indice n.115
Libia, la grande spartizione
sulla guerra in siria e i suoi sviluppi
La guerra del popolo kurdo in Turchia
La Germania assume un ruolo chiave in Africa
In Turchia è stato d'emergenza
torino: ancora “misure preventive”
lotte nelle carceri egiziane
comunicato dalla quarta sezione del carcere di vicenza
Davide trasferito da agrigento ad augusta
da sulmona (aq): Sulla carcerazione sotto il regime 41bis
lettere dal carcere di milano-opera
lettera dal carcere di Livorno
Saluto al carcere di Ferrara
Lettera di Marco: aggiornamento della ‘discesa’
sull’importanza di un soccorso antifascista
USA: guerra di classe aperta
Beaumont-sur-Oise (francia): la polizia uccide, notte di rivolta
La lotta dei maestri infuoca il Messico
notizie dal fronte no tav
parma: IN MERITO ALLO SGOMBERO DELLO STABILE DI VIA ZAROTTO
Firenze: due giorni di lotta per spazi di libertà
Libia, la grande spartizione
«L'Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.
Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.
È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.
Agli odierni raid aerei Usa in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l'utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».
Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.
Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia». Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.
3 agosto 2016, da marx21.it
sulla guerra in siria e i suoi sviluppi
Seguono l’intervista apparsa presso il giornale online Vzglyad/Visione (взгляд) del rappresentante del Partito di Unione Democratica (PYD) in Russia Abd Salam Alì e del responsabile dell'ufficio diplomatico del Kurdistan Siriano a Mosca Rodì Osman relativa all'invasione della Turchia in Siria e l'occupazione di Jarabulus.
Sig. Alì non avete la sensazione che Mosca, Washington, Ankara e Damasco si sono già accordate in maniera tacita per la divisione del paese in zone d'influenza?
In realtà, la Siria è già divisa in zone d'influenza da diverse potenze. Il territorio controllato dal regime siriano è sotto la sfera d'influenza della Russia. La Turchia ha rispettivamente, sotto sua sfera d'influenza contemporaneamente lo Stato Islamico (IS), l'Esercito Libero Siriano (ELS) e il Fronte Al-Nusrah (che ha cambiato suo nome in Fronte Fatah as Sam). I Kurdi cercano di rimanere equidistanti sia dalla Russia sia dagli Stati Uniti.
Dopo l'invasione della Turchia, che piani hanno per il prossimo futuro i Kurdi della Siria?
La cosa più probabile è, mentre stiamo parlando, che la leadership militare del Kurdistan Siriano stia elaborando un piano su come affrontare l'invasione turca. L'unica cosa che io posso dire è che noi siamo categoricamente contrari all'immischiarsi di Ankara agli affari interni della Siria. Il significato di quanto accade è la violazione della sovranità statale della Siria. Inoltre ci disturba il fatto che neanche un rappresentante della comunità internazionale abbia finora condannato in modo netto le azioni turche, limitandosi a dichiarazioni di preoccupazione. La sensazione è che la Turchia agisca in accordo con le potenze mondiali. In che cosa consiste questo accordo non lo posso sapere.
Come pensate che si evolverà la situazione?
Posso dire soltanto una cosa: a Novembre dell'anno scorso, l'occidente ha spinto la Turchia a rompere le sue relazioni con la Russia. Fu allora che l'aviazione turca ha abbattuto l’aereo Su-24 russo. Ciò ha avuto ripercussioni pesanti sul piano economico e politico per la Turchia. Ora qualcuno ha spinto Erdogan ad invadere la Siria. L'esercito turco ha liberato Jarabulus, cosa che non ha potuto fare dal 2013, mentre ora l'ha fatto senza neanche dare battaglia. Per come questa "liberazione" si è svolta così rapidamente, ho ogni motivo di sospettare che si è trattato di una "messa in scena". Gli islamici hanno tagliato le loro barbe e hanno disertato verso i "moderati" [dell'opposizione]. Tuttavia, in terra siriana è possibile entrare con le proprie gambe ma non è detto che se ne esca da soli. Ritengo che questa decisione avrà delle conseguenze anche per la Turchia.
Come valutate la dichiarazione del vice presidente degli Stati Uniti Joe Biden, di sostenere l'operazione turca?
Joe Biden è prima di tutto un politico. Quando si è trovato in Turchia, ha mandato un ultimatum verso i Kurdi della Siria, affinché non attraversassimo l’Eufrate. Ma nello stesso momento, Washington di nuovo dava il suo sostegno all' "Unione Democratica" [Forze Democratiche Siriane, FDS, a cui partecipano anche i kurdi], e ora c'è una preparazione congiunta per la liberazione di Raqqah dai combattenti dell’IS. Inoltre, l'esercito dell'Unione Democratica, in accordo con gli Stati Uniti, aveva liberato una settimana fa la città di Manbij dall’IS, consegnando l'amministrazione al Consiglio della città.
Di recente, vostre unità militari, per la prima volta dall'inizio della guerra civile, si sono scontrate con le forze governative siriane, anche se fino ad allora li consideravate come alleati nella lotta contro l’IS. Questo è successo nella città di Hasakah. Ora, dopo l'ingresso dell'esercito turco, non sono aumentati un po' troppo i vostri nemici? In condizioni come queste, non desiderate di trovare un accordo almeno con Assad?
Assad ha pensato che le Forze Democratiche Siriane - alle quali partecipano non solo Kurdi ma anche Arabi, così come membri di diversi popoli della Siria del nord - si erano indebolite per via dei duri combattimenti con l’IS e ha deciso di provare la nostra capacità di resistere, tentando di prendere il controllo di Hasakah. Faccio notare che per la prima volta Assad ha usato contro i Kurdi la sua aviazione militare. Tuttavia, ha preso una risposta appropriata. Se la Russia non fosse intervenuta molto probabilmente egli avrebbe perso il controllo di Hasakah.
Questo ci fa sospettare che la Turchia agisca ora avendo fatto qualche accordo con Assad. In base ad informazioni che ho ricevuto, un ufficiale turco di alto rango si è incontrato poco tempo fa con rappresentanti del governo a Damasco. Ma anche così, i Kurdi della Siria hanno forze a sufficienza per reggere sia contro l’IS, sia contro Assad e la Turchia. Cosa succederà in seguito, ce lo dirà il tempo.
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Sig. Osman, precedentemente sia lei che la Russia avete ripetutamente accusato Ankara di collaborazione con l’IS. Ma l'esercito turco ora è entrato in Siria e ha già cominciato a fare pressione sull’IS. Pensate che è cambiata la situazione?
Ma se i combattenti dell’IS non fossero alleati di Erdogan sarebbe mai stato possibile che avrebbero lasciato che Jarabulus fosse occupata nell'arco di poche ore? Non sarebbe stato possibile! [...] Fino a che Erdogan sarà dov'è ora, l’IS non andrà via.
Qual è dunque l'obiettivo di Erdogan? Fino ad ora, le autorità turche hanno dichiarato che vogliono la creazione di una zona di sicurezza per la popolazione di Jarabulus.
L'obiettivo di Erdogan è la conquista di un pezzo del territorio della Siria del nord ed insediare là i suoi sostenitori. Questa invasione conferma che Erdogan vuole realizzare il suo sogno di resuscitare l'impero Ottomano. Erdogan, le cui mani sono sporche col sangue del popolo siriano, non può essere riconosciuto come suo difensore, perché colui è il sostenitore della violenza e del terrore. L'invasione è una violazione della sovranità della Siria. L'azione dei turchi è una sorta di vendetta nei confronti dell' "Unione delle Forze Democratiche" alla città di Manbij, per via del fatto che questi hanno cacciato di recente da lì i combattenti dell’IS, alleati della Turchia.
Prima dell'avvio dell'operazione, la Turchia ha informato la Russia, gli USA, l'Iran e altri membri della comunità internazionale. Però ci sono rapporti secondo i quali diversi paesi rivendicano per sé zone di controllo della Siria. Ritenete che alla fine della guerra sarà mantenuta l'integrità territoriale della Siria?
Le potenze internazionali dovrebbero prendere posizione contro i piani di Erdogan il quale sta occupando territorio straniero. Alla Russia, che non vuole che ci sia la guerra civile, vorremmo dire che negli ultimi cinque anni abbiamo potuto creare un sistema democratico e giusto. Nella nostra società sono rispettati i diritti e le libertà di tutti i cittadini, e sono rispettati i diritti delle donne. Anche questo potrebbe essere una risposta alla domanda relativa alla soluzione della crisi siriana. I confini della Siria devono restare così come sono. Noi, non permetteremo in nessun caso che la Siria del nord si trasformi in una seconda Cipro affinché le autorità turche possano insediare là terroristi. Perché non esiste nessuna differenza tra lo Stato Islamico e le altre bande criminali.
Che ruolo vedete al futuro per i guerriglieri filoturchi dell'Esercito Libero Siriano?
Sotto questo nome, Esercito Libero, si radunano le forze terroriste, alleate di Erdogan: Fronte Al Nusra, Ahrar al Sam, Sultan Murat, Nur el Zengher, Jais al Fath. Sono loro i combattenti che hanno invaso Jarabulus. Non possiamo non dire che queste forze sono estremisti. Sono gli stessi che l'anno scorso combattevano ad Afrin, ai sobborghi di Aleppo, al quartiere Sheikh-Mahsud. E inoltre, ad Aprile di quest'anno hanno usato armi chimiche vietate contro la popolazione civile. Sono delle pedine nelle mani di Erdogan, vuole posizionarli tra i cantoni di Afrin e di Kobane per creare una zona neutrale.
Come intendete di agire in seguito?
Non siamo per la guerra e non l'abbiamo mai cercata. Ma per difendere il popolo, il territorio di Rojava, i confini nord della Siria, combatteremo fino alla fine. Siamo nella nostra terra. La Turchia non ha alcun diritto di oltrepassare i confini della Siria ed immischiarsi agli affari interni del nostro paese.
Milano, agosto 2016
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A inizio agosto è iniziata la battaglia attorno ad Aleppo
I combattimenti ad Aleppo non si fermano. Decisivo per il futuro della città sarà il modo in cui si svilupperà la situazione militare nel nord e nell’est della città. Là sono concentrate le più forti unità siriano-kurde, l’YPG e l’YPJ. Dopo un lungo riserbo adesso in Aleppo cooperano apertamente con le forze siriane e russe.
L’Istituto Washington per la Politica del Vicino Oriente chiede per questo al governo USA di dare maggior sostegno all’opposizione “moderata, araba sunnita”, per impedire un rafforzamento dei kurdi e della loro “espansione” verso ovest. I kurdi vengono ancora compresi dagli USA fra le “Forze democratiche siriane”. A questa definizione appartengono tanto gli ex combattenti del “Esercito Siriano Libero” che altre milizie arabe quali i Peschmerga (l’esercito di Barzani) del nord-Irak: stretti alleati loro e della Turchia. Anche la Germania ha armato e addestrato militari kurdo-iracheni.
Wladimir Schapowalow della Scholochow-Università di Mosca spiega che: “… il territorio di Aleppo per le parti in guerra ha un significato geo-strategico. Per le truppe del governo e dei suoi avversari, per la Turchia e l’Arabia Saudita, ma anche per gli USA, il controllo su Aleppo è la chiave per il controllo sul territorio siriano e sui paesi confinanti.” Questo chiarisce perché là ci sono oggi 2.000 soldati della NATO, come dice nello stesso programma lo scienziato-politico russo Semjon Bagdassarow : “… una metà sono forze speciali e truppe di pionieri USA, l’altra truppe danesi, inglesi, francesi e tedesche.”
Nella città di Aleppo le forze ribelli siriane hanno spezzato l’assedio e in tal modo reso possibile la salvezza di oltre 1 mln di persone assediate. Le ‘truppe di Assad’ sarebbero ora accerchiate, quelle jihadiste combattono disperatamente. La popolazione di Aleppo viene in ogni momento della giornata bombardata con missili e mortai che uccidono e feriscono le persone, che abbattono le case.
Fino a qualche anno fa nella metropoli nord-siriana vivevano almeno 3 mln di persone. Quando nel 2012 i gruppi armati compirono le prime irruzioni – allora si chiamavano ancora ‘Esercito Libero Siriano’ – distrussero pressoché tutto quello che gli abitanti avevano costruito: le fabbriche di ogni ordine e dimensione disposte nella periferia vennero saccheggiate. Impianti completi, banchi di lavoro, computer, impianti telefonici, automezzi di ogni tipo scomparvero in direzione della Turchia.
Allora fuggirono da Aleppo 1,5 mln, l’altra metà rimase nella speranza che le attività riprendessero presto. E’ andata diversamente.
agosto 2016, liberamente tratto da jungewelt.de
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Sardegna: Se i militari non sloggiano, noi neanche
In Sardegna sono stati organizzati due momenti di dibattito e lotta contro l’occupazione militare: il 7-11 Settembre 2016 A Foras Camp presso il bosco di Selene (Lanusei) e il 6-10 Ottobre 2016 il campeggio antimilitarista della rete no basi né qui né altrove nella zona di Decimomannu. Riportiamo di seguito due brevi estratti dei comunicati di presentazione dei due campeggi, sperando di trovarci in tanti e tante oltre le reti delle basi militari.
Dal volantino di presentazione di A Foras Camp:
“Tavoli di discussione, approfondimento, concerti, assemblee, momenti comunicativi nel cuore dell’Ogliastra, una delle regioni maggiormente funestata dalla presenza militare in Sardegna, costretta alla convivenza forzata con il poligono più grande d’Europa, quello di Quirra. Si tratta di un momento importante di incontro, sviluppo e approfondimento di relazioni, una tappa di costruzione di sintesi verso l’autunno, quando verrà riaperto il calendario delle esercitazioni nei poligoni sardi.
L’importanza di arrivare a questa scadenza con una proposta di lotta all’altezza è confermata dalla ristrutturazione che si profila all’orizzonte, spinta anche dalla crescita del movimento contro le basi degli ultimi due anni. (https://aforascamp2016.noblogs.org/)
Dal volantino di presentazione del Campeggio antimilitarista:
“La Rete No Basi né Qui né Altrove propone anche quest’anno cinque giorni di mobilitazione e campeggio, in concomitanza con l’inizio del secondo semestre di esercitazioni militari, per rafforzare i percorsi di lotta contro il militarismo e la militarizzazione dei territori della Sardegna e non solo.
In questo momento l’asse Base Aerea di Decimomannu – Poligono di Capo Frasca può diventare, se già non è così, l’anello più debole della presenza militare in Sardegna.
La crisi innescata dall’annunciata dipartita dell’aeronautica tedesca al termine del 2016 potrebbe mettere in forte dubbio l’esistenza stessa dell’aeroporto militare e, conseguentemente, del poligono di Capo Frasca. Per questi motivi vogliamo creare un clima sempre più ostile contro i militari, affinché possibili nuovi affittuari (in sostituzione dei tedeschi) rivedano i loro propositi e gli italiani stessi vadano sempre più in crisi.
