa e rafforzata, anche con una manifestazione attorno al carcere, nell’aprile 2016, tramite la quale si è riuscita a unire la lotta contro l'isolamento 'punitivo' 14bis alla 'Campagna Pagine contro la tortura' diretta, in particolare, a far ritirare il divieto per le persone sotto regime 41bis di ricevere libri dall’esterno.
La direzione del carcere di Opera, per rompere la comunicazione interna e con l'esterno ha aggredito la corrispondenza, adoperando censura e anche blocco sulle lettere in entrata e uscita, cestinamenti di opuscoli di movimento, aggravamento delle condizioni di colloquio con i famigliari, spostamenti interni mirati, isolamenti. Sul finire di novembre, la direzione del carcere ha rinchiuso in isolamento con un provvedimento di 14bis, senz'altro per 6 mesi 'prorogabili', il compagno Maurizio. Il pretesto è nato dal contrasto fra il compagno e le guardie, per il trattamento riservato a prigionieri 'disabili' chiusi nella stessa sezione.
Maurizio ha esposto un 'reclamo' al giudice di sorveglianza contro l'isolamento. Oggi, dopo oltre tre mesi, qui viene esaminato quel reclamo.
Siamo vicini a Maurizio, anche per respingere con lui le vigliacche architetture dei carcerieri, per mettere fine all'isolamento di ogni tipo e grado, per dare forza e realizzazione alle richieste dei prigionieri di Opera.
Milano, 1 marzo 2017 - Palazzo di giustizia
lettera dal carcere di caltanissetta
Nel ringraziarvi per tutti i testi e gli opuscoli che mi avete inviato, porgo un caloroso saluto a tutti/e voi "amici ci Olga".
Qui il tempo scorre come sempre, tra una lettura e l'altra e qualche richiesta di misura alternativa, che puntualmente viene rigettata, perché il soggetto è altamente pericoloso, anche se ha espiato il massimo previsto, per accedere a tale misura, cioè i famosi due terzi della pena; di permessi premio neanche parlarne, insomma qui vige la regola che il condannato deve espiare la pena interamente in carcere, altro che principio di rieducazione e reinserimento sociale.
La domanda è: "a che servono tutte ste leggi svuota carceri se poi non vengono applicate"? Certo c'è da dire che per quanto riguarda le carceri, l'Italia è divisa in due, da Roma in su c'è un sistema, da Roma in giù ce n'è un altro che è molto, ma molto più repressivo e assoggetto alle leggi anti mafia. Poco importa poi se si parla di reati comuni orbitanti nell'area di media sicurezza. Nell'attesa di tempi migliori, un saluto a tutti voi "amici di Olga".
12 febbraio 2017
Calogero Lo Monaco, via Messina 94 - 93100 Caltanissetta
lettera dal carcere di paola (CS)
Ciao carissimi amici miei di Olga, sono Momy Moustaid Mohammed.
Come state? E’ da tanto che non ci sentiamo. Oggi mi trovo in Calabria, al carcere di Paola, è una merda vera e propria. Voglio raccontarvi la storia del mio compagno di cella, si chiama Ben Mokhadr Mohamed, lui parla io vi scrivo: "ho una condanna di quindici anni e quattro mesi e sono da due anni mezzo al carcere di Paola. Siamo nel degrado umano totale. Qui una semplice visita oculistica è diventata un calvario; l'oculista mi ha dato otto tipi diversi di collirio, con cui ho perso la vista dell'occhio sinistro.
Vi chiedo di aiutarmi a pubblicare questo fatto, in tutti i modi possibili, magari anche su un giornale (come la Gazzetta del Sud), anche con il mio nome e cognome."
Aspettiamo una vostra risposta, a presto.
febbraio 2017
Moustaid Mohammed, via Paola Maria Quattrone, 1 - 87027 Paola (Cosenza)
Cartolettera di Davide dalla galera de Brukoli
Saludi kumpanz*s de Olga!
Mi auguro vi sia arrivata la mia cartolina, confermo invece la ricezione del vostro piego (Pinelli; il 119) Immancabile! (anche quando “scompare”).
Attendo la prossima deportazione per il processo del 9 marzo, e se dovesse essere ulteriormente rinviato va ancora meglio dato che è l'unica possibilità per recarmi in Sardegna.
Ringrazio i compagni, le compagne che hanno portato con sé una carica di forte autodeterminante solidarietà con la presenza solidale in aula a Kastedu, che hanno creato l'occasione per poterci conoscere fisicamente e scambiare le nostre complicità.
Sembra un piccolo passo, ma per me è stato vissuto come una sventata di libertà, come un salto dal muro di cinta, e non sia mai, potrà veramente succedere.
Spero sia arrivata la mia ultima lettera. Per il resto 'Fuoco ai palazzi del DAP!
Saluti Davide.
28 gennaio 2017
Davide Delogu, C.R. Brucoli, Contrada Ippolito, 1 - 96011 Augusta (Siracusa)
Lettera dal carcere di Massama (or)
Buongiorno cari amici! È da un po’ di tempo che non mi faccio sentire, ma non per colpa mia, in questi ultimi tempi sono stato giù di morale.
Purtroppo quando la pena è molto lunga, anzi che non ha una fine, dopo aver passato tutta la mia gioventù in carcere e non vedi neanche uno spiraglio di luce che possa aiutarti a uscire da questo posto buio, la mente comincia a distaccarsi da altri pensieri positivi. Prima ti aiutavano ad andare avanti e ti davano una speranza, per fare qualche prospettiva per il tuo futuro, adesso non si vede neanche una piccola apertura.
In questi ultimi mesi si è parlato dei convegni che si sono svolti in varie carceri italiane. Questi congressi sono stati portati avanti da persone molto illuminate. Queste persone, essendo dotate di una grande cultura, hanno capito come funziona il sistema carcerario in Italia.
La cosa più importante da evidenziare, negli istituti di pena italiani, è la mancanza d’integrità sociale, questo si può ottenere mediante assistenti volontari che operano all’interno del carcere, o con persone esperte che ti aiutano a relazionarti con l’esterno.
Nella maggior parte degli istituti di pena italiani, questa determinata funzione non esiste e mancano anche le attività ricreative: come scuole, palestre, corsi di apprendimento, lavoro con l’esterno. L’affettività familiare, sembra una cosa da niente, ma ti aiuta a superare qualsiasi ostacolo che cerca di turbare la tua vita in carcere.
