Indice n.118
APPELLO ALLA MOBILITAZIONE, COSTRUIAMO L’OPPOSIZIONE ALLA GUERRA
23 novembre: corteo al poligono di capo Frasca (cl)
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Egitto, il regime contro ogni dissidenza
carcere di ivrea: proteste, pestaggi, isolamento e trasferimenti
lettere dal carcere di milano-opera
Presidio davanti all’ospedale S. Paolo di Milano
SPINI DI GARDOLO, TRENTO: UN PRESIDIO E UNA RIFLESSIONE
Eneas vive! Presidio sotto il DAP
dal carcere di teramo: il terremoto, riflessioni, proposte
Lettera dal carcere di Avellino
lettera dal carcere di bancali (ss)
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
lettera dal carcere di San Michele (Al)
lettera da mauro, adesso fuori di galera
cremona: Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior
no tav fino alla vittoria!
firenze: CONTRO la REPRESSIONE, la SOLIDARIETà è LOTTA!
Cremona: antifascismo a processo
Roma: su quanto accaduto di recente alla Magliana
TORINO: ancora resistenza e violazione delle misure!
Il C.A.A.T di Torino bloccato dallo sciopero dei facchini
Insegnanti come farmacisti
APPELLO ALLA MOBILITAZIONE, COSTRUIAMO L’OPPOSIZIONE ALLA GUERRA
Pochi giorni fa i Ministri Pinotti e Gentiloni, dopo le dichiarazioni del segretario generale della NATO Stoltenberg in un’intervista a La Stampa, hanno dovuto ammettere che nel summit della NATO tenutosi a luglio a Varsavia, l’Italia si era impegnata ad inviare in Lettonia 140 soldati nell’ambito del definitivo dislocamento di quattro contingenti militari, da 4 a 5 mila uomini in totale, in Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, in funzione antirussa.
Il 13 settembre, il governo Renzi, dopo l’invio di forze speciali, al fianco di quelle britanniche, presso Misurata, a difesa dei pozzi e delle infrastrutture petrolifere, ha deciso di mandare in Libia oltre 300 militari, di cui 200 paracadutisti della Folgore, supportati da una portaerei, uno stormo di cacciabombardieri, diversi droni e tre basi militari (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella). La missione, ipocritamente spacciata come missione “medico-umanitaria” dal nome evocativo di Ippocrate, si configura a tutti gli effetti come una nuova avventura militare italiana in quel paese che l’aggressione occidentale del 2011 ha ridotto ad un pantano dove tutti contro tutti continuano tragicamente a combattere e morire. Non a caso, nella recente visita negli Usa, Renzi si è impegnato, su sollecitazione del suo capobanda, a fornire un impegno più consistente di truppe in Libia per poter partecipare da protagonista alla spartizione delle spoglie di quel martoriato paese.
Proprio in queste ore, nell’attacco portato dalla coalizione internazionale per la presa di Mosul in Iraq, i soldati italiani sono in prima linea. Si tratta dei 130 incursori del 17° stormo dell’Aeronautica dislocati a Erbil – che si trova a 80 chilometri dal teatro di guerra – e dei 500 militari impegnati a presidiare la diga di Mosul e a difendere la sede e gli uomini della ditta Trevi alla quale è affidata la messa in sicurezza dell’impianto.
L’anno prossimo l’Italia sarà nazione guida nel Vjtf (Very High Readiness Joint Task Force), la Task Force di azione ultrarapida, la "punta di lancia" in grado di intervenire in cinque giorni in caso di emergenza lungo la frontiera orientale. Il comando sarà quello di Lago Patria il Jfc Naples.
Infine, il governo, come è stato annunciato dallo stesso Renzi nel summit della NATO, per il 2016 ha aumentato del 20% gli investimenti nel settore Difesa proprio mentre continua a tagliare tutte le spese sociali.
Queste sono solo alcune delle notizie, le ultime, che riguardano l’operato del nostro governo e che anche ai più sordi e ciechi dovrebbero mostrare chiaramente il carattere imperialistico di questa proiezione internazionale dell’Italia, che nulla ha di difensivo né, tanto meno, di “umanitario”. Ma, nonostante la caterva di morti e di sangue a cui contribuisce l’attivismo renziano in politica estera, non abbiamo ascoltato una parola e meno che mai visto un moto di genuina opposizione al militarismo crescente di casa nostra.
Eppure lo scenario internazionale mostra un pericoloso accentuarsi del confronto tra grandi potenze sempre più vicino alla possibilità di degenerare in un conflitto militare generalizzato che, nell’”era nucleare”, sarebbe ancora più nefasto di quelli precedenti. Le aree di attrito, concentrate soprattutto nel vicino oriente, riguardano in realtà l’intero panorama mondiale.
Lo schieramento occidentale con gli Usa in testa ed i vari alleati della Nato, più o meno disciplinati, spinge per un drastico ridimensionamento delle aspirazioni di Russia e Cina a raggiungere la posizione di potenze globali, proporzionale al loro crescente peso economico e militare.
Dall’“esplosione” della crisi ucraina le esercitazioni a ridosso dei confini russi sono più che raddoppiate. Decine di migliaia di uomini e centinaia di mezzi hanno partecipato alle manovre aereo-navali nel mar Nero, al largo delle coste sia di Romania e Bulgaria che della Georgia, nel mar Baltico, al largo della Norvegia e delle Repubbliche baltiche, rafforzando di fatto la presenza navale Nato. E ancora, esercitazioni terrestri in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e nei Paesi baltici accompagnate da un crescente riarmo di questi Paesi, l'avvio del programma di dispiegamento della cosiddetta “Difesa antimissile” in Polonia fino al definitivo dispiegamento delle migliaia di uomini sopra ricordato.
Una provocatoria stretta militare sulla Russia che è tra le motivazioni del pericoloso schieramento militare da parte di Putin che ci avvicina, tragicamente, ad un punto di non ritorno.
La vicenda siriana è ancora più emblematica: fallito il tentativo di una rapida eliminazione di Assad e la successiva spartizione della Siria, grazie proprio alla scesa in campo della Russia, quella che è partita come una guerra combattuta per procura si sta via via trasformando nell’arena dello scontro aperto tra gli Stati Uniti, insieme ai loro alleati, e la Russia. Messa ormai da parte la finta collaborazione contro l’ISIS, la battaglia di Aleppo ed i massacri quotidiani della popolazione vengono usati come una clava per giustificare la necessità di un intervento diretto dell’Occidente. E così, mentre si evidenziano i crimini di Assad e i bombardamenti sui civili della Russia, che pure ci sono, mentre si indicano entrambi come gli unici responsabili del non rispetto delle tregue anche in presenza di prove evidenti contro i cosiddetti ribelli, si mette la sordina sui massacri compiuti da quegli stessi “ribelli” e dalle forze occidentali ed alleate. E se le bombe americane sull’esercito siriano e sui civili sono derubricate ad errori o a effetti collaterali, si tace totalmente sulle morti prodotte dalle sanzioni occidentali al popolo siriano, si tace sulla carneficina di curdi, della Siria e della Turchia, portata avanti dall’alleato Erdogan così come sul macello quotidiano che l’altro alleato, l’Arabia Saudita, sta portando avanti in Yemen con la collaborazione dell’aviazione statunitense e con le armi fornite dall’Italia.
Forse, come ammettono gli stessi “esperti” e commentatori occidentali, saranno i risultati delle elezioni negli USA a determinare tempi e modi; sta di fatto, però, che siamo davanti ad un crinale molto pericoloso.
Oggi a pagare questa feroce competizione scatenata dalle potenze occidentali, a pagare questa infame politica che sta seminando morte, fame e distruzione, sono i popoli di queste aree del pianeta; sono i milioni di profughi la cui unica colpa è fuggire da questi inferni, sono le migliaia di loro che muoiono nel deserto e nel Mediterraneo o finiscono imprigionati nei lager italiani ed europei o dei loro alleati. Tanto basterebbe per spingere ad una opposizione dura contro gli interventi militari in atto, ma ciò che stiamo rischiando è l’allargamento del conflitto a scala mondiale e non possiamo più rimanere in silenzio.
Non c’è lotta contro le politiche di austerity, contro il razzismo, contro il precariato o la “buona scuola”, che tenga se non ci battiamo, anche, o forse prima di tutto, contro le aggressioni ad altri popoli e contro il militarismo.
L’Italia è in prima fila in questa politica guerrafondaia e di aggressione, tanto attraverso la produzione e la vendita di micidiali armi di distruzione di massa (triplicata nell’ultimo anno), quanto attraverso la propria partecipazione alle missioni militari sempre più massicce e diffuse.
Con la scusa della lotta al terrorismo e dell’emergenza sicurezza determinata proprio dalla politica sino ad ora seguita, si procede anche qui, come negli altri Paesi occidentali, a passi da gigante verso una ulteriore militarizzazione dei territori, ed una asfissiante politica securitaria che in realtà serve come deterrente preventivo contro ogni manifestazione di opposizione contro il crescente sfruttamento ed il militarismo.
Il nemico, quindi, è in casa nostra.
Riteniamo che sia urgente una presa di parola ed una ripresa della mobilitazione contro questo clima di sciovinismo imperante e contro il militarismo crescente, per dissociarci ed opporci a questa politica di guerra dettata solo dalla logica di profitto che ci sta portando dritti verso un immane macello mondiale.
Invitiamo pertanto a far pervenire le adesioni per la costruzione di una mobilitazione da tenersi nel mese di dicembre in grado di ridare vigore ad un movimento contro la guerra ed il militarismo. In direzione della costruzione di questa mobilitazione si terranno iniziative di denuncia e sensibilizzazione sul tema della guerra.
Rete campana contro la guerra e il militarismo
novembre 2016, da it-it.facebook.com/retecontroguerramilitarismo.na
23 novembre: corteo al poligono di capo Frasca (cl)
Nel mese di ottobre come da prassi sono ricominciate le attività di esercitazione militare in Sardegna. La Rete No Basi né qui né altrove ha inaugurato questo secondo semestre con il campeggio antimilitarista tenutosi a San Sperate dal 6 ottobre e conclusosi con il corteo del 10 ottobre all’aeroporto di Decimomannu. Si è voluto con ciò sottolineare l’importanza di concentrarsi sull’asse Base Aerea di Decimomannu – Poligono di Capo Frasca, nella speranza di renderlo l’anello debole della presenza militare in Sardegna, e si vuole ora nuovamente volgere l’attenzione su Capo Frasca, per ritornare davanti a quei cancelli dove il 13 settembre 2014 si riaccese la fiamma dell’antimilitarismo sardo.
Il mese di novembre vedrà impegnati tutti i poligoni e la base aerea di Decimomannu in attività addestrative di tipo aereo piuttosto intense [...]
La struttura socio economica della Sardegna è sempre più legata mani e piedi all’industria bellica, al militarismo e alle sue diramazioni. Quest’isola prende sempre più la forma di un mega comparto industriale dove ogni aspetto della vita e ogni luogo è subordinato alla produzione: il fine non è né vivere né abitare, il fine è il prodotto, e il prodotto è la guerra.
Ne è un’ulteriore conferma il recente accordo tra Ministero della Difesa e marinerie dell’oristanese, a cui sono stati concessi indennizzi per le diseconomie causate dalle attività nel Poligono di Capo Frasca, come già a suo tempo erano stati concessi per i poligoni di Teulada e Capo San Lorenzo (PISQ).
Le marinerie dell’oristanese, il fiore all’occhiello delle marinerie sarde, diventeranno dipendenti stipendiati del Ministero della Difesa e, in quanto tali, potrebbero percepire l’idea di un’eventuale liberazione di Capo Frasca come il precipitare in un baratro. Non più pescatori di Marceddì o Cabras, non più marineria di Oristano o Terralba, ormai pescatori di Capo Frasca.
Non si ha mai la forza di affondare la boa a cui ci si aggrappa. Il militarismo è parte integrante del capitale e come tale recupera e si fa forte delle sue stesse contraddizioni. In Sardegna non è più un mero retaggio storico di cui non riusciamo a liberarci, e su cui dovremmo riflettere tra l’altro, ma è un vero e proprio treno in corsa da cui dovremmo avere il coraggio di scendere.
Per questi motivi la Rete No Basi né qui né altrove aderisce e partecipa alla manifestazione del 23 novembre a Capo Frasca con l’obiettivo di bloccare le esercitazioni e minare le “condizioni per operare con la necessaria serenità” tanto auspicate dai vertici militari.
Nessuna pace per chi vive di guerra!
Rete no Basi né Qui né Altrove
novembre 2016, da nobasinoblogs.org
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resoconto della manifestazione a Capo Frasca
Oggi, come per la stragrande maggioranza dell’anno, la violenza si abbatte sulla nostra terra oltre che in Palestina, Kurdistan, Siria, Donbass e decine di altri territori. Una violenza che ha un nome, NATO, ed un marchio di fabbrica a noi ormai fin troppo chiaro. Il “made in Sardinia” ha una filiera cortissima: la disoccupazione porta i sardi ad arruolarsi, lo spopolamento a regalare sempre più terra all’occupazione militare con i suoi poligoni e le sue caserme, le fabbriche producono bombe che possono essere testate a pochi chilometri di distanza dal luogo di produzione.
La giornata del 23 Novembre a Capo Frasca, invece, è stata una giornata di resistenza a quella violenza che subiamo ogni giorno della nostra esistenza. Numerosi autobus provenienti dai quattro angoli della Sardegna, macchinate partite da ogni paesino, emigrati che tornano non per le vacanze ma per lottare, 800 persone che si sono date appuntamento in un giorno feriale, sottraendo denaro al già magro stipendio per poter essere artefici del proprio destino. Un protagonismo di massa che ha avuto un nuovo impulso dopo il 13 Settembre del 2014 quando, dopo l’incendio dell’esercito tedesco ai danni della macchia mediterranea di Capo Frasca, migliaia di persone si sono riversate in quel lembo di terra aprendo varchi ed entrando nel poligono. Una continuità ideale con quella giornata che si è scontrata con la violenza della polizia messa a guardia di un sistema militare di oppressione che non possiamo più tollerare.
Dopo aver tagliato decine di metri di reti e filo spinato, alcuni manifestanti, divisi dall’età ma uniti da un ideale, hanno provato ad entrare all’interno del poligono venendo violentemente caricati dalla polizia con a capo il vice-questore Rossi evidentemente scottato dallo smacco subito solo un anno prima a Teulada quando bloccammo la più grande esercitazione militare della NATO dal dopo guerra ad oggi. La reazione è stata compatta e determinata permettendo così di salvare alcuni manifestanti che erano stati pestati dalle forze di polizia, perché come abbiamo appreso dal movimento NOTAV in anni di lotta: si parte e si torna assieme.
Nel corso di tutta la manifestazione non sì è udito nessun aereo in volo, nessun segno di esercitazioni in corso (e chi vive in quei territori sa che le esercitazioni si sentono bene). Pertanto possiamo dire di aver raggiunto l'obiettivo di bloccare l'attività programmata dai militari. Si sbracceranno i difensori della cultura della guerra al grido “abbiamo bisogno dei militari per difenderci” (da cosa ci chiediamo noi? Dai popoli che opprimiamo?), ancora di più si sgoleranno i nostri politici che hanno da tempo abdicato a qualsivoglia possibilità di riscatto della Sardegna asservendola alle logiche e agli interessi del ministero della difesa. Una politica che vediamo distante anni luce nel momento in cui dalle chiacchiere elettorali si è passati alla pratica, come l’ampliamento del molo di Santo Stefano che ha permesso il ritorno dei militari, mentre il governo si impegna per una spesa giornaliera di oltre 64 milioni al giorno per un totale di 23,4 miliardi di euro per il 2017, destinati a nuovi armamenti tra cui i contestati F-35, una seconda portaerei, nuovi carri armati e elicotteri da attacco. [...]
A Foras – Movimento Sardo Contro L’Occupazione Militare
28 novembre 2016, da infoaut.org
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma: solidarietà alle detenute nel CIE di Ponte Galeria
Sabato 29 Ottobre si è svolto il presidio al CIE che con cadenza mensile cerca di portare solidarietà alle detenute del lager romano. Non si fermano le proteste delle persone migranti rinchiuse nei lager di stato, così come incessanti sono quelle di chi, dai centri accoglienza ai campi migranti informali, dalle frontiere ai ghetti nelle campagne, lotta per la propria sopravvivenza e liberazione. Continuare a tornare davanti a quelle mura, con le nostre voci e i nostri corpi, è uno dei modi per rompere il silenzio e l’isolamento intorno a quel luogo. Un modo per rimanere sempre in contatto con le donne detenute, farci raccontare le loro storie e le sempre più difficili condizioni in cui sono costrette a vivere nel CIE, dal cibo pessimo alla quasi mancanza di assistenza sanitaria.
Proprio per questo motivo, come avviene spesso ogni volta in cui sanno che saremo lì fuori, i carcerieri si affrettano a chiudere le donne nelle loro stanze dal mattino, in modo che sia per loro più difficile ascoltare quello che diciamo e rispondere con le loro grida. Nonostante ciò, per qualche minuto, le recluse sono riuscite a farsi sentire al di là di quelle gabbie. Anche sabato 26 Novembre siamo tornati sotto le mura del CIE per un saluto breve ma rumoroso. Si è scelta la data di sabato per portare un contributo alla giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, riconoscendo come unica la lotta per l’autodeterminazione delle donne migranti, contro i CIE, le frontiere e la violenza dello Stato che opprime, reprime e imprigiona donne, trans e lesbiche per la sola ragione di non possedere regolari documenti. All’isolamento e al silenzio ai quali lo Stato condanna le migranti recluse nel CIE, è necessario continuare a contrapporre con forza la solidarietà e la voce di chi vi si oppone, tornando ancora sotto quelle mura.
Il prossimo appuntamento è per sabato 17 Dicembre ore 15 a Stazione Ostiense, per andare tutt* insieme sotto le mura del CIE e dimostrare la nostra solidarietà alle donne recluse.
Foggia, rivolta nel CARA di Borgo Mezzanone: si scrive “accoglienza”, si legge “controllo e sfruttamento”
Giovedi 27 ottobre, ancora una volta, i richiedenti asilo del C.A.R.A. (Centro Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Borgo Mezzanone, paese a 15 km da Foggia, sono scesi in strada per esprimere la loro rabbia contro le invivibili condizioni del centro e il sempre maggior numero di dinieghi alle domande d’asilo. Nella mattinata alcune centinaia di persone, secondo quanto scritto dai media, hanno danneggiato mezzi della polizia e parti delle strutture, accendendo dei fuochi all’ingresso del centro e costringendo gli operatori ad allontanarsi. Al solito in breve tempo è scattato l’intervento massiccio di Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, reparti antisommossa.