Il campeggio non vuole essere una mera iniziativa d’opinione: in quei giorni vorremmo che si alternassero momenti di lotta, socialità, analisi, dibattito, approfondimento, presenza sul territorio e tanto altro. (nobasi.noblogs.org)
La guerra del popolo kurdo in Turchia
Il quartier generale delle forze di polizia nella città di Cizre, nel sud-est della Turchia, venerdì 26 agosto è stato completamente distrutto da un attacco del PKK (Partito del Lavoro Kurdo). Secondo notizie ufficiali nell’esplosione sono morti undici poliziotti, quasi ottanta feriti. L’agenzia kurda Firat annuncia invece un maggior numero di morti e spiega che la caserma era un centro dei servizi di polizia speciali. Da lì partivano operazioni a Cizre condotte da fascisti e jihaddisti addestrati dai servizi, tutti responsabili dell’uccisione di oltre 300 civili.
Nel corso del coprifuoco (cioè, la popolazione kurda costretta a nascondersi…) durato per l’intero inverno, sono morte bruciate nelle loro cantine 140 persone, fra le quali il presidente del Consiglio Popolare di Cizre, Mehmet Tuc.
Nell’attacco la guerriglia kurda si richiama all’isolamento carcerario riservato a Abdullah Ocalan, comunicando che nelle ultime settimane sono stati compiuti, per la stessa causa, 6 attacchi ad altrettanti centrali di polizia; che da aprile 2015 ad Ocalan sono vietate le visite di parenti, avvocati e politici kurdi; da mesi non si hanno notizie sulla sua condizione. Ad Imrali, l’isola dove è prigioniero Ocalan, sono stati portati i militari arrestati per il tentato colpo di stato di metà luglio.
Già giovedì 25 agosto ad Artyin, provincia del mar Nero, è avvenuto uno scontro a fuoco fra unità del PKK e unità dell’esercito che scortavano Kemal Kilicdaroglu (presidente del Partito Popolare Repubblicano – kemalista), che appoggia Erdogan. In un comunicato il “Movimento Popolare Rivoluzionario Unito” (organizzazione marxista-leninista, che ha condotto l’azione) chiarisce che “obiettivo dell’azione non era Kilicdaroglu ma invece le forze di intervento dello stato turco”.
Nelle notti successive truppe di invasione turche hanno colpito le posizioni kurde nei pressi di Manbij, città liberata il 13 agosto. L’YPG non avrebbe, come richiesto dagli USA, il permesso di oltrepassare la riva est del fiume Eufrate, a questa motivazione ha fatto ricorso il governo turco. A fianco delle truppe turche si sono mossi i combattenti dell’ “Esercito Libero Siriano” che hanno attaccato il villaggio Dandania (vicino Manbij) con armi chimiche. Ci sono foto che mostrano persone incendiate…
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sulla repressione dei curdi in germania
In Germania lo stato, in perfetta sintonia con lo stato turco, colpisce chi in Turchia combatte per il comunismo e per l’autodeterminazione dei popoli e del popolo kurdo in particolare.
Il 17 giugno 2016 è iniziato di fronte alla corte d’appello di Monaco di Baviera il processo contro dieci compas della “Confederazione dei Lavoratori della Turchia in Europa” (ATIK, iniziali dal tedesco). Nell’aprile 2015 in un’operazione, coordinata dalla polizia tedesca, vennero arrestati sette membri e attivisti dell’ATIK in Germania e tre rispettivamente in Svizzera, Francia e Grecia –estradati in Germania. Qui vennero chiusi in carceri diversi e sottoposti all’isolamento, cioè, come scrivono nelle lettere dal carcere: isolamento individuale 24 ore su 24, una sola ora d’aria al giorno, due colloqui al mese con i famigliari…
In una lettera dal carcere il compagno Muslum Elma chiarisce ragioni e scopi di ATIK:
“Quando in Turchia vedremo fiorire le rose della democrazia e della libertà ci troveremo qui davanti al tribunale per coglierle. Quando i kurdi non verranno più perseguitati. Quando la regione kurda non sarà più ridotta in un bagno di sangue, sottoposta a ferro e fuoco. Quando non esisterà più la repressione brutale della libertà d’opinione e di pensiero. Quando Erdogan nel suo palazzo e la sua banda aggiungeranno alla loro ideologia razzista “uno stato, una nazione, una bandiera, una lingua”, non anche “solo una voce” e quando riusciranno a considerare la polifonia non come ‘terrorismo’. La procura federale si è occupata di alcune conseguenze, ma in generale non si è interessata delle loro cause. Poiché il copione che ci costringe sul banco delle e degli accusat* è un presupposto comune allo stato tedesco e turco.
In ogni caso io non posso fare affidamento su un processo onesto. Su di noi è calata la pesante democrazia dell’Europa di oggi. Questa pesantezza ci ricorda la spada degli ottomani. Senza dubbio non piegheremo la testa di fronte a questa spada. Sopportiamo il dolore. Possiamo anche lasciarci la vita. Ma piegarsi non è parte della discussione.”
L’accusa per tutt* è “appartenenza al Partito Comunista Turco/marxista-leninista (TKP/ML)”, organizzazione considerata “terrorista”, inserita nella lista nera della NATO, e quindi le e i compas, in base all’art. 129b del codice penale tedesco, sono accusati di “appartenenza ad associazione sovversiva con finalità di terrorismo”.
Quel giorno davanti al tribunale si sono incontrate almeno 500 manifestanti attrezzati con impianti sonori. In aula la polizia cerca di mettere le catene ai piedi delle e dei compas sotto processo e ancora in galera. Chi entra in aula da fuori, sia femmina che maschio viene sottoposto a perquisizione corporale minuziosa, l’ingresso è rallentato fino all’esasperazione. L’aula è costruita in modo che “il pubblico” possa vedere in viso soltanto di giudici e pm. Inoltre, possono entrare appena 100 persone, cosicché il pubblico alterna lunghe attese fuori a pochi minuti in aula.
I, le compas prigioniere comunque arrivano in aula con il pugno alzato e vengono salutat* con urla di solidarietà lanciate dal pubblico; si capisce che la loro volontà e resistenza non sono state spezzate, anzi!
Il 4 agosto la corte d’appello di Amburgo ha condannato il militante kurdo Bedrettin Kavak a 3 anni di carcere; il pm ne aveva chiesti 4. Kavak ha già passato 24 anni nelle galere della Turchia, dove è stato più di una volta pesantemente torturato. Il pm non lo accusa di nessuna colpa concreta, ma al contrario di aver organizzato, come quadro responsabile del PKK, manifestazioni e ricomposto i conflitti nella comunità kurda in Germania. Sempre sulla base dell’art. 129b il compagno è perciò responsabile dell’agire del PKK in Turchia: assunto che permette al giudice di considerar Bedrettin assassino, omicida.
Ad ognuno degli oltre 30 giorni di processo erano presenti 20-50 manifestanti. Nelle ultime udienze Kavak ha esposto in una dettagliata dichiarazione la propria formazione politica, la carcerazione e l’esperienza della tortura. “In Turchia i kurdi da decenni oppongono resistenza alla sistematica violazione dei diritti umani, ai crimini di guerra e alla repressione della popolazione (kurda). In Medio Oriente, il PKK è la forza che lotta per la pace e la democrazia, per il reciproco e pieno rispetto di tutte le etnie contro la sistematica vendetta dello stato; nessuno ha il diritto di condannare la resistenza legittima.”
I giudici nella sentenza caratterizzano quel che accade in Turchia, al più, come “fatti preoccupanti”, per concludere che, ciononostante, i kurdi non hanno il diritto di difendersi con le armi. Nelle loro conclusioni giungono a paragonare il PKK all’esercito turco…
Un esponente del Centro Sociale Democratico dei kurdi, NAV-DEM, ha criticato “il fatto che nei processi fondati sul par. 129b contro i kurdi non viene mai soppesato a sufficienza fino a che punto e perché la resistenza del PKK si pone contro la violazione sistematica dei diritti e contro i crimini di guerra eseguiti dallo stato, come invece è stato fatto nei confronti dall’ANC (Congresso Nazionale Africano, al tempo del razzismo) in Sudafrica. Nel 2013 la corte di cassazione aveva sentenziato che in gioco non c’è il razzismo cioè l’apartheid come in Sudafrica e che il Kurdistan non è una colonia, ma bensì risultato dell’intesa fra le potenze vincitrici della 1° guerra mondiale.
Una simile valutazione è fuori dalla storia e manca della dinamica degli sviluppi storici.
“Nel processo contro Bedrettin Kavak vengono violentati il diritto penale e i tribunali nel quadro di un diritto penale pasticciato per scopi politici. La Frazione di Sinistra di Amburgo chiede la cancellazione del par. 129b. “Tutti i kurdi arrestati a causa del § 129b devono essere immediatamente liberati.”
In aula dopo la sentenza, Bedrettin ha commentato: “Resistenza significa vita”, mentre i manifestanti scandivano: “Lunga vita al PKK”.
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vietato il Festival della Cultura kurda
Il Festival della Cultura kurda che dal 1992 ogni anno ha avuto luogo, quest’anno è stato cancellato per “motivi di sicurezza”. Il 24° “Festival Internazionale della Cultura Kurda”, al quale erano attese oltre 30.000 persone, doveva cominciare dal 3 Settembre nello stadio di Colonia “Rheinenergie”. Doveva, secondo indicazioni del Centro Sociale Democratico dei kurdi in Germania (Nav-Dem in kurdo), esprimersi “nel segno della domanda di pace, libertà e democrazia”.
Invece, dopo l’intervento dell’ “Ufficio federale per la Tutela della Costituzione” del ministro degli interni e della polizia, il gestore dello stadio ha troncato gli incontri per definire l’accordo. La decisione è fondata sui timori di scontri fra visitatori kurdi del Festival e nazionalisti turchi; inoltre, spiega la polizia, “c’è il pericolo di una massiccia propaganda a favore del PKK” (organizzazione vietata in Germania, perché inserita nella lista-NATO delle “organizzazioni terroriste”).
Recentemente il governo turco aveva chiesto di vietare che il Festival avesse luogo sotto la parola d’ordine “Libertà per Ocalan – Status per il Kurdistan”, il cui svolgimento reale è un “incontro in Europa” del PKK”. Le associazioni kurde avevano preparato il viaggio in Germania di esponenti del Partito Democratico dei Popoli (sono suoi militanti gli oltre 50 deputati nel parlamento turco, metà dei quali nei giorni dopo il “golpe” inscenato da Erdogan sono stati messi in galera) e anche dei rappresentanti della regione autonoma Rojava e a un considerevole numero di cantanti e gruppi musicali.
Invece, il 31 luglio di quest’anno, 30.000 nazionalisti turchi, fra i quali anche numerosi fascisti appartenenti ai Lupi Grigi, hanno tenuto nel parco del Reno a Colonia una grossa manifestazione dove è stata chiesta con forza l’introduzione della pena di morte in Turchia. L’8 Agosto 2015 8 mila kurd* erano scesi in strada a Colonia contro il governo turco e l’organizzazione “Stato Islamico”.
agosto 2016, liberamente estratto da jungewelt.de
La Germania assume un ruolo chiave in Africa
Recentemente il governo ha confermato di fronte al Bundestag (parlamento federale) che la Germania sin dal 2012 si è impegnata con la “Società per la Collaborazione Internazionale” (GIZ iniziali in tedesco) nel “Programma di Polizia Africa”, che comprende la “costruzione di impianti lungo i confini, l’addestramento e l’armamento della polizia confinaria”.
Il governo tedesco nell’ambito di quel programma ha già costruito in Mauritania, Niger, Nigeria e Ciad 13 fortini confinari e rifornito a quegli stessi stati dozzine di automezzi, laboratori tecnici per il controllo della ‘criminalità’, delle impronte digitali, dei passaporti …
Quel programma, che doveva terminare nel 2015 è stato prorogato di altri tre anni; esso è soltanto una prima pietra nella costruzione della strategia dell’Unione Europea (UE) che mira a fare dell’Africa una sentinella in funzione della ‘fortezza Europa’.
In particolare gli stati africani devono essere portati a cooperare nel ‘rimpatrio’ di profughi e migranti; chi non coopera dovrà tener conto di conseguenze negative nella ‘collaborazione allo sviluppo’, come nella politica commerciale.
In concreto l’UE ha già finanziato i lager di internamento in Nigeria, recinzioni invalicabili in Mauritania, l’armamento e l’addestramento della polizia in Etiopia, un paese in cui l’opposizione viene perseguitata e uccisa.
L’UE sottolinea che i fondi stanziati (1,9 mld di euro) per la ‘GIZ’, sono diretti a rimuovere, nei paesi africani, le cause della fuga, dell’emigrazione. Quest’affermazione non è sostenibile per almeno due ragioni: la prima, che non è credibile stabilire un approccio, ancor meno risolvere i problemi dei paesi africani, con 1,9 md di euro; la seconda, perché almeno il 48% dei fondi sono stanziati per impedire i movimenti dell’emigrazione, della fuga. Nei finanziamenti della GIZ fa spicco il versamento di 40 mln di euro diretti all’armamento e formazione di guardie confinarie in Etiopia, Kenia, Somalia e Sudan.
UE e il governo di Berlino non collaborano strettamente soltanto con i regimi repressivi, conducono piuttosto una prassi neo-coloniale che determina la disintegrazione economica dell’Africa, insomma, che inasprisce le cause dell’emigrazione, della fuga. Per impedire il ripetersi degli annegamenti di profughi nel Mediterraneo, di richiedenti asilo disperati aggrediti a Idomeni, la risposta è: politica dell’isolamento mortale – per il vero, calcolo e disprezzo dell’umanità di cui sono capaci il governo federale tedesco e l’UE.
agosto 2016, da jungewelt.de
Inoltre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha nominato Martin Kobler, un diplomatico tedesco, come Rappresentante Speciale e capo della Missione di appoggio delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL). In precedenza Kobler era stato in servizio sulla scena del più grosso saccheggio dell’Europa in Africa, nel Congo. La Germania ha così un posto in prima fila nei nuovi piani di intervento europei in Libia.
In Turchia è stato d'emergenza
La sera di ieri, 20 luglio, dopo 5 ore di riunione del Consiglio di Sicurezza, il presidente Erdogan ha annunciato tre mesi di stato di emergenza nel paese, dopo il tentato golpe di venerdì scorso. “L’obiettivo è assumere in modo più efficace le misure necessarie ad eliminare la minaccia alla democrazia del nostro paese, lo Stato di diritto e i diritti e le libertà dei nostri cittadini”, ha detto.