Ho avuto modo di leggere qualcosa dei “Tavoli Generali” che si sono svolti in un carcere in Norvegia, precisamente nel carcere di Halden, in questo istituto di pena le cose sono assai differenti dai nostri penitenziari, nel senso che la forma d’integrità sociale nel carcere di Halden è molto superiore alle nostre carceri: spazi aperti, biblioteche, scuole, campi di calcio, lavoro con l’esterno, celle aperte dalle ore 7:30, alle ore 20:30. I colloqui telefonici sono di una durata di venti minuti, poi vi sono dei colloqui straordinari che il detenuto può fare con la propria compagna, in Italia tutto questo non esiste, anzi, parlare di affettività nelle carceri italiane sarebbe come violare qualche forma di diritto.
In tutto questo mi sono chiesto: perché si parla sempre di Europa unita? Qual è il motivo che spinge i nostri rappresentanti italiani a dire il falso sul sistema carcerario italiano? Qual è il motivo secondo cui non si vuole integrare il detenuto?
Dietro tutto questo ci sono forse delle entità che sono superiori ad altri?
Forse quello che scrivo o penso sarà frutto di un qualche profilo psicologico sbagliato, perché è da più di 23 anni che sono in carcere. Aiutatemi a capire se ancora non ho compreso. Un forte abbraccio a tutti voi, un saluto a Davide Delogu.
febbraio 2017
Salvatore Pulvirenti, Loc. Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)
Lettera di Antonino da Sulmona (aq)
Carissimi compagni, vi spedisco questo scritto per favi avere mie notizie.
Nell'opuscolo ho letto in merito all'emigrazione e al dare accoglienza a chi fugge dalla miseria dei Paesi in guerra dell'Africa. Gente che lotta per la vita e per essere libera, ma, come sentiamo, in Europa si parla di rafforzare i confini e di alzare i muri. E tanti Paesi stanno decidendo per le espulsioni e usare la repressione. In Europa la libertà e la solidarietà umana sono parole vuote.
Non c'è bisogno di guardare lontano per accorgersi che al giorno d'oggi ingiustizie e sofferenza abbondano, dentro le carceri e ancora di più fuori nel mondo. Guerre e conflitti uccidono tanti civili innocenti e anche soldati. La violenza si abbatte su persone innocenti. Incidenti mortali e malattie invalidanti mietono vittime, senza guardare in faccia a nessuno, e non importa l'età o il ceto sociale.
I disastri naturali spazzano via intere comunità, come è successo nell'Abruzzo con il terremoto. Il pregiudizio e l'ingiustizia dilagano. E tanta gente è stata toccata da tutto questo e dalle sofferenze, come mostra la storia, gli uomini hanno causato dolori e portato molte sofferenze.
Sappiamo dalle persone sapienti, che esistono molte idee che, pur essendo diverse, sono ugualmente accettabili, e che l'apertura mentale arricchisce e protegge i rapporti umani e la solidarietà.
Il tema carcere ha il merito di obbligare al confronto, dare risposte, ma attualmente il carcere nel nostro Paese è una realtà drammatica; è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata.
La domanda da porsi è: le leggi, le istituzioni, credono veramente che nell'uomo carcerato c'è una “persona” da rispettare, da salvare, promuovere, educare e liberare? Il mio umile parere è che, per quanto aperto può essere il carcere, rimane sempre un luogo di sofferenza e di tortura. Guarda tutti quelli che si trovano al 41bis, sono privati di tutto e dei propri diritti e della propria libertà.
Nessuno deve stare in carcere. Gli uomini devono vivere tutti liberi. Cari saluti a tutti.
18 febbraio 2017
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L'Aquila)
Lettera dal carcere di Teramo
Ciao compagni! Avevo intenzione di farvi, attraverso uno scritto, un quadro generale sulla reale situazione delle carceri, ma anche questa volta non posso che concentrare questa mia su quanto accaduto nelle ultime settimane.
Come sapete il mio povero Abruzzo è stato messo in ginocchio dalla neve e dal terremoto e la provincia di Teramo ha pagato un prezzo altissimo. Sono stati giorni al limite dell’assurdo e ad oggi ancora non si torna ad una completa normalità. La nevicata record ha causato un black-out generale ed è saltato tutto. Niente luce, niente termosifoni, niente acqua calda, no pasti caldi e zero corrispondenza. Per diversi giorni siamo stati dentro un cubo di ghiaccio con una temperatura esterna, ma anche interna, attorno ai -6°. Il carcere di Castrogno (Teramo) sembrava una vecchia prigione della Siberia.
Credevamo fosse finita lì ed invece il 18/1 tre terribili scosse ci hanno fatto temere il peggio. Una sequenza paurosa.
A causa della neve caduta e il freddo pungente non era possibile andare al campo o ai passeggi, pertanto l’unica alternativa era restare in sezione. Il clima che si respirava era di un’imminente tragedia. Ad ogni sussulto, e questa cosa difficilmente la dimenticherò, vedevo gente sbiancare dalla paura. Senza ombra di dubbio, il terremoto è l’evento naturale più ingestibile; un istante sconvolge tutto.
La cosa che a me sinceramente ha preso male è stato non avere notizie da fuori. Fortuna la domenica mi è giunto un telegramma che mi avvisava che i miei stavano bene. Ho tirato un sospiro di sollievo.
Al colloquio però ho appreso che la mia amata città, Teramo, era stata colpita al cuore. Mia sorella l’ha definita una “città fantasma”. Pare che un terzo della popolazione si sia trasferita sulla costa e il mio timore è che si faccia la fine di L’Aquila, dove la ricostruzione è al palo e la popolazione rassegnata.
Da come ho capito, i compagni vogliono mobilitarsi e indire una manifestazione. Credo questa sia la migliore risposta nei confronti di una classe politica serva del capitalismo.
Bisogna sbattere i pugni sul tavolo ed esigere che i soldi siano investiti per la ricostruzione e la prevenzione del territorio e non per dei fottuti cacciabombardieri o opere inutili come la T.A.V.
E’ giunto il momento di ribellarsi alle politiche emergenziali fatte di appalti pilotati e di poteri dati ai manager. La ricostruzione deve partire dal basso, con il popolo ad amministrarla. Se così sarà, l’Abruzzo tornerà a vivere.
Con rabbia e amore, Davide.