Queste le rivendicazioni alla base della protesta: riconoscimento della protezione internazionale a fronte di una percentuale di dinieghi sempre crescente, che condanna le persone allo sfruttamento selvaggio e alla miseria; possibilità di cucinare loro stessi i pasti, vista la qualità pessima del cibo che ricevono; erogazione del pocket money a cui hanno diritto, e non di carte telefoniche come avviene al momento, peraltro di valore inferiore a quello che gli spetta; garanzia di trasporto gratuito per recarsi a Foggia, come previsto dalla legge (al momento, ci sono soltanto quattro corse giornaliere per un solo autobus, per quasi duemila persone); riscaldamento nei moduli abitativi, visto l’arrivo del freddo e le conseguenze sulla salute dei residenti.”
Nel CARA vivono più di 1.300 persone (delle quali più di 500 hanno ricevuto un diniego alla domanda d’asilo), e nella baraccopoli che è sorta all’esterno del centro nel corso dell’anno sono presenti da 400 a 1.000 migranti. Anche i dati ufficiali forniti dalla Commissione per il diritto d’asilo di Foggia confermano il forte incremento delle percentuali di domande d’asilo respinte, passate dal 40,6% del 2014 al 62% del 2015: per migliaia di persone significa, dopo anni di attesa di un documento, essere gettate in una situazione di irregolarità che li renderebbe ancora più ricattabili sul lavoro, e rischiare ogni giorno di essere fermate, ricevere un decreto di espulsione e essere rinchiuse in un CIE e deportate. Solo nei primi giorni del mese di settembre, 16 persone sono state espulse perché non avevano presentato ricorso contro il rigetto della domanda d’asilo.
La lotta delle persone ammassate nel CARA, sulla base delle rivendicazioni elencate sopra, va avanti da anni. L’unica risposta delle autorità ad anni di proteste è stata la continua repressione e l’aumento del controllo. A settembre il ministro Alfano ha minacciato lo sgombero della baraccopoli, e sono stati stanziati più di 5 milioni di euro per la costruzione di una recinzione alta 4 metri, un impianto di video sorveglianza a raggi infrarossi per la rilevazione di presenze all’esterno del CARA, di tre telecamere all’interno della struttura, una pista carrabile per il controllo del perimetro del centro e il rafforzamento del posto di guardia, con un’ulteriore squadra antisommossa di 10 persone a supporto dei già presenti 60 militari dell’esercito e 15 agenti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Torino: fuochi d’artificio sopra il Cie
Lunedì 21 novembre, dopo qualche mese di rea assenza, un presidio fragoroso è tornato a farsi sentire sotto alle mura del Cie sabaudo. Una settantina di nemici delle prigioni, prontamente preceduti dalla presenza di tre cellulari della celere e dai soliti borghesi, si sono infatti trovati ieri in corso Brunelleschi per scongiurare il tedio domenicale e per far sentire un po’ di calore solidale ai reclusi dentro. Qualche slogan, poco fantasiosi a dir la verità, ma efficaci a ottenere uno scambio di voci continuo e sentito con chi è costretto a stare dentro a quelle infami mura perché senza carte in regola. Come farsi sentire, come comunicare con loro? L’immaginazione è ancora da mettere alla prova, ma certo è che la musica, i saluti al microfono, i racconti delle rivolte nei Centri negli ultimi anni e quelli di lotte alle frontiere hanno scandito un buon ritmo alle due ore passate là. E per fugare ogni dubbio riguardo l’ascoltabilità o meno di ciò che si dice fuori, oltre al solito impianto e a due grosse casse, si è deciso di portare anche un ripetitore di segnale radio così i ragazzi dentro hanno potuto sentire senza barriere architettoniche il folto gruppo fuori.
A conclusione delle due ore, il presidio si è mosso a ritmo di tamburo lungo il parchetto lineare che costeggia un lato della struttura, sia per far arrivare i saluti in diverse aree, sia per continuare a utilizzare gli strumenti che negli anni si sono trovati per l’interazione non solo vocale. Facciamo riferimento al lancio oltre le mura di palline da tennis con all’interno il numero di telefono per continuare a tenersi in contatto quotidianamente, foglietti di supporto morale e, quando accade, “qualche sostegno” alla rivolta. Il momento del lancio è sempre vissuto concitatamente da parte delle forze dell’ordine e anche questa volta si sono avvicinati minacciando la carica di alleggerimento.
Tuttavia nessuno si è allontanato, ma cori più forti si sono sollevati insieme al rush finale di qualche fuoco d’artificio a illuminare il crepuscolo.
Calais (Francia), la violenza razzista di uno “sgombero umanitario”: lottiamo contro rastrellamenti e detenzioni
Lunedì 24 ottobre è iniziato lo sgombero della jungle di Calais a opera dell’impresa Sogea (che fa parte del Gruppo Vinci). Mentre il grande spettacolo umanitario della distruzione veniva venduto con le immagini delle persone che hanno lasciato “volontariamente” il campo, molte di quelle che si sono rifiutate di lasciare Calais hanno dovuto subire controlli, arresti e trasferimenti nei centri di detenzione per migranti. Secondo le notizie circolate ieri, almeno 90 persone, sudanesi, afgane, eritree e siriane, sono state condotte nei centri di detenzione (CRA). Secondo un’informazione trapelata dal governo, anche la promessa di non essere deportat* in cambio delle impronte digitali si è rivelata una menzogna. Per due giorni ci sono state grandi proteste e cortei spontanei delle donne del campo, che chiedevano di essere trasferite in modo sicuro nel Regno Unito, ed un eguale trattamento per minori ed adulti. Qualche bus ha dovuto far rientro a Calais dopo che i fascisti hanno dato fuoco ad alcuni centri accoglienza (CAOs) dove pensavano sarebbero state trasferite le persone migranti.
Molte persone migranti salite sui bus, in contraddizione con quanto affermato dal governo, dichiarano di non aver potuto scegliere la destinazione verso cui essere trasferite. Molte case e strutture nella jungle sono state date alle fiamme, non è chiaro da chi. Alcune persone hanno preferito distruggere le proprie abitazioni pur di non lasciarlo fare agli operai. Molti bambini, le cui case erano state incendiate, hanno dormito fuori in pessime condizioni e una persona è rimasta seriamente ferita dal fuoco.
A Calais sono stati arrestati anche migranti minorenni che avevano rifiutato l’identificazione e non avevano il braccialetto identificativo rilasciato dalle autorità; la stessa cosa è avvenuta in Gran Bretagna, dove i pochi minori trasportati in questi giorni nel paese in base ad accordi sulla riunificazione familiare, invece di incontrare finalmente le loro famiglie, sono stati portati in un centro di detenzione.
Lo sgombero “umanitario” è finito. Ora arriva il momento dei rastrellamenti sistematici. Tutti coloro che sono rimasti nella zona dopo la prima fase del piano di governo sono ora nella fase successiva: in balia di orde di poliziotti che riempiono le strade di Calais. Sono in molti quelli che sono stati dimenticati e trascurati dalla “diagnosi sociale” realizzata dalle istituzioni (comprese le associazioni umanitarie): coloro che non hanno potuto accedere ai bus, i minorenni che non sono stati giudicati tali dai servizi sociali, e le persone che vogliono rimanere a Calais.
Rovereto: azione diretta contro le deportazioni
I media locali riportano che, nella notte tra il 22 e 23 novembre a Rovereto, sono state date alle fiamme 7 nuove macchine di Poste Italiane. Su un muro è apparsa la scritta "Mistral Air Poste basta deportazioni". Dopo la precedente azione avvenuta a Trento lo scorso 8 novembre, ammontano a 16 le auto bruciate ai danni di Poste Italiane, da mesi sotto attacco in tutta Italia per la deportazione di migranti attraverso la compagnia aerea controllata Mistral Air.
Anche nel torinese, a Carmagnola, nella mattinata del 2 dicembre è stata attaccata l'auto privata del direttore di una filiale di Poste Italiane. Verso le 11 del mattino, due individui sono stati visti allontanarsi dalla macchina poco prima del divampare delle fiamme dal cofano; in seguito sono state rinvenute due bottigliette riempite di liquido infiammabile lanciate sotto l'automobile.
Spagna: sciopero della fame nel CIE di Zona Franca a Barcellona e salti della frontiera a Ceuta
In questo mese di ottobre sono continue le proteste e le rivolte nei CIE spagnoli. Dopo la fuga in massa dal CIE di Sangonera a Murcia e la rivolta e lo sciopero della fame in quello di Aluche a Madrid, è la volta dei reclusi nel centro di detenzione ed espulsione della Zona Franca di Barcellona. Ieri 23 ottobre 68 persone, tutte algerine, tra le 182 recluse nel lager di Barcellona, hanno iniziato uno sciopero della fame, rinunciando al pranzo e alla cena e rimanendo in protesta nel cortile della struttura, rifiutandosi di tornare nelle celle. In vista della deportazione prevista nei prossimi giorni, i migranti hanno deciso di continuare la loro lotta esigendo la liberazione immediata.
Nel 2015 nei 7 CIE spagnoli di Algeciras, Madrid, Las Palmas, Barcellona, Murcia, Valencia e Tenerife sono state recluse 6.930 persone, 455 donne e 6475 uomini, e 2.871 persone sono state deportate. La maggior parte delle persone detenute nei CIE e deportate provengono da Algeria e Marocco. Gli/le adult* algerin*, in particolar modo, sono tra le persone che hanno la certezza di essere respinte o direttamente via mare o recluse nei CIE appena sbarcate in Spagna, e rapidamente deportate con voli aerei, in base agli accordi bilaterali vigenti tra i due paesi: per questo motivo le proteste di Murcia, Madrid e Barcellona hanno visto come protagoniste le persone provenienti da questo paese. Per portare solidarietà ai reclusi si è indetto un presidio fuori le mura del CIE.
Il 31 ottobre, nelle prime ore del mattino, 232 persone migranti sono riuscite ad entrare nel territorio spagnolo, dopo che circa 400 persone avevano provato ad entrare nella enclave di Ceuta in diversi gruppi. Per quanto riguarda il cosiddetto atteggiamento “violento” e “ostile” di “molti migranti armati di bastoni” denunciati dalla Delegazione del Governo Locale, occorre precisare che alcuni migranti avevano si bastoni e pietre, ma che li hanno usati per difendersi dagli agenti della Guardia Civil che hanno utilizzato qualsiasi mezzo per cercare di impedire loro di entrare in territorio spagnolo. Naturalmente grande pubblicità è stata fatta riguardo alla “violenza” dei migranti, mentre è stato ignorato dai media che 32 migranti sono stati feriti abbastanza gravemente da dover essere trasferiti con le ambulanze in ospedale, a Ceuta, dopo aver attraversato la frontiera ed essersi scontrati con la polizia spagnola che cercava di impedire loro di passare. Nel gruppo vi erano persone che hanno trascorso anni cercando di entrare in Spagna, e altri che erano stati illegalmente “restituiti” al Marocco durante tentavi precedenti di passaggio. Stavolta le forze di sicurezza del Marocco, a causa delle manifestazioni in corso che si svolgevano in diverse città del Marocco, non erano presenti in gran numero e gli immigrati sono stati in grado di trovare nuove tattiche e nuovi punti dove attraversare per sfuggire alle autorità marocchine. Tuttavia, ci sono stati anche dei “respingimenti a caldo” di persone che non sono state in grado di oltrepassare le prime due barriere. Le autorità spagnole hanno continuato a cercare la manciata di persone che hanno attraversato le recinzioni fuggendo poi verso le colline circostanti. I migranti sono stati portati al CETI, il “centro di permanenza temporanea per immigrati” a Ceuta, dove sono stati accolti dai loro compagni. A causa del sovraffollamento, oltre 100 migranti del CETI sono stati trasferiti nei centri di detenzione di Madrid, Valencia, Estremadura e Murcia in territorio spagnolo. Il CETI rimane ancora pieno oltre la capacità massima ufficiale, con molti migranti costretti a dormire in tende all’aperto.
Dopo le migliaia di persone entrate nel 2014 e nel 2015, la Spagna ha intensificato la sicurezza delle frontiere, grazie anche ai finanziamenti ricevuti dalle autorità europee, e ha approvato una legge che permette ai suoi poliziotti di frontiera di rifiutare ai rifugiati la possibilità di chiedere asilo. Parlando degli attraversamenti del 31 ottobre, l’Associazione spagnola della Guardia Civil ha detto che avrebbe fatto una richiesta urgente di potenziamento della forza lavoro Guardia Civil a Ceuta per la sorveglianza alle frontiere, alle coste e alle strade in considerazione della situazione.
Serbia: rastrellamento a Belgrado e marcia di protesta verso il confine
Il 15 novembre, dopo un rastrellamento della polizia, che ha portato più di 100 persone a essere rinchiuse nel centro di detenzione a Presevo, e dopo avere reso illegale la distribuzione di cibo, le persone che sono state intrappolate a Belgrado per mesi hanno deciso di partire in una marcia di protesta. Nessuno ha riportato quanto accaduto la notte del 10 novembre, quando intorno alle 03:00, 250 poliziotti e forze speciali hanno circondato i magazzini dietro la stazione degli autobus, dove i migranti avevano trovato rifugio negli ultimi mesi. I dipendenti del Commissariato, l’UNHCR e gli agenti di polizia hanno minacciato le persone dicendo loro che se avessero rifiutato di salire sugli autobus (senza conoscere la destinazione), sarebbero state espulse. Tutti/e coloro che non sono stati in grado di fuggire sono ora in un campo a Presevo, da dove le persone vengono regolarmente deportate in Macedonia.
Dopo questa operazione si è creato un clima di paura ancora maggiore, senza che le persone sappiano dove nascondersi, incapaci di addormentarsi in parte a causa del terribile freddo, ma ancora di più a causa della preoccupazione costante di essere arrestate e deportate. Perciò circa 150 persone l’11 novembre hanno iniziato una protesta pacifica marciando verso il confine con la Croazia. Nonostante le condizioni molto difficili, il freddo, e numerose botte ricevute dalla polizia di frontiera, le persone hanno di nuovo con grande forza iniziato ad alzare la voce contro la violenza del regime delle frontiere, per mandare un messaggio pubblico che continueranno la loro lotta per la libertà e la dignità. Dopo 35 km di marcia tra pioggia e vento fino a tarda notte, le persone hanno iniziato a cercare un po’ di riposo sotto un ponte autostradale nei pressi di Simanovci. A causa dell’umidità e del freddo è stato impossibile dormire. Seguendo gli ordini della polizia, il distributore di benzina, l’unico posto dove si poteva trovare un po’ di cibo, è stato chiuso per un’ora, e solo a una persona è stato permesso di entrare nella stazione con la polizia al seguito. Il Commissariato ha tenuto costantemente sotto pressione i manifestanti, dicendo loro che avrebbero dovuto tornare al campo, “il posto in cui devono stare”. Alle cosiddette organizzazioni è stato vietato di sostenerli in qualsiasi modo. Queste persone coraggiose hanno alzato la voce mostrando che non sono indifese, che non vogliono stare in fila aspettando la carità, che nessuno può togliere loro la dignità e quindi il Commissariato, l’UNHCR, e gli altri criminali faranno qualsiasi cosa per far fallire questa marcia di protesta. Questa protesta mostra anche il business dello stato e delle istituzioni statali e le bugie su quanto buono e sicuro sia per le persone. La marcia verso il confine è proseguita fino verso le 8 del mattino. Alcune persone non sono state in grado di continuare a causa di infortuni gravi.
Colleghiamo e uniamo le nostre forze per lottare insieme!
Bulgaria: rivolta nel campo profughi di Harmanli
Giovedì 24 novembre verso mezzogiorno, dopo più di due giorni di quarantena, una violenta rivolta è scoppiata nel campo profughi di Harmanli. Il campo era stato messo in quarantena in seguito ad una campagna stampa che segnalava malattie della pelle trasmissibili fra i residenti. Notizie false, diffuse per creare artificialmente tensione, secondo quanto riportato dall’Agenzia per i rifugiati bulgara. I migranti hanno protestato contro la chiusura del campo e per la libertà di movimento. La chiusura del campo era già nei piani a lungo termine delle autorità e una risposta alle continue proteste dei partiti di destra e dei loro sostenitori. I manifestanti hanno costruito piccole barricate che sono state in seguito incendiate. Dopo un po’, un cannone ad acqua è stato attaccato da diverse persone con le pietre. La polizia antisommossa ha risposto alla protesta bastonando i/le migranti e alcuni poliziotti sono stati visti mentre lanciavano pietre ai migranti in rivolta. Dopo un po’ la situazione è lentamente migliorata grazie soprattutto ad alcuni migranti che sono riusciti a calmare la folla. La rivolta è proseguita di nuovo durante la notte.
Il capo segretario del ministero dell’Interno bulgaro Georgi Kostov, ha dichiarato che più di 200 persone del campo sono state arrestate e la polizia ha fatto irruzione verso le 21 della stessa giornata in tre stabili in cui si trovavano dei/delle richiedenti asilo prevalentemente di origine afgana. Tutti gli uomini e i ragazzi sono stati picchiati brutalmente per due ore e le porte e le finestre della struttura sono state distrutte. Si parla di almeno 350 feriti. Un quindicenne afgano ha subito la frattura del cranio e si trova in gravissime condizioni, dopo essere stato indotto al coma farmacologico. Il ragazzo faceva parte di un gruppo che stava per essere trasferito nel campo profughi di Elhovo, scortato dalla polizia ma, accertata la gravità delle sue ferite, è stato prima visitato in un ospedale di Yambol poi trasportato nell’ospedale di Stara Zagora, dove è stato operato d’urgenza.
I controlli medico-sanitari nel centro di Harmanli sono iniziati da due giorni. Le autorità bulgare hanno annunciato e iniziato ufficialmente la costruzione di nuove recinzioni intorno al campo. Il governo ha inviato nel campo 60 militari dell’esercito, che si aggiungono ai già presenti 250 poliziotti antisommossa, per prevenire ulteriori proteste dei 3.100 richiedenti asilo presenti nella struttura, prevista per 2710 persone. Inoltre è stato annunciato che l’ex Centro di Transito di Pastrogor sarà trasformato in un campo chiuso. Gli ospiti afgani di Harmanli sono stati accusati dalle autorità di aver iniziato la rivolta, accusa che i media bulgari hanno prontamente riportato.
La SAR (l’Agenzia di Stato per i Rifugiati) ha dichiarato che le persone di origine afgana saranno rimpatriate in Afghanistan; per ora, a queste persone è stata offerta la deportazione volontaria e sebbene non siano state ancora decise le modalità. 40 persone hanno già acconsentito alla deportazione; chi si rifiuta, è minacciato di arresto. Per tutte le 18 persone (fra cui tre minorenni) arrestate e processate a Harmanli con l’accusa di aver fatto scoppiare la rivolta è stato confermato il carcere.