Un discorso carico di retorica, viste le epurazioni di massa che da giorni stanno colpendo decine di migliaia di persone, dipendenti pubblici, funzionari di ministeri, poliziotti, giudici. Lo stato di emergenza è stato dichiarato sulla base dell’articolo 120 della Costituzione, che limita la misura speciale ai sei mesi di tempo. L’entrata in vigore è di questa notte, alle 1: darà più poteri al Ministero degli Interni (e quindi alla polizia) e ai governatori locali nel condurre arresti e indagini, mentre gli arrestati potranno essere detenuti per periodi più lunghi di tempo.
“Non c’è niente di cui preoccuparsi – ha aggiunto Erdogan – L’autorità e la volontà dei leader civili crescerà e non faremo alcun compromesso sulla democrazia”.
Insomma, secondo il presidente, tutto procederà normalmente: proseguiranno i progetti infrastrutturali previsti, saranno portate avanti le riforme economiche già decise e i diritti dei cittadini non saranno intaccati. Eppure questo avviene già: ai 10mila arrestati in poche ore dentro esercito, polizia e magistratura, si è aggiunta in pochi giorni una lista abominevole di persone sospese dai propri incarichi, una mannaia che ha colpito oltre 50mila persone.
Nel mirino c’è soprattutto l’educazione, con 20mila dipendenti pubblici sospesi, 21mila privati delle licenze di insegnamento e 1.577 rettori di università che ieri sono stati sostituiti con personalità vicine all’Akp.
Dietro sta la paranoia – reale? – dello Stato parallelo che secondo Erdogan è stato imbastito negli anni dall’ex alleato e ora acerrimo nemico, l’imam Fethullah Gulen, considerato il responsabile di una rete capillare che ha infestato scuole, istituti educativi, magistratura e forze armate. Non è un caso che una lunga lista di istituti scolastici è già pronta: 524 istituti sono già stati chiusi.
Inoltre il governo ha vietato agli accademici di lasciare il paese, chiesto a chi è fuori di rientrare immediatamente e imposto ai nuovi dirigenti scolastici e universitari di denunciare i dipendenti che sospettano di tradimento.
Ieri si sono registrati i primi concreti attacchi alla stampa, con una rivista chiusa per aver pubblicato una vignetta satirica sul golpe e altre agenzie web sospese. Oscurato anche WikiLeaks che era riuscito a pubblicare oltre 300mila mail inviate da indirizzi del partito di Erdogan, l’Akp. Pare che molte si riferissero proprio a Gulen e altre alla base Nato di Incirlik.
Dall’alto del palco di Ankara, ieri sera, dove ha arringato per l’ennesima notte una folla di sostenitori, il presidente si sente intoccabile. E promette vendetta: dalla riunione del Consiglio di Sicurezza è uscita anche la proposta concreta di creazione di tribunali speciali e carceri ad hoc in cui rinchiudere i golpisti o presunti tali. Ad oggi non si hanno prove o indicazioni di indagini in corso: il pugno di ferro è stato calato sulla Turchia sulla base di liste di proscrizione pronte da tempo. Cosa che spiegherebbe, dicono gli analisti, perché i golpisti abbiano deciso di agire prima del previsto, proprio in vista della “pulizia” che il governo aveva già in mente di operare.
A garantire Erdogan dalle critiche che in queste ore stanno fioccando – in particolare dalla Germania e dall’Unione Europea – sono le politiche stesse assunte dai suoi alleati occidentali. Che ieri ha tenuto a ribadire: dopo gli attacchi di Parigi, anche la Francia ha dichiarato lo stato di emergenza che continua a rinnovare senza grosse polemiche.
21 luglio 2016, da nena-news.it
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Chiesti cinque anni di carcere per Demirtas
Sono stati lunghi i tempi dei procedimenti predisposti contro il politico kurdo Demirtas del Partito Democratico dei Popoli – HDP (nato nell’ottobre 2013 per opera della sinistra kurda in Siria), adesso la procura turca alza il braccio per colpire i dirigenti di ogni partito considerato forza d’opposizione. Selahattin Demirtas viene colpito perché l’apparato giudiziario-penale è succube del partito di governo AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo).
L’accusa è la stessa di sempre, quando è rivolta a persone kurde. In particolare in questo caso, prende le mosse da un discorso di Demirtas in cui vengono glorificati il PKK e Abdullah Ocalan. Tanto è bastato per dichiararlo colpevole di “propaganda a favore di un’organizzazione terrorista”.
La montatura dell’accusa è espressione della reazione del governo alla sconfitta subita nelle elezioni parlamentari del 7 giugno 2015. Infatti, nonostante la propaganda, le centinaia di attacchi agli uffici elettorali e a attiviste e attivisti, con il 13,1% dei voti raccolti, il Partito Democratico dei Popoli conquistò l’ingresso nell’assemblea nazionale, mentre il partito di Erdogan perse (rispetto alle precedenti elezioni) il 9%, scendendo al 40% - risultato che non gli consente, come in precedenza, di governare da solo.
E’ stata avviata dal governo una fase di intensificazione totale della guerra alla resistenza, alla guerriglia del popolo kurdo: attacchi aerei contro il PKK, attentati dinamitardi alle manifestazioni della sinistra. In conclusione: distruzione militare di decine di città nel sud-est della Turchia a maggioranza kurda. Mentre le unità speciali a Diyarbakir-Sur, Cizre e Nusaybin assassinavano e incendiavano i quartieri, un’alleanza parlamentare stretta fra i partiti AKP, CHP (social-democratici nazionalisti), MHP (apertamente fascista) tolse l’immunità parlamentare alla gran parte dei deputati dell’HDP. Ciò rese possibile la criminalizzazione del presidente dell’HDP cioè di Demirtas e di altri deputati.
La coalizione tripartitica in ogni occasione, soprattutto nelle manifestazioni, si riempie la bocca con lo slogan “difesa della democrazia”. Il rapporto effettivo che quei partiti hanno con il Partito Democratico dei Popoli mostra qual’è la democrazia che loro hanno in mente: a chi non accetta la soluzione “una bandiera, una lingua, una patria, un capo” resta soltanto una scelta: sottomissione oppure carcere.
Che Demirtas ora si trovi di fronte a questa scelta significa che è in corso un’ulteriore intensificazione del conflitto - comunque già guerra civile. Il Partito Democratico viene colpito in quanto rappresentante civile, pacifico, del movimento kurdo; quali opzioni restano ancora alle persone nel sud-est della Turchia? Ankara vuole stringere in misura così ampia lo spazio del gioco politico per la popolazione kurda al fine di porla di fronte alla decisione: o abbandono o prendere in mano le armi. Nei decenni passati le kurde, i kurdi hanno più di una volta chiarito che la rinuncia non esiste nemmeno per idea.
Quanto sta accadendo a Hursit Külter (politico locale kurdo arrestato alla fine di maggio a Sirnak, non si sa dove sia, è andata persa ogni sua traccia) conferma l’acutizzazione della guerra fra stato turco e popolazione kurda abitante in Turchia, concentrata nell’ovest, nei territori di confine con Iran, Irak e Siria.
Sirnak città che dà nome alla regione nel sud-ovest della Turchia confinante con la Siria è territorio, al pari di quello di Hakkari, dove la guerra è acutissima.
L’inizio si può collocare nel luglio 2015 quando il PKK, data per morta la tregua in vigore da due anni (e mai rispettata dal governo di Ankara), passa al contrattacco. All’inizio di settembre dello stesso anno a Daglica, località della provincia sudorientale di Hakkari, al confine con Iran e Iraq, i guerriglieri kurdi fanno esplodere alcune mine al passaggio di un convoglio di mezzi blindati dell’esercito turco e poi aprono il fuoco sui soldati: 31 soldati turchi sarebbero morti e altri sei feriti. L’esercito turco ha subito lanciato una massiccia operazione militare contro le postazioni del PKK e i villaggi kurdi della provincia di Hakkari e di altre regioni. L’esercito turco ha inviato quattro caccia, due F-4 e altrettanti F-16, per bombardare obiettivi nel sud-est della Turchia, causando almeno una decina di morti fra la popolazione civile. Le forze di occupazione turche, allo stesso tempo, tagliano bloccano sistematicamente le linee telefoniche e i collegamenti internet nelle zone assediate rendendo quasi impossibili le comunicazioni con l’esterno.
La ‘scomparsa’ di Kuelter è parte di questa guerra. A Sirnak è da oltre 80 giorni in vigore il coprifuoco, soldati e poliziotti assediano e colpiscono la città con armi pesanti. Quanto sta accadendo ricorda uno degli episodi più oscuri della storia più recente del paese. Nel corso della guerra contro il movimento di liberazione kurdo negli anni ‘80 e ‘90 (del secolo scorso) i gruppi paramilitari, in collaborazione con i comandi militari facevano sparire e uccidevano gli avversari politici. Nel rinnovato divampare della guerra fra la guerriglia kurda e le truppe turche è possibile anche una ri-attivizzazione anche di quei metodi.
13 agosto 2016, da jungewelt .de
torino: ancora “misure preventive”
Alle sei della mattina del 21 luglio 2016, decine di poliziotti della Questura di Torino sono piombati nelle case di una decina di compagni/e piemontesi per notificare l'ennesima ordinanza di misure cautelari disposta dal GIP Silvia G. Carosio su richiesta del PM Antonio Rinaudo. Le misure notificate impongono a tutti/e l'obbligo di firma quotidiana, due volte al giorno.
I compagni/e sono indagati per diversi reati (resistenza, violenza privata, violazione di domicilio...) commessi il 25 settembre 2015 all'aeroporto di Caselle (To) quando un gruppo di solidali aveva fatto irruzione negli uffici della Turkish Airlines, la compagnia di bandiera turca, occupandolo per leggere un comunicato di condanna della politica turca e di sostegno alla resistenza in Kurdistan, poi pubblicato sul web. Il gruppo aveva poi improvvisato un corteo nell'aeroporto con slogan e striscioni contro il terrorismo di Erdogan. Segue il comunicato dei compas colpiti da queste misure restrittive e una lettera di Giuliano dal carcere delle Vallette.
[...] La vicenda che ci vede coinvolti, lo ricordiamo, è un'inchiesta per una irruzione negli uffici della Turkish Airlines, compiuta un anno fa in solidarietà al popolo curdo e per denunciare quel che accadeva in Turchia, argomento oggi di estrema attualità.
Per questo dieci compagni e compagne sparsi tra Cuneo, val Pellice, val Chisone, val Susa e Torino, hanno ricevuto dai giudici del capoluogo l'obbligo di firma due volte al giorno. La maggior parte di noi non lo sta rispettando, scegliendo consapevolmente di andare incontro a delle conseguenze giuridiche. Lungi da noi il voler essere incarcerati a tutti i costi, ciò che ci spinge è invece continuare a tracciare un percorso già intrapreso da altre e da altri che, tra Torino e la val Susa hanno scelto di violare le misure cautelari imposte loro, per non permettere allo Stato di restringere ulteriormente gli spazi di agibilità, per non permettergli di imporre il silenzio con questo susseguirsi di misure alternative al carcere.
Misure definite minori, che i giudici torinesi distribuiscono in quantità, ma che, di fatto, mirano a fermare le lotte. Tutte e tutti insieme abbiamo deciso non solo di non rispettare questi obblighi ma di continuare a contrastare la repressione con a fianco le tante persone solidali che comprendono la posta in gioco.
Per chi ha violato l'obbligo di firma è stato chiesto e concesso l'aggravamento della misura. Il PM Rinaudo ci vorrebbe in manette, ci vorrebbe in silenzio proprio nel momento in cui più urgente sarebbe mobilitarsi di fronte a quello che sta accadendo in Turchia e in Medio Oriente: interventi militari da parte delle potenze occidentali protagoniste da sempre nel seminare morte e saccheggio delle risorse, massacri, sparizioni, soppressione dei residui margini di libertà.
Normalmente l'udienza del Tribunale del riesame avrebbe dovuto svolgersi entro dieci giorni dal 21 luglio, giorno della notifica delle misure, ma in questo caso la tempistica dell'operazione, a ridosso della chiusura estiva del Tribunale, l'ha fatto slittare fino al 2 di settembre, giorno in cui i giudici decideranno se toglierci le firme, ridimensionare la misura o confermarla.
Da parte nostra ribadiamo che non sottostiamo alle loro minacce ed invitiamo a partecipare all'incontro che si terrà il 26 agosto alle 21 nella sede di Radio Black Out (via cecchi 21 a Torino), per organizzarsi in vista del riesame.
Invitiamo inoltre chiunque voglia esprimere la propria solidarietà a farlo nella settimana che precede il 2 settembre.
20 agosto 2016
Imputate, imputati e solidali
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Ciao, sono Giuliano Borio e vi scrivo dal carcere di Torino. Sono da 2 settimane nella 9° sez. braccio B ‘nuovi giunti’ in seguito alla decisione di non rispettare gli arresti domiciliari imposti dalla procura di Torino, dichiaravo pubblicamente la sera stessa in un’assemblea popolare, tenutasi il 21 giugno a Bussoleno, che non avrei trasformato la mia casa nella mia prigione, che non sarei stato carceriere di me stesso. Consapevole delle conseguenze, non avrei accettato di separarmi da amici e affetti.
L’operazione repressiva del 21 giugno andava a colpire 23 persone tra le migliaia che parteciparono alla manifestazione del 28 giugno 2015 indetta dal MOVIMENTO NO TAV - da Exilles a Chiomonte.
Nel mio specifico l’accusa era di aver buttato lateralmente n° 1 lacrimogeni, facilitando così la condotta di chi cercava con una corda di abbattere i betafence che ostruivano la strada. L’aggravante di questo gesto, per la procura, era che nonostante fossi in pantaloncini corti e T-shirt e a volto scoperto, indossavo dei guanti, il che significava l’intenzionalità del gesto. No comment.
Per questo la mattina del 21 giugno arrivava a casa polizia e Digos notificandomi gli arresti domiciliari, con il divieto di comunicare, escluso un eventuale convivente. Subito realizzavo dell’incredibile sproporzione della misura cautelare e decidevo di violarla. Tra le misure c’erano 9 arresti domiciliari e 11 obblighi di firma giornalieri; fra le persone colpite c’erano due signore di circa 70 anni. Non ho accettato che qualcuno decidesse della mia vita e consapevole del gesto ho continuato la routine.
La motivazione del mio gesto sta nell’accanimento e persecuzione giudiziaria della Procura di Torino verso chi lotta contro la costruzione della linea Torino-Lione.
ORA E’ IL MOMENTO DI DIRE BASTA!!!
Non si può più accettare che Pm, dal dubbio passato, propongano misure repressive sconsiderate e che giudici compiacenti gli vadano a ruota, firmando qualsiasi cosa.