4 febbraio 2017
Davide Rosci, Loc. Castrogno, Strada Rotabile - 64100 Teramo
lettera Dal carcere di Pavia, a proposito di libri
Buongiorno a tutto il gruppo dell'Associazione Ampi Orizzonti… ho ricevuto il vostro catalogo libri. Molti compagni me lo hanno chiesto in visione e quindi abbiamo fatto un unico elenco che vi invio, sperando che non siano troppi e sperando che non ci mandiate a quel paese …prima o poi! La butto sullo scherzo, vedrete voi il da farsi; ecco, comunque, in ogni caso lo facciamo perché non ci danno niente di niente e voi lo sapete bene. Dico e vi auguro ogni bene… quando sarò fuori, tra un anno passerò… grazie ancora da noi tutti.
Lettera di Paolo e gli altri compagni di sventura.
13 febbraio 2017
Paolo Littera, via Vigentina, 85 – 27100 Pavia
Lettera dal carcere di napoli-Secondigliano
[…] Ho ricevuto il libro “La Fame”, vi ringrazio del dono. La saggistica è il genere di letture che preferisco. Ho già conseguito nel lontano 1977 un diploma di scuola superiore, tuttavia ho continuato ad “arricchirmi” culturalmente, per soddisfare quel desiderio di conoscenza della vita, di me stesso, del mondo in cui vivo e della mia posizione rispetto a tutto questo.
Sono al 4° anno del Liceo di Scienze Umane. In questi giorni sto terminando il programma di sociologia. Sto studiando l’orizzonte teorico in cui si muove lo studioso David Riesman (1909-2002) che nel suo saggio “La follia solitaria” tratteggia quello che a suo giudizio è il tipo umano prevalente nelle moderne società occidentali, ovvero l’INDIVIDUO ETERODIRETTO… il quale incapace di affermarsi, di autodeterminarsi liberamente, perché massificato, spersonalizzato, bersaglio dei messaggi dei mezzi di comunicazione e inadatto a relazionarsi agli altri se non nella forma dell’agglomerazione, dalle pratiche di consumo: al cinema come al supermercato o allo stadio. Non hanno altra cultura se non quella della società di massa che li ha modellati e li manipola per fini ad essi estranei, cullandoli nell’illusione di un benessere o di un prestigio sociale che essi in realtà non possiedono. Quanti di noi detenuti si sono nutriti solo di televisione?! Senza mai spaziare in altri orizzonti e conquistare nuovi territori?
Le classi dominanti esercitano il potere anche sulle idee che circolano nella società in cui opera (è Marx a dirlo) perché dispongono degli strumenti (l’istruzione, il monopolio della cultura e dei mezzi di comunicazione, la censura) per affermare la propria concezione di realtà. La visione del mondo elaborata dalla classe dominante è in un certo senso “Prigioniera” della posizione sociale occupata da questa classe e dagli INTERESSI che le sono connessi, e quindi per questo non può essere obiettiva.
Quanti ragazzi oggi pensano che se non stanno su Facebook, non esistono, come se il valore fosse dato dai LIKE che uno riceve e non da altri parametri?
Leggere buoni libri (a parte che si hanno strumenti cognitivi filtri critici idonei) serve a ...spaziare, ad andare oltre. Leggere un libro significa entrare nel mondo da un’entrata diversa, come ha detto qualcuno. Un saluto e un abbraccio, Pierdonato.
“Non potendo la mia mente stare inoperosa, abituata a questi studi già dalla prima età, pensai che il modo migliore per confortare i miei dolori fosse di rivolgermi alla filosofia. Alla quale, sebbene fin da giovane, per desiderio d’imparare, avessi dedicato molto tempo…” (Cicerone, ‘De Officiis’, II, 1-2)
25 gennaio 2017
Pierdonato Zito, via Roma verso Secondigliano, 350 - 80144 Secondigliano (Napoli)
Lettera dal carcere di volterra (pi)
Ciao cari compagni di Ampi Orizzonti, scusate se non ho scritto più, ma come saprete sono stato trasferito qui a Volterra e ne sto vedendo di tutti i colori. Si sta abbastanza liberi, tutto il giorno; fino alle 17 puoi andare all’aria, sono tutte celle singole, e questo è buono, ma questa cella singola ti costa troppo. Già se non vai a scuola, qua non puoi stare. Questo carcere vuole tutti i detenuti burattini. La maggior parte dei detenuti fanno le marionette, se così si può dire, ma non tutti.
Le guardie come vedono che te ne freghi di loro e delle regole ti prendono in antipatia, come è successo a me. Ragazzi, vi dico che è un carcere assurdo, la spesa è uno schifo, non ci sono anticipi; carne, pesce, surgelati, latticini passano ogni 15 giorni. Non c’è nessuno che parla, sembra che lecchino tutti.
Da quando sono qui (arrivato da Livorno), mi sono arrivati 2 pacchi da casa, il primo è passato tutto, e vi dico, appena arrivato avevo 2 caffè in borsa che a Livorno non mi avevano consegnato; qui me li danno e mi dicono che entrano. Mi arriva il primo pacco, mi danno tutto; quando arriva il secondo uno stronzo inizia a fare storie di tutti i tipi, io mi incazzo di brutto perché era quello che mi diede il caffè appena arrivato. Fatto sta che alcune cose non me le dà e alcune me le dà dopo 5 giorni, compresa la roba da mangiare; non so se lo ha fatto perché gli ho risposto a muso che voleva fare il padrone. Un’altra volta gli chiedo il sapone per i panni e lui mi dice: “tu i soldi ce li hai?”, “Io ho i soldi, bastardi che non passate nulla.”
Ragazzi, ho avuto tanti episodi qui con questi esseri. Vi ricordate che vi ho detto della disoccupazione (accumulata come lavorante nel carcere di Livorno). Giace da 5 mesi, quando vado a richiederne il versamento mi guardano con odio come se si sentissero di una classe più alta.
Ragazzi, grazie dei libri e dell’opuscolo, vi seguo sempre, mando un saluto a Sebastiano Del Re e un abbraccio a tutti voi. Non un passo indietro!!!. Cristian.
febbraio 2017
Cristian Pineto, via Rampa di Castello, 4 - 56 048 Volterra (Pisa)
Alessandria: distrutte vetrate del carcere
Al compagno anarchico prigioniero in AS2 nel carcere Alessandria è stata fatta scontare una settimana di isolamento dopo la distruzione delle “gelosie” cioé dei pannelli opacizzanti e i vetri delle finestre dell’ufficio delle guardie di sezione.
Di seguito il testo dell'anarchico prigioniero Marco Bisesti, da una sua corrispondenza del 1 gennaio 2017 (ricordiamo che la posta del compagno è sottoposta a censura e conseguenti ritardi) e un comunicato di solidarietà dal compagno anarchico Alfredo Cospito, prigioniero in AS2 a Ferrara.