Ungheria, campagna di solidarietà: libertà per gli/le accusat* per il processo Röszke/Horgoš
Ci sono 11 persone sotto processo, accusate dal governo ungherese per la partecipazione ad una “rivolta di massa”. Sono state brutalmente picchiate e arrestate in un attacco della polizia antisommossa il 16 settembre 2015, presso il confine serbo-ungherese di Röszke/ Horgoš 2 (dove in seguito la recinzione è stata completata e il confine è stato chiuso), quando circa 5.000 persone protestavano per rivendicare il loro diritto alla libertà di circolazione. Queste 11 persone sono tenute in carcere da quel giorno, senza alcun sostegno. Uno degli imputati, Ahmed H., è stato accusato di essere il “leader” della protesta (solo perché stava parlando con un megafono) con l’accusa di “attacco terroristico” e sta subendo un processo separato. Almeno 3 degli imputati sono particolarmente vulnerabili, tra cui una donna di 64 anni e un uomo disabile in sedia a rotelle, entrambi feriti nella guerra in Siria. Anche se l’inchiesta è terminata e il processo è iniziato, cosa che dal punto di vista giuridico darebbe il diritto di attendere il processo fuori dal carcere, le persone imputate sono ancora tenute in custodia. Almeno 3 sono recluse nel centro di detenzione di Kiskunhalas e delle altre non si hanno notizie sul luogo in cui sono detenute. Nessun* detenut* ha accesso all’assistenza medica o psicologica.
Per quanto è noto solo le 3 persone vulnerabili si sono presentate davanti al tribunale, difese da un avvocato di Helsinki. Se il giudice le giudicherà colpevoli rischiano da uno a 5 anni di carcere e per l’uomo siriano che è accusato di “attacco terroristico” la pena può arrivare a 10-20 anni. Noi vogliamo che sia chiaro che non intendiamo criticare per questo atto assurdo e violento solo il governo ungherese, identificato come l’ala più a destra o il paese “malvagio” dell’UE, come molte delle cosiddette istituzioni statali “democratiche”, ONG e mass media fanno: il processo “Horgoš / Röszke” sta rivelando la realtà di un sistema in cui lo stato e la violenza della polizia non è mai messo in discussione, e in cui il denaro e le merci possono circolare liberamente, ma non le persone. Esse sono necessarie solo come manodopera a basso costo illegale o consumatori/trici. Questo è un appello all’azione. Le persone accusate hanno bisogno di sostegno al più presto.
Nessun* dovrebbe essere dimenticat* ! Unit* contro tutte le prigioni e le recinzioni! Libertà per gli/le 11 di Röszke! FERMARE la criminalizzazione delle persone migranti!
dicembre 2016, liberamente tratto da hurriya.noblogs.org e altre fonti
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Roma: sul corteo “No confini no sfruttamento” del 12 novembre
Sabato un corteo di circa 3.000 persone ha attraversato il centro di Roma, fino ad arrivare al ministero dell’Interno. Il corteo “No confini, no sfruttamento” è stato un fiume d’interventi e slogan gridati in diverse lingue. Ogni singolo contenuto veniva infatti tradotto per essere compreso da tutte le persone partecipanti.
Un corteo determinato da persone migranti che lottano nelle campagne, nella logistica, nella lotta per la casa e in alcuni quartieri di Roma, a cui si sono unit* compagn* curdi e solidali presenti dalla mattina in piazza, con un presidio parte di una mobilitazione, anche quella, a carattere nazionale; un corteo dove la componente “militante” dei cosiddetti movimenti e centri sociali è stata pressoché nulla, nonostante le adesioni che comparivano sul web. La cantilena “refugees welcome” e l’operazione politica dell’accoglienza dal basso ha probabilmente schivato il corteo, poiché di “vittime” non c’era neanche l’ombra.
Il corteo è partito alle 15:30 circa, poiché 5 bus provenienti dal sud sono stati bloccati all’ingresso di Roma dalle forze dell’ordine per perquisire tutte le persone a bordo. Era chiaro che l’intimidazione in qualche modo sarebbe arrivata, dato il clima di divieti che ha accompagnato la costruzione del corteo. [...]
Dall’assemblea svoltasi a Roma per organizzare il corteo, risultava chiara l’intenzione di raggiungere la città sede del potere politico del paese e voler manifestare anche nel caso di divieti, per rompere l’invisibilità delle centinaia di lotte quotidiane che, a suon di cortei spontanei diretti alle prefetture, proteste e rivolte nei centri di accoglienza, blocchi di stazioni, strade e fabbriche, hanno creato un rapporto di forza contro chi governa alcuni territori. Nell’assemblea, una delle poche a Roma dove gli interventi venivano tradotti per permettere a tutt* di comprendere il filo del discorso, il tatticismo è stato spazzato via dalla volontà, ribadita più volte, di lottare nonostante rischi e divieti, e dalla consapevolezza che si tratta di una lotta di lunga durata che riguarda la libertà di tutt* e non la risoluzione dei problemi di poch*.
Come compagni e compagne che curano le pubblicazioni di questo blog, abbiamo dato spazio e diffusione alla convocazione del corteo e, nonostante avessimo posto alcuni dubbi sul tempo molto ridotto per far crescere la mobilitazione a carattere nazionale, crediamo che la partecipazione alla giornata sia stata oltre le nostre aspettative. Crediamo infatti che, data la scarsa possibilità di oscurare i contenuti del corteo con le parole d’ordine di altre mobilitazioni pre referendarie o cittadiniste, dovuta alla stessa categoria giuridica di “non-cittadin*” di coloro che hanno promosso il corteo, la partecipazione è scaturita dai contenuti, tra richieste (residenze, case, trasporto, copertura sanitaria, contratti e permessi di soggiorno) e rifiuti (macchina delle espulsioni, il controllo delle vite nel sistema dell’accoglienza, gli sgomberi, le detenzioni e le identificazioni).
Probabilmente le ragioni del corteo non sono state di facile comprensione per chi non segue le proteste nelle campagne del foggiano e nei centri di accoglienza, nelle tendopoli e nei centri di identificazione che fanno da vaso comunicante o da dispositivo punitivo per il sistema di sfruttamento.
I tempi, i modi e i contenuti del corteo sono infatti dipesi dalla necessità e dall’urgenza, per chi lotta in quei territori, di dare visibilità alle proteste e farsi sentire da chi governa. La proposta ambiziosa di unire le lotte è stata forse limitata dal poco tempo a disposizione ma il corteo ha sicuramente aperto un spazio di relazioni, comunicazione e attivazione per il futuro.
Il nostro saluto va a chi abbiamo conosciuto in piazza e a chi ha messo energie generose e nell’ombra per sostenere questa protesta.
14 Novembre 2016, da hurriya.noblogs.org
Egitto, il regime contro ogni dissidenza
Nessuno degli altri despoti che hanno governato l’Egitto dal 1952 aveva osato condannare al carcere il capo del sindacato dei giornalisti, Yehia Qalash, il suo vice, Gamal Abd el Reheem, e il capo della “commissione delle libertà”, Khaled al-Balshy. La sentenza è di due anni e 10.000 ghinee di cauzione ciascuno per restare in libertà fino all’appello. I tre sono stati condannati con l’accusa di aver nascosto persone ricercate e aver diffuso notizie false sul loro conto. In realtà queste “persone” sono i due giornalisti, Amr Badr e Mahmoud al-Saqa, che avevano un mandato di cattura a causa delle proteste contro la cessione (illegale secondo la giustizia egiziana) di Tiran e Sanafir ai sauditi, per cui sono stati incarcerati in detenzione amministrativa poi rilasciati, e si trovavano nella sede del sindacato durante l’irruzione della polizia il 1° maggio scorso. L’episodio, anche questo unico nella storia di un paese governato sempre da autocrati, era stato duramente condannato dal sindacato che aveva chiesto le dimissioni del ministro degli interni.
Si tratta dell’ennesimo passo verso la completa censura della libertà di stampa, di espressione, di pensiero e parola. L’Egitto, giusto per fare un esempio, è collocato al 159 posto su 180 stati nell’indice della libertà di stampa. Dalla deposizione di Morsi 6 giornalisti sono stati assassinati, decine hanno subito processi e intimidazioni, 27 sono in carcere. Quotidianamente all’aeroporto chiunque sia considerat* oppositore o oppositrice, avvocat*, attivist*, ex-detenuti, riceve il diniego di lasciare il paese.
La situazione rimane tragica anche nelle carceri. È di qualche giorno fa la notizia della ricollocazione di circa 800 prigionieri politici dal carcere di Borg el-Arab (Alessandria), conosciuto per essere luogo di tortura, persecuzione e maltrattamento, verso altre carceri. La misura è stata presa a causa delle forti proteste (in realtà le ultime di una lunga serie) dei detenuti che sono da sempre soggetti a costrizioni illegali: spesso non viene data la possibilità di avere visite, di ricevere alimenti e indumenti da fuori, di avere l’ora d’aria, di avere servizi igienici nelle celle. Oltre alle torture, le violenze fisiche e la mancanza di assistenza sanitaria. Alla protesta interna, però, si sono uniti anche i familiari fuori dal carcere – anche loro soggetti a vessazioni di ogni genere – che sono stati dispersi dal gas e dalle cariche della polizia. Di qui l’ordine di spostare, ancora una volta senza seguire le procedure legali, i detenuti verso altre carceri lontano dal luogo di residenza.
Ma gli abusi non riguardano solo i/le prigioniere. Un’associazione per i diritti umani ha segnalato che in questi anni si sta verificando la terza ondata di emigrazione per ragioni politiche della storia della repubblica (dopo quella di Nasser e Sadat) e che questa tocca tutte le classi sociali e professionali, così come l’affiliazione politica. Questo avviene proprio nel momento in cui l’UE vuole stringere nuovi accordi con il regime per la gestione dei flussi migratori.
L’ultimo assassinio di Stato è avvenuto a Amereya, un distretto del Cairo conosciuto per avere un commissariato implicato in uno dei numerosi casi di tortura, dove un uomo, Magdy Makeen di 53 anni, è stato trovato morto ammazzato di tortura dopo ore dall’arresto, poi trasferito su un letto d’ospedale. La polizia ovviamente nega e dice che la morte è avvenuta a causa di una crisi di diabete.
Magdy è morto di diabete così come Stefano Cucchi di epilessia.
Fuoco alle prigioni! Libertà per tutt*!
23 novembre 2016, da hurriya.noblogs.org
carcere di ivrea: proteste, pestaggi, isolamento e trasferimenti
Il 14 ottobre scorso all'interno del carcere di Ivrea alcuni detenuti protestano contro le condizioni di reclusione. I giornali locali ridimensionano l'accaduto parlando di richieste per avere la televisione in cella mentre evidenziano le parole dei sindacati di polizia penitenziaria che lamentano carenze di organico. Come nella gran parte delle carceri italiane in cui si sta male e si muore, così anche nella struttura circondariale di Ivrea le pessime condizioni di reclusione sono state più volte denunciate. Nella notte tra il 24 ed il 25 ottobre scoppia la protesta. La direttrice Assuntina Di Rienzo fa intervenire gli agenti pare con rinforzi provenienti dal carcere di Vercelli. In seguito smentirà questa notizia parlando di agenti con soli caschi e scudi che cercavano di riportare la calma per l'incolumità dei detenuti. La notizia di cosa è accaduto quella notte intanto arriva tramite la lettera di uno dei reclusi Palo Matteo, pubblicata dal sito infoaut.org. Dalla protesta al pestaggio il passo è breve. I detenuti coinvolti sono diversi ed alcuni ne hanno prese parecchie. La posta viene bloccata. Da qui in avanti i "sinceri democratici" si mobilitano: arriveranno la consigliera regionale Frediani (M5S) ed ispettori del Ministero. Si saprà inoltre che i video delle telecamere non ci sono, i detenuti che hanno dato vita alla protesta sono in isolamento o trasferiti mentre alcuni degli agenti coinvolti sembra siano stati riconosciuti.
Di seguito riportiamo le prime lettere che raccontano di quanto successo durante la protesta e alcune di quelle giunte in seguito ai trasferimenti e al presidio del 13 novembre.
Io sottoscritto Palo Matteo, scrivo queste parole per difendere e tutelare i detenuti del carcere di Ivrea, dopo che il giorno 24/25 del mese di Ottobre in questo istituto le guardie o agenti penitenziari hanno usato violenza indiscriminata.
Chiamata la squadretta con supporto del carcere di Vercelli e riuniti in forza e armati di idranti e manganelli hanno distrutto dei compagni detenuti, tra cui: Grottini Angelo, Surco Eduardo, Pena Arte Alex, Dolce Marco. Riducendo quasi in fin di vita Surco e Grottini, a tal punto che né i dottori né gli educatori hanno preso il coraggio di fare una prognosi. Tutti si sono rifiutati come se niente fosse, omettendo che 5 persone hanno subito abusi e pestaggi dallo Stato che doveva tutelarli.
In questo Istituto funziona così, sia gli agenti che gli operatori, sia il Comandante che la Direttrice non hanno minimamente idea di come funziona un Istituto di pena.
Per questo scrivo a te ed alle Istituzioni e giornalisti, perché questa situazione venga a finire. Sicuramente con l’aiuto dei compagni le Istituzioni si faranno avanti prima che qui dentro ci scappi il morto.
Siamo in tanti qui a sottoscrivere queste parole ma per motivi logistici la firmo solo IO. Il motivo è che la posta è stata bloccata perché non vogliono far sapere cosa succede qui dentro. Spero che i compagni lì fuori ci aiutino per una manifestazione, solo così si potrà svelare la situazione reale all’interno di queste mura e così tentare di cambiare questo Istituto. Solo con l’aiuto dall’esterno si può cambiare dalla Direttrice al Comandante, quello che hanno scritto sui giornali non sono cose vere. Bisogna contattare i Radicali e tutti quelli che difendono i detenuti, altrimenti gli abusi continueranno. Oggi è toccato a loro e domani a chi? Confido in un vostro aiuto per tutti i compagni detenuti nella Casa Circondariale di Ivrea. Aspetto notizie al più presto.
P.S.: Surco Edoardo talmente era messo male che i dottori non si sono presi la responsabilità, prima lo hanno spedito dentro l’acquario nudo e poi spedito chissà dove, non sappiamo le sue condizioni di vita. Qui dentro tutti ma tutti, dai dottori agli educatori sono responsabili di tutta questa situazione. Ciao, Aiutateci.
Ottobre 2016
Palo Matteo, C.so Vercelli, 165 - 10015 Ivrea (To)
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RESOCONTO DEL PRESIDIO SOTTO IL CARCERE DI IVREA
Un centinaio i solidali, fra loro anche qualche familiare, domenica 13 novembre si sono ritrovati in presidio attorno al carcere di Ivrea.
Dal presidio molti gli interventi e letture, fra queste una testimonianza di denuncia scritta da alcuni detenuti nella quale vengono descritti i fatti di quella lunga notte di violenze e pestaggi.
Fra gli interventi dal camion, quello dell'evasa Nicoletta compagna e attivista Notav che da mesi ormai si sottrae alla misura cautelare dei domiciliari imposta dalla procura torinese. Si è sviluppata una buona comunicazione fra manifestanti e persone chiuse che ha affermato unità e coesione nella lotta contro ogni forma di carcere.
Dopo una serie di battiture e lanci di alcuni petardi all'interno dell'area sottoposta a divieto dal personale penitenziario adiacente al carcere, il presidio si è mosso in corteo intorno alla prigione salutando i detenuti con lanci di fuochi d’artificio all’urlo di: “Liberi tutti e tutte!” “Fuori tutte/i dalla galere dentro nessuna/o solo macerie!” e ci si è portati in corteo lungo le strade con alla testa lo striscione: “Il carcere è una merda – Il carcere va distrutto – Solidarietà con tutti i prigionieri”.
Segue la lettera dal carcere di Ivrea letta al presidio e uno dei volantini diffusi.
Noi sottoscritti Agostino Stefano, Esposito Giovanni, Palo Matteo, Maccarone Francesco dichiariamo quanto segue:
Siamo detenuti presso la Casa Circondariale di Ivrea, nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016 sono accaduti pestaggi ed abusi verso sei detenuti, tra cui: Angelo, Francesco, Edoardo Surco, Dolce Marco, Alex sudamericano e Paparazzo.
La sera del 25 ottobre al 4° piano si trovavano 4 dei ragazzi sopra indicati, che con delle urla gridavano e gridavano per farsi sentire da noi e da tutti i detenuti con la speranza che li sentissimo e potessimo capire cosa stesse accadendo lassù.
Verso le 23.00 sentivamo le urla di Surgo Edoardo:“Stanno entrando!” In quel momento capimmo che gli assistenti si stavano preparando per fare irruzione nelle celle, sentimmo ancora i compagni gridare: “venite uno alla volta.” Gli assistenti di Ivrea avevano chiamato in rinforzo i colleghi di Vercelli, presentatisi in assetto antisommossa muniti di manganello e scudi, causando con questi abusi e violenze verso i nostri compagni.
Addirittura noi del 1° piano abbiamo sentito gli assistenti che ad un certo punto urlavano: “Basta così li ammazzate.” Allora ad un certo punto dopo il pestaggio e gli idranti, tutto si è fermato. Silenzio.
Poi la mattina seguente verso le 13.00, prima io (Palo Matteo) passando per l’infermeria mi accorgo che nella saletta detta “l’acquario” c’era Surco Edoardo sdraiato per terra con un evidenti trauma alle braccia e al corpo. Ma la cosa più atroce è che io, Esposito Giovanni e Agostino Stefano mentre andavamo in infermeria come tutti i giorni alle 13.30, di sfuggita dai vetri oscurati del ”acquario” vedemmo una coperta e sotto una forma di un corpo.
Subito cominciammo a battere la prima volta con esito negativo, interrotti dall’assistente dell’infermeria che ci disse: “Dai facciamo presto e andate su”. Non contenti al nostro ritorno facemmo presente alla Dottoressa del Sert quello che avevamo visto: “Un corpo coperto, che al nostro battere sul vetro non dava segni di vita!”
Subito la Dottoressa si alzò e venne a controllare, ma nel frattempo giungevano una quindicina di assistenti per allontanarci. In quel momento Edoardo Surco si alzò e tutto barcollante ci disse: “Guardate cosa mi hanno fatto.” Aveva tutto il corpo tumefatto ed era in mutande e canotta, dopodiché gli assistenti con vigore ci hanno allontanato.
Tutto questo è successo anche con Grottini e Alex il sudamericano. La sera del 26 ottobre i due furono trasferiti verso altri carceri, tra cui Novara e Cuneo, questo per non far vedere ai dottori e agli altri detenuti quello che era successo.
Noi qui stiamo testimoniando tutto quello che è accaduto, poteva esserci un altro caso Cucchi, addirittura più accentuato e che avrebbe coinvolto altre persone.