La sera del 3 luglio sono stato arrestato assieme a Luca e portato in carcere. Ci hanno separati e non so in quale braccio sia. Auspico che ci sia solidarietà, ma soprattutto la volontà di TUTTI di organizzare momenti di discussione per intraprendere una mobilitazione e una sensibilizzazione allargata su un percorso che il nostro gesto ha aperto contro l’accanimento giudiziario verso chi lotta in Valsusa e non solo.
Ho ricevuto l’opuscolo e gradirei ricevere ancora, un abbraccio e grazie della vicinanza.
LA NOSTRA PASSIONE PER LA LIBERTA’ E’ PIU’ FORTE DI OGNI AUTORITA’
17 luglio 2016
Giuliano Borio, v. A. Aglietta, 35 - 10149 Torino
Aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Sono numerose le strutture di detenzione amministrativa, ovvero i CIE (centri di identificazione ed espulsione), gli hotspot (centri per l’identificazione rapida dai migranti), gli SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo o rifugiati) o i CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo), che durante quest’estate hanno subito danneggiamenti di diverso tipo, per lo più provocati da fiamme appiccate dall’interno da parte di coloro che sono rinchiusi e privati totalmente della libertà.
L’ultimo di questi centri, in ordine cronologico, che si è visto andare almeno un suo pezzetto in fumo è l’hotspot di Lampedusa, dove il 24 agosto, alle 20:30 un gruppo di persone ha incendiato dei materassi, danneggiando una cella del primo piano, nel padiglione dove sono reclusi i migranti minorenni.
Altra struttura a venire danneggiata dalle fiamme è il CIE di Brindisi-Restinco, dove l’8 agosto alcuni solidali si sono trovati fuori le mura per un presidio in solidarietà con i migranti lì rinchiusi che in risposta hanno appiccato il fuoco al grido di “Libertà” a ben due sezioni di questa orrenda struttura di oppressione.
Il CIE di Restinco è ad oggi parecchio affollato: 8 persone sono rinchiuse per ogni stanza delle 3 sezioni, le nazionalità sono varie – Nigeria, Marocco, Egitto, Kosovo, Albania, Russia, Pakistan, Afghanistan. Come di frequente, una parte dei detenuti è costituita da individui stabilizzati in Italia da tempo, che da un momento all’altro hanno subito un troncamento della loro vita comune con un blocco di polizia, per poi trovarsi catapultati nel centro di Brindisi.
Anche al Nord, a Milano, l’ex CIE ora CARA di via Corelli, si è respirato vento di rivolta: lunedì 11 luglio 50/100 migranti hanno dato vita a una protesta, bloccando i cancelli e occupando di fatto il centro, al cui interno si trovavano alcuni operatori che sono rimasti chiusi dentro (alcuni giornali riferiscono invece che i 4 si sarebbero chiusi nel magazzino o in una stanza da soli perché “fuori infuriava la protesta”).
Secondo quanto viene riportato dai quotidiani, la protesta riguardava le condizioni di vita all’interno del centro, la qualità dei pasti, gli orari di apertura e chiusura dei cancelli ma soprattutto la lungaggine nei tempi per ottenere una risposta alla domanda di asilo che deve essere esaminata dalla commissione regionale prefettizia e che in Italia ha un tempo medio di risposta di un anno, più un altro anno per l’eventuale ricorso.
Al termine della protesta, durata circa 4 ore e che ha visto l’immediato intervento intimidatorio della polizia antisommossa, una ventina di persone – individuate come “coloro che hanno guidato la rivolta” – sono state divise e trasferite in altre strutture lombarde e denunciate per “sequestro di persona”, avendo chiuso gli operatori della GEPSA all’interno della struttura durante la protesta. Ricordiamo che GEPSA, società francese facente parte della multinazionale GDF Suez Energie e specializzata in “gestione dei servizi ausiliari negli stabilimenti penitenziari” e nella logistica della detenzione, in Italia, oltre all’ex CIE di Milano, gestisce anche il CIE di Ponte Galeria a Roma e il CIE di Corso Brunelleschi a Torino ed è in corsa per l’appalto dell’ex-CIE di Gradisca d’Isonzo.
Nell’ex Cie di Via Corelli, teatro di numerose rivolte sin dai tempi in cui questa struttura era un centro di identificazione ed espulsione (poi chiuso in seguito ai pesantissimi danneggiamenti alla fine del 2013 e riaperto ad ottobre 2014 come centro di accoglienza) sono ammassate da tempo 500 persone, la “metà dei rifugiati sono ospitati in tenda perché non c’è più posto nelle palazzine in muratura”, in attesa di un probabile diniego: nel 2015 le Commissioni di Milano hanno respinto 3.098 delle 4.716 domande d’asilo presentate, il 65,7%.
La situazione in questo limbo è intollerabile, e ogni giorno le persone bloccate in quella che ipocritamente viene chiamata “accoglienza” portano avanti azioni e proteste. Senza considerare che i sempre più frequenti dinieghi riportano le persone nella condizione di illegalità alla quale segue poi il provvedimento di espulsione.
A Roma, invece, la macchina della detenzione e delle espulsioni prosegue il suo indegno compito. Giovedì 14 luglio, il CIE romano è stato l’ultima tappa di un volo charter coordinato da Frontex, che ha condotto a Lagos, in Nigeria, 22 persone, tra cui 3 recluse del CIE romano: 15 provenienti dall’Italia (Torino, Roma e Caltanissetta), 5 dalla Svizzera e 2 dal Belgio. Dalle prime ore del mattino 3 pullman della polizia, diverse camionette della celere e alcuni agenti Frontex hanno portato avanti l’operazione per caricare sui pullman 24 persone. Nel corso delle ore, quando erano già state fatte salire sul pullman e costrette a spengere il telefono, 2 recluse sono state fatte scendere e riportate in cella in seguito al rapido intervento del loro legale. Nel frattempo qualche solidale s’incontrava davanti le mura per capire la situazione all’interno.
Nel CIE di Ponte Galeria sono attualmente imprigionate 95 donne, tra continui ingressi e uscite con decreti di espulsione. La situazione resta la stessa di sempre e peggiorata dal caldo: le condizioni di prigionia sono durissime, con la solita aggravante del cibo pessimo e dello scarso servizio igienico-sanitario. Altro aspetto rilevante è l’impossibilità di ottenere visite ginecologiche, nonostante le continue richieste delle recluse. Probabilmente il protocollo di intesa tra la Prefettura e la ASL Roma D, sottoscritto il 12 novembre 2015, è stata una preoccupazione di facciata per permettere alla Questura di non portare nessuno/a in ospedale e avere le carte in regola per gestire tutto all’interno del CIE, negando di fatto l’assistenza sanitaria.
Sempre a Roma e anche nei centri gestiti dal cosiddetto terzo settore, ovvero associazioni sedicenti benefiche o di volontariato, non mancano le retate della polizia, atte a infoltire il numero dei deportati. Nella mattinata del 18 luglio, nell’accampamento gestito da Baobab Experience in via Cupa, è stata portata avanti un’operazione di identificazione dei/delle migranti ospiti in via Cupa coordinata da Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Comune di Roma, Ama e Polizia Municipale. Via Cupa è stata blindata da un ampio schieramento di forze dell’ordine. L’operazione si è conclusa con il forzato accompagnamento di 45 migranti, compresi bambini, caricat* a spintoni su 2 pullman, verso l’ufficio immigrazione di via Patini per lo svolgimento delle procedure di identificazione. Si tratterebbe di un controllo anti-terrorismo motivato con la strage di Nizza, nonostante – da quanto si apprende dagli stessi volontari del Baobab – la maggior parte dei/delle migranti avrebbero già subito un’identificazione al momento dell’arrivo in Italia. Solo verso le 13 della mattina successiva dalla Questura sono arrivate notizie affatto rassicuranti rispetto alle conseguenze dell’operazione del 18 luglio per le 45 persone coinvolte: 14 sono stati espulsi dal territorio nazionale (un egiziano, due cittadini del Ciad e 11 sudanesi) e 10 denunciati a piede libero per aver opposto resistenza al fotosegnalamento. Il continuo controllo poliziesco delle strade, i rastrellamenti di decine di persone, sono ormai diventate normalità.
Anche oltre il confine italiano non sono mancati episodi di rivolta e strutture per imprigionare i migranti date alle fiamme.
La notte di venerdì 1 luglio, il centro di detenzione di Vincennes, vicino a Parigi, è stato in parte bruciato in seguito a una rivolta contro l’espulsione di un algerino. Verso le 5 del mattino, alcuni detenuti (o “trattenuti”, come vengono chiamati nel centro perché non sono sotto custodia e in cella) hanno incendiato dei materassi: l’incendio si è propagato necessitando l’intervento di un imponente dispositivo di poliziotti e pompieri di Parigi e l’evacuazione dell’edificio. Non ci sono stati feriti né evasioni. Le stanze di due sezioni dell’edificio, 260mq in totale, sono state distrutte dalle fiamme e sono inagibili. Le telecamere sono state distrutte; l’elettricità è fuori uso. I prigionieri sono stati trasferiti.
In Grecia, giovedi 7 luglio una grande rivolta è scoppiata nell’hotspot di Leros, dove si trovano 650 migranti, per la maggior parte afgani, pakistani e siriani. Secondo le fonti dei rifugiati, la violenza è esplosa a causa della frustrazione dei giovani pakistani che hanno perso ogni speranza di avere il permesso di continuare il loro viaggio. Dopo aver capito che sarebbero stati deportati nel loro paese, sono insorti e si sono scontrati con la polizia, lanciando pietre e distruggendo il container dove avvenivano le procedure amministrative all’interno dell’hotspot. Sembra che anche altri gruppi di giovani rifugiati abbiano partecipato alla lotta contro le forze di polizia, in netta inferiorità numerica. Tutti i reclusi chiedevano di poter lasciare Leros e viaggiare verso i loro paesi di destinazione. La polizia è stata costretta dal grande numero di persone in protesta a ritirarsi nella base della guardia costiera. Successivamente, i poliziotti, riorganizzatisi insieme al personale della guardia costiera, sono riusciti a riprendere il controllo dell’hotspot ricorrendo anche a granate stordenti. Sabato 9 luglio, come ritorsione per la rivolta del giovedì, 200 poliziotti sono entrati nell’hotspot, isolando i siriani dagli altri reclusi, bloccandoli nel campo, minacciandoli di arresto se non avessero fatto i nomi dei responsabili degli eventi delle ultime notti. Di conseguenza, gli yazidi presenti nel campo, che vengono regolarmente presi di mira durante le situazioni di tensione, hanno deciso di lasciare l’hotspot. Oltre un centinaio di uomini, donne e bambini si sono diretti verso il porto di Lakki. Lungo il percorso gli yazidi sono stati presi di mira e attaccati da un gruppo. Ci sono notizie contrastanti su chi siano gli aggressori – se polizia o abitanti del luogo. Tuttavia, ciò che rimane chiaro sono i lividi e le ferite subite da uomini, bambini, donne, anche quelle in gravidanza. Alla fine il gruppo è stato riportato indietro nell’hotspot.
E mentre alcune strutture bruciano grazie alla determinazione e al coraggio dei migranti ivi rinchiusi, a Barcellona si ristruttura per riaprire il CIE di Zona Franca. Ristrutturazioni che pretendono di adeguarlo alle nuove normative previste dal regolamento. Un tentativo in più di umanizzare un luogo che non potrà mai essere umanizzato perché la prigionia non è migliorabile in nessun modo e si può solo ripudiare con tutta la forza.
Il CIE è funzionale come minaccia con cui mettere a tacere le persone che possono essere rinchiuse in esso, però allo stesso tempo è un affare lucroso per molte imprese coinvolte nella sua costruzione, funzionamento e mantenimento. Allo stesso modo, il controllo dei flussi, attraverso le frontiere, torna ad essere un tema di attualità; frontiere che però non sono uguali per tutti: mentre 40 milioni di turisti hanno visitato la città nel 2015, oltre 3.000 persone sono state deportate contro la loro volontà nello stesso anno.
Frontiere
Negli scorsi numeri dell’opuscolo avevamo dato conto della frontiera del Brennero che separa Italia e Austria, dove i governi dei due paesi avevano millantato la costruzione di un muro divisorio per permettere all’Austria un migliore controllo dei flussi di migranti che attraverso l’Italia cercano di spostarsi verso il Nord Europa.
Questo tanto chiacchierato muro non è poi stato costruito, ma questo non significa che i controlli a tappeto così come l’applicazione di “filtri” di ogni tipo non vengano perpetrati a danno di chi fugge dalle guerre inflitte dall’Occidente. Si può dire, innanzitutto, che la polizia austriaca ha raggiunto gli obiettivi che aveva dichiarato durante la conferenza stampa del 27 aprile: predisporre le strutture di controllo al Brennero in caso di un eventuale aumento degli immigrati in arrivo, modulandone caratteristiche e tempi a seconda dei controlli effettuati a sud del Brennero dalla polizia italiana. Mentre continuano i controlli trilaterali - tedeschi, austriaci e italiani - sui treni internazionali (gli OBB Verona-Monaco), si sono rafforzati i controlli su tutti i treni già a partire da Verona, dove una massiccia presenza di polizia ferma chiunque abbia la pelle scura prima di accedere ai binari.
È stata costruita nell’aria di sosta dell’autostrada poco dopo il confine italiano una grande tettoia, una sorta di sottopasso obbligato per le auto lungo una cinquantina di metri, largo una decina e alto cinque. Sarebbero inoltre pronti novanta container da posizionare lì vicino come strutture per l'identificazione dei “sospetti”. Il “programma di gestione del confine” è dunque proseguito. Ma per capire come la “gestione” abbia diverse facce, tutte complementari, è necessario allargare lo sguardo.
Prepararsi alla chiusura della frontiera: si può riassumere in tal modo la collaborazione fra istituzioni, polizia e associazioni cosiddette umanitarie. Infatti, mentre il numero di poliziotti e militari italiani impegnati nei controlli anti-immigrati è salito a centotrenta, in un padiglione della Fiera di Bolzano si sono predisposti quattrocento posti per quello che la lingua di Stato chiama “centro di smistamento veloce”. La merce da smistare, ovviamente, sono gli immigrati: i “rifugiati politici” da spedire nel sistema-business della cosiddetta accoglienza, i “rifugiati economici” da rimandare indietro.
Se alla frontiera con l’Austria, complice anche l’alta montagna circostante, non si è creato un assembramento di persone che chiedono di passare, non si può dire lo stesso per la frontiera con la Svizzera e con la Francia.