Irrimediabilmente sui sentieri inesplorati e iconoclasti di una vita libera, venerdì 30 dicembre, ho messo insieme gioie e rabbia di cui continuerò sempre a far tesoro e le ho scagliate contro i vetri delle finestre dell’ufficio delle guardie di sezione.
Mai pago, una volta in cella ho distrutto le “gelosie” installate da un mese, riguadagnando un pezzo di cielo.
Nessuna causa scatenante, nessuna goccia che ha fatto traboccare il vaso ricolmo di frustrazione. Pura coscienza. Atto di resistenza se letto in una restrittiva dinamica guardie/prigioniero, in realtà ennesimo contributo di panorama di attacco anarchico che continua a manifestarsi fuori e dentro le prigioni.
Niente da chiedere. Tutto da prendere.
Marco Bisesti, strada Alessandria 50/a - 15121 S. Michele (Alessandria)
Mi sono arrivate notizie frammentarie che nel carcere di Alessandria Marco si è opposto all’istallazione delle bocche di lupo distruggendo alcuni suppellettili negli uffici degli sbirri.
L’inquisitore Sparagna ci ha già abituati al suo rimestare nel fango, sono già 5 mesi che con la scusa che Marco oggi è il compagno di vita della mia ex compagna, nel tentativo di dividerci ha tenuto di fatto in “isolamento” Marco da me e gli altri suoi compagni per la “paura” assurda e pretestuosa di mie ipotetiche ritorsioni.
Cosciente che non basta sparare nelle gambe di un potente per diventare un anarchico nel vero senso della parola, un uomo libero da sessismi e machismi di sorta. Cosa che sfortunatamente sono ancora lontano da diventare.
Ribadisco la mia amicizia per Marco che è stato e rimane mio compagno. A lui tutta la mia solidarietà rivoluzionaria, nella speranza di poterlo riabbracciare al più presto.
Forza compagno! Sempre per l’Anarchia
Alfredo Cospito, via Arginone, 327 - 44122 Ferrara
febbraio 2017, tratto da informa-azione.info
Daniele Cortelli, compagno anarchico arrestato in seguito alle perquisizioni per l'operazione Scripta Manent, e per il quale dopo l'arresto si è aperta un'indagine per 270 solo nei suoi confronti da parte della procura di Roma, è stato scarcerato.
firenze: NON CHIEDETECI LA PAROLA
A proposito degli arresti del 31 gennaio
“Non chiederci la parola che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Questo solo oggi noi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”
Sono tempi cupi, e non solo a Firenze.
Da una parte un’umanità per tre quarti annegata che muore di fame, bombardamenti, embarghi, controlli militari e di polizia, detenzione e internamento, lavoro salariato e migrazione forzata, razzismo e frontiere. Dall’altra un’umanità per tre quarti cloroformizzata, che a volte cerca di battersi contro una vita sempre più miserabile, più spesso abbocca alle sirene del potere. Odio tra poveri, riverenza per i padroni, diffidenza verso chi si ribella. A Firenze come altrove, mentre si trasforma la città in una macchina per far soldi con l’industria del turismo, chi rovina la cartolina deve essere bandito. Caccia al povero, allo straniero, al sovversivo. Cacciatori per le strade, con le divise d’ordinanza: blu, nere, grigie, mimetiche, mitra a tracolla. Il centro storico ormai vietato ai cortei, sistematicamente accerchiati o direttamente caricati. I fascisti si organizzano, aprono sedi, pub, librerie: di giorno aizzano alla guerra tra poveri, italiani contro stranieri; di notte, nella misura in cui non viene loro impedito, la praticano a colpi di coltello e spranga.
Chi non accetta tutto questo deve essere ristretto e rinchiuso.
Il 31 gennaio, sull’onda del noto “botto” di Capodanno di via Leonardo Da Vinci – “botto” che però non rientra in questa inchiesta – la Digos fiorentina ha dato il via all’ennesima operazione repressiva, entrando in diverse case, rastrellando decine di compagni per strada e notificando 10 misure cautelari ad altrettanti anarchici ed anarchiche. L’accusa principale che viene loro mossa, contornata dalla contestazione di altri reati, è di “aver costituito un’associazione a delinquere per diffondere la propria ideologia”. Due compagne, Carlotta e Filomena, indicate come “cape”, e un altro compagno, Michele, vengono messi agli arresti domiciliari, mentre per altri e altre sette vengono disposte restrizioni (obblighi di dimora, di rientro notturno o di firma variamente combinati).
Con un numero enorme di uomini – si parla di 250 – la polizia irrompe a Villa Panico per sgomberarla, ma trova un posto già abbandonato, un’avventura già conclusa e una fioriera che pensa bene di far brillare. È lo spettacolo della repressione.
Poche riflessioni, poche parole, ma fatti che parlano quasi da soli.
Accade, a Firenze, in piazza S. Ambrogio, che alcuni compagni che mettono un banchetto contro guerra e esercito per le strade vengano accerchiati e portati via dalla Digos, non senza recalcitrare. Per il codice penale, è reato di resistenza a pubblico ufficiale. Non chiedeteci la parola.
Accade, a Firenze, al termine d’un concerto sul Lungarno Dalla Chiesa, che il rifiuto di declinare le proprie generalità scateni decine e decine di sbirri contro i partecipanti, colpevoli d’essere ancora vivi e solidali. Ne nasce una rissa. Per il codice è resistenza pluriaggravata. Non chiedeteci la parola.
Ma accade anche che alcuni si organizzino per occupare le case e difenderle, per contestare militari e forze dell’ordine, impedire il dilagare della violenza fascista, nel solo modo possibile: agire direttamente contro l’oppressione. Accade che le sedi fasciste ricevano la critica della vernice, del mattone e della bomba-carta, o che la solidarietà per gli arrestati del Lungarno invada le strade di San Frediano un 25 aprile, senza chiedere permesso e lasciando sui muri il proprio segno. Per il codice, prendere parte o anche solo difendere apertamente certi fatti, è associazione a delinquere.
Ma su questo, due parole le diciamo.
Ciò che non siamo è una misera associazione gerarchizzata. Non siamo né servi che votano senza muovere un dito, né gregari che aspettano gli ordini dei capi o delle “cape” per agire.
Ciò che non vogliamo è passare la nostra vita a lasciarci sfruttare e comandare. Per questo non piangiamo quando ai nostri nemici torna indietro un po’ della loro violenza. Le lacrime le riserviamo a chi muore in cantiere, in caserma, in mezzo al mare, in carcere, alla frontiera; non certo alle vetrine dei fascisti, ai referti ipocriti degli sbirri o ai muri di una città che l’Unesco dichiara “patrimonio dell’umanità”, mentre è sempre più in mano ai soli affaristi e speculatori.