Il caso che abbiamo appena spiegato è stato scaturito per questi seguenti motivi:
questa struttura detentiva dove tutti noi dobbiamo stare è malfunzionante e mal gestita, ci sono problemi igienico sanitari, il vitto non funziona adeguatamente.
Le televisioni in alcune celle non esistono e dove ci sono hanno il tubo catodico non più a norma, di conseguenza si ricevono alcuni canali, i materassi sono putridi e fatiscenti.
Le reti fuori dalle sbarre delle finestre anch’esse non più a norma per la vista; le brande sono bullonate al pavimento e i blindi delle celle non rispettano le norme vigenti, all’interno di queste la capienza sarebbe per una singola persona ma sono occupate da due detenuti.
Il sopravvitto è il più caro del Piemonte, ad esempio 1 bombola di gas qui costa 2,50 euro mentre al Lo Russo e Cotugno di Torino costa 1,50 euro e così per tutto il resto del sopravvitto. La fornitura amministrativa non viene data quasi mai. La dignità non esiste.
Ottobre 2016 [da infoaut.org]
Agostino Stefano, Palo Matteo, Esposito Giovanni, Maccarone Francesco
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FINO AD UN CERTO PUNTO, PERO’.
In carcere si soffre , si muore e ci finiscono sempre gli stessi: i poveri, gli stranieri, persone con svariati disagi. Da anni, da decenni, da sempre.
Tra il 14 ed il 25 ottobre nel carcere di Ivrea scoppia una rivolta. Viene sedata dalle guardie a colpi di manganello fino a provocare gravi lesioni ad alcuni detenuti. Successivamente verranno isolati o lasciati per ore nudi in un locale chiamato “acquario”.
La vicenda di Ivrea non è un caso isolato; le condizioni di vita dei prigionieri sono inaccettabili come nella maggior parte delle carceri italiane: sovraffollamento, assenza di attività, vivibilità degradata, angherie e soprusi.
La lettera scritta da uno di loro con coraggio e circolata sul sito infoaut, riporta l’attenzione ,locale e non solo, sulle verità del mondo della reclusione.
I giornali minimizzano, inducono a pensare al detenuto da mantenere che si lamenta o che protesta per necessità banali mettendo invece in evidenza la domanda di maggiore organico da parte dei sindacati di polizia. La direttrice, Assuntina Di Rienzo, intervistata darà una versione dei fatti perlomeno improbabile.
Questo è quello che accade quotidianamente nei penitenziari italiani. Questo è quello di cui non si parla fino al momento del dramma. A tutto ciò, sappiamo bene, seguirà l’indignazione, le prese di posizione di politici, sindacati, società civile fino all’oblio.
L’istituzione totalitaria del carcere è uno dei più forti strumenti di repressione in mano allo Stato democratico. Il suo fine è l’annientamento psicofisico del prigioniero e la sperimentazione di modelli di controllo sociale.
Lo sanno bene gli oltre sessantamila detenuti e detenute. Lo sanno ancora di più i settecento detenuti delle sezioni 41bis, il carcere duro, dove oltre alle pesanti condizioni di vita dall’ottobre 2014 non si può più leggere. Non si possono tenere in cella più di tre libri o riviste né riceverli tramite la posta o i colloqui. In queste carceri ,ci dicono le statistiche, ritorna il 67% dei detenuti, recidivo.
Una società ingiusta ,come quella in cui viviamo, non potrà in alcun modo redimersi rinchiudendo migliaia di uomini e donne in condizioni disperanti. Potrà solo continuare ad opprimere.
Fino ad un certo punto però. Fino ad una notte, ad una scintilla…
Solidarietà a Matteo, Marco, Angelo, Michele, Alex, Edoardo. A chi si ribella.
Nemici del carcere
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[...] Vi ringraziamo tanto per essere venuti qua fuori dall’istituto carcerario. Siete stati grandi e vi abbiamo sentiti, anzi quando siete venuti siamo stati coraggiosi e fieri di avervi accanto in questa battaglia che anche noi con voi portiamo avanti dall’interno, passo dopo passo per un miglioramento delle condizioni in cui ci troviamo e se questo non avverrà ora per noi, servirà per chi entrerà in futuro.
Grazie umilmente della vostra presenza, purtroppo non tutti hanno partecipato alla battitura e agli urli, per vari motivi, ma noi eravamo con voi. [...]
Con queste poche righe vi ringrazio e spero di sentirvi presto. Con affetto, Stefano.
23 novembre 2016
Agostino Stefano, corso Vercelli, 165 - 10015 Ivrea (Torino)
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[…] Lo schifo che c’è nelle carceri italiane è davvero tanto. Oltre allo schifo che è successo un mese fa circa, gli abusi e altro, che solo chi vive 24 ore su 24 può capire. Io sono un ragazzo di 28 anni e non vi dico tutto quello che ho passato negli istituti italiani, visto che ne ho girati 4 per l’altra mia pena, però vi posso assicurare che Ivrea è l’istituto più mal gestito di tutta Italia, perché ci sono molte cose sotto che non possiamo capire e vi dico ancor di più: appena uno sa un pochino di più ed esplicita il problema, viene subito “impacchettato”, uso questo termine perché per loro siamo pacchi postali, una volta messo il timbro siamo pronti per partire.
L’abbraccio solidale ve lo mando io perché voi siete stati degli angeli verso tutti i detenuti e a tutti voi che credete in un mondo migliore e libero. [...]
Io ho un’altra lettera che ho scritto un paio di giorni fa e vorrei che voi la pubblicaste per favore.
Vorrei, pregando Dio che si abolisse anche questo maledetto regime che è una pena di morte scritta, il 41bis. Non hanno nulla e posso dirvelo per certo.
Ecco la lettera.
Se la vita ti dona una famiglia bella e dolce come la mia, vorrei che almeno trovassi un lavoro per poter dare, non dico molto, ma il giusto, perché io come ragazzo non mi posso lamentare, perché ho una moglie che è fantastica davvero e una figlia stupenda.
Il fatto è che tutto quello che ho non voglio perderlo per il solo fatto che non ho un lavoro e una stabilità per donare a una figlia la felicità che si merita e che gli spetta come a tutti i bimbi del mondo. Ma so che purtroppo, per i pregiudizi che ci sono, e ci sono sempre, non troverò mai un lavoro, non dico molto, solo un lavoro semplice, anche spalare m…, perché io per mia moglie e mia figlia, farei qualsiasi cosa, non voglio sempre continuare ad errare, non è vero che sono un ragazzo cattivo e violento, assolutamente.
Tutto questo da una mancanza di lavoro che da anni sogno di avere e portare la mia famiglia avanti. Ma ogni volta che sono andato a fare un colloquio, mi è sempre stata ribadita la solita frase, ma è vero che sei stato dentro? Io che uso l’onestà per far vedere che sono sincero, ah ok, le faremo sapere! Ok! Grazie!!
Io ora mi chiedo, non voglio più fare reati, ma a chi posso chiedere una mano, pregando dio di poter avere una mano con il cuore, così porto avanti la mia famiglia dignitosamente come tanti padri e non far dire a mia figlia, mio papà è in galera!!
23 novembre 2016
Giovanni Esposito, corso Vercelli, 165 -10015 Ivrea (Torino)
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Ciao compagni di Ampi Orizzonti, sono Matteo da Ivrea C. C., ho ricevuto il vostro messaggio con i libri e vi ringrazio tantissimo per la vostra vicinanza e solidarietà. Del libro “Liberare tutti i dannati della Terra” avevo già l’originale a casa ed essendo come un rivoluzionario ed avendo il mio coimputato che a quelle rivolte e in quegli anni era attivo per queste cause e partecipò dal 1969/ 1971 alle rivolte, sono ben informato dei fatti accaduti. E per questo io mi stringo a voi, ma purtroppo compagni ora le carceri sono cambiate e di tanto ma la gente no, le galere, quelle sono le stesse.
Qui alla fine, dopo tutto quello che ho fatto, mi ritrovo che ora sono guardato a vista; ho preso un rapporto per domenica 13 novembre che c’era la manifestazione fuori le mura, mi dovevano aprire lavorante per aiutare mia moglie che è ai domiciliari con due bambini piccoli, e adesso niente. Mi hanno bloccato sia i colloqui che telefonare a casa. Sono due mesi e mezzo che non vedo i miei figli, e tutto questo è colpa di un Pubblico Ministero o dello Stato, chiamatelo come volete.
Fate bene a fare tutto ciò ed io se posso dare una mano da qui, lo farò.
Se vi fa piacere scrivetemi, anche se qui la posta è sempre in ritardo; se arriva?
Un abbraccio solidale!
23 novembre 2016
Matteo Palo, corso Vercelli, 165 - 10015 Ivrea (Torino)
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venerdì 9 dicembre: assemblea a ivrea
Dopo i fatti del 25 ottobre nel carcere di Ivrea ed il presidio che ha portato solidarietà ai detenuti del 13 novembre, sono continuati i contatti con i reclusi tramite la corrispondenza con diverse realtà che si occupano di carcere.Le lettere ricevute sono dure e belle. Dure, perchè il racconto del pestaggio avvenuto parla chiaro riguardo a cio' che avviene tra le mura delle carceri italiane. Belle perchè, con molta lucidità, i detenuti raccontano le loro storie ed i loro pensieri e, ci sembra di poter dire, che siano molto consapevoli di come funziona la nostra società.Ringraziano inoltre tutti coloro che, con forza e affetto solidali, si sono mobilitati. Per questo motivo ci tenevamo a dare aggiornamenti un pò a tutti. [...]Ricordiamo che due detenuti furono trasferiti il mattino successivo alla rivolta nelle carceri di Cuneo e Novara mentre un terzo, a distanza di una settimana, nel carcere di Vercelli.Per continuare ad occuparci di questa vicenda e non solo, il 9 dicembre si terrà un incontro ad Ivrea, presso il Castellazzo Assediato, per "ROMPERE L'ISOLAMENTO". Incontro con la Cassa Antirepressione delle Alpi Occidentali, il collettivo Olga ed alcuni familiari dei detenuti.
dicembre 2016
Nemici del carcere, Castellazzo Assediato
lettere dal carcere di milano-opera
Seguono stralci di alcune lettere di Maurizio del 4 e del 12 novembre.
[...] Due giorni fa, di sera (2 novembre 2016), ho sentito le vostre urla e i compagni dalla sezione, mi chiamavate e avete scaldato il mio cuore. Vi racconto cosa avevano preparato queste (merde), perché era un agguato preparato nei minimi particolari.
Il 17 ottobre mi chiamano e mi dicono che ci sono dieci giorni da scontare (vecchi). In un primo momento ho risposto di preparare la squadretta, che ero pronto a vendere cara la pelle. Poi ho visto che in sezione i miei compagni erano più incazzati di me, così, per non fare degenerare la situazione, ho tranquillizzato tutti, dicendo che 10 giorni non sono nulla, per cui sono sceso di mia spontanea volontà – anche per dimostrare che io non “fomento rivolte” o faccio del “proselitismo”, come avevano scritto nel 14bis che ho finito il 30 giugno e dove il direttore mi aveva promesso la sala-Hobby per scrivere il libro, il computer, di mettermi nella commissione detenuti… tutte promesse false di un’ipocrita. Ho anche saputo che è lui l’organizzatore di questa infamia (carogna).
Comunque, il 18 ottobre mi comunicano un foglio con 6-7-8 rapporti. Incazzato, lo accartoccio e lo tiro addosso allo scagnozzo del direttore, non presenzio al Consiglio disciplinare. Di quei rapporti l’unico vero era l’accaduto al colloquio con il brigadiere. Poi mi dicono che i giorni d’isolamento sono 15. Va bene, accetto tutto.
Arriva il 1° Novembre e alle 12 mi dicono di preparare le cose che devo salire. Passa il tempo, si fanno le 13, chiamo e non c’è nessuno. Allora dico che voglio andare al passeggio e mi aprono, invece mi dirigo nell’ufficio del capoposto e trovo un brigadiere, cui chiedo spiegazione: dice che non sa nulla. Così, dopo aver visto il menefreghismo, decido di spaccargli tutto l’ufficio. Prendo il computer e gli dico: “Se non chiami la sorveglianza per darmi spiegazioni, ti spacco tutto l’ufficio…”. Dice che ho ragione e chiama la sorveglianza, intanto ho posato il computer ed esco in sezione, ma, mentre arriva la sorveglianza succede che un mio compagno sta litigando forte con un agente. Mi metto a calmare gli animi e va tutto bene, solo che arriva un ispettore e inizia a far innervosire ancora questo ragazzo. A quel punto, calmo il ragazzo e ricordo all’ispettore che in realtà è venuto qua per me, quindi può anche lasciar stare quel ragazzo e dare a me delle spiegazioni del perché sono ancora qui!!!
Nel frattempo, gli altri sgherri avevano aperto le porte delle due celle dove eravamo io e l’ispettore così da coprire le telecamere. A quel punto il bastardo mi prende con forza il braccio sinistro e mi dice: “Cammina pezzo di merda”, e un altro mi blocca dietro al braccio destro, così quel figlio di puttana mi sferra un pugno in faccia. Con forza mi sono divincolato e gli ho tirato un destro, ma altri dieci mi sono saltati addosso a colpirmi e tenermi. Così non sono riuscito a pestarlo. I miei compagni urlavano mentre loro chiudevano tutti i blindati. Come vedete, ci sono le testimonianze di chi ha visto tutto. Ho chiesto il sequestro dei video delle telecamere e alcuni vogliono testimoniare, ma hanno fatto dei rapporti anche a loro.
Mi buttano nella cella liscia mentre il bastardo urlava: “Sei un pezzo di merda tu e tutte/i gli anarchici” … ed io gli ho sputato e urlato […]. (Quando sono arrivato a Opera nel 2015 avevo avuto un diverbio con questo ispettore-merda… mi aveva detto che mi gonfiava la faccia e ero andato dentro la sorveglianza a prenderlo per vedere se era capace… è l’autista del direttore e della direttrice: non mi aspettavo che mi colpisse a tradimento).
Cella liscia, butto fuori il materasso e il cuscino, sporchi di escrementi, chiedo i miei. Dopo dieci ore me li danno, ma senza copertura; altro casino e mi portano della carta da infermeria per coprire il materasso. Chiedo la coperta, altro casino fino alle 23. Minaccio che ho freddo e se non me la danno picchiavo chiunque apriva la cella. Così verso le 24 arriva la coperta – dopo che altri facevano casino. Conclusione, passo la notte in isolamento.
Ho fatto verbalizzare le ecchimosi e i lividi; ho preso anche un colpo alla testa e mi hanno fatto le radiografie, ma il dolore è dentro lo stomaco, pieno di rabbia e rancore, per non aver potuto reagire a quel bastardo ispettore, che poi ha pure mentito! Ha scritto che lo avrei minacciato dicendogli: “Ti ammazzo la famiglia… figlio di puttana… so dove abiti… ti ammazzo i bambini”. I bambini non si toccano… non è nel mio DNA!
È dal 6 Settembre che non mi permettono di telefonare a mio nipote nel carcere di Vigevano. Ho spedito una lettera al DAP (direttamente a Santi Consolo… qui girava voce che lui fosse “mio amico” perché mi avevano concesso un 14 bis soft, ovvero la possibilità di scaldarmi una bevanda al mattino), vediamo cosa dicono...
Qualcuno è riuscito a tranquillizzare i compagni in sezione, dicendo che settimana prossima mi fanno salire… Pensate che mi hanno comminato 160 giorni da scontare, di cui 90 erano “nascosti” perché il Direttore non avrebbe fatto apposita richiesta a suo tempo. Ecco di nuovo un altro abuso. Comunque, ho risposto che questo ennesimo 14 bis possono metterselo nel c--o, Direttore e Direttrice e tutti quelli che hanno messo in atto questa trappola […] Se il DAP dà ragione a loro, allora c’è in atto un disegno criminoso. Ho aiutato quei ragazzi disabili insieme a tutta la sezione, il Direttore si disinteressa e poi manda a rompere i coglioni… vorrebbe altri suicidi, perché è un sadico; poi quando vengono pubblicati i pestaggi e gli abusi parla di proselitismo […].
Qui in cella stiamo peggio degli animali e poi parlano di diritti e legalità, che vadano a fanculo! Traumatizzano i bambini, spogliandoli e il Direttore parla di “Bambini senza Sbarre”. È inutile, è solo un sadico, ipocrita! Certo ora parlo per rabbia, per tutto quello che ha promesso e non mantenuto, ma stavolta la sua vigliaccaggine ha superato ogni limite. Io non chiedevo niente, volevo solo che mi lasciassero in pace, intanto lui tramava alle mie spalle. Se torno in sezione, metterò una pietra su tutto… Dipenderà da cosa mi dice il comandante lunedì 7.11.16. Poi, se non mi fanno salire, è sicuro che non permetterò che mi lascino qui a vivere così.
Cos’altro dirvi? Che sono anni e anni che mi dicono: se tieni i contatti con gli anarchici passerai sempre guai, e io rispondo che non sono degni di nominare le mie sorelle, i miei fratelli e tutti/e i/le solidali.
Proprio oggi il comandante è andato a dire ai miei compagni che la settimana prossima salirò in sezione! Non ci credo perché a me hanno detto che aspettano il mio trasferimento e il 14bis. Stamattina mi sono rifiutato di cambiare cella e ieri nella cella liscia ho chiuso la telecamera con il giornale, cosa che mi ha procurato un altro consiglio disciplinare perché avrei rotto la telecamera!!! Sono menzogne!
Termino compagne/i sorelle, fratelli e solidali, anche se non ricevo posta, so che non mi lascerete mai solo, e proprio per questo il mio cuore è sempre caldo. Vi abbraccio con ogni bene, una per una e uno per uno. La giusta via è solo l’anarchia. A testa alta ribelle e solidale. Fraternamente, Maurizio. V.V.T.T.T.T. BENE
[...] oggi [12 novembre] un altro abuso, mi han dato 15 giorni di isolamento per avervi chiamato durante il presidio di pochi giorni fa… con questi sono 175 i giorni da scontare, ma stamattina mi hanno comunicato che martedì o mercoledì mi arriva un altro 14bis e da gennaio sino ad oggi ho già fatto sette mesi di celle (isolamento). Poi dicono che non c’è la tortura in Italia… ecco chi sono i veri criminali.