A Como-Chiasso, verso la Svizzera, la situazione è critica dall’inizio dell’estate, in seguito alla chiusura della frontiera per volontà svizzera. Alla stazione di Como S. Giovanni si è formato un accampamento di circa 500 persone, principalmente Africani, che ogni giorno cercano di passare il confine; sono chiaramente presidiati dalle forze dell’ordine e osteggiati da gruppuscoli fascisti. Numerosi sono stati i tentativi di deportazione, numerose persone sono state caricate sui pullman e a più riprese portate a Taranto (dove spesso vengono rimesse in libertà per mancanza di spazio e di personale per poter disporre il rimpatrio o l’affidamento alle strutture per richiedenti asilo). In un’intervista, pubblicata il 15 luglio, alcuni migranti descrivono la loro situazione:
Sei stata accolta in un centro? Sì. Ma non è vita. Il centro era pienissimo, come la prigione, la gente lì dentro diventa pazza. Ognuno di noi ha tanti problemi, tutti assieme diventa un disastro. Poi ci spingono a scappare, ci lasciano andare, ci invitano a farlo.
E da lì? Abbiamo girato l’Italia, è un anno che sono qui. Roma, Ravenna e adesso questo. A Roma almeno c’era la Croce Rossa che ci dava del cibo.
Da quanto siete a Como? Cinque giorni. Hai provato ad andare in Svizzera?
Quattro volte, ma conosco chi ci ha già provato dieci volte.
E cosa succede? La polizia ci prende, ci fa scendere dal treno. Foto, impronte digitali e ci mettono il braccialetto. Io ho sempre avuto quello blu. Chi ha quello blu va a Como, chi ha quello giallo va in Svizzera.
E ora cosa farai? Ci proverai ancora?
Non lo so, sono stanca. Forse torno a Roma. Tra di noi qualcuno vuole andare a Roma, qualcuno vuole provarci ancora. Al confine ci mandano indietro. Se torniamo al centro ci mandano indietro. Siamo in trappola qui nel mezzo. Dormiamo qui, con la pioggia, con il caldo, con le zanzare. Non è giusto, se ci fossero dei centri dove stare, staremmo anche in Italia. Ma i centri qui, non sono centri, sono prigioni.
Chi arriva in stazione a Chiasso viene “raccolto” all’interno di reti metalliche disposte per formare un gabbione, poi si procede con lo smistamento: c’è chi viene respinto subito e rispedito in Italia, oppure chi viene portato a Coldrerio, passa la notte in un bunker e viene riportato a Como la mattina dopo con dei furgoni sui quali le guardie ti legano le gambe.
Le guardie di confine ignorano le richieste di asilo usando come pretesto la lingua: parlano solo tedesco e non capiscono cosa richiedono i migranti. Nel mese di luglio i controlli si sono spinti fino a Zurigo: mentre inizialmente i respingimenti venivano eseguiti da Chiasso e dal Ticino, ora c’è chi viene riportato in Italia anche da zone più a nord. Sulla linea dei treni TILO, che passa dalle FS italiane alle FFS svizzere, avviene un controllo capillare con l’uso non solo di sbirri che presidiano le stazioni e i treni, ma anche di telecamere che permettono di vedere dove salgono i migranti e sapere esattamente dove saranno sui treni. Anche sui treni Trenord, i controllori, aiutati da militari dell’esercito e sbirri in borghese, fanno scendere i migranti. Per sorvegliare le zone di confine sono aumentate le telecamere, sono stati disposti dei nuovi fari per l’illuminazione e i sentieri vengono monitorati con l’utilizzo di droni.
La stazione di Como è presidiata 24 ore su 24 da camionette della polizia, i/le migranti che cercano di proseguire a piedi lungo i binari in direzione di Chiasso vengono bloccati. Sono presidiati anche diversi punti lungo le recinzioni di confine in zona Ponte Chiasso in direzione Tavernola, per evitare accessi attraverso il fiume e alcuni respingimenti sono avvenuti anche al valico autostradale di Brogeda, diverse persone migranti camminano a piedi lungo l’autostrada cercando una via d’accesso.
Una caccia all’uomo o alla donna neri è quello che sta avvenendo ogni giorno lungo questo confine. In stazione la situazione rimane critica, diverse persone passano la notte al freddo senza felpe né coperte. Nonostante le dichiarazioni dei politici cittadini e l’intervento di Caritas e Croce Rossa, in stazione mancano servizi igienici, wc, l’accesso alla possibilità di lavarsi, cestini idonei alla raccolta dei rifiuti, sufficienti coperte e cibo per chi arriva in orari in cui non c’è possibilità di recarsi alla mensa. Tutta la rete di solidarietà che si sta sviluppando è spontanea e dal basso, con persone solidali che portano cibo, vestiti, scarpe e generi di prima necessità direttamente in stazione e che contrastano l’ingerenza violenta dei fascisti della zona.
Alla frontiera con la Francia, Ventimiglia, continua l’azione repressiva della polizia italiana e di quella francese contro i migranti e i solidali che da più di un anno qui transitano e sostano. Sarebbero numerosi gli episodi di soprusi e violenze ai danni dei migranti, di alcuni dei quali si prova a dar conto nel racconto che segue.
Nella notte del 4 Agosto oltre 300 migranti lasciano il centro della Croce Rossa a Ventimiglia per andare al confine con la Francia, le persone senza documenti si sono fermate nei pressi dei Balzi Rossi a 50 metri dalla frontiera (dove l’estate scorsa c’era il No-Border Camp). Il loro obbiettivo era quello di abbandonare il centro della Croce Rossa, reclamare l’apertura del confine e il rilascio di un ragazzo sudanese detenuto dentro il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) di Brindisi. Alcuni solidali arrivano sul posto per portare acqua ai migranti e vengono fermati dalla polizia e portati alla stazione di polizia di Ventimiglia. 2 compagni hanno ricevuto una restrizione amministrativa “foglio di via” che gli impedisce l’accesso a 16 comuni della prefettura di Imperia e altri 2 son stati trattenuti nella stazione francese della PAF (Police aux Frontières) e hanno ricevuto un interdizione dall’Italia per cinque anni.
La polizia sgombera i migranti dai Balzi Rossi con violenza, durante questa operazione 7 solidali vengono arrestati. In totale 17 compagni europei sono stati fermati dalla polizia italiana e francese. Durante l’operazione circa 200 migranti riescono a sfuggire alla polizia italiana, alcuni attraversando la frontiera a nuoto raggiungendo la spiaggia di Menton in Francia, la maggior parte attraversa a piedi e si scatena una caccia all’uomo per le strade di Menton, Cannes, Sospel, Nizza. La polizia francese reagisce con violenza, con cariche e sparo di lacrimogeni sui migranti che escono dall’acqua e successivamente vengono fermati e portati via dalla polizia.
La polizia francese impedisce ai giornalisti di effettuare riprese, distruggendo le telecamere e arrestandone molti per non far trapelare notizie e non far capire che hanno perso il controllo della frontiera. Diversi bus della Linee Azur trasportano i migranti fino alla frontiera Italo-Francese per deportarli, si fermano e non li fanno scendere, perché non ci sono più posti per detenerli nei container previsti dalla PAF per il fermo dei migranti. Finora vi sono state solo 60 riammissioni in Italia.
Il 7 agosto un gruppo di solidali si avvia verso il campo della Croce Rossa, ove tutti i migranti, che nei giorni precedenti avevano tentato di spingersi a ridosso del confine, erano stati ricondotti e qui controllati a vista da polizia e croce rossini. L’iniziativa evidentemente non piace a chi vuole tenere sotto controllo questo territorio, sindaco e capo della polizia in primis, che scelgono di impedire l’ennesimo gesto solidale. Il gruppo di circa quaranta persone che a piedi tentava di raggiungere il campo della Croce Rossa per portare cibo e vestiti viene raggiunto da numerose camionette e auto della polizia. Durante l’inseguimento e l’inizio delle cariche a danno dei solidali un poliziotto muore stroncato da un infarto. I solidali vengono brutalmente picchiati, qualcuno viene fermato e portato in questura. Utilizzando questa morte come ennesima giustificazione per le violenze poliziesche, la tensione in città sale e chi è in questura viene minacciato pesantemente dagli sbirri, mentre la manifestazione nazionale del giorno successivo è costretta a trasformarsi in un presidio, onde evitare ulteriori ripercussioni a danno di chi caparbiamente continua a voler portare solidarietà ai migranti che vogliono attraversare la frontiera.
agosto 2016, liberamente tratto da abbatterelefrontiere.blogspot.it, hurriya.noblogs.org, noborders20miglia.noblogs.org
lotte nelle carceri egiziane
Nel momento in cui l’Egitto sta attraversando una crisi economica e sociale senza precedenti, che mette in seria difficoltà la tenuta del regime e soprattutto del dittatore al-Sisi, vengono inasprite le condizioni di detenzione nelle carceri.
Numerosi sono i report delle organizzazioni dei diritti umani che parlano di torture e sevizie nelle 42 prigioni e 282 posti di detenzione (altre 16 prigioni sono state costruite o in costruzione), nonché di utilizzo di prigioni segrete e quartier generali dei servizi segreti.
Un membro della Commissione parlamentare dei Diritti Umani ultimamente ha riportato cifre ufficiali dell’Autorità delle Prigioni che parlano di 100.000 reclus* di cui il 10% sono detenut* politic*.
Gli ultimi dati sulla repressione del regime sono tuttavia agghiaccianti e danno il senso di quello che sta succedendo nel paese dalla presa del potere dei militari (di seguito riportiamo solo alcune cifre che troverete nei dettagli qui):
– decine di migliaia di detenut* tra cui 3.200 bambin* sotto i 18 anni;
– 42 giornalisti arrestati nel solo 2015;
– 464 sparizioni forzate nel solo 2015;
– 915 casi accertati di tortura;
– 554 divieti di uscita dal paese dal 2013;
– 59 civili processati da tribunali militari, 38 condanne a morte.
Nel carcere femminile di Al-Qanater sette detenute hanno iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con dott.ssa Basma, una delle detenute accusate dell’uccisione del procuratore generale Hisham Barakat, insieme al marito (anche lui in carcere), alla quale è stata vietata la visita dei due figli di 5 e di 1 anno e mezzo.
A tutte e tutti le/gli imputati di questo processo i servizi hanno vietato le visite, motivo per cui dr.a Basma era entrata in sciopero della fame. Una settimana dopo, le compagne di cella sono entrate in sciopero per solidarietà. Lo sciopero della fame è terminato l’11 agosto a causa del deterioramento dello stato di salute delle detenute.
Seguono i comunicati delle detenute in lotta.
Comunicato n.1
Il sistema carcerario egiziano si basa sulla dottrina che “il carcere da solo non basta per vendicarsi dell’opposizione egiziana”. In effetti, il tempo passato in carcere, le sparizioni forzate e gli arresti non sono sufficienti a contrastare i movimenti che si oppongono al sistema, perciò continuano le umiliazioni delle detenute e dei detenuti che sono privati dei diritti umani basilari. La mancanza di sonno e di buon cibo sono solo alcune delle ritorsioni e delle molestie che avvengono nelle carceri egiziane che trasudano ingiustizia e oscurità.
Dal carcere di AlAqrab a quello di AlAzouly, così come in tutti i luoghi di detenzione della polizia, “la dottrina” non cambia, soprattutto dopo il piano dello Stato di costruire nuove carceri per i giovani al posto delle abitazioni.
Tra queste carceri c’è Al-Qanater, il carcere generale femminile in Egitto, in cui si sono susseguiti svariati episodi che dimostrano la noncuranza nei riguardi delle vite delle detenute. Per esempio, la direzione carceraria non ha mosso un solo dito quando venne segnalata la presenza di serpenti nelle celle. Lo stesso dicasi per le restrizioni alle detenute politiche, il loro isolamento e il divieto di parlare con le altre detenute.
Ultimo di una lunga lista è quello che è successo alla dott.ssa Basma, alla quale vengono negati tutti i diritti fondamentali e alla quale, ora, la sicurezza nazionale vieta di ricevere le visite dei familiari.
A causa di quanto le è successo, ossia il divieto di ricevere visite da parte della procura della sicurezza nazionale, la dott. Basma ha deciso di entrare in sciopero della fame, oramai da una settimana. L’amministrazione carceraria fino a ora non si è occupata del caso e per questo un gruppo di sue compagne ha deciso di iniziare uno sciopero della fame in solidarietà. Le detenute sono: Mahienour Almassry, Rofauda Ibrahim, Alaa Alsayed, Asmaa Sayed Salah, Esraa Khaled, Rana Abdallah, Sara Abdallah.
Nonostante le differenze politiche e le nostre diverse posizioni, non rinunciamo ai diritti di nessuna detenuta e per questo abbiamo deciso di iniziare uno sciopero della fame finché la dott.ssa Basma non otterrà i suoi basilari diritti umani di vedere i suoi figli.
Comunicato n.2
Noi in sciopero della fame dichiariamo di continuare il nostro sciopero nel carcere di Al-Qanater finchè il tribunale non deciderà di consentire la riapertura delle visite.
Nonostante il deterioramento dello stato di salute di alcune, tra cui la Dr.a Basma, che ha anche effettuato una visita al cuore, l’amministarzione penitenziaria del carcere si è rifiutata di mettere a verbale il nostro sciopero della fame e questo ci fa chiedere: è negligenza o sono ordini dei servizi di sicurezza dello Stato?
Vista la paura che hanno di noi e l’intervento dei servizi di sicurezza dello Stato nell’impedire di prendere una decisione, continuiamo il nostro sciopero, insistendo fino alla fine nelle nostre richieste. Lo facciamo per ricordare a chi ha una coscienza che l’imputato è innocente fino a prova contraria e che anche le/gli oppresse/i hanno dei diritti che devono essere presi in considerazione.
La Dr.a Basma di punto in bianco si è ritrovata accusata insieme a suo marito in un grande processo, privati entrambi di vedere i loro bambini piccoli, di cui nessuno si occupa.
Alzate la voce della coscienza e della giustizia per tutte le voci vittime di ingiustizia.
Libertà per tutte e tutti!!
Aggiornamento del 5 agosto
E’ giunto all’undicesimo giorno lo sciopero della fame di 7 detenute del carcere femminile di al-Qanater, in solidarietà con la prigioniera dott.a Basma Refaat, alla quale è stato vietato di vedere famiglia e figli. Tra le ragazze c’è anche l’avvocata Mahienour al-Masry, in carcere da un anno e tre mesi, oltre al processo di Khaled Said, assassinato dalla polizia nel 2010, in cui aveva ricevuto la pena di 2 anni, ma poi era stata rilasciata dopo 6 mesi. La data di scarcerazione prevista è, infatti, l’11 agosto. Nel processo di Khaled Said, il loro “crimine” è stato quello di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, violando così la legge anti-protesta, approvata nel novembre del 2013.
Le condizioni di salute delle detenute in sciopero sono fortemente peggiorate. Alle condizioni di detenzione già pessime per le prigioniere politiche e al forte caldo si aggiunge l’atteggiamento ostile e criminale dell’amministrazione del carcere e della polizia giudiziaria che rifiutano di prendere nota ufficialmente dello sciopero, impedendo così alle prigioniere di usufruire della reidratazione orale.