Ciò che non vogliamo, infine, è che il nemico possa dividerci, con la lingua di legno del codice penale. Non sappiamo se questi compagni e compagne abbiano commesso tutto ciò di cui li si accusa. Sappiamo solo da che parte della barricata lottano, e tanto ci basta per stringerci attorno a loro.
Per farla finita con questo mondo. Per aprirne, forse, di nuovi. Ma per questo, le parole da sole non bastano.
SOLIDARIETÀ PER FILO, CARLOTTA E MICHELE!
Solidarietà ai colpiti e alle colpite dalle misure!
Firenze, 3 febbraio 2017
Assemblea solidale senza capi né padroni
***
INTERROGATORI A FIRENZE
La repressione contro gli anarchici continua usando ogni mezzo a sua disposizione. L’obiettivo dichiarato è dare un nome a chi ha piazzato l’ordigno contro la libreria di Casapound nella notte di Capodanno. Inammissibile ammettere agli occhi dell’opinione pubblica la propria incapacità, le proprie responsabilità sull’accaduto, bisogna far vedere che lo Stato c’è. Rispondere a Roma, ne va della carriera di lorsignori.
E così dopo le perquisizioni del 1 Gennaio, la decina tra arresti e misure cautelari dell’ ”Operazione Panico” del 31 Gennaio, che ha citato l’accaduto nell’inchiesta ma non inserendolo tra i fatti contestati, adesso si passa agli interrogatori.
Ad oggi (26 Febbraio) sono 7 gli inviti a comparire in questura recapitati nel corso dell’ultima settimana a 3 compagni e a coloro che si trovavano in un appartamento già perquisito e trattenuti per 12 ore alla scientifica all’indomani dei fatti. Chi non si è presentato spontaneamente è stato prelevato coattamente dalla digos e dagli agenti della squadra mobile, anche nel cuore della notte, per essere sottoposto ad ore di interrogatorio come “persona informata sui fatti”. Formula che non prevede assistenza legale e la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere, quanto denunce per violazione dell’articolo 650 c.p. (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) e minacce per accuse di favoreggiamento (in tentato omicidio) quantomeno fantasiose.
La prima considerazione che ci viene da fare è sulla totale arbitrarietà di questo strumento che si ammanta di una parvenza di legalità ed è ipoteticamente estendibile all’infinito, quanto l’idiozia di un pm o di uno sbirro. Non si è interrogati in quanto testimoni presenti sul luogo dell’accaduto ma in quanto condividenti la stessa idea di chi avrebbe commesso il fatto, la cosiddetta “matrice ideologica” su cui si basa la tesi dell’accusa, oppure, ancora più ridicolmente, essendo amici, parenti o conoscenti di anarchici.
La seconda considerazione è che non ci presteremo al loro gioco e che non lasceremo che questo squallido meccanismo si compia in silenzio portando ogni singolo compagno, amico, parente o conoscente che sia, di fronte all’inquisizione questurina, in balia delle loro pressioni, ricatti, minacce.
Basta intimidazioni, nessuna collaborazione.
febbraio 2017, da informa-azione.info
Lettera di Mauro da Lucca
Cari compagni-e di OLGa, dopo tanto tempo di piccole indagini sono venuto a sapere dove aveva la sede “Casa Pound” e finalmente l'ho trovato. Si trova all'interno delle mura di Lucca, è un garage, e c'è la scritta “L'artiglio – Spazio non conforme”.
E' uno spazio dove distribuiscono alimentari, ma li danno solo alle famiglie italiane. Fanno distinzione di razze, di colore di pelle. Fanno tutto sotto forma di volontariato, è probabile che facciano questa distribuzione anche a fini di acquistare più simpatie fra le famiglie proletarie e sottoproletarie. La loro è solo “propaganda politica”.
Come qualcuno ha già scritto su il loro muro bello pulito “I proletari e sottoproletari è cosa che non vi appartiene, quindi giù le zampe”, e una bella A cerchiata.
Sono contento che Daniele sia uscito e saluto Danilo e tutti i compagni nei circuiti AS2 e 41bis. Vi mando un mio più grande saluto – Anarchia Rivoluzionaria! Mauro.
21 febbraio 2017
Mauro Rossetti Busa, via F. Turati, 442 S. Anna – 55100 Lucca
UNA LUNGA MATTINATA: IL PRESIDIO A PIAZZALE CLODIO a roma
Lunedì 30 gennaio si è svolta l'udienza per la richiesta di sorveglianza speciale a carico di un compagno di Roma. Un presidio solidale si è raccolto nel piazzale antistante al tribunale di Roma sin dalle prime ore del giorno, con la volontà di far sentire la propria vicinanza al compagno in questione e di non lasciare nel silenzio l'ennesimo attacco a chi non abbassa la testa.
L'atteggiamento della polizia, schierata in forze, è stato dei più odiosi sin da subito. Disposte davanti all'ingresso del tribunale, le forze di pubblica sicurezza hanno impedito ai compagni e le compagne che volevano seguire l'udienza in aula di entrare, adducendo scuse che più passava il tempo più suonavano grottesche, tra rimpalli di responsabilità che cozzavano col loro stesso codice di diritto. Il compagno aveva fatto richiesta tramite il suo difensore, che l'udienza si svolgesse in forma pubblica, a porte aperte come si suol dire, richiesta accolta dalla corte che avrebbe dovuto garantire l'ingresso libero. Invece no, in una specie di delirio di potere, la polizia, schierata quasi a picchettare l'ingresso principale del tribunale, ha bloccato non solo i solidali ma tutte le persone che dovevano entrare nel "palazzo di giustizia", operando una ridicola quanto infame selezione all'ingresso che si basava sull'assunto che solo chi era in possesso di un ordine di comparizione davanti al tribunale potesse entrare, ma che riguardava in effetti più che altro l'aspetto di chi poteva sembrare persona amica o vicina al compagno. Nei fatti parenti e amici di altri imputati, persone che avevano impegni nel tribunale, persino fattorini che dovevano consegnare documenti, venivano bloccati, creando una situazione sempre più imbarazzante per le stesse forze di polizia.