Intanto mi hanno fatto una radiografia alla testa perché era gonfia…
A Giuseppe e Mario, i due ragazzi presenti all’aggressione nei miei confronti, fanno pressione affinché non inoltrino l’esposto su quei fatti: Giuseppe l’hanno tolto dall’isolamento e gli hanno dato il lavoro, Mario ha preso 15 giorni (di isolamento) anche lui stamattina. Qui non vogliono far partire l’esposto… vedete voi. Almeno darete voce gli abusi che sto subendo e per la posta che mi rubano. […]
Qui in sezione con noi avevano portato un ragazzo (Mirko) che aveva lo stafilococco, aveva ferite piene di pus e stava malissimo: siamo stati noi a sbattere e fare casino per farlo portare al centro clinico, dato che doveva stare in una camera pulita non in una cella sporca, e così è stato. Ecco la realtà di Opera…
Ieri mi hanno detto di prepararmi per andare a fare una risonanza all’ospedale (ho una contrazione muscolare da diversi mesi). Poco dopo mi vengono a dire che la visita in ospedale è stata rimandata perché la risonanza si era rotta!!! Vi rendete conto che balla? Mi sono imbestialito, poi hanno girato la frittata, dicendomi che sì, avevano inventato tutto loro.
novembre 2016
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20141 Opera (Milano)
La lettera che segue l’hanno scritta i ragazzi che erano davanti alla cella dov’è successa l’infame aggressione.
Carissimi compagni, amici e amiche, vi spieghiamo cos’è successo il giorno l’1.11.2016. Vi possiamo raccontare cosa è successo a Maurizio.
Erano passate le 12,30 e Maurizio chiedeva come mai non lo chiamavano per salire in sezione; così è uscito dalla cella per far chiamare la sorveglianza. Dopo un quarto d’ora, arriva la sorveglianza. Solo che c’era Mario che era arrabbiato per i molti abusi. Maurizio calma Mario e chiede all’ispettore perché non lo facevano salire. Noi eravamo presenti, perché Mario è alla cella n° 4 e io sono alla n° 19 di fronte alla n° 4.
A un certo punto, l’ispettore aggrediva Maurizio e gli urlava: “Pezzo di merda, vai in cella”. Mentre urlava, un’altra guardia bloccava Maurizio da dietro e l’ispettore gli tirava un pugno in faccia, mentre altri lo aggredivano.
Poi portavano Maurizio di peso alla cella liscia. Noi urlavamo di non picchiarlo, ma ce n’erano tanti addosso a lui. Dopo tutto questo la sera chiedeva una coperta per il freddo e non gliela davano. Per dargliela abbiamo fatto tutti casino.
Siamo testimoni del pestaggio, tutta la sezione ha sentito le parolacce che urlavano a Maurizio e io e Mario abbiamo visto tutto prima che le guardie chiudessero i blindati.
Siamo testimoni, Mario e Giuseppe.
4 novembre 2016
In fede: Iovino Giuseppe, in fede Mario Mancuso
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[…] dalla lettera ho appreso della situazione degli amici del 4° piano, in particolare quella di Umberto (ragazzo disabile chiuso in isolamento…). Già quando ero lì c’era questa situazione. A distanza di un anno nulla è cambiato, anzi, l’unico cambiamento è l’aggravamento di Umberto, che schifo.
Per quel ragazzo che ha il bimbo piccolo e vuole la ludoteca. Posso capirlo e gli sono molto vicino, in quanto ci sono passato pure io, gli auguro di avere più fortuna di me che ci ho messo quasi un anno. Purtroppo questo inferno chiamato Opera fa una distinzione tra i detenuti: i privilegiati numero uno sono quelli del 2° reparto, poi vengono quelli del 1° reparto terzo piano, poi tutti gli altri. Odio questa distinzione, dopo il lavoro gioco a carte, insomma di quei ‘privilegi’ fasulli che ci dà il direttore io mi ci pulisco il culo.
Notizie dalla Cayenna, oltre alle solite infamità legate alla sanità, al vitto e agli abusi gratuiti, anche nella sezione dove mi trovo siamo un po’ in tensione: primo perché (grazie a quel merda dell’ispettore che dirige il 3° piano) forse ci dobbiamo spostare tutti in un’altra sezione. Questa è soltanto un’altra inutile tortura psicologica che ci vogliono fare solo per romperci i coglioni. Qui, come me, c’é chi si è fatto la cella in modo che sia più confortevole, ora ci vogliono obbligare a disfare tutto. Il secondo motivo per cui siamo agitati è dovuto al fatto che un lavorante M.O.F. (manutenzione, idraulici, elettricisti…) ha perso un cacciavite, da quel giorno non abbiamo più tregua, perquise su perquise, purtroppo qualcuno, me compreso, avendo cose illecite in cella, abbiamo subito rapporti e amonizioni, che ti devo dire, questa è Opera.
Come sempre è stato un piacere ricevere la vostra visita (saluto di sera), maledico il fatto di trovarmi dalla parte opposta. Comunque, non so se l’avete notato, ma questa volta il rimando dalla nostra parte è stato più forte. Questa volta anche dal 3° piano c’è stato casino. Qui non si capiva più nulla. Questa cosa mi ha fatto molto piacere. Finalmente altri si stanno svegliando, alzando la testa contro questo sporco sistema. Ci si scambia impressioni, informazioni, scritti, libri, speriamo che ne esca il rivoluzionario che tutti noi abbiamo dentro...
primi di ottobre
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[...] Qui più si va avanti e peggio diventa. Inizio col dirti che la mattina dopo il vostro presidio qui fuori, le guardie hanno fatto una perquisa esagerata a tutto il 3° piano e al 4°; non ti dico come hanno ridotto le celle. A chi hanno trovato oggetti banali, ma che non possono stare in cella, hanno farro rapporto, in attesa del consiglio disciplinare e dell’eventuale isolamento.
Circola voce che la vice-comandante si sia espressa preoccupata per i vostri presidi e che hanno già “individuato gli anarchici carcerati”; insomma un’altra minaccia. A me non interessa, seguo i miei ideali sempre a testa alta, se mi vogliono punire ben venga, la dignità è una sola. Di Maurizio so che il 17 gli hanno applicato il 14bis per sei mesi, così ora è giù in cella liscia.
Da come ti ho anticipato all’inizio, siamo stati spostati di sezione, abbiamo lasciato celle appena restaurate e pulite per finire in celle devastate, inagibili e sporche. Sono il primo a dire che a tutti ci spettano celle a norma e pulite, ma noi che siamo a circuito “avanzato”, ora siamo nella merda fino al collo. In tante celle manca la luce, l’impianto idraulico è rotto, puzzano di fogna, materassi e cuscini, meno male, sono nuovi. Gli altri 1150 detenuti hanno materassi marci, pieni di macchie di liquidi organici. A noi i materassi nuovi ce li hanno dati quando eravamo nell’altra sezione; al momento dello spostamento volevano che li lasciavamo lì, ci siamo uniti tutti puntandoci sul fatto che quei materassi venivano con noi. In altre sezioni non c’è stata unione nel rifiutare di portarsi dietro i materassi luridi. In una riunione a sezioni unite glielo abbiamo detto in faccia, che non sono uniti come noi e che chinano sempre la testa per 4 agevolazioni del cazzo.
A un ragazzo, in giugno, che da mesi andava a casa in permesso accompagnato, perché ha la madre malata terminale, durante una perquisa gli hanno imposto il denudamento, più le urine a vista; lui ha fatto tutto e ha consegnato le urine direttamente in mano ad un brigadiere. A settembre gli hanno rigettato il permesso perché le urine risultavano scambiate o contaminate da acqua, visto il basso contenuto di ‘creatinina’ che, a livello medico, può dire anche che ci sia un’insufficienza renale. Il ragazzo si è rivolto al brigadiere, il quale si è messo a disposizione per risolvere la questione. Ma la risposta da parte della direzione è stata che non possono fare certe dichiarazioni.
Il fatto è preoccupante perché non solo dimostra il menefreghismo e gli abusi da parte di chi comanda questa Cayenna, ma questo dimostra anche che qui non vogliono svuotare le celle ma riempirle sempre di più. In sostanza questo ragazzo è ancora bloccato e non sa come fare, dato che il magistrato di sorveglianza ha chiaramente scritto che è vero che non ci sono tracce di sostanze stupefacenti ma fino a quando dal carcere nessuno si prende la briga di scrivere due righe a favore del ragazzo, il magistrato di sorveglianza non sblocca i permessi.
Per il resto qui è il solito schifo, io sto lottando per essere trasferito, ma non c’è verso; quando arrivi qui sai che al 90% arrivi fino a fine pena.
Ti mando un forte abbraccio a pugno chiuso con affetto e stima, un grosso saluto a tutti/e le/i compagne/i della lotta, sempre a testa alta: VIVA LA RIVOLUZIONE.
fine novembre 2016
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Carissimi amici e compagni, sono nel letto da oltre un mese con l’ernia al disco. In questo carcere sono detenuto da un anno e mezzo e la soluzione che trovano per me e farmi punture invece di portarmi all’ospedale per essere curato per il problema che ho. Qui viene negato il diritto. Vi ringrazio, alla salute amici miei: fate qualcosa per tutti noi.
fine ottobre 2016
Presidio davanti all’ospedale S. Paolo di Milano
Giovedì mattina, 1° dicembre 2016 dalle 9 alle 11 in una ventina di compas, di diverse realtà e collettivi, abbiamo comunicato con l’esposizione di uno striscione di dodici metri, calato dall’ultimo piano dell’ospedale S. Paolo, il ricatto assassino del regime 41bis che si estende all’intero sistema penale-carcerario e, allo stesso tempo, per far conoscere la protesta nel carcere di Opera che va avanti da febbraio, nonostante isolamento e censura, restrizioni igieniche e alimentari adottate dalla direzione contro diversi detenuti che si espongono nella protesta. A questo scopo abbiamo diffuso dentro e fuori l’ospedale un volantino con stralci delle ultime lettere giunte e il comunicato collettivo “dalla cayenna di Opera” di inizio febbraio.
Il S. Paolo è stato scelto perché amministra il centro clinico nel carcere di Opera (100 posti) e perché al suo interno sono in funzione un reparto per prigionieri in 41bis e uno per tutti gli altri.
Sullo striscione e sul volantino distribuito davanti all’ospedale abbiamo scritto “14BIS – 41BIS = TORTURA” in quanto entrambi strumenti nelle mani dei carcerieri adottati per raggiungere lo stesso obiettivo: la “collaborazione”, la genuflessione davanti allo stato, alle guerre saccheggiatrici, razziste, alle macellazioni sociali di cui lo sfruttamento di chi lavora è la pietra miliare.
Lo striscione è rimasto esposto per circa un’ora finchè alla fine è stato rimosso dalle guardie.
Milano, dicembre 2016
SPINI DI GARDOLO, TRENTO: UN PRESIDIO E UNA RIFLESSIONE
Sabato 22 ottobre si è svolto un presidio sotto il carcere di Spini di Gardolo a Trento. Siamo andati lì non solo per portare la nostra solidarietà a tutti i detenuti e a tutte le detenute, ma anche per salutare un detenuto che durante la settimana si era ribellato al fatto di essere stato trasferito in isolamento e aveva ferito quattro agenti, secondo le fonti giornalistiche. Ma il motivo principale che ci ha spinto a ritornare sotto quelle mura era il voler raccontare cosa sta accadendo oltre oceano nelle carceri statunitensi.
Abbiamo raccontato delle proteste, delle rivolte, degli scioperi e dei motivi che hanno spinto quei detenuti a ribellarsi. Abbiamo parlato anche della solidarietà mostrata dai compagni statunitensi e delle azioni a sostegno della lotta avvenute in altri Paesi. Volevamo portare a Spini l'eco di questa lotta, ma sopratutto un avvertimento per tutti i detenuti e le detenute nelle carceri europee. Il passaggio dal carcere pubblico a quello privato e l'introduzione del lavoro forzato sono una realtà già in opera in alcuni paesi europei ed in fase di perfezionamento. Oltre a capire l'ingranaggio speculativo dell'affare del project financing, della collaborazione tra Stato e privati, è importante rendersi conto che questo cambiamento rafforzerebbe alcuni aspetti delle leggi repressive contro gli sfruttati. Carceri private vuol dire arricchimento dei padroni a danno dei detenuti pagati una miseria.
Per comprendere meglio il problema abbiamo studiato il libro uscito qualche mese fa per le edizioni Mursia “Non solo carcere”, dove sette attenti repressori spiegano ed argomentano la storia ed il funzionamento del carcere in questa società. Di particolare interesse sull'argomento è il brano scritto da Enrico Sbriglia, provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria per gli istituti del Triveneto. Egli spiega accuratamente il project financing, il suo funzionamento ed i benefici che porterebbe genericamente a tutti, dai neolaureati in architettura, alle aziende, allo Stato. Il detenuto non è più rifiuto ma risorsa, non è più spesa inutile ma ricchezza. Egli spiega che il detenuto se tenuto occupato ed affaticato dal lavoro, non si preoccuperà di ribellarsi o di evadere, perché il suo fine ora sarà lavorare e non oziare. Bisogna togliere la fantasia della ribellione, questo è uno scopo detto esplicitamente dal signor Sbriglia. Quindi ammodernare il carcere, farlo con più servizi, vuol dire che così il “nuovo” operaio si presterà più docilmente a servire gratuitamente il nuovo padrone sfruttatore.
Sbriglia stesso dice che da questo business tutti ci possono guadagnare, ma non parla mai dei detenuti, dei loro sogni, dei loro desideri e di tutte le brutture che vengono create da qualsiasi situazione detentiva. Noi abbiamo chiaro che una persona come lui non possa neanche lontanamente riuscire a ragionare in questi termini. Egli parla dei detenuti del carcere di Padova, i quali partecipano ad alcuni progetti pilota di lavoro dentro al carcere e sono diventati bravi pasticceri o costruttori di biciclette, ma non potrà mai spiegare cosa vuol dire sentire il rumore di chiavi nella toppa del blindo, non potrà mai spiegare la lontananza di una persona dai propri affetti, la distruzione dei propri desideri. Questo no non potrà mai farlo. Comprendere la sottigliezza di alcuni aspetti di questi nuovi progetti ed il cambiamento macroscopico che essi determinano nel mondo del carcere è importante per sostenere con ancora più forza le lotte dei detenuti.
ottobre 2016
Anarchici ed anarchiche di Trento e Rovereto
Eneas vive! Presidio sotto il DAP
Il 19 dicembre si terrà un presidio sotto il DAP per la morte di Eneas avventa un anno fa nel carcere di Pesaro. Eneas, ragazzo marocchino, rinchiuso nel carcere con l'accusa di falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale, fu trovato morto nella sua cella il 25 settembre del 2015. Secondo l'amministrazione carceraria fu suicido ma i familiari e amici contestarono da subito questa versione che attualmente risulta ancora poco chiara. Infatti sono in corso indagini per istigazione a suicidio da parte del Ministero della Giustizia. Ovviamente per il Sappe si trattò “dell'ennesima tragedia” per un “uomo nemmeno trentenne con un trascorso importante di tossicodipendenza e problemi di natura psichiatrica”. Dichiarazioni smentite dai familiari e amici di Eneas, il quale in una lettera denunciava i trattamenti che riservavano per lui le guardie del carcere.
Di seguito il testo dell'indizione del presidio.
Il D.A.P. Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è l’organo che nomina e gestisce tutto il personale all’interno delle carceri per garantire la massima sicurezza e il massimo controllo. Gestisce tutti i detenuti e le detenute sia in carcere che in misure alternative e stabilisce le norme applicative di tutti i regimi speciali. In sintesi non avviene niente nel carcere di cui il DAP non sia direttamente responsabile.
Il 19 dicembre andiamo davanti al DAP per denunciare:
- La morte di Eneas e tutte quelle morti di stato che sono avvenute ed avvengono quotidianamente;
- Il regime di tortura in cui sono tenuti i prigionieri e le prigioniere nel 41 bis, questo trattamento inumano è responsabilità di chi lavora al DAP, gente con le mani pulite e la coscienza sporca;
- I maltrattamenti che avvengono nelle carceri sotto il beneplacito dei dirigenti del DAP che delegano il lavoro sporco ad altr* lasciando mano libera alla violenza per supplire alla pessima organizzazione.
Noi andremo al DAP per evidenziare le schifezze che avvengono nel carcere. Non vogliamo migliorarlo ma vogliamo dimostrarne la crudeltà e l’inutilità, per far sì che nel mondo non ci siano più galere. Andremo al DAP anche per fare gli auguri di Natale a tutti i lavoratori e le lavoratrici che da dietro una scrivania decidono della vita e della morte dei carcerati e delle carcerate.
LUNEDI’ 19 DICEMBRE, APPUNTAMENTO ALLE ORE 14.00
AL D.A.P. DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
LARGO DAGA (Metro A fermata Cornelia e poi bus 889 (direzione Mazzacurati) fermata Bravetta Consolata. Per andare insieme appuntamento ore 13 stazione Trastevere.
Roma, dicembre 2016
Amici e amiche di Eneas
dal carcere di teramo: il terremoto, riflessioni, proposte
[...] A rompere la monotonia ci ha pensato il terremoto del 24 agosto e descrivervi la situazione non è semplice. Era un qualcosa di irreale. Ho capito cosa si intende quando si dice “fare la morte del topo”.
La scossa si è avvertita fortissima e al contrario del precedente sisma del 2009, quando mi riparai in strada dato che ero libero, qui ero in trappola. Molti detenuti sono andati nel panico più totale e solo dopo la seconda botta si sono degnati ad aprire. Se non protestavamo vivamente credo che non l'avrebbero fatto.
L'augurio è che ora sia tutto finito e che finalmente quelle povere popolazioni abbiano un po' di pace. Pace dalla terra ma anche da quegli sciacalli dei giornalisti i quali in modo squallido hanno spettacolarizzato il dolore montando servizi da gossip. Mi fanno vomitare.
[...] il 30 (novembre) mattina ecco la nuova terrificante scossa. Spiegarne la sensazione provata non è cosa semplice perché non ci sono parole, ma se dovessi utilizzare un termine definirei quegli istanti come agghiaccianti. E’ stato un crescendo e ho temuto il peggio. Di nuovo eravamo chiusi come topi e il panico ha preso un po’ tutti. I cancelli, al contrario dell’ultima volta, li hanno aperti celermente, però nei volti si leggeva la paura. Una scena che difficilmente dimenticherò.
Qui hanno fatto davvero i danni e ci sono in città e provincia una marea di sfollati. Anche i miei genitori hanno pernottato nel centro di accoglienza; una volta tornati a casa, meno male, è stato contato che i danni non erano poi tanto gravi.
A completare questo quadro negativo ci sono anche i trasferimenti e si vocifera di ottanta partenze. Trentacinque sono state eseguite la settimana scorsa. E’ una prova di nervi, come vedete, continua, e restare lucidi non è affatto semplice; bisogna tuttavia non farsi sopraffare dagli eventi altrimenti si esce pazzi. Per evitare di pensarci passo ad altro.
Anche quì come nel resto d’Italia abbiamo aderito alla Due Giorni di sciopero della fame lanciata dai radicali e, strano ma vero, l’hanno appoggiata tutti.