Qui di seguito la testimonianza della sorella di Mahienour che ieri ha potuto incontrarla:
“Oggi (4 agosto) c’è stata l’ultima visita a Mahienour, prima della data fissata per la sua uscita, l’11 agosto, se tutto va bene. Doveva essere una visita felice. Invece siamo rimaste scioccate quando abbiamo visto Mahie dimagrita in maniera terrificante rispetto all’ultima visita della settimana scorsa. Oggi era il 10° giorno di sciopero totale della fame per Mahie e altre 6 del braccio politico della prigione di al-Qanater, in solidarietà con la dott.a Basma Refaat, una compagna di cella al suo 17° giorno di sciopero della fame a causa del divieto, improvviso e ingiustificato, di ricevere visite dai propri familiari.
Lo Stato di salute delle ragazze è in continuo peggioramento, soprattutto a causa del caldo e del divieto di ricevere la reidratazione orale, ma nessuno si preoccupa, né si interessa.
La gente è sottoposta al carcere e a vessazioni senza aver commesso alcuna colpa. La detenzione da sola non basta e vengono private e privati dei diritti più elementari come quello di vedere famiglia e figli un’ora ogni 15 giorni. Li lasciano morire senza notificare il loro sciopero, né occuparsi del loro stato di salute.
Mahie ci ha chiesto di parlare del loro sciopero e delle condizioni di salute della dott. Basma Refaat perché è l’unico mezzo per far uscire le loro voci fuori dalle carceri.”
L’11 agosto Mahienour e Youssef hanno finito di scontare la pena di un anno e 3 mesi inflittagli nel processo del 2013 che li vedeva giudicati per una rissa all’interno del commissariato di Al-Raml, ad Alessandria.
Le procedure di rilascio di Mahienour e Youssef sono durate un paio di giorni. La mattina dell’11 agosto Mahienour è stata trasferita dal carcere di Al-Qanater al Comando di sicurezza di Alessandria. Youssef, invece, dal carcere di Al-Aqrab, dopo aver passato più di 10 ore nel corazzato della polizia sotto il sole cocente, è giunto al Comando di Sicurezza verso l’una di notte. Il ritardo nel trasferimento di Youssef li ha costretti a un altro giorno di reclusione, nonostante avessero finito di scontare la pena, dal momento che il venerdì è giorno di ferie per tribunali e uffici pubblici.
Dopo aver passato un’altra notte di reclusione illegale, la mattina di sabato 13 agosto, sono stati trasferiti in tribunale per ultimare le procedure di rilascio. Finiti gli incartamenti, sono stati trasferiti presso i Servizi segreti, dove sono stati interrogati per ore, per poi essere trasferiti al commissariato di Al-Raml da cui poi sono stai rilasciati.
Una protesta è scoppiata anche nel carcere maschile di Wadi Natrun
I detenuti si son rifiutati di ricevere i pasti. Le cause sono, ancora una volta, la mancanza di diritti e il peggioramento delle condizioni di vita. L’amministrazione del carcere aveva ridotto l’ora d’aria da 3 a 2 ore (le temperature in Egitto sono superiori ai 40 gradi) nel corridoio e aveva inasprito le misure contro i prigionieri politici.
A loro è vietato ricevere i beni di prima necessità dall’esterno. Sono vietati la frutta, i dolci e tutti i tipi di cibi non cotti. Sono vietati prodotti per l’igiene come spazzolini da denti, spugne o sapone per le mani, e poi anche libri, riviste, fogli e persino penne. Inoltre è vietato anche l’ingresso di scatolame, biscotti e altri prodotti cosicché i detenuti sono costretti ad acquistarli nello spaccio del carcere a prezzi due o tre volte più elevati. Per questo i detenuti hanno protestato. La risposta dell’amministrazione, però, è stata durissima. I detenuti sono stati picchiati, insultati, condotti in isolamento. Infine gli è stato vietato di ricevere visite per almeno 15 giorni.
Nella stessa prigione, un altro detenuto, Abd el-Rahman Mokka, è al suo settimo giorno di sciopero della fame finché le sue disumane condizioni di prigionia non cambieranno. Chiede di riuscire a dormire e a respirare.
Continua anche lo sciopero di tre arrestati per le proteste seguite alla cessione delle isole di Tiran e Sanafir: Mohamed Abu Daud, Mahmoud Hisham e Abd al-rahman Hamza fanno pressione per avere il loro processo e la loro libertà.
luglio-agosto 2016, liberamente tratto da hurriya.noblogs.org
comunicato dalla quarta sezione del carcere di vicenza
Ancora fuochi nel carcere San Pio X, a Vicenza. Un detenuto italiano, esasperato dalle condizioni sempre più critiche di uno dei penitenziari più infernali della regione, avrebbe dato fuoco al materasso della propria cella, intossicando 5 agenti di polizia penitenziaria. Secondo i giornali l’episodio non sarebbe isolato, ma si inscriverebbe in un’escalation, l’ennesima, di violenze ai danni delle guardie e di insubordinazioni iniziate in questi giorni, con l’arrivo del gran caldo. I sindacati di polizia più attivi (i soliti Uil-Pa e Sappe) lamentano come al solito le precarie condizioni di sicurezza in cui sono costretti (?) ad operare, assieme a una cronica mancanza di organico.
Mancanza di organico che si andrà ad aggravare dal prossimo mese. Il 26 luglio prossimo è infatti prevista la visita al San Pio del ministro della giustizia Orlando, che inaugurerà il nuovo padiglione del carcere berico, con 200 posti nuovi di zecca pronti ad essere riempiti. Un progetto, quello del nuovo padiglione, previsto dall’ultimo piano carceri, che in Veneto ha riguardato principalmente la costruzione del nuovo carcere di Rovigo.
Un ampliamento che sicuramente non andrà a risolvere una situazione da più di un anno in costante ebollizione, tra vermi e altri insetti nel vitto, prepotenze delle guardie e rivolte sedate con l’intervento di reparti speciali.
Di seguito riportiamo una lettera arrivata dal carcere San Pio X di Vicenza, firmata da alcuni detenuti della quarta sezione. La richiesta di diffusione di questo scritto nasce dalla necessità di far conoscere il comportamento delle guardie durante l’incendio di quattro giorni fa, guardie che avrebbero volontariamente omesso di soccorrere un detenuto asmatico svenuto per il denso fumo in sezione.
Nello scritto si fa anche riferimento ad un altro incendio, avvenuto tre giorni prima.
Il testo è riportato in maniera integrale, con l’aggiunta di qualche elemento di punteggiatura e un’ortografia normata. La sintassi è invece totalmente originale.
Noi detenuti della 4a sezione testimoniamo con questo foglio che la notte del 12/07/16 verso le ore 22 circa è stato dato fuoco a un lenzuolo che ha causato fumo sintetico [sic], e poi sono state avvisate le guardie di intervenire con un modo rassicurante, per spegnere l’incendio e di bagnare tutta la cella, così il detenuto che si trovava dentro non poteva appiccare il fuoco di nuovo.
Ma non è stata una richiesta per la nostra sicurezza e vita ed infatti fu [sic] incendiata di nuovo la cella con i materassi di prodotti chimici, cosa che ha riempito tutta la sezione di fumo sintetico e molto tossico. A quel punto le guardie spengono il fuoco e ci fanno uscire per le scale. Un’ora dopo qualcuno di noi si accorge dell’assenza di E. che tutti sappiamo che soffre d’asma visto che è stato intossicato e ha respirato [il fumo di un] incendio di un cuscino la sera del 9/7, cioè tre giorni prima. E solo un’ora dopo quest’ ultimo incendio sono andati a portare E. che era svenuto, e noi tutti eravamo al cancello.
Come si fa a non intervenire e spegnere il fuoco subito causati detenuti e cercare di non farci intossicare? Come si fa ad abbandonare un detenuto che soffre di asma respiratoria quando tutte le guardie sono a conoscenza del suo problema? Poi abbiamo visto che e assistito a questa cattiva azione, sappiamo che sono andati subito all’ospedale per disintossicarsi, speriamo che diano a noi il modo di disintossicarsi, visto che abbiamo respirato la stessa aria delle guardie. Vi ricordiamo che siamo esseri umani anche noi!!
Seguono le firme di 17 detenuti della quarta sezione.
luglio 2016, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org
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Carissim* compagn*, sono Eddi Karim vi scrivo dal lager di Trieste dove sono stato trasferito dal carcere di Vicenza; lì hanno tentato di farmi fuori con dei complotti diabolici. Sanno che sono asmatico ed hanno fatto portare (era l’8 luglio) dei detenuti (bisognosi di cure) che avevano bruciato le celle in altre sezioni, nella sezione punitiva dove c’ero io.
Proprio il detenuto che hanno messo davanti alla cella dove ero io, chiama la guardia perché stava male, le guardie non rispondevano, ma se la ridevano. La sera verso le 22 il detenuto, che avevano messo davanti a me, ha incendiato il cuscino, dei giornali, buttandoli nel corridoio, proprio davanti a me… che, per salvarmi, ho dovuto chiudere il blindo e spruzzarmi in viso lo spray Ventolin – Salva Vita. Nessuno è intervenuto per spegnere il fuoco, per diminuire il fumo!
La sera successiva un altro detenuto portato lì ha compiuto gli stessi gesti, la sezione si riempie di fumo, ma stavolta tutti i detenuti gridano per uscire all’aria perché stiamo soffocando. L’ultima cosa che ricordo prima di svenire. Dopo, i detenuti mi hanno raccontato, è accaduto che hanno aperto a tutti la cella, saltando la mia e quella di un altro fatto di psicofarmaci, che dormiva.
Mezzora dopo quel caos due detenuti rumeni si sono accorti della mia senza ed hanno cominciato ad urlare il mio nome insieme al resto dei detenuti ch’erano nelle scale. A sto punto non è rimasto niente alle guardie che venire a tirarmi fuori (magari con la speranza di trovarmi morto). Invece mi hanno trovato svenuto per terra con lo spray in mano. Mi hanno trascinato all’ascensore, davanti ai detenuti sulle scale che urlavano “l’avete ucciso siete contenti?”
Alle 24,40 mi sono svegliato in infermeria con il medico di turno, che mi ha raccontato che mi hanno portato in extremis. Un’ora dopo mi sentivo un poco meglio e ho deciso di tornare in cella. Le guardie mi hanno detto che mi hanno dimenticato per colpa del caos; gli ho risposto che l’hanno fatto apposta, che hanno provocato il detenuto.
Il giorno dopo al telegiornale regionale Rai3 (sempre a Vicenza) hanno parlato di questo fatto raccontando che quattro guardie sono rimaste intossicate e basta. A quel punto ho scritto a compagn* a Venezia, alla Garante regionale dei diritti dei detenuti, che il 23 luglio è venuta a trovarmi. Il giorno dopo sono stato trasferito a Trieste.
Qui il primo ostacolo, ancora non risolto, è quelle delle telefonate famigliari, che nonostante siano autorizzate dal tribunale di Venezia, loro non me le danno perché dicono che ora sono ricorrente, che perciò non sono più sotto il tribunale. Secondo me è solo un abuso di potere, per vendicarsi. In più mi hanno messo in una sezione, dove ci sono solo stranieri, piena di cimici piccole, succhiano il sangue. Ai detenuti italiani invece hanno cambiato brande, materassi, hanno disinfettato le celle.
Il direttore è assente, l’ufficio comando esiste solo per gli italiani, il dirigente sanitario non esiste, i medici sono inesperti ecc. Per dirla corta sono scappato dal lager di Vicenza e sono inceppato in un pozzo buio senza scintille di luce, in compagnia di cimici di cui sono allergico; cioè Trieste, che fortuna!
Prima di salutarvi voglio esprimere la mia totale solidarietà al mio caro amico Maurizio Alfieri e al compagno Davide Delogu, raccomandandogli di non mollare. Un abbraccio a voi e ai compagni di Venezia, Vicenza e a tutti quelli in lotta. Karim
8 agosto 2016
Eddi Karim, via Del Coroneo, 26 - 34133 Trieste
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Sette anni, sette mesi
E’ arrivato ieri a sentenza il processo a carico di alcuni secondini di Santa Maria Maggiore, accusati di omicidio colposo per la morte di Cherib Debibjavi, avvenuta nel 2009 all’interno del carcere veneziano.
Cherib, dopo essere stato salvato dai propri compagni di cella da un tentativo di suicidio, si è impiccato il giorno seguente dopo essere stato sbattuto nella cella 408, la famigerata “liscia” (una stanza priva di suppellettili e di arredi), con la sola compagnia di una coperta che ha usato come corda. La sua storia, anche grazie alle coraggiose testimonianze di altri reclusi che l’hanno fatta uscire, ha iniziato a portare l’attenzione sulla sadica amministrazione del carcere veneziano, sviluppando una sensibilità alla solidarietà che ha saputo riflettersi fino agli ultimi eventi.
Ieri, dopo 7 anni e numerose udienze, sono stati assolti l’ispettore Leonardo Nardino e il vice-sovrintendente Francesco Sacco, accusati di aver presieduto e sorvegliato il trasferimento di Cherib nella “liscia”. Condannato invece a 7 mesi di reclusione, per i reati di omicidio colposo e abuso di autorità, l’ispettore Stefano di Loreto, colui che avrebbe materialmente chiuso la porta della cella, abbandonando il ragazzo a un destino già scritto.
Condannata in primo grado ma già assolta in appello la sorvrintendente capo Daniela Caputo, che avrebbe convalidato formalmente il trasferimento.
Come in altri casi simili la Giustizia assolve sè stessa, preservando intatta la catena di comando e affibiando pene a dir poco simboliche agli esecutori materiali. Pene che suonano come l’ennesimo schiaffo alla memoria di un ragazzo morto perchè finito nelle mani dello Stato.
Chi muore in carcere muore di carcere, scrivevamo dopo il decesso di Manuel a Santa Maria Maggiore nel novembre dell’anno scorso, decesso le cui circostanze rimangono tuttora oscure. Un messaggio che resta ancora valido e pieno di senso.
La giustizia dei tribunali ha fatto il suo corso. Ora non resta che evitare di seppellire ancora una volta Cherib sotto una coltre di oblio e di pacificazione.
E per non dimenticare bisogna, prima di tutto, non perdonare.