La risposta dei compagni e delle compagne è stata da subito decisa e ferma. A chi rimasto all'ingresso esigeva di entrare, ricevendo la solidarietà di tutte quelle persone che subivano lo stesso abuso, si è aggiunta subito la risposta del grosso del presidio che scendeva sulla carreggiata stradale per denunciare l'intollerabile prepotenza e far sentire la propria determinazione e rabbia: bloccano l'entrata, blocchiamo il traffico... l'immediata e spontanea deduzione.
Dopo diverse decine di minuti concitati il blocco all'entrata è stato tolto, e nell'insistente paranoia degli sbirri solo 4-5 tra compagni e compagne sono state fatte passare per raggiungere un'aula in cui, letta una dichiarazione* dal compagno, l'udienza stava volgendo al termine.
Nel frattempo sulla piazza, mentre si decideva di riunirsi in assemblea per attendere l'uscita dei compagni e delle compagne, l'arrivo di altri contingenti di polizia circondava i solidali. La solerzia del questore del commissariato di Prati, arrivato a dirigere le operazioni di gran carriera, che con una certa goffaggine schierava le sue truppe tutt'attorno al presidio bloccando il traffico molto più di quanto non avessero potuto fare i compagni, riusciva nell'intento di far sembrare tutta la macchina poliziesca più miserabile di quello che solitamente appare. In evidente stato confusionale, litigando tra digos e questurini, lo spropositato contingente assediava la piazza, in cui ormai, finita l'udienza, il presidio aveva deciso di sciogliersi. Ma forse per giustificare tanto zelo, o forse per riaffermare la loro infamità, le forze di pubblica sicurezza impediva ai presenti di lasciare la piazza senza dare le proprie generalità. All'iniziale rifiuto di tanta parte della piazza di accettare questa provocazione, l'atteggiamento della polizia rimaneva granitico, o forse meglio dire stolido, come quello del somaro che non sente più ragioni.
Dopo ore di stallo, in cui il numero di celere schierato in assetto antisommossa e digos lievitava mentre il numero dei compagni misteriosamente diminuiva (ad indicare che l'intelligenza e l'astuzia hanno sempre ragione sulla bruta forza e sulle teste di legno), l'arrivo di un pullman della polizia segnava la svolta della mattinata.
Prendendo finalmente coraggio, la polizia su ordine del suddetto questore, procedeva al rastrellamento e alla messa al muro di quello che rimaneva del presidio intimando la consegna dei documenti o l'arresto, mentre nei dintorni della piazza scattavano cacce all'uomo in cui questurini inseguivano agenti della digos e viceversa, e gli uni agli altri giuravano di far parte della stessa organizzazione, sotto gli occhi increduli dei compagni che assistevano alla scena.
Dopo aver ottenuto almeno che chi non aveva documenti fosse lasciato in libertà, il presidio si scioglieva cedendo alla stupidità poliziesca e lasciando la piazza alla spicciolata. Ma il questore come disturbato da incubi ad occhi aperti, faceva seguire dai suoi plotoni i solidali fino ai bar vicini dove alcuni si ristoravano con acqua e vivande dopo il lungo sequestro, continuando a minacciare e intimare ordini senza senso, ai quali ormai nessuno più badava, finanche i suoi collaboratori, che prendendolo per braccio lo rasserenavano e lo riaccompagnavano in ufficio.
Non ci stupiamo della violenza e dell'abuso con i quali giorno dopo giorno un sistema in affanno amministra la sua iniquità. Siamo e saremo sempre a testa alta a fianco di chi lotta, solidali con chi non si arrende, sprezzanti verso la miseria umana di chi esegue gli ordini assassini che mantengono in piedi questo sistema di dominio.
Apprendiamo in serata, con immensa gioia, la decisione di RIGETTO della richiesta di sorveglianza speciale a carico del compagno... il nostro Pier.
Ringraziamo tutti e tutte le solidali che, presenti al nostro fianco in questi giorni, ci hanno sostenuto e accompagnato nelle iniziative di lotta.
Non scordiamo che c'è ancora molto da fare, né i compagni e le compagne, che colpiti/e da nuove o vecchie inchieste si trovano agli arresti.
1 febbraio 2017, NED-PSM
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Segue la dichiarazione letta in aula dal compagno sotto processo.
Nel corso degli ultimi anni un numero crescente di donne e uomini attivi nelle lotte sociali è stato proposto per la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.
Le questure vorrebbero utilizzarla per isolare alcune persone, disperdere alcuni gruppi, fermare alcune lotte. Si tratta di un vetusto arnese repressivo, che è stato ripescato dagli armadi del regime fascista e che getta un’ombra cupa sul nostro futuro. Chi tenta di legittimarlo nuovamente, come strumento di oppressione politica, mette a rischio la libertà di tutti e tutte. Respingere questo tentativo è giusto. Impedire che l’eccezione diventi norma è possibile.
Sono in quest’aula a testa alta. La mia è una precisa scelta di vita, come dicono le carte della questura, affinata in venti anni di lotte.
Mi sento in pace con la mia coscienza e fiero della mia scelta. Respingo con sdegno le accuse di prevaricare la libertà altrui, lucrare sulle attività politiche, utilizzare la violenza per elevare il mio rango.
Chi ha scritto quelle parole mi offende, perché mi raffigura ad immagine di quella parte di società che rifiuto. Sono solo di fronte alla corte, non di fronte alla vita. Sono uno dei tanti che l’ingiustizia, lo sfruttamento, l’oppressione li vive sulla pelle. Sono uno dei tanti che non si sottomette e prova a cambiare questo mondo. Uno di quelli che non fa finta di niente e non si gira dall’altra parte. A tutti questi, e a me stesso, farei un torto se non continuassi a dare il mio contributo.
Roma, 30 gennaio 2017
Pier
Trieste: Kabu trasferito dai domiciliari al carcere
Un compagno anarchico udinese da 8 mesi ai domiciliari a Trieste con le accuse di oltraggio e resistenza aggravata a pubblico ufficiale, il 3 febbraio 2017, circa due settimane prima della sua liberazione viene prelevato dalle carogne in divisa nella sua abitazione e portato nel carcere di Trieste, le motivazioni sono l’accusa di rapina e violazione del foglio di via da Udine. Per queste accuse viene condannato a un anno e nove mesi, ma per decidere con che modalità deve scontare la pena, bisogna aspettare che una commissione si riunisca e prenda la sua decisione, nell’attesa che trovino il tempo di riunirsi, vale a dire tra uno, due, tre, quattro o chissà quanti mesi, nel frattempo il magistrato prende la decisione di detenere il compagno in carcere.
Alla luce di tutto ciò, sabato 11.02.2017, saremo sotto il carcere di Trieste (via Coroneo) per portare la nostra solidarietà al compagno costretto agli arresti.