Dalla prima alla quarta sezione abbiamo rimandato indietro il carrello e pare che l’appello lanciato dai radicali sia stato un successo con 17.000 detenuti in digiuno nell’intero paese. Ci sono rimasto un po’ di cazzo quando in tv hanno dato la notizia. Sarà anche vero che di mezzo c’era il giubileo dei carcerati, e quindi un evento sentito, ma sono numeri importanti. Attraverso un’ottima campagna mediatica i radicali sono riusciti ad arrivare in tutti i penitenziari e ciò dimostra che, se si lavora bene, è possibile l’impensabile.
Noi come compagn* abbiamo il compito di analizzare il dato che emerge dalla mobilitazione è il dovere di aprire una seria riflessione sull’esigenza di adottare nuove forme di lotta. Una compagna mi scriveva: dobbiamo trovare pratiche usabili e riproducibili anche da mia nonna. Ecco, se vogliamo coinvolgere i detenuti e combattere seriamente le barbarie del carcere non possiamo escludere nulla.
Quindi, ottimi i volantinaggi, ottimi i processi, ottimo l’opuscolo, ma non basta. L’ago della bilancia è sempre dalla parte di chi ci opprime e per spostarlo dalla nostra c’è una sola alternativa: coinvolgere il popolo.
Per farlo sarà importante non disdegnare la diffusione di scritti su canali non conformi, interagire con tutte le realtà, anche quelle che per modi d’agire sono lontane anni luce da noi. L’ho detto e lo ribadisco: l’esempio da seguire è quello del movimento “No Tav” che, restando fermo nelle sue convinzioni, ma abbracciando tutte le persone di buona volontà, è riuscito a far aprire gli occhi all’Italia intera su un progetto inutile e dannoso.
E cos’è il carcere se non inutile e dannoso? Unire le forze per lottare con coraggio! A pugno chiuso!
Teramo, settembre e novembre 2016
Lettera dal carcere di Avellino
Cari amici di Olga, ho ricevuto il vostro sempre atteso e gradito plico con i libri, motivo per cui col cuore vi rivolgo un sentito grazie. Vorrei vivere due vite, non tanto per realizzare parte di un sogno continuo ch’è la vita, piuttosto per leggere altre centinaia di libri che accumulo da buon bibliofilo. Dunque, nuovamente grazie.
Vengo a voi per comunicarvi una per me spiacevole coincidenza, un aneddoto di questa mia peripeziosa vita. Mai uno che mi faccia sorridere; d’altronde: in questa nostra dozzinale Repubblica asservita al potere, che dalle nostre parti veste toghe giudiziarie, come e cosa potrebbe darmi diletto e positiva meraviglia?
Ecco il fatto. Giorno 8 c. m. ho ricevuto il vostro opuscolo e con piacere ho riscontrato la pubblicazione delle mie ultime due lettere.
In una vi comunicavo che a fine gennaio sarei dovuto uscire per fine pena, usando un condizionale che ho definito “d’obbligo” in questo nostro Stato di Polizia, ove nulla è certezza. Infatti, lo stesso giorno mi viene notificato il rigetto della liberazione anticipata, 45 giorni, per l’ultimo semestre, pur non avendo avuto rapporti disciplinari.
E si! Qui, in Campania, per i detenuti che scontano reati di particolare allarme sociale, non sono previsti benefici e sconti di pena, non sono meritevoli. Eppure a Cosenza, il Magistrato mi aveva riconosciuto 10 semestri per un totale di 450 gg di libertà anticipata.
Lì ero meritevole, qui no.
La verità è che, ancora una volta la legge viene impunemente violata, per aprioristico pregiudizio del potere togato. Dunque, ritorno in cella e sconto altri 45 giorni di pena in più. Con riposta stima, Antonio.
12 novembre 2016
Antonio Piccoli, C.da S. Oronzo, 1 - 83100 Bellizzi Irpino (Avellino)
lettera dal carcere di bancali (ss)
[...] Come sai questo è un posto di merda. Ho dato l’opuscolo in giro, ma mi hanno chiamato dicendomi che non è buono “agitare” i detenuti. Ma la maggior parte qui non sono veri detenuti ma strisciano visto che fanno porcherie! I veri detenuti sono in AS, come me.
Come te anche io sono “cittadino” europeo, ma contro la mia volontà. Nel parlamento europeo sono quasi tutti depravati. Ho letto un libro, parole che non dimentico mai: “Al mondo le persone civili, quelle che si nascondono dietro la cultura, le arti, la politica e perfino la legge, sono le uniche da cui guardarsi. Hanno trovato un travestimento perfetto, ma sono le persone più depravate, sono le persone più pericolose.” Sono quelle che organizzano le truffe dello stato. Al primo posto c’è l’agenzia delle entrate, poi tutto dietro. Quando ho la tv, vedo sempre Striscia la Notizia. Sai che cosa ho notato, che qui in Italia ci sono 4-5 milioni di parassiti politici, i loro famigliari e amici, vari direttori che rubano tutto e vivono bene. E tutti gli altri in Italia vivono male.
Io penso che ci vuole un generale onesto e un colpo di stato, per pulire il paese dai ladri e dai parassiti. E’ una lotta dura. In confronto con questi “dirigenti”, pure Stalin è un angelo timido.
L’altro mese mi è arrivata la carta per l’estradizione in Bosnia: è la risposta del tribunale cantonale di Bihac. Nel 2014 ho fatto richiesta per andare in carcere in Bosnia dove avevo una condanna di 15 anni. Il tribunale di Bihac ha scritto che quando arrivo là devo essere subito lasciato libero, visto che sono in galera da 19 anni. Ma il governo italiano ha chiesto alla repubblica della Bosnia di applicarmi la Convenzione di Strasburgo, che significa che io devo fare tutti i 30 anni di galera. La Bosnia è d’accordo per la mia estradizione, ma ha risposto che non può rispettare la Convenzione di Strasburgo. E così è saltato tutto.
Ma ho chiesto di andare anche in Croazia, ho doppia cittadinanza. Aspetto risposta. Là la pena massima è 40 anni; prima, in regime comunista, in Croazia, la pena massima era 20 anni ma c’è la “democrazia” ah, ah.
Sti maledetti bastardi politici e le loro leggi di merda. Qui in Italia fanno torture in carcere; ho visto il film sulla caserma Diaz. Maltrattano le persone, le umiliano. Mi credi quando ti dico che la galera nella ex Jugoslavia era migliore, negli anni ’70-’80, che al giorno d’oggi in Italia. Ci picchiavano anche, ma non siamo mai stati umiliati da nessuno. Non eravamo perquisiti come fanno qui in Italia, in “democrazia”! Io mi sono lamentato con il presidente Napolitano, poi con Mattarella, ma non hanno risposto, visto che anche loro approfittano per fare bella vita con 350.000 euro all’anno. A loro non gliene frega niente se le persone sono torturate, umiliate o derubate.
Di me posso dire che sto bene fisicamente e mentalmente. Vivo da cane ma non mollo mai e non mi lascio distruggere dai bastardi. Parlo con poche persone, faccio sport e leggo libri.
Qui si parla solo di permessi, come uscire con i domiciliari e a me non interessano tutte queste cose. Sono sempre solo in cella e, visto che non sono un lecchino e un infame, non mi danno niente. E chi se ne frega. Per adesso finisco questa lettera, spero di trovare tutte, tutti in buona salute. Un caro saluto a te da questo “bellissimo viaggio turistico” ah, ah! Jasmir.
25 novembre 2016
Sabanovic Jasmir, SP 156, via Abbaccurrente, 4 - 07100 Bancali (Sassari)
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Ciao carissimi amici di Ampi Orizzonti, vi ringrazio dell’opuscolo e dei libri anche perché qui sono rimasto solo abbandonato a me stesso, visto spesso quando si è in carcere si è dimenticati un po’ da tutti, amici, famiglia e così via. Qui nessuno tra educatori, servizi sociali e così via mi aiuta minimamente. Oltre a ciò non ho lavoro e soldi per andare avanti (il lavoro lo danno a chi lecca il culo e io non lo farò mai).
Come se non bastasse ora mi è arrivata la chiusura delle indagini preliminari del carcere di Lucca, dove ho protestato animatamente contro molte ingiustizie e soprusi, barricandomi in cella, rompendo tutto ecc.. Ovviamente sono intervenute le guardie in antisommossa con scudi, manganelli e idrante antincendio che, puntandomelo contro, sono riuscite ad entrare e potete immaginare com’è finita. Dopo isolamento e denuncia, dove sono stato accusato di atti sovversivi contro l’istituzione carceraria, minacce, oltraggio e lesioni al pubblico ufficiale. Ovvio che io la protesta l’ho fatta, ma hanno poi montato tutto il resto delle accuse e mi tocca beccarmi quest’altro processo. Aspetto che mi fissino il giorno dell’udienza; e avendo avvocati d’ufficio vedremo che altra bella condanna mi faranno prendere.
Scusatemi di questo sfogo, ma mi serviva. Grazie davvero di esserci, come Radio Onda Rossa di Roma e Senza Pazienza di Torino che saluto tanto.
Cambiando discorso invece, riguardo a questo carcere, le cose invece di essere migliori - visto che siamo poche centinaia di persone e siamo aperti, ci sono più attività, c’è più flessibilità riguardo agli indumenti, visto che si possono portare maglie o quant’altro con cappucci, berretti, orecchini, i-pad ecc. - come vivibilità fa schifo, in primis riguardo a guardie che non hanno voglia di fare un cazzo, domandine che non si sa che fine fanno, quindi farle o no è uguale e come detenuti, visto che ognuno si fa i cazzi propri, anzi molti sono dei venduti solo per avere un lavoro, un permesso e altro.
Non c’è per nulla unione, la maggior parte sono peggio delle guardie. Se non fosse che in un anno ho già cambiato 4 carceri sarei partito anche da qua; ma sono un po’ stanco di cambiare, riambientarmi, conoscere e abituarmi ad altra gente, non sembra, ma tutto ciò è abbastanza pesante. Per ora si va avanti nel bene o nel male.
Ora vi lascio con un abbraccio a tutti e tutte voi. Vi auguro il meglio, vi sono sempre accanto nelle proteste e manifestazioni, anche se non più fisicamente ma col cuore. Ancora grazie di tutto, A presto da Sebastiano.
Fuck the System!!! Fuck Police!!!
16 novembre 2016
Sebastiano Del Re, via Minervini, 8 - 50142 Sollicciano (Firenze)
lettera dal carcere di San Michele (Al)
Società e Progresso
Trovo eccessive le azioni negative che si commettono nel nome della Società e del Progresso, che con una mano sembra concedere, e con l’altra preleva con interessi usurai.
La Società è come una meretrice che attira i suoi clienti come l’illusione di una droga che annebbia la ragione, o come l’isola dei romanzi che non c’è, con apparenti lusinghe che mai si avvereranno, illude chi non ha la forza per sottrarsi, nell’ipocrisia di sanare i mali che proprio lei ne è l’artefice. Ben venga il Progresso se non riuscisse a fare danno.
Oltraggio alla dignità
L’aggettivo tristezza è riduttivo quando si vedono volti di sofferenza e solitudine, volti angosciati, alcuni persi nell’ignoranza del proprio “io”, la dignità sembra essere scivolata su delle persone che nella vita hanno conosciuto poca allegria, miseria, povertà e sofferenza. Persone che vedo appoggiate al muro, attendendo che una lama di sole possa scaldare quei corpi pallidi e freddi, coperti di cenci, vedo un uomo che incessante elemosina una sigaretta a “qualunque”, ma viene ignorato con riluttanza.
Cosa può avere indotto una persona a raggiungere livelli di degrado in una società che appare sana, ma che in realtà è come uno specchio truccato artefice di questo insano sortilegio?
Un vecchio non considerato esprime il suo rammarico, livelli di una società civile che si sgretola sotto una contorta forma di insana giustizia, valori e onori che come la nebbia al sole scompare davanti a scempi di degrado e insofferente scetticismo, rifugiandosi sotto una forma di civiltà apparente, una libertà arrogante eccessiva che spegne come un interruttore i sani autentici principi, mentre surrogati governanti, burocrati fissano le nostre vie maestre, inducendo alla rassegnazione il più di chi non è in grado di fronteggiarli, tra questi ci sono immigrati, i poveri, i carcerati, gli anziani che hanno conosciuto molte stagioni con quella dignità e fierezza sono riusciti a portare a livelli altissimi una nazione caduta nel baratro dell’indecenza. Appaiono vani quegli sforzi pagati da chi oggi non c’è più. E’ ignobile che personaggi senza meriti si fregino di quella fierezza quando poco o nulla spetta a chi mostra ingordigia, appropriandosi di valori non propri, non conoscendo il senso dell’orgoglio.
E’ riluttante trovarsi immersi in una società che non conosce misure, mentre la giustizia plagia la platea, e senza pudore maschera le sue vergogne velate da finto moralismo, immeritevole è l’onore con cui ci si rivolge.
Leggi, giudici magistrati avvocati onorevoli
Quanta falsità si nasconde sotto quelle tonache che dovrebbero rappresentare giustizia su quella bilancia che dovrebbe mantenere equità tra le persone.
Sono troppi i valori che si stanno perdendo nel nome del Progresso e di quella Società apparentemente civile, con l’inganno di avere un arricchimento del proprio status sociale. L’uomo sta cambiando. In questa Società, realtà, c’è ormai degrado e insicurezza, incertezza del futuro, sminuendo la padronanza dell’io.
A cosa serve una società che vanta ricchezze, quando un terzo della popolazione mondiale muore di fame o di pestilenze, uomini donne bambini malati o mal nutriti per mancanza di cibo e medicinali, eppure basterebbe poco per ovviare a queste sofferenze.
Nei paesi occidentali si richiede l’intervento del privato con modesti contributi per ovviare a questi bisogni mentre le industrie consapevoli ignorano, anche i più facoltosi con stipendi extralusso parlano di fare del bene, voltandosi in modo velato, mostrando la schiena, cedendo il peso sulla popolazione dei media già spremuti da tasse.
In alcune aree del mondo lo spreco di risorse è eccessivo, in luoghi remoti la povertà pullula nell’ignoranza e nella miseria. Si parla di Expo, di cibo e coltivazioni OGM per soddisfare le esigenze di fame nel mondo, ma dietro quelle apparenti forme si nascondono vizi tortuosi di interessi planetari di cui chi paga sono sempre i più poveri, gli stessi emarginati dalla società di cui si vanta di fare del bel bene, forme di corruzione che non conosce ostacoli, si lanciano come avvoltoi, sbranando ed eviscerando le carni ormai scarne delle vittime, mari che ingoiano rifiuti contaminati e persone durante le traversate mediterranee colpevoli solo di volere raggiungere una libertà dovuta, uomini donne vecchi e bambini in cerca di quelle terre promesse a costo della vita. Prezzo troppo alto da pagare per un miraggio ambito e dovuto ma mai raggiunto, velato da leggi ingannevoli costruite apposta da burocrati che contorcono le ragioni.
Sono circa 50 milioni gli immigrati nel pianeta, povertà che avanza a passo catastrofico. Poi le alluvioni, i cambiamenti climatici di cui l’uomo ne è l’artefice.
Mi chiedo se realmente sia questo quello che vogliamo, oppure un mondo di pace duratura per tutti.
9 novembre 2016
Roberto Porcedda, via Casale 50/A – 15122 S. Michele (Alessandria)
lettera da mauro, adesso fuori di galera
Ciao Danilo, so che sei detenuto nella sezione AS2 di Terni. Sei nella sezione dei compagni oppure sei da solo? Ho letto su le accuse mosse a voi dalla procura di Torino. Non riescono a darsi pace e quando vuole gli arresti dei compagni non si fa scrupolo. Muove accuse che non stanno né in cielo né in terra.
Oramai sappiamo come vanno queste cose, con il tempo rimarranno solo delle bolle di sapone per non dire un pugno do ‘mosche morte’, non solo rispetto alle accuse ma anche a fini processuali.
E’ anche vero, è sempre un dispiacere quando vengono arrestati dei compagni per nessun specifico di reato! E di conseguenza scontare il carcere preventivo gratuitamente, solo per volontà di chi agisce per fini di carriera e per mania persecutoria.
Con questo mio scritto ho voluto essere vicino a compagni/e arrestati-e, dimostrando tutta la mia più ampia solidarietà politica, soprattutto al compagno Marco Bisesti [arrestato nella stessa retata ordinata dalla procura di To, ndr].
Saluto caramente i miei amici, compagni di Terni AS2, chiedendo a Carletto di farmi sapere se nella sezione hanno portato Danilo.
Vi abbraccio tutte-i, Mauro.
4 novembre 2016
Mauro Rossetti Busa, via F. Turati, 442 – 55100 S. Anna (Lucca)
cremona: Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior
"Per eliminare un effetto, bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto è perché 'tutto' appartiene solamente a 'qualcuno'. La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti". (Alexander Marius Jacob)
Il 17 novembre, un compagno di Cremona dovrà affrontare un processo con vari capi di
imputazione (danneggiamento, imbrattamento e lesioni), in merito ad un gesto di solidarietà nei confronti dei detenuti, che nel settembre 2013 lanciarono una mobilitazione dentro le carceri, cercando la complicità dei solidali. Era la prima volta, da molto tempo, che vari prigionieri di diversi carceri si misero insieme per lanciare dei momenti di solidarietà, fuori e dentro le mura.
Durante quel periodo di protesta dei prigionieri, alcuni nemici di ogni reclusione entrarono nel ristorante più rinomato della città di Cremona (rinomato, nell'odioso gergo da ricchi, vuol dire molto costoso, dove per mangiare, come minimo, si spende 100€ a cranio) muniti di desiderio e qualche secchiata di merda. Quella sera i clienti del ristorante, difensori acerrimi del sistema imperante, perché lontani da qualunque istinto di libertà, ebbero una serata un po' tumultuosa. Fu lasciato un volantino a terra, ripreso assiduamente per giorni dai giornali locali, che recitava così:
“Tra il 10 e il 30 settembre i detenuti in lotta hanno indetto delle mobilitazioni di protesta contro il sistema carcere all’interno delle patrie galere. Questo è il nostro modo complice e solidale per attaccare la società carceraria in cui esistiamo ma non respiriamo! Da una parte i ricchi che mangiano e ingrassano a dismisura, dall’altra segregati di stato che combattono anche attraverso lo sciopero della fame e del carrello in alcune carceri e anche in quello di Cremona. Sappiamo da che parte stare. Dietro quella barricata ci siamo tutte e tutti, oppressi dentro le gabbie e sfruttati all’interno di questo mondo invivibile”.
Peccato che, nel trambusto, un solidale rimase per terra nel parapiglia che ne seguì. A testa alta, il nostro compagno tornò un pochino acciaccato da quella serata alquanto particolare. I solidali, purtroppo, fecero un errore di valutazione.