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Nessuno ricordo per Mari, nessun ricordo per le guardie
È sempre difficile parlare dei fatti avvenuti sul confine orientale durante la Seconda Guerra Mondiale, ancor di più se si cerca di far chiarezza di come siano andate effettivamente le cose verso il finire della guerra stessa. Troppi gli interessi politici da una parte e dall'altra. A mio avviso oltre a studiare i documenti va visto il tutto con un occhio critico su entrambi i lati del confine. Ma la notizia apparsa qualche giorno fa sul quotidiano triestino “Il Piccolo”, ci fa capire con chiarezza un altro accadimento, il quale è chiaro come il sole. Il provveditore delle carceri del triveneto, Enrico Sbriglia, ha da poco deciso che il carcere di via Coroneo a Trieste sarà dedicato a Ernesto Mari. Guardia penintenziaria in epoca della guerra, la quale è stata trovata nel fondo della foiba denominata Plutone. Gli altri due agenti di custodia infoibati furono Angiolo Bigazzi e Filippo Del Papa, i quali hanno dato il nome alle carceri di Gorizia e Vicenza. I tre furono infoibati dai partigiani jugoslavi e poi riconosciuti dai loro parenti. Per esempio il figlio di Mari, Alfredo, diventò poi esponente prima del MSI e poi di Alleanza Nazionale, il quale ricorda il padre come un uomo severo e preciso, caratteristiche che si sposano bene con una guardia o un fascista, poco cambia. Senza fare analisi storiche strampalate e senza dare valore positivo a certe mosse dei partigiani jugoslavi dell'epoca, possiamo dire una cosa, una guardia è una guardia. Nell'articolo non si cita mai cosa avvenne in quel carcere realmente. Tanti i sovversivi, anarchici, comunisti, antifascisti, slavi che finirono in quel carcere, in molti soffrirono, ed in molti finirono poi in mano ai nazisti i quali portavano poi i prigionieri alla Risiera, unico campo di sterminio in Italia dotato di forno crematorio. Quanti videro in pieno giorno i sacchi pieni di cenere svuotati in mare dai tedeschi, in quanti sentirono le urla dalla sala della morte? In molti se si pensa che addirittura i nazisti si schifarono dalla bassezza della popolazione triestina contro di loro e delle loro malefatte e dall'infamia diffusa contro slavi, antifascisti ed ebrei. Nessuna parola sul ruolo di quelle guardie. Forse hanno subito quello stesso trattamento che hanno svolto nella loro carriera? Sono stati riconosciuti come complici del nazifascismo? Forse si. Il Sbriglia, che tanto cerca di fare il democratico con i suoi toni pacati e paternalistici, ci offre invece un spirito di corpo, un corpo di aguzzini che da sempre, da quando esistono le carceri, producono dolore, violenza e morte. In questo ultimo anno di lotte nelle carceri dell'Est da parte dei detenuti che non mollano ecco che anche questo piccolo gesto, fatto di targhe e di burocrazia, è un modo per rafforzare una storia senza colori. Nessun ricordo per loro.
agosto 2016, Un anarchico triestino
Davide trasferito da agrigento ad augusta (SR)
La mattina del 6 agosto Davide è stato trasferito da Agrigento a Augusta. La maniera è prepotenza allo stato puro. Il giorno prima, la compagna che ha permesso di colloquio con Davide ha telefonato al carcere di Agrigento per sapere se Davide fosse lì, così da poterlo incontrare l’indomani. La risposta è stata affermativa ma il giorno dopo, davanti ai portoni del carcere, le hanno detto che Davide era stato trasferito. Dopo lunga insistenza è riuscita a farsi dire la verità: cioè che il compagno era ancora ad Agrigento, ma ormai in partenza e dunque cancellato dalle presenze. Insomma niente colloquio e via con il 14bis e il suo risvolto...
L'indirizzo del carcere di Augusta:
Davide Delogu, Contrada Piano Ippolito, 1 - 96011 Augusta (Siracusa)
scritto dal carcere di sulmona (aq)
Sulla carcerazione sotto il regime 41bis
Carissimi compagni, la mia esperienza per quello che riguarda il 41bis risale ai 5 anni successivi a quando, nel giugno 1992 (“strage di Capaci”) venne applicato nelle sezioni di Pianosa e dell’Asinara. Bisogna essere coerenti perché la mia conoscenza oggi è tramite persone alle quali hanno tolto il 41bis e la corrispondenza che intrattengo con alcuni compagni chiusi sotto quel regime.
Prima di quella data ho passato 8 anni sotto l’art.90 (non ci sono molte differenze con il 41bis) e il 14 bis. Sono tutti regimi di tortura, privazioni di ogni legame sociale e violenza fisica che offendono la nostra stessa specie.
Nelle sezioni 41bis ci sono reparti chiamati “riservati” dove tengono prigionieri isolati da tutto e tutti; e questo per anni, sempre da soli, quindi sempre più repressione, abusi e ogni violenza disumana.
Quando si parla di argomenti relativi al “pianeta carceri”, credo sia difficile riuscire a non cadere nella facile e scontata retorica, perché tanti opinionisti parlano del carcere senza sapere nulla della vita carceraria e delle tante realtà esistenti. Quando si parla di certi argomenti che toccano la vita delle persone bisogna essere coerenti e sapere riconoscere quelli che sono i limiti di accettazione essenziali per ogni persona. Quello che voglio dire è che di certe realtà ne può parlare chi le vive e le subisce personalmente sulla propria pelle.
Chi, come i prigionieri nel 41bis, si trova in una cella, in piccoli luoghi, in spazi ristretti non sa cosa fare di se stesso; specialmente se non si dà loro la possibilità di compiere una qualsiasi attività. In mancanza di questa il prigioniero avverte la noia come un grosso peso, un gravame, una paralisi, della quale forse non sa darsi una ragione. La noia in questo senso è una delle peggiori torture, modernissima, molto diffusa nelle carceri. In questo senso il colloquio assume un’importanza esistenziale fondamentale.
I rapporti con i nostri cari costituiscono il fondamento della vita della nostra famiglia e sono una delle principali fonti di felicità, di salute mentale, di benessere fisico. La limitazione affettiva per il prigioniero è una doppia pena che si traduce in uno stato emotivo negativo. Le limitazioni del 41bis risultano connesse all’opportunità di evitare la partecipazione attiva del prigioniero alle dinamiche della presunta organizzazione esistente all’esterno. L’interpretazione rigorosa del secondo comma del 41bis, stabilisce un solo colloquio al mese di un’ora dietro vetro divisorio blindato che impedisce ogni contatto. Tale modo di effettuare i “colloqui” penalizza e porta sofferenze alle persone anziane, a donne, bambini. Proprio perché si svolge in tale luogo, il colloquio resta pur sempre qualcosa di molto triste. Può sembrare banale per chi non vive questa realtà, ma non lo è. Il colloquio è un’autentica comunicazione umana; è ben più di un semplice dialogo, dà il senso alla vita.
La detenzione 41bis, proprio per la mancanza di contatti è definito dagli psicanalisti “digiuno sensorio”, “digiuno emotivo”. Le privazioni sono all’origine di numerose psicoterapie che determinano un logoramento dell’essere umano, con conseguenti danni biologici. E’ in questo senso che non può considerarsi il 41bis conforme ai principi e al rispetto dei diritti umani e quindi in netto contrasto con gli art. 15 e 27 della costituzione secondo i quali le pene non possono consistere ‘in trattamento contrari al senso di umanità. Non va trascurato inoltre come il regime detto comprima fortemente l’esercizio concreto del diritto di avere la possibilità di difendersi nel dibattimento processuale, quel che invece avviene per tutti coloro che si trovano a fare i conti con quel regime. L’essenza del 41bis consiste nell’annullare e torturare psicologicamente la persona, farla diventare collaboratrice di giustizia.
Al 41bis ti viene precluso ogni diritto. Fino a qualche tempo fa non si potevano nemmeno cucinare e comprare generi alimentari, spezie. L’aria si fa due ore al giorno in uno spazio stretto e tutto coperto di ferro e rete metallica che neanche il sole può entrare; l’aria si fa solo con il proprio gruppo, non più di 4 persone. Dunque si rimane 22 ore in ozio forzato imposto. E’ permesso telefonare, solo 10 min. ai soli famigliari, che possono ricevere la telefonata soltanto in un carcere o dentro una caserma dei carabinieri o un commissariato di polizia. Il pacco (uno al mese) vestiti, cibo, libri… portato a colloquio o anche spedito per posta viene controllato e consegnato a discrezione. Spesso vengono rispediti indietro con le motivazioni più arbitrarie.
Ho sempre reagito con forza a tutte le prove feroci, ma tanti, ho visto, che non hanno retto e ne sono usciti morti sia fisicamente che moralmente o meglio pazzi! Il modo migliore per mantenersi vivo e forte nell’isolamento, per la mia esperienza e per chi ho conosciuto, è quello di fare il massimo di attività fisica, ginnastica e yoga. Poi bisogna leggere libri, che riesci a trovare nella biblioteca del carcere. Spesso e volentieri il migliore amico diventa un bel libro. In questo modo la mente rimane fresca e elastica, viva e soprattutto libera da condizionamenti esterni.
Uno stato che inventa leggi e leggine per tutte le stagioni contro i prigionieri, è uno stato corrotto!
Le modificazioni delle regole che si susseguono ad ogni manifestazione antagonista al sistema o che si scontrano al suo interno per via di linee politiche contrapposte, hanno il senso di travisare o comunque di spostare l’oggetto delle contraddizioni politiche nell’ambito del carcere in modo vendicativo. Sono messaggi che vanno al di là del senso comune del carcere e della pena. Siamo contro il carcere perché la gente che abbiamo incontrato dentro non è né migliore né peggiore di quella che incrocia la nostra esistenza fuori (spesso, a pensarci bene, migliore).
Voglio precisare che le ultime carceri dove veniva applicato l’art.90 (dal 1984 al 1986 quando è entrato in vigore il 41bis) sono state Foggia, Ariano Irpino, Carinola (Caserta), isola di Pianosa (davanti a Livorno), Spoleto e Torino. A Pianosa era più duro di tutti gli altri, perché non potevi tenere niente. Solo 2 magliette un paio di scarpe, 3 slip, 2 asciugamani e pantaloni; niente accappatoio, giubbino, tuta, camicia; pigiama solo dell’amministrazione; niente acquisti. Per l’igiene della cella ti dovevi arrangiare; il vitto: una pagnotta, un po’ di brodaglia, qualche filo di pasta scotta. Questo il “menù classico”. Tutto è continuato, così oggi, con il 41bis e 14 bis.
L’art. 3 della Convenzione Internazionale dei diritti dell’uomo – in Italia non esiste. La dimostrazione è il 41bis.
Ciò che illumina la coscienza dell’uomo segregato è il sapere che nella cella sei messo di fronte a te stesso e che hai di fronte un potere immenso che può su di te tutto, la cui potenza si annichilisce di fronte all’esistenza spirituale. Questo è un bene o è un male per la persona segregata?
Che cosa manca? Manca l’unità delle forze oppresse, manca la determinazione e l’organizzazione rivoluzionaria che omogeneizzi quelle forze che si scagliano contro questi corrotti e corruttori che sono la vera causa dei flagelli dell’umanità, che imperversano su tutta la terra. Manca la capacità di vedere quella che è la conquista più importante per la gente che lotta: fine di ogni oppressione, condizioni di vita dignitose da far valere con la lotta, libertà…
Saluti cari a tutti, con affetto Antonino.
24 luglio 2016
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 – 67093 Sulmona (L’Aquila)
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VOLANTINAGGI E PRESIDI AL CARCERE DI BANCALI (SS)
Da alcuni mesi il collettivo s’Idealibera di Sassari porta avanti un’azione di rivendicazione presso il carcere di Bancali insieme ad alcuni parenti dei detenuti.
Dopo alcune segnalazioni da parte dei familiari, i quali lamentavano diversi disservizi (chiamiamoli così) relativi soprattutto alla possibilità di fissare il colloquio con i propri cari (e circa la consueta stronzaggine delle guardie), si è deciso di portare avanti un’azione volta prima di tutto al coinvolgimento dei parenti e in secondo luogo alla risoluzione delle problematiche sollevate.
Sono stati, quindi, realizzati diversi presidi fuori dalle mura nei giorni dei colloqui durante i quali, oltre alle fondamentali chiacchere informali con i parenti, si è chiesto di compilare una sorta di questionario per capire le esigenze e le problematiche maggiormente vissute dai familiari.
Dai numerosi questionari compilati sono emerse soprattutto tre problematiche che sono diventate oggetto di una rivendicazione sottoscritta da una trentina di parenti e inviata alla Direzione carceraria, al Provveditorato regionale e per copia conoscenza al Garante. Nella lettera di rivendicazione si è chiesto: che l’orario della chiamata per la prenotazione dei colloqui sia dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 16 (tenendo conto che attualmente è il lunedì, mercoledì, venerdì ore 9-11 con il telefono spesso occupato); che la sala colloqui sia dotata di sgabelli più comodi; che se un detenuto effettua meno di 6 o dei 4 colloqui consentiti per mese, gli si consenta il doppio turno senza dover uscire per il cambio ora.
Speriamo che un prossimo aggiornamento possa essere positivo rispetto alle rivendicazioni riportate, anche se, al di là delle doverose richieste da parte dei familiari e della richiesta formale, riteniamo che questo rappresenti un passo per noi fondamentale nel stringere contatti con i parenti e nel sostenere forme di lotta dal basso, convinti che nessuna lotta potrà vincere finché gli sfruttati non lotteranno in prima persona.
Sassari, agosto 2016
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Campagna “pagine contro la tortura”
Roma, 18 settembre: proposta di punti di discussione
Segue la proposta di punti da affrontare a Roma domenica 18 settembre, finalizzato a definire modi, tempi e continuità della mobilitazione contro il 41bis. L’appuntamento è alle ore 11 al NED punto solidale Marranella, via A. Dulceri, 211.
- Necessità di un bilancio della campagna a partire dagli spunti emersi a seguito dei presidi contemporanei dell’aprile scorso e della giornata di mobilitazione a L’Aquila dove, nonostante gli sforzi, non si è riusciti a dare la spinta generale-nazionale che ci eravamo prefissi; condivisione delle critiche rilevate da alcune compagne e compagni circa la comunicazione delle iniziative e dei momenti di preparazione delle stesse; valutazione più ampia degli obiettivi e dei metodi della campagna in modo da socializzare punti di forza e di debolezza.
- Bilancio specifico delle spedizioni effettuate, del coinvolgimento delle case editrici, dell’eventualità di un ulteriore ampliamento nel campo dell’editoria indipendente o di altri segmenti della “cultura”.
- Fin qui si capisce, in particolare nei modi di agire precedenti e successivi all’invio di libri alle direzioni delle carceri, ai giudici di sorveglianza e a quasi un centinaio di prigionieri, che le sezioni a 41bis sono blindate in maniera centralizzata; che su alcuni temi quali il 41bis, l’antiterrorismo e l’antimafia, c’è una convergenza di interessi tale da superare le contraddizioni fra potere centrale e locale che qui si sono espresse ad esempio attraverso alcune “ordinanze” dei giudici di sorveglianza locali che ordinavano la “disapplicazione” della circolare DAP sul divieto di ricevere libri. In sostanza questa intesa si esprime nello stroncare ogni comunicazione su quel che accade in quelle sezioni. In questo senso ci sembra importante articolare la discussione, il confronto e l’iniziativa sui nessi che legano l’approfondirsi della guerra, sul fronte esterno ed interno, con lo sviluppo del sistema carcerario differenziato.