Per scrivergli: Alberto Casonato, via Coroneo 26, Trieste
febbraio 2017
Anarchici Udinesi, da informa-azione.info
Dalla dignità al riscatto
in piazza contro il sequestro di Aldo, contro lo schiavismo
Sabato 4 febbraio, piazza Sant'Agostino si riempie lentamente di lavoratori provenienti da varie città emiliane, lombarde e venete per dare una risposta all’attacco contro le lotte degli ultimi anni, simboleggiato (venerdì scorso) dall'arresto di Aldo militante del sindacato radicato fra chi lavora nella logistica nel nord-Italia. Aldo, anche alla mobilitazione immediata, è stato scarcerato il giorno successivo all’arresto - però sottoposto all’obbligo di dimora in Lombardia e firme.
Anche oggi la questura ha posto il divieto a manifestare. I lavoratori immigrati sono in strada a centinaia. La mobilitazione è segnata dagli striscioni con le scritte “Se toccano uno toccano tutti”, “Aldo libero!”, “Noi vogliamo i nostri diritti” … scandite a gran voce.
La celere blocca tutti gli accessi al centro con blindati alle spalle. La piazza ribolle sotto la pioggia e a tratti le mura dei palazzi storici della piazza paiono incapaci di contenerla. Il centro, a Modena, è da anni negato ai cortei, anche oggi la polizia non vuole transigere.
Il fronteggiamento dura un'ora. Poi al grido di “corteo corteo…” il corteo, composto da un migliaio di manifestanti si mette sulla strada, parte di corsa, qualche cassonetto viene tirato sulla strada per ostacolare l’inseguimento degli sbirri, dei loro mezzi corazzati da dove lanciano lacrimogeni, acqua e chissà che altro. Di bocca in bocca corrono voci di raggiungere la stazione per occuparne i binari.
È una festa. Con l’urlo “Sciopero sciopero”, ritmato sui binari che vengono bloccati per una mezzora. Nell’uscire dalla stazione il corteo accerchia un reparto di polizia rimasto, al grido di “via via la polizia” che cerca invano di caricare e tirare manganellate. Di bloccare il corteo che ora al grido di “Giù le mani dal facchino!”, cambia strada per dirigersi in piazza Duomo dove non si sarebbe dovuti arrivare – secondo ministri, prefetti, questori...
Il 'Tribunale del riesame' di Bologna ha in seguito confermato l' “obbligo di dimora” (in Lombardia) ad Aldo coordinatore nazionale del Si Cobas. Questa “conferma” fa parte del tentativo di colpire lo sciopero, in particolare, di criminalizzare la lotta dei 55 licenziati in Alcar Uno e Global Carni.
Spari di lacrimogeni per allontanare il picchetto operaio
All’alba di giovedì 9 febbraio davanti all’Alcar, macelleria industriale dell’azienda Levoni, nella cui sede centrale è stato organizzato l’arresto di Aldo, centinaia di lavoratori, non solo modenesi ma anche provenienti da Bologna, Milano e Piacenza bloccano entrata/uscita dei camion. Il picchetto operaio è stato sgomberato dopo diverse ore di blocco, sparandogli addosso lacrimogeni (proprio come hanno agito nell’ottobre scorso al C.A.A.T, il Centro Agro Alimentare contro chi bloccava ingressi e uscite), che vengono costretti ad allontanarsi e a essere rincorsi dalla polizia.
Continua comunque dentro lo stabilimento lo sciopero, per il reintegro dei 55 licenziati, che era al centro della trattativa con il SI Cobas, presa di mira, per tentare di metterle fine, anche con l’arresto di Aldo. Dopo un'assemblea il picchetto si scioglie, annunciando la prosecuzione della lotta e altre nuove iniziative: a partire da lunedì prossimo, quando al Tribunale del Riesame di Bologna si terrà l'udienza sul ricorso di Aldo per revocare obbligo di dimora e firme.
Ancora divieti, obblighi…
All’alba dello stesso giorno a otto compas di Modena è stato imposto l’obbligo di firma, ad altri due l’obbligo di dimora. Queste ‘misure’ prendono di mira compas impegnati anche nelle lotte per la casa, in particolare per la resistenza allo sgombero di due abitazioni avvenuta nel maggio scorso, come spiega un comunicato dello ‘Spazio Guernica’: “I compagni, per la Procura, sono rei di aver reagito all'ennesimo infame attacco ai movimenti di lotta per il diritto all'abitare… queste operazioni non fanno altro che tentare di nascondere …la mafia delle cooperative, la gestione clientelare e ovviamente il problema abitativo.”
febbraio 2017, liberamente tratto da Infoaut
cariche alla Toncar di Muggiò (MB)
Durante il picchetto del 15 febbraio, i lavoratori della Toncar di Muggiò (MB) sono stati aggrediti dai carabinieri in assetto antisommossa. Gli operai erano in presidio dalle 6.00 del mattino per chiedere l’applicazione del contratto nazionale e protestare contro l’atteggiamento discriminatorio del padrone, che ha deliberatamente deciso di escludere tutti i 65 iscritti SolCobas dalla produzione.
La Toncar di Muggiò è una legatoria che si occupa della produzione di figurine, album, carte e altro materiale stampato. Lavora soprattutto per commesse, ad esempio per gli album Panini e Cucciolotti. In genere questi progetti durano 4 o 6 mesi e per la parte restante dell’anno gli operai, assunti a tempo indeterminato dalla cooperativa Etika, vengono lasciati a casa non pagati mentre chi resta in fabbrica lavora anche 12 ore al giorno per terminare gli ordini.
A settembre dell’anno scorso è iniziata la prima vertenza contro il responsabile della cooperativa, accusato di autoritarismo e molestie sessuali da parte degli operai e delle operaie. Dopo diverse comunicazioni e tre incontri senza risultato, i lavoratori hanno deciso di passare alla denuncia e organizzare uno sciopero per chiederne le dimissioni. Lo sciopero di ottobre si è concluso proprio con l’espulsione dalla fabbrica del responsabile e con l’accordo di cominciare a trattare per l’applicazione del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL).