Questo fatto ha un suo significato importante perché dà il senso ad una prospettiva fondamentale per chi vuole insorgere contro questo mondo ignobile: se esiste una protesta in un luogo, non è detto che in altri luoghi non si possa cercare di fomentarla e farla precipitare. Per esempio, chi lo dice che i disoccupati non possono criticare il regime lavorativo durante uno sciopero?
Essere altrove, quando esiste una protesta potenzialmente rivoltosa in un luogo ben definito, può aprire mondi inesplorati. In fin dei conti, questo fatto ripercorre un vecchio adagio: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
Per questo, tutta la nostra solidarietà e complicità va al compagno inquisito, a tutti i detenuti in lotta, e alle compagne e ai compagni costretti in prigione. Oltre alle preziose parole, per distruggere la guerra fra poveri non può bastare la solidarietà fra sfruttati. In questo momento torbido, fatto di depressione economica ed emozionale, rivendicare la propria ostilità contro i ricchi e chi comanda fa bene al cuore.
alcuni nemici di qualunque gabbia
no tav fino alla vittoria!
Sabato 29 ottobre: il movimento No Tav in val Clarea
Inizia alla grande il fine settimana di lotta lanciato dal Movimento No Tav al Cantiere in Clarea. Mentre a San Didero si svolgeva la partecipatissima assemblea con la sindaca, le persone che TELT (aziende impegnata nella devastazione) vorrebbe espropriare dei propri terreni e con i tecnici e i legali; in centinaia si è partiti da Giaglione diretti al cantiere della devastazione.
Allestito il campo base e reso confortevole per i giorni che ci aspettano, ci si è da subito incamminati per i sentieri bloccati dai jersey della polizia come da ordinanza prefettizia. In prima fila, noncurante delle imposizioni del tribunale di Torino, Nicoletta, evasa da oltre un mese dagli arresti domiciliari. Cori, canti e battiture hanno scandito l’inizio della serata, ignorando l’importante schieramento di polizia pronto ad intervenire.
Verso le 23,30 il primo attacco al cantiere, uno dal sentiero che dall’abitato di Giaglione arriva ai jersey, il secondo dai sentieri soprelevati tra i boschi, proprio in linea d’aria con il contingente di polizia più avanzato. La polizia, evidentemente sotto pressione, non ha potuto fare altro che lanciare qualche lacrimogeno, tentando invano di colpire i No Tav lungo i sentieri.
Dopo una breve pausa al campo base è partito il secondo attacco al cantiere, anche questa volta qualche lacrimogeno in risposta e qualche pietra lanciata da oltre 30 metri di altezza dai poliziotti assiepati sui sentieri.
Solletico, per chi come i No Tav ha imparato ad attraversare quei luoghi di notte e al buio e che dal CS e dalla polizia sa difendersi con pochi accorgimenti.
Verso l’1,30 una parte dei manifestanti è tornata a Giaglione, per poi scortare Nicoletta con un lungo serpentone di macchine fino alla Credenza, in attesa della prossima evasione.
Mercoledì 3 novembre: davanti e dentro il tribunale di Torino per l'udienza dell'appello del processone
Siamo in tante, tanti, di ogni età, si volantina, c’è un banco con pane formaggio… Nicoletta è con noi, è decisa ad entrare, ci sono giornalisti, telecamere, una fila di poliziotti con scudi, manganelli sull’ingresso. Nicoletta legge un comunicato in cui rivendica e precisa:
“Dalla prima misura cautelare inflittami, l’obbligo di firma, sono passati ormai quattro mesi. Ora, attraverso i successivi aggravamenti, sono giunta agli arresti domiciliari, che non sto rispettando. Continuo la mia consapevole, condivisa, felice evasione contro provvedimenti preventivi che sono più che mai strumento di intimidazione, tentativo di minare una lotta giusta e collettiva, per questo irriducibile... Un’evasione che vuole essere nuova tappa della lunga resistenza collettiva praticata dal movimento NO TAV contro i grandi, sporchi interessi del partito trasversale degli affari.
Oggi, nel vostro Palazzo, per l’ennesima volta, si processano, insieme ai cinquantatré compagni imputati, la Libera Repubblica della Maddalena e tutto il popolo NO TAV. Anch’io sono parte di questo popolo, perciò sono qui, a testimoniare, come ho sempre fatto, complicità a compagne e compagni.
Ho vissuto le giornate intense della Libera Repubblica, in cui si rafforzarono le radici della liberazione di Venaus e sperimentammo l’utopia realizzabile del ricevere da ognuno secondo le sue possibilità e del dare ad ognuno secondo i suoi bisogni.
Ero sulla barricata Stalingrado il 27 giugno 2011, a praticare la resistenza popolare contro gli armati e le ruspe giunte a sgomberarci. Ho visto e subìto la violenza poliziesca. Ho percorso i sentieri della Clarea il 3 luglio. Ho praticato l’assedio collettivo al cantiere; con donne, uomini, anziani e bambini, ho respirato le migliaia di lacrimogeni lanciati quel giorno.
Il ricordo e l’indignazione per tanta ingiustizia sono, insieme alle ragioni della opposizione comune contro le grandi male opere e il modello di vita e di sviluppo che le genera, alimento potente di una lotta che dura, si rafforza, si allarga e vincerà.Non sono qui per costituirmi o per fiducia nella vostra giustizia: sarà la storia che ci assolverà”.
Nicoletta accompagnata da tutte e tutti riesce ad entrare pur fra spinte, colpi, le sono vicine compagne, avvocati che non la mollano fino a quando entra in un ufficio della polizia dentro il tribunale. Da lì viene poi portata in questura, sempre attorniata-seguita da compagn* No Tav, per il “reato d’evasione”. Dopo ore alcune farà ritorno a Bussoleno con l’ordine degli arresti domiciliari.
Negli stessi momenti, dopo la tensione per l’ingresso di Nicoletta, la polizia vieta al “pubblico” No Tav l’ingresso nel tribunale. Ci vuole oltre una mezz’ora di pressioni per riuscire a entrare assieme, “pubblico” e “imputati”. Per l’occasione, non era mai accaduto, al “pubblico” che vuole entrare in aula, viene chiesto di far vedere i documenti – come accadeva all’aula bunker.
Una volta in aula un “imputato” riesce a prendere la parola, a spiegare quel che è accaduto fuori, ad esprimere vicinanza a Nicoletta, “oggi venuta a portare solidarietà a noi”; sottolinea che la lotta portata avanti dalla compagna “è parte del movimento No Tav”. Anche per questo viene consegnato alla corte (per essere messo agli atti) il comunicato della compagna divulgato fuori dall’aula - e in aperta solidarietà con lei, “imputati” e pubblico infine abbandonano l’aula.
Giovedì 17 novembre: giorno della ‘sentenza’, la loro, di chi massacra, sfrutta vite e ambiente
Per giovedì è prevista l’ultima udienza dell'appello del processone contro la resistenza alla Maddalena unita alla lotta per impedire l’apertura del cantiere Tav a Chiomonte (giornate del 27 giugno e 3 luglio 2011). La ‘sentenza’ è attesa per il tardo pomeriggio. ‘Imputate/i’, movimento No Tav chiamano a una presenza solidale per tutta la giornata davanti al palazzo di giustizia di Torino (corso V. Emanuele) contro ogni condanna, ogni limitazione della libertà – comprese quelle impiegate come ‘misure preventive’, di cui procura e tribunale di Torino sono capofila in Italia.
Centinaia di persone, ancor prima di questo momento avevano deciso di non lasciare solo Mario ‘imputato’ in questo processo, barbiere di Bussoleno, e la sua famiglia. Lui infatti, come tanti altri, in primo grado era già stato condannato ad oltre 3 anni di carcere accompagnati dall’obbligo di dover versare allo stato in “risarcimento” varie migliaia di euro, che, in caso di mancato pagamento si trasformano in esproprio dell’abitazione, della bottega e che altro. La condanna in primo grado aveva visto condannare 47 dei 53 No Tav a più di 140 anni complessivi di galera e ad un risarcimento che supera il centinaio di migliaia di euro.
Successivamente, una chiamata No Tav per il 20 novembre a S. Didero (paese della valle) per raccogliere fondi con un pranzo, sarà raccolta da persone di ogni età accorse con figlie/i, amiche, amici, compagne/i. La pena del pagamento verrà affrontata dall’intero movimento No Tav con la stessa determinazione di una condanna al carcere. Così anche il minacciato esproprio di Mario sarà respinto, ribaltando i castelli disgreganti architettati dallo stato.
Anche oggi il Procuratore generale ha provato a riscrivere la storia e le giornate di lotta del 27 giugno e del 3 di luglio del 2011 che hanno visto migliaia di notav, sgomberati prima dalla Maddalena e poi tutti insieme adoperatisi nell’assedio di quello che poi è divenuta l’enorme zona rossa con al centro il cantiere tav.
Giornate storiche che non lasciano dubbi se non in quegli uomini di legge che intendono riscrivere all’interno dei tribunali (e sulla pelle delle persone) una storia distorta, piegata all’interpretazione di chi nella lotta per il proprio futuro, per la propria terra e per la libertà di tutti ci vede solo reati di ogni genere.
E’ andato in scena l’ennesimo accanimento contro gli imputati, a rappresentanza del movimento tutto, per attaccare una lotta lunga 25 anni che a dire dei magistrati, è fatta da persone per bene e anche da delinquenti; da buone ragioni e pratiche sbagliate. Una requisitoria tutta politica che ha proseguito sulla strada aperta e battuta con astio dall’allora procuratore Giancarlo Caselli. Vi sono innumerevoli mostruosità non solo etiche ma anche e soprattutto giudiziarie con: imputati riconosciuti nello stesso momento in due posti completamente diversi, prove frammentarie e il tentativo di coprire tutto con un mega-concorso morale.
E’ un processo politico (nonostante a volte tentino di far passare i notav come delinquenti inclini alla violenza senza motivo), non vi è ombra di dubbio, lo dimostra il dibattito in aula con le esortazioni del procuratore ai giudici a giudicare con fermezza secondo una logica tutta politica di questi fatti, mascherata da episodi singoli (persino mal verificati). Per esemplificare quanto sostenuto, riportiamo qualche riga dell’intervento del procuratore, trascritta dal sito tg maddalena:
“Non passeranno alla storia questi soggetti, se ne dimenticheranno presto perché è […] hanno del disordine, dell’aggressione, fatto un sistema che gira per l’Italia, per l’Europa ma che non ha nulla a che vedere con la protesta. Se non facessimo così, se il giudice non affermasse che il comportarsi in questo modo, al di là dei singoli episodi, farebbe avvicinare pericolosamente questo stato ai livelli delle FARC […] non voglio che accada mai in questo paese, dove la libertà di manifestare è consacrata nella costituzione […] anche lo Stato ha diritto alla sua sfera di libertà e di azione che può essere contrastata con tutti i mezzi possibili immaginabili ma non con la violenza.”
Al quale ha riposto molto bene l’Avv.Pelazza:
“Dicendo che questi soggetti saranno dimenticati dalla storia, che sono gruppuscoli privi di valenza politica e insignificanti, il PG chiede un anatema nei loro confronti, chiede che voi siate giudici conflittuali, ma voi siete giudici in una società nella quale il conflitto esiste o per lo meno dovrebbe esistere, perché ricordo che il conflitto fa parte della storia, là dove il conflitto non c’è più siamo di fronte a modelli sociali che fanno paura, dall’89 in poi quando il conflitto è cessato siamo entrati nel periodo della società della guerra […]”.
La giuria ha accolto in parte la linea dell’accusa generando 38 condanne con pene che vanno dai 6 mesi ai oltre 4 anni e 6 mesi, alle quali si aggravano le provvisionali economiche. Si attenuano così alcune pene ma la legge mira anche al portafoglio degli imputati.
Al termine della sentenza i notav sono usciti in corteo con alla testa lo striscione “Siamo No Tav – Fermarci è impossibile – La Valle che resiste …e non si arresta !” attraversando la città fino a Porta Susa, scandendo la marcia con interventi, tra cui anche quello di Nicoletta Dosio, evasa e presente in solidarietà ai condannati.
In ogni caso nessun rimorso, ci vediamo in Clarea.
Lunga vita alla lotta notav, lunga vita ai ribelli della val Susa! tutti liberi! tutte libere!
novembre 2016, liberamente tratto da varie fonti
firenze: CONTRO la REPRESSIONE, la SOLIDARIETà è LOTTA!
Ci avviciniamo a Firenze ad un periodo pieno di processi. Dalla sentenza di appello il 24 ottobre per 11 compagni per i fatti di via della scala (per antifascismo), alla sentenza di primo grado del processone, 18 novembre, che vede imputati 86 persone. Si aprono, inoltre, e proseguono a dicembre, altri processi legati a iniziative antifasciste e contro il Job Act e la Buona Scuola.
Colpisce sicuramente il numero di processi, ed ancor di più il numero di compagni/e coinvolti, ma purtroppo non sorprende; è ben rappresentativo della situazione generale che in tutta Italia le lotte politiche e sociali si trovano ad affrontare da diversi anni, con intensità diverse ma sempre nel segno di un attacco deciso verso le forme di lotta conflittuali e che si pongono fuori dalle compatibilità, sempre più strette, imposte.
Non sorprende perché è il risultato di decenni ormai di politiche repressive e di negazione di spazi politici, che sono andate di pari passo a tutta un’altra serie di ristrutturazioni dell’intero sistema, dalle riforme istituzionali che vedono un ulteriore importante passaggio nelle proposte di modifica costituzionale ed elettorale di Renzi, alle riforme del mondo del lavoro o a quelle sulla scuola e formazione in generale.
Rimane stabile, anche questa ormai da decenni, una condizione di guerra permanente, principale direttrice su cui si sviluppano le politiche statuali, cornice all’interno della quale si riadegua la strategia repressiva di cui i nostri territori rappresentano il fronte interno, da anni investito da tutte quelle misure che stati e governi reputano necessarie per il controllo.
Repressione e controllo per le lotte politiche e sociali, per gli studenti nelle scuole, per i lavoratori sul posto di lavoro, così come semplicemente per ragazzi seduti in una piazza, per chi va allo stadio o per chi, dopo un fermo di polizia si trova morto “per epilessia”.
Perno costante che serve alla creazione di un contesto politico e culturale, utile alla ridefinizione della struttura e degli strumenti della repressione, è la politica dell’”emergenza”: emergenza immigrazione, terrorismo, emergenza droghe, bullismo, ma anche emergenza rifiuti o emergenza terremoto…
La politica emergenziale, già ben oliata nel ciclo di lotte degli anni ‘70/80, è leva di consenso attraverso il quale si sono legittimati tutti i passaggi che hanno segnato questa continua ristrutturazione: il 41 bis, i reati associativi, le leggi “antimmigrazione”, i CIE e i provvedimenti extragiudiziali, le leggi “antistadio”, la militarizzazione dei territori colpiti da calamità naturali e di quelli ritenuti di “interesse strategico” (muos, tav, discariche…). E’ uno degli elementi, insieme alla guerra, che legittima appunto la concentrazione dei poteri, sia a livello centrale che periferico, giustificando la politica della sicurezza e dell’uomo solo al comando, che esso sia il capo del governo, un prefetto libero di dare Daspo o divieti di dimora, un preside o un manager di azienda (magari pubblica).
Lo stato ha cooptato anche nuovi soggetti prima estranei a compiti di controllo poliziesco: stiamo parlando dei controllori sugli autobus, degli stewards allo stadio, del personale medico addetto al TSO, di alcune tipologie di lavoratori coinvolti nella gestione dei CIE, dei capetti sul posto di lavoro e dei presidi e il corpo docente nelle scuole dopo l’approvazione della Buona Scuola.
Alla cultura della “legalità e sicurezza” si accompagna la cultura della “guerra”, che legittima, anche in questo caso in nome di diverse emergenze, gli interventi militari e che ha nelle scuole ed università un importante luogo di diffusione: da qui la polizia in cattedra nelle scuole così come il proliferare di progetti gestiti da università e militari.
Così come anche norme come il Jobs Act agiscono anche sul piano del controllo e della repressione, dotando il padronato di tutti gli strumenti necessari per agire contro ogni tentativo di organizzazione dei lavoratori che esca da un livello di compatibilità con le esigenze produttive.
Lottare contro la repressione significa comprendere i meccanismi su cui essa fa leva per metterci a tacere e isolarci, innescare divisioni e percorsi de-solidaristici, non prestare il fianco alle divisioni tra buoni e cattivi ed alle dissociazioni che sempre con più frequenza vediamo riaffiorare oggi. Per noi il compito è quello di riallacciare legami e rapporti e la solidarietà uno strumento e una pratica di lotta. La lotta è l'unica via... Solidarietà!
novembre 2016
Le compagne e i compagni del CPA Firenze Sud
67 compagni/e condannati per complessivi 66 anni ed 8 mesi di detenzione, 15 assolti e diversi reati non passibili di condanna, tra cui l’accusa di “associazione a delinquere” per 7 persone. Queste, in breve, le cifre finali della sentenza di I° grado per il processo al Movimento Fiorentino: a fronte di una serie di iniziative punite con la condanna, i giudici hanno fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere, reato su cui era stata, in parte, costruita l’inchiesta e che aveva molto eccitato la stampa locale. Di fatto una bocciatura dell’impianto accusatorio e dell’indagine condotta dal Pubblico Ministero Coletta con l’ausilio della Digos di Firenze.
L’applicazione del reato associativo aveva, però, già svolto parte del suo compito: permettere mesi e mesi di intercettazioni telefoniche ed ambientali, prolungare l’inchiesta per oltre due anni, inserire in un unico processo diverse iniziative di lotta che poco avevano a che fare con le persone inizialmente indagate, consentire l’utilizzo della custodia cautelare per 35 persone tra domiciliari e firme ed alla criminalizzazione delle lotte politiche e sociali in città. D’altra parte, non si può certo essere soddisfatti di come siano andate le cose: 67 condanne complessive, con pene da due anni fino a 6 mesi, quasi sempre superiori alle richieste del PM, sono il frutto della compensazione dei giudici rispetto alla bocciatura del reato associativo.
Cremona: antifascismo a processo
Mercoledì 21 dicembre continua il processo per i gravi fatti del 18 gennaio 2015, quando il CSA Dordoni subì un'aggressione fascista nel corso della quale venne gravemente ferito Emilio, un nostro compagno che per un paio di mesi ha vacillato tra la vita e la morte.
Oggi siamo ancora chiamati a resistere. A partire dalle aule del tribunale di Cremona, dove la Procura esporrà tesi assurde, nelle quali gli aggressori fascisti vengono dipinti come gli aggrediti.