- Nella mobilitazione iniziata ci si trova insomma di fronte al muro dello stato, questa dimensione va compresa e affrontata per rendere maggiormente efficace la campagna. Il presidio in programma a Roma, davanti alla magistratura di sorveglianza in quest’ottica è molto importante.
- Programmare la realizzazione dei presidi sotto le carceri con sezioni a 41bis non toccate in aprile e cioé: Novara, Ascoli Piceno, Spoleto, Viterbo, Rebibbia, Uta (Cagliari) e Secondigliano. Quando farli, in contemporanea o no, prendere contatti con collettivi e compas per costruirli assieme a chi in quei territorio vive.
5 agosto 2016, OLGa
lettere dal carcere di milano-opera
Qui da febbraio è in corso una mobilitazione messa in piedi e portata avanti da diversi prigionieri per spazzare via assieme alle miserabili-umilianti condizioni riservate loro, compresi i famigliari che si recano a trovarli, le prepotenze dell’apparato a cominciare dai magistrati di sorveglianza, dalla direzione del carcere fino all’ultima guardia.
Fin dai primi momenti della raccolta firme nelle sezioni e della diffusione della petizione-richieste, i prigionieri hanno ben chiaro chi si trovano di fronte quando scrivono in testa ad essa scrivono: “Con la seguente vogliamo rendere pubblica ogni violazione sui diritti dei detenuti a cui siamo sottoposti attraverso abusi-umiliazioni-ricatti e falsi rapporti”.
Infatti chi si è più esposto (sono stati colpiti in 6) è stato portato in isolamento (14bis) dove li hanno tenuti tre mesi. Fra le provocazioni-macchinazioni ordite va registrata la seguente diretta a colpire Pietro (Noci) e Maurizio (Alfieri) particolarmente impegnati dentro nella raccolta firme.
Esempio di questo agire provocatorio è ben presente, ad esempio, nel rapporto del “Comandante Commissario Capo” Amerigo Fusco, datato 17 marzo 2016 (quando Maurizio è già chiuso nella sezione dell’isolamento). Attribuisce a Pietro e Maurizio di “fomentare le sezioni”, in particolare a Pietro di avere “acredine nei confronti” di un prigioniero, li definisce “facinorosi e attori per conto di gruppi anarco-insurrezionalisti gravitanti negli ambienti esterni al carcere e di contrasto all’istituzione penitenziaria”. Il rapporto si concludeva con la richiesta “dell’immediato allontanamento di tutti i soggetti coinvolti da questo istituto penitenziario”.
Queste falsità, vogliono nascondere e perpetuare le cause della mobilitazione emersa nel carcere di Opera (dove nei giorni recenti sono morti altri due prigionieri), per questo vanno smascherate, diffuse, capite, per essere combattute a viso aperto e vinte. La solidarietà verso i Maurizio, i Pietro non può allora che essere ancora più convinta e sincera così da rafforzare la lotta contro il carcere e la società che ne ha bisogno.
Il 21 luglio ricorre l’anniversario dell’assassinio di Stefano Frapporti (5 anni) e Stefano è sempre in tutte le nostre lotte, vive con noi! Ciao fratello!
Carissime/i compagne/i, dopo la fine del 14bis ho preso una forte contrazione alla schiena e un’allergia che ancora oggi mi chiude le narici… Questa è la macumba che mi hanno fatto a Opera per il mancato trasferimento e soli 3 mesi di 14 bis (4 mesi e g. 5) passati sempre attivamente con ginnastica e contestazioni quando ce n’era bisogno, ma tutti erano educati. Adesso mi hanno fatto l’ennesima proroga della censura. Ma quello che mi tiene nervoso è l’isolamento dato ai miei compagni. Al direttore ho detto che è stato un abuso perché gli hanno dato “mancato rientro in cella”, quando chiedevano di parlare con un responsabile, dalle 16,30 alle 18,30, orario in cui hanno parlato con l’ispettore, mentre la chiusura delle celle avviene alle 19,30. E’ evidente l’abuso di potere fatto per stroncare la solidarietà.
A me il direttore ha detto che ho altri 150 giorni di isolamento, che li ha sospesi; mentre sugli altri miei compagni di sezione sono sospesi “18 rapporti” con richiesta di 14bis. Io, se portano un mio compagno alle celle sono pronto a prendermi 18+18+18 rapporti e il 14bis. Dato che un mag. di sorv. (Cossa) ieri ha dato torto ad un compagno dimostrando l’ignobile e infame sistema della giustizia che copre crimini e abusi, invito tutti/i compagne/i e solidali ad una forte protesta al trib. di sorv. Appena saprete che io sono in isolamento per solidarietà a tutti i miei compagni. Metterò in atto ogni tipo di protesta perché per colpire me non dovevano fare questo abuso.
Sono cambiate molte cose in meglio. L’ispettore che al 2° padiglione picchiava i ragazzini e si faceva chiamare Beautiful (camorrista) è stato tolto dopo l’ultimo pestaggio ad un ragazzino per uno spinello. L’ispettore che c’era qua (Trainito), un essere ignobile, a lui è dovuto il mio 14bis, inquisito per pestaggi e impiccati (sospetti), è stato tolto dal 1° padiglione e il rapporto con i nuovi responsabili è umano e rispettoso. Per cui comandante e direttore hanno fatto una “depurazione”: celle imbiancate e agenti comprensibili, che non hanno la parola (rapporto) in bocca.
Se capitano a me non ci metto un attimo a riempirli di parole, perché le minacce di quel tipo mi fanno imbestialire. Quando mi dicono: “Alfieri essere anarchico le costerà tanto”, io rispondo a costoro (lecchini dei loro padroni), che ho sempre espropriato le banche, che sono ladri e assassini dei poveri e in questi anni ho scoperto con gioia e felicità che i miei ideali di uomo libero e ribelle, vicino al popolo, ai poveri e bisognosi e a ogni anarchico/a compagne/i e solidali, fiero di tutto, non un passo indietro. E se non vi sono bastati 10 anni di isolamenti (totale in 22 anni), solo quando sarò morto si placherà la mia ribellione.
Il 17 novembre siete tutte/i invitate/i a Udine, all’inizio del processo di Tolmezzo; ci sarà il comandante del carcere (Barbieri) e l’agente (corrotto) sporco giochista (Sanfilippo). Invito tutte/i in questo dibattimento che ho scelto senza sconti di pena per dimostrare che i presidi e le notizie, uscite da Tolmezzo su abusi e pestaggi, hanno permesso a dei vigliacchi di architettare una trappola degna degli esseri infami più ignobili sulla faccia della terra. Il giudice, una donna, a detta dei miei avvocati, è professionale e umanamente scrupolosa a cercare la verità; anche a me ha dato un’ottima immagine. Poi in aula dimostreremo cosa ha cercato di fare il pm Bonocore, ideatore e promotore di tutto e responsabile di tutti gli abusi che creano in carcere. Non sarò solo, tutti/e noi guarderemo in faccia gli aguzzini, sempre a testa alta, perché, se condanneranno me sarà una rappresaglia contro le nostre lotte. Non avrei patteggiato neanche un anno, anche se ora ne rischio cinque. Patteggiare significava occultare pestaggi-abusi-e torture, scendere a compromesso.
Tutto questo non ci appartiene. I compagni Sacco e Vanzetti furono giustiziati innocenti in America nel 1922, oggi tanti/e compagne/i, dopo quasi un secolo, vengono incarcerati in paesi come la Grecia, l’Italia, l’America Latina ecc. Tante/i sono uccise/i, torturate/i solo perché hanno il sogno (della libertà) e di un mondo senza schiavi e padroni, proprio per quel sogno che loro vogliono soffocare attraverso il codice Rocco (fascista), rappresaglie processuali, 14bis che a me regalano ogni anno, come quest’ultimo che, dopo l’infamia di scrivere che facevo prepotenze ai miei compagni-amici-e fratelli in sezione.
Oggi sono ancora insieme a tutti loro. Se la direzione vuole ripristinare la legalità devono sospendere l’isolamento che hanno erogato, se no siamo pronti a scrivere molto altro e l’isolamento non ci fermerà. Resto fiducioso che prevalga il buon senso.
Un abbraccio anarchico e No Tav – Liberi/e tutte/i.
(Non ricevo posta, sappiatelo … vvb Maurizio)
7 luglio 2016
Maurizio Alfieri, via Camporgnago 40 - 20090 Opera (Milano)
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Ciao, con immenso piacere ho ricevuto la tua lettera, ti rispondo oggi perché mi è stata consegnata venerdì nel tardo pomeriggio e qui la posta il sabato e la domenica non parte.
Una buona notizia è che finalmente il compagno Maurizio è tornato in sezione, l'ho visto un paio di volte, è un pazzo come sempre, non c'è nulla che lo spezza.
Rispondendo alla tua lettera, che io sappia, ai 5 punti dell'appello partito da qui non c'è stata risposta e non credo ci sarà. Le mie idee, unite a quelle degli altri, sono di dare più informazioni possibili, dato che da questa amministrazione non trapela niente.
Ti porto come esempio un fatto accaduto di recente, tipo 12/15 giorni fa, del quale nessun Tg o giornale ha fatto parola: praticamente, un detenuto cinquantenne ristretto al regime AS1 è deceduto per un infarto, noi l'abbiamo saputo perché alcuni detenuti, rientrando dall'ora d'aria, hanno visto mentre portavano via il corpo, nascosto da un lenzuolo. Se non l'avessero visto, non si sarebbe saputo niente. So che voi fate molta informazione ed è molto importante che noi da qui vi passiamo più notizie possibili su tutti gli abusi e i soprusi che viviamo quotidianamente.
Ora ti racconto un altro fatto accaduto ad un amico/compagno, che mi ha chiesto di fare il suo nome e cognome, si chiama Vincenzo Cicalese, per gli amici "Rischio". Ha problemi di denti, ne ha persi molti e fa fatica a masticare, è andato dal dentista, che gli ha chiesto soldi per mettersi i denti. Vincenzo gli ha risposto che non ha soldi e che esiste l'esenzione, la cosiddetta mutua, per chi è nulla tenente; il dentista gli ha risposto che qui deve pagare, se no resta così. Questo perché quello sporco del dentista è un altro servo degli sporchi capitalisti aguzzini, che dirigono questo inferno, che di sicuro ci mangiano anche loro sulle parcelle del dentista, anche perché per mettere due denti ti chiedono mille euro. Il compagno Vincenzo si è rivolto con uno scritto al suo magistrato di sorveglianza, esponendo questo suo problema e il magistrato, dopo vari giorni, ha risposto che non poteva fare nulla. Ora il nostro amico Vincenzo deve mangiare a fatica, fin quando non esce da qui.
Un altro fatto che non ti ho mai scritto è quello delle televisioni. Qui siamo ancora con le televisioni antiche, ogni tanto se ne brucia una e ti lasciano giorni senza, perché non hanno il cambio; però se vuoi e puoi, te le puoi comprare: un LCD da 19', sottomarca, che all'ingrosso costa 29 euro, qui lo vendono a 120 euro. Prima di consegnarlo lo aprono e tolgono l'ingresso USB, in questo modo già perdi la garanzia. Ma la cosa più assurda è che se vieni scarcerato, diventa proprietà del carcere, se vuoi lasciarla a un amico che ha una condanna più lunga non puoi, a meno che questo amico non si sposti dalla sua cella alla tua, ma per come lavorano qui, il televisore decidono loro che fine fargli fare, anche volendo portarlo a casa non puoi. Ti rendi conto? Ma non è tutto, qui, sì, perché chi compra la TV, non riceve la fattura, manco se la chiede, sai perché? Perché i Tv LCD che vendono sono quelli che in teoria la regione o il DAP o chicchessia ha dato al carcere per sostituire quelli vecchi, solo che molti di questi TV sono finiti nelle camere degli sbirri, in caserma, e le altre in vendita. Mentre ti scrivo queste cose mi rendo sempre più conto di che mondo schifoso è questo.
Per quanto riguarda gli educatori e gli assistenti sociali che lavorano qui, non ho più commenti. Mercoledì ho visto l'educatore Pizzuto (il re dei merda) abbronzato e rilassato dalle vacanze; ho fatto riaprire il mio caso e per l'ennesima volta mi ha risposto negativo, così gli ho dato io l'ultimatum, con tre alternative: 1) in tempi brevi mi fanno chiedere i permessi o un beneficio, visto che sono nei termini; 2) che in tempi brevi mi mandano in un altro istituto; 3) gli do fuoco alla sezione, ha tempo un mese, poi qui scoppia l'inferno. Già il mio avvocato vuole denunciare l'educatore, l'assistente sociale e la direzione, proprio perché non rispettano i termini di legge per la chiusura delle osservazioni.
Mi fa piacere che al presidio a L'Aquila dal 41 bis vi hanno risposto sventolando indumenti dalle bocche di lupo, almeno lì possono. Qui al 41 bis, oltre alle infami bocche di lupo, ci sono le grate più le sbarre. Sai, io mi affaccio proprio sul padiglione 41 bis, tutti i giorni alle 7 alle 16 e alle 20 gli sbirri vanno cella per cella a fare la battitura delle sbarre: credimi, è una tortura per me che li sento da qui, non oso immaginare per chi occupa quelle celle.
Un grosso saluto a tutti e a tutte le compagne di OLGa e a tutti i compagni e le compagne di tutti gli altri movimenti.
10 luglio 2016
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Lettera collettiva dal carcere di Opera
Carissimi amici e compagni, siamo un gruppo di detenuti 4° piano 1° padiglione che vogliamo raccontare cosa è successo a Salazar (un bravissimo ragazzo filippino che non poteva nuocere ad una mosca) e che quando c’è stata la manifestazione di Antigone lui, per questo, aveva bruciato il materasso. Questo dopo che chiedeva da 4 giorni di andare in isolamento, perché ha tre bambini piccolissimi, e non gli danno il lavoro.
Così, dopo l’intervento degli agenti è stato picchiato dal 4° piano fino al 2° piano, un agente gli ha sferrato un pugno, ma Salazar si è abbassato, essendo piccolissimo (pesa 40 kg), all’agente si è girato il ginocchio ed è caduto, battendo la fronte sui gradini delle scale.
Questi aguzzini non hanno perso tempo a fare pubblicare sul giornale su una pagina intera che “un agente è stato aggredito selvaggiamente da un detenuto”, invece di dire che (il detenuto) è stato picchiato da decine e decine di agenti, perché loro vogliono sempre passare per vittime, invece di dare il lavoro ad un uomo con tre bambini piccoli (uomo mite e sempre sorridente) che noi sappiamo come sono i filippini quando lavorano – anima e corpo. Questa è la verità di quello che è successo e