Sia sotto il contratto della logistica e adesso sotto quello della legatoria, il padrone non ha mai pagato straordinari, malattie, ferie, 13ma e 14ma. Questa situazione si protrae da diversi anni, in alcuni casi anche da una dozzina. La paga base è di € 6,50 all’ora, fuori da ogni norma vigente. La cooperativa non ha neppure versato il TFR in occasione dei continui cambi di appalto, inscenati per godere di nuovi sgravi fiscali ogni due anni. I sette incontri tenuti negli ultimi mesi non hanno portato a nessun risultato e la cooperativa Etika se ne lava le mani scaricando tutta la responsabilità sulla proprietà. A gennaio il SolCobas ha proclamato lo stato di agitazione convocando nuovi scioperi. Come risposta l’azienda ha convocato la UIL per avviare un nuovo (finto) cambio d’appalto e affidare il lavoro alla cooperativa Onejob, ad oggi inesistente…
Il 15 febbraio i lavoratori Toncar hanno organizzato il 5° sciopero con un nuovo picchetto davanti alla fabbrica. Il padrone ha risposto con la serrata, chiudendo lo stabilimento per l’intera mattinata. Gli operai non si sono fatti intimorire e hanno continuato la protesta, bloccando l’ingresso del secondo turno. A quel punto sono intervenuti i carabinieri aggredendo gli operai e le operaie in presidio per consentire l’entrata dei crumiri.
I lavoratori Toncar chiedono semplicemente l’applicazione del contratto, di ricevere lo stipendio anche in caso di ferie e malattia, di avere accesso a 13ma e 14ma così come previsto dal CCNL, di percepire una paga straordinaria per il lavoro notturno o festivo. Propongono di suddividere i carichi tra tutti i dipendenti, in modo da evitare situazioni in cui un operaio non percepisce lo stipendio e un altro è costretto a fare il doppio turno. Sono rivendicazioni basilari, ma non per Toncar, dove da anni il padrone sfrutta mano d’opera straniera fuori da ogni diritto e normativa vigente, spesso insultandola anche con appellativi razzisti.
Gli operai hanno già mostrato la propria determinazione a non cedere e il picchetto continuerà anche nei prossimi giorni, per colpire Toncar nel vivo della produzione. Ancora una volta si tratta di resistere un minuto più del padrone.
16 febbraio 2017, da spazio20092.wordpress.com
Milano: CI SIAMO!
Lo sgombero da via Fortezza non ci ha scoraggiati, nonostante il prezzo alto pagato in termini di espulsioni e fogli di via.
Siamo qui, senza distinzioni tra immigrati per guerre o ragioni economiche, tra italiani e no: siamo lavoratori, precari, studenti, disoccupati, vittime di guerre anche non dichiarate, come quelle economiche, le stesse che tutti stiamo subendo e che producono tagli alla sanità, alla scuola, alla casa e ai salari dei lavoratori.
Vittime di un sistema ingiusto, in piena crisi, che ha bisogno per sopravvivere di accaparrarsi nuovi territori su cui esercitare il proprio controllo economico e politico che si traduce in aumento dello sfruttamento, privatizzazioni, impoverimento delle condizioni di vita e concentrazione delle ricchezze nelle tasche di pochi. Vittime delle politiche e strutture internazionali (FMI e BCE) che determinano diseguaglianze sociali, povertà e guerre.
Ci siamo riappropriati del bisogno e diritto ad avere una casa e una vita dignitosa, per questo abbiamo occupato questo posto sfitto in via Carlo Esterle, 15 (zona via Padova).
Abbiamo occupato perché rifiutiamo i modelli e le politiche europee che regolano i flussi in base alle necessità di manodopera a basso costo. Politiche che, accompagnate da campagne xenofobe e razziste, ci espellono con violenza, quando non gli serviamo.
Siamo convinti che l'inclusione possa avvenire solo con un protagonismo diretto, quando in prima persona si decide del proprio presente e futuro.
La casa, per noi, non è soltanto la risposta ad un bisogno primario, ma la possibilità di creare percorsi di socialità e convivenza aperti alla città.
È per questo che il nostro spazio sarà aperto a studenti, lavoratori, a tutti coloro che in questa città vogliono lottare insieme per resistere a questo attacco generalizzato che colpisce tutti e per cambiare questo sistema di guerre e sfruttamento.
E' già attiva una scuola di italiano, perché comunicare è una necessità, e sono in programma incontri:
- di autotutela contro le normative che regolano la permanenza in Italia e le nuove norme in materia di daspo;
- con lavoratori della logistica per capire il mondo del lavoro e le lotte in corso;
la presentazione di uno spettacolo teatrale del Collettivo Mammadù - "Le scarpe dei caporali".
Rivendichiamo la residenza, documento necessario per rinnovare i permessi di soggiorno e diventare cittadini e lavoratori attivi, capaci di operare i cambiamenti fondamentali per la città ed il paese.
Il contributo e la solidarietà attiva è un' arma importante per realizzare un reale cambiamento e contrastare le politiche migratorie e sociali del paese.
È con questa consapevolezza che vi invitiamo a conoscerci e a condividere il percorso intrapreso. Vi aspettiamo in via Carlo esterle, 15 già da stasera... sono graditi contributi culinari e bevande!
febbraio 2017
“CI SIAMO” - rete solidale milanese
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Lotta contro gli sfratti a Cinisello Balsamo (Milano)
All'inizio di febbraio otto famiglie sostenute dal 'Movimento Casa' hanno occupato uno stabile composto da diversi appartamenti, da dove però sono state sfrattate dopo appena una settimana. Nell'ultimo anno in questa cittadina le famiglie spinte sulla strada sono state oltre cento (precisamente 107!), mentre gli alloggi abitativi vuoti sono oltre cinquemila (5.500).
Da questa realtà il 12 febbraio ha preso vita un presidio in centro città sulle parola d'ordine “Una casa per tutti; assegnazione di tutti gli alloggi sfitti; l'acquisto di alloggi popolari da parte del Comune (che di recente ne ha venduti 10); una soluzione dignitosa per tutte le famiglie senza casa”
Alla chiamata assieme alle famiglie sfrattate, la gran parte immigrate, hanno risposto diversi collettivi e singole individualità che hanno chiarito in diversi interventi quanto sia reale il “Piano sgomberi 2016”, ben 4.000, deciso dalla Regione Lombardia in accordo con la Prefettura, cioè polizia, carabinieri, guardia di finanza, esercito 'Operazione Strade Sicure'.
Insieme, oltre 100 manifestanti, famiglie sfrattate con bambini, in corteo si sono presa la strada per comunicare direttamente con la gente, con il Comune, per rafforzare la lotta, al grido di “Senza casa non ci stiamo – Basta sfratti Basta sgomberi- Contro il business dell'accoglienza Occupazione e Resistenza - Casa per tutti miseria per nessuno...”.
Milano, febbraio 2017