L'antifascismo non è appannaggio del passato: mentre chi ci governa devasta i nostri territori, attacca le nostre condizioni di vita, precarizza e vaucherizza il mondo del lavoro, smantella la scuola pubblica etc, i fascisti catalizzano la rabbia verso il basso, verso i più deboli, scatenando una guerra tra poveri. Fascisti e razzisti fanno il gioco di chi ci governa: invece che identificare i responsabili della crisi nei vertici alti delle sfere del potere, danno vita ad una guerra tra sfruttati.
Per ribadire l'attualità della pratica antifascista e per mostrare la nostra vicinanza ai compagni inquisiti, daremo vita ad un presidio di solidarietà antistante al tribunale.
Invitiamo ogni persona sinceramente antifascista a partecipare, per supportare i compagni e ribadire la necessità oggi come ieri di una forte presenza antifascita in città!
Per ribadire che la repressione non potrà mai spegnere il nostro bisogno di giustizia e di libertà.
CI TROVIAMO ALLE ORE 8:30 DAVANTI AL TRIBUNALE!
novembre 2016, da it.fievent.com
Roma: su quanto accaduto di recente alla Magliana
Sabato 5 Novembre, Forza Nuova aveva annunciato di voler sfilare per le strade di Magliana, inserendosi in una serie di iniziative di gruppi dell’estrema destra romana (Casa Pound in prima fila) che da un po’ di tempo stanno cercando di mettere le mani sul quartiere.
L’atteggiamento dei fascisti nei quartieri popolari romani è un copione che si ripete sempre uguale: utilizzare populismo e razzismo per guadagnare spazi di agibilità politica, alimentare la guerra tra poveri per trovare un facile consenso, aprire nuovi spazi e sedi per scopi elettorali e affaristici. Per questo il 5 Novembre era stata convocata una manifestazione di protesta, con lo scopo di impedire ai fascisti di sfilare tranquillamente.
Il teatrino che si è prodotto quel giorno è, anche questo, ormai noto. La questura nega le due manifestazioni, permettendo di fatto ai fascisti di sfilare indisturbati, mentre la manifestazione antifascista viene bloccata. Ne consegue uno scontro di qualche minuto, con diverse cariche della polizia.
Successivamente, mentre la polizia fermava compagni e compagne, con rastrellamenti anche nei bar e nei negozi, un gruppo di fascisti, insieme ad alcune persone del quartiere vicine a CasaPound, e sotto lo sguardo soddisfatto delle guardie, ha danneggiato il Centro Sociale Macchia Rossa. In seguito la polizia ha preso possesso del Centro Sociale Macchia Rossa, mettendo i sigilli del sequestro preventivo e murandone l’ingresso qualche giorno dopo.
Il bilancio della giornata è abbastanza pesante. Tra le oltre 50 persone fermate nei rastrellamenti successivi ai tafferugli, 10 sono state trattenute in carcere. Il mercoledì successivo, 7 sono state liberate per insufficienza di prove, mentre due di loro si trovano ancora in carcere e uno agli arresti domiciliari, con tutte le restrizioni.
Il reato più pesante contestato per la giornata è, insieme ad adunata sediziosa e la solita resistenza pluriaggravata, quello di devastazione. Reato che prevede diversi anni di reclusione e che da tempo è diventato strumento efficace nelle mani dello stato, che lo utilizza ormai sempre quando nelle piazze e nelle strade succede qualcosa che va oltre la protesta simbolica.
Non è nostra abitudine fare analisi e bilanci politici col senno di poi, convinti/e che valutazioni ed errori si discutano tra compagni e compagne. Ci teniamo solo a ribadire l’importanza dell’antifascismo nelle nostre pratiche quotidiane, nelle diverse forme che si ritengono opportune, e la solidarietà con chi si trova o si troverà colpito/a dalla repressione.
Mercoledì 23 Novembre presidio a piazzale Clodio durante le udienze per Eddy, Alberto e Felice al tribunale del riesame.
Scriviamo ai compagni dentro, sosteniamoli con le iniziative, facciamo sentire loro la nostra solidarietà:
Felice Adriani, C.C. Regina Coeli, via Lungara 29 – 00165 Roma
Per scrivere a Eddy, scriveteci che vi mandiamo il nome completo.
20 novembre 2016, da inventati.org/rete_evasioni
TORINO: ancora arresti e divieti di dimora, ancora resistenza e violazione delle misure!
Beh, che ci fosse in questi giorni più marcio del solito nell’aria lo avevamo annusato. Dopo lo sgombero, lunedì 14 Novembre, della casa occupata di via Lanino, situata proprio nel cuore del Balòn, nei pressi di Porta Palazzo, la polizia è tornata martedì 29 nel quartiere e ha fatto incursione in alcune case di Aurora a distribuire custodie e misure cautelari. La polizia è entrata anche all’Asilo occupato e in alcune case private, facendo perquisizioni e portando in questura tredici compagni e compagne: Silvia, Stefano, Daniele e Antonio sono stati arrestati e poi condotti alle Vallette; mentre nei confronti degli altri nove è stato spiccato il divieto di dimora dal comune di Torino. Durante il blitz le forze dell’ordine hanno portato via anche un compagno senza i documenti in regola che è stato rilasciato qualche ora più tardi con un invito a lasciare di sua volontà il territorio italiano in quindici giorni.
Il fatto contestato ai tredici risale al 2 maggio scorso e riguarda la resistenza a uno sfratto in Barriera di Milano. L’accusa portata avanti dal PM Andrea Padalino e poi ratificata dal Gip Loretta Bianco è di violenza a pubblico ufficiale con l’aggravante del concorso in più di dieci persone. Sull’infamia del pubblico ministero s’è detto tanto ma anche quella della giudice - e della sua firma - è ormai nota, perché già nel maggio del 2015 aveva emanato per la resistenza a una retata dei mandati di arresto nei confronti di cinque compagni e la cacciata da Torino per altri quattro. Si potrebbe dire che continua a fare delle “scelte cautelari” coerenti, soprattutto agganciandole a un impianto accusatorio che, detto fuor dei denti, provoca ancor più rabbia per quanto è fumoso. Andando a piè pari alle carte tribunalizie è deducibile che attraverso il reato ravvisato, passe-partout di parecchie inchieste compreso l’ingente procedimento del 3 giugno 2014, a essere messo al banco è proprio uno strumento base di parecchie lotte: il picchetto, ovvero, nel caso specifico, l’aver portato l’ufficiale giudiziario D’Angella a non sbattere fuori di casa delle persone che avevano deciso di resistere. E sebbene ci piacerebbe immensamente raccontare che questo è avvenuto con gesta riottose, è bastata la presenza ostinata a resistere a decretare la situazione criminosa. Del resto il suddetto ufficiale, un mentecatto che s’aggira con un cappellino della NASA, non sembrava in quella situazione trovarsi sotto minaccia, anzi rideva fragorosamente della scenetta che l’avvocatessa della proprietà stava tirando su. Funzionamento intellettivo a parte, mentecatto per mentecatto, è quest’uomo a essersi prestato a mandare in primis quattro compagni in galera, non ce lo dimenticheremo di certo.
I nove banditi (di cui due ancora senza notifica della misura) non sembrano intenzionati ad andarsene dalla città quanto piuttosto continuare nelle lotte con ancora più bile; già qualcuno proprio stamane è per le vie di Aurora a picchettare contro uno sfratto con tanti complici e solidali.
È notizia degli ultimi giorni che la Gip Loretta Bianco si è rimangiata in parte ciò che ha in primis sostenuto, convalidando sì l’arresto per Silvia, Stefano, Antonio e Daniele, ma non più in carcere, bensì ai domiciliari.
Per sostenere i compagni che hanno scelto di non rispettare le misure di allontanamento dalla città e i compagni arrestati sono in programma diverse iniziative in città a partire da un fragoroso presidio al carcere delle vallette (domenica 4 dicembre).
dicembre 2016, liberamente tratto da autistici.org/macerie
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Incorreggibile Tepepa
Apprendiamo che questa mattina (9 novembre 2016) Tepepa (Ennio Senigaglia, per lo stato) è stato trasferito al carcere delle Vallette, nonostante i 79 anni di età (che non riescono comunque a cambiare la sua natura di ribelle).
Per la seconda volta in un mese Tepepa è stato arrestato dai carabinieri per evasione. Infatti si trova da circa due mesi agli arresti domiciliari in quanto accusato di concorso in rapina. Un mese fa, Tepepa veniva arrestato mentre si trovava all’ufficio postale di Moncalieri per ritirare la pensione. Il giudice, processatolo per direttissima, lo condannava a 9 mesi di reclusione, disponendo ancora una volta gli arresti domiciliari. Ieri sera invece veniva sorpreso nel bar che si trova all’interno del cortile del palazzo in cui abita. Tanto è bastato per far scattare un nuovo arresto.
Lui vive solo, ma non ha alcun permesso per uscire che gli consenta per esempio di andare a far la spesa, ritirare la pensione ecc. Non ha nemmeno parenti che possano provvedere a queste necessità quotidiane di base. Ecco perché se ne fa un baffo delle restrizioni imposte dal giudice.
Lo sosterremo e seguiremo nella sua nuova avventura e invitiamo tutti a scrivergli:
Ennio Senigaglia, Via Adelaide Aglietta, 35 - 10149 Torino (TO)
9 novembre 2016, da infoaut.org
Il C.A.A.T di Torino bloccato dallo sciopero dei facchini
Cronaca della nottata
Lo sciopero generale del 21 ottobre inizia a mezzanotte e zero uno, a Torino; circa un centinaio di lavoratori e solidali si sono ritrovati davanti al C.A.A.T, il Centro Agro Alimentare Torinese e ne hanno bloccato i cancelli. Obiettivo: creare un danno economico e impedire all’interporto ortofrutticolo di funzionare per questa notte.
Il 21 ottobre si sciopera in tutta Italia. I lavoratori di tutte le categorie pubbliche e private sono stati chiamati a protestare dai sindacati di base Usb, Unicobas e Usu: sono previste iniziative, manifestazioni e cortei in moltissime città. È uno sciopero generale che chiama a protestare contro le politiche sociali ed economiche del governo Renzi, contro la precarizzazione del mondo del lavoro promossa con il Jobs act, contro la Buona Scuola, la distruzione dello Stato Sociale, la guerra e la riforma costituzionale. Contro la persecuzione dei migranti e l’austerity. Le scuole e i trasporti saranno probabilmente due dei settori più coinvolti.
Blocco degli ingressi
I lavoratori, supportati da solidali e dal sindacato Si.Cobas, sono riusciti a bloccare l’ingresso dei commercianti per circa quattro ore e mezza. I furgoni dei commercianti che chiedevano di accedere sono rimasti bloccati dai manifestanti che hanno occupato la strada e rifiutavano di spostarsi. Numerose le discussioni tra commercianti arrabbiati che gridavano di lasciarli passare e i facchini in protesta. Prende la parola uno di loro: “Abbiamo convocato questo sciopero perché vogliamo cambiare la storia di questo mercato”, dice F. dei Si Cobas. “Sono anni che parliamo e che facciamo tavoli con il comune. Ma la situazione non sta cambiando, anzi peggiora; in due anni questo mercato non è riuscito a controllare le situazioni di illegalità contrattuali che ci sono in tutte le cooperative.”
“Noi siamo qui per chiedere dei contratti dignitosi per TUTTI i lavoratori”. Afferma il sindacalista.“Noi chiediamo un contratto nazionale, quello della logistica. Però questi contratti non vengono rispettati qua dentro. Per questo noi chiediamo che si istituisca una commissione, una commissione fatta da rappresentanti dei lavoratori, che devono avere l'autorità di controllare le buste paga, i contratti, di controllare come pagano queste cooperative. Li dobbiamo controllare.” Poi conclude: “Ma per fare questo bisogna eliminare la testa del serpente, la cooperativa che fa da capostipite a questa situazione di illegalità e di sfruttamento. Per cui noi diciamo che da questo mercato, Taruk (il nome di una delle cooperative) deve restare fuori!”
Il mercato generale ortofrutticolo di Torino
I mercati generali nascono nel 1928, in via Giordano Bruno. Nel 2002 si spostano vicino all’Interporto di Orbassano. Il mercato si estende su una superficie di circa 440.000 mq (120.000 coperti): al suo interno si muovono più di 500 tonnellate di merci, per un giro di c.a. 550 milioni di euro annui. Il terzo mercato ortofrutticolo d’Italia.
Il CAAT è controllato al 92% dal Comune di Torino; è lui che concede le piazzole ai grossisti che poi le appaltano alle varie cooperative con l’incarico di caricare e scaricare le merci. I facchini sono l’ultima ruota del carro di questa macchina inarrestabile; sono considerati “soci”, e non dipendenti, e passano la notte a muovere cassoni e cassette. Senza contare le decine di immigrati di “irregolari” che entrano più o meno di nascosto nella struttura nella speranza di essere assunti per la nottata di lavoro.
Non c’è un contratto nazionale, nessuna protezione; più di 800 facchini lavorano al CAAT: eppure non gli sono concesse né ferie né malattie, non esiste una sala medica interna ma soprattutto il lavoro in nero e quello sottopagato è ovunque.
Questo chiedono i facchini, che protestano nella notte appena cominciata: un contratto regolare e che corrisponda al loro lavoro per tutti; giusti livelli retributivi (paga minima di 8 euro); di lavorare effettivamente 8 ore, e non molte di più come accade attualmente; ferie, pagamento dell’assenza per malattia, fine della concorrenza sleale tra cooperative per pagare meno i lavoratori.
Lacrimogeni e inseguimenti
Verso le 3,30 del mattino, la Digos ha cominciato a intimare i sindacalisti di far spostare la gente dal passaggio, altrimenti l'avrebbero fatto loro con la forza. Dopo una breve consultazione i lavoratori hanno deciso a votazione di restare sulla strada e continuare il blocco sedendosi per terra e resistendo passivamente alle forze dell'ordine, molto numerose sul posto. Carabinieri e polizia si sono schierati davanti ai lavoratori seduti e gli hanno ordinato di alzarsi; senza attendere risposta, hanno gettato dei lacrimogeni obbligando le persone a muoversi e poi le hanno allontanate servendosi degli scudi. Le porte dell'interporto si sono aperte e i camion hanno ricominciato il loro lavoro.
La massa di lavoratori e solidali non si è dispersa ma disordinatamente ha invaso la strada più in su. Le forze dell'ordine sono intervenite di nuovo disperdendo i manifestanti più volte e inseguendoli. La protesta si conclude, per il momento, verso le 5 del mattino.
21 ottobre 2016, tratto da infoaut.org
Insegnanti come farmacisti
Continua la distruzione della scuola pubblica e con essa l’affermazione del modellamento sociale secondo logiche disumanizzanti che ci vogliono sempre più automi e robotizzati. Segno incontrovertibile di tutto ciò è purtroppo la nuova figura dell’insegnante di Sostegno prevista, tra tanti altri cambiamenti, dal DDL 107 “La buona scuola” e che sarà esecutiva dal prossimo anno.
Ma chi è l’insegnante di Sostegno? E’ soltanto da una quindicina d’anni che un doppio prof staziona stabilmente in quasi tutte le classi d’Italia, dalle elementari alle superiori, ma è già dal 1992 che viene introdotta nella scuola questa figura che, supportata da contestuali corsi di formazione, va ad affiancarsi ai ragazzi con disabilità fisiche e mentali e ad interagire con l’insegnante di materia e con gli alunni tutti.
Il prof di Sostegno è un normale insegnante d’Italiano, d’Inglese, di Matematica, di Latino o Musica, che mette la propria competenza, costruita sull’esperienza vissuta con i ragazzi “normali”, a disposizione di ragazzi bisognosi di attenzioni particolari. Il fine è quello di includere l’alunno nel gruppo classe e il gruppo classe con l’alunno. Che le buone intenzioni, nei fatti, si realizzino sempre non è detto ma il presupposto di annullare barriere, creando ambienti dove la norma sia lo scambio paritario tra esigenze diverse, mi sembra una buona logica di partenza.
Dall’anno prossimo invece, il Sostegno diventerà una classe di concorso a sè stante, e sarà inserita in un percorso universitario ad hoc, che prevede una riduzione dello studio di materie classiche come Matematica, Lingue, Italiano, a fronte di una prevalenza di corsi ad indirizzo psicoterapeutico e infermieristico. Le carriere tra insegnanti di materia e di Sostegno saranno separate.
Parole esemplificative del rischio di ghettizzazione di un ragazzo disabile, con disturbi d’apprendimento o semplicemente straniero, da parte di questa nuova figura sono quelle di una Prof d’inglese, da undici anni convertita all'istruzione a sostegno. «Creare un percorso speciale è discriminante per l'alunno disabile e per l'insegnante. La nuova figura di docente che viene fuori dalla legge Faraone, Sottosegretario alla cultura, non è né carne né pesce: lo studente, durante il percorso universitario, perde due anni di discipline del curriculum, italiano, inglese, matematica, e sul piano psicopedagogico e medico avrà in cambio solo un'infarinatura teorica. Come potremmo spiegare a una famiglia che suo figlio, bisognoso di un'attenzione speciale o affetto da una forma di autismo, non può imparare l'inglese come gli altri? Dallo stesso tipo di prof?». L'insegnante d’Inglese sostiene che bisognerebbe muoversi piuttosto nella direzione contraria: «Allargare le nozioni del sostegno a tutti i docenti nella fase di formazione e chiedere a tutti, magari con un aumento di stipendio, di sostenere il ragazzo insieme al resto della classe. Questa è didattica inclusiva». Quindi? «La prof di francese, latino e chimica andrà affiancata da un docente che ha scelto la strada del sostegno, si chiama co-docenza. Oggi un insegnante di sostegno sta con un ragazzo bisognoso nove ore a settimana, troppo poco. E poi quando nella sua scuola non ci saranno ragazzi da sostenere che ne facciamo di quell'insegnante, lo mandiamo a fare le pulizie?”
Altro tasto dolentissimo è il rischio deriva verso la medicalizzazione del sostegno scolastico. I nuovi prof saranno specializzati secondo le diverse forme di patologie. Ci sarà il Prof di autismo, di sindrome di Down e quello di dislessia. Quindi il Prof-infermiere dovrà spostarsi tra una scuola e l’altra in cerca del malato di sua pertinenza? E come la mettiamo con la necessità e il diritto del disabile all’inclusione in un contesto di “normalità”, e di non sentirsi solo un H, un DSA, un BES, un ADHD, sigle ed acronimi frutto di esigenze scientifiche? Questi avrà la possibilità di somministrare farmaci a scuola, psicofarmaci come il Valium o il Ritalin, già ampiamente prescritti dagli psichiatri, con incarico di somministrazione affidato, oggi, solo alle famiglie. La scuola rischierebbe così di trasformarsi in una sorta di succursale di istituto psichiatrico, o di somigliare ad una delle tante carceri italiane dove queste sostanze circolano a fiumi, somministrate ai detenuti per tenerne a bada legittima rabbia e frustrazione?
Un insegnante
Sesto San Govanni (MI), novembre 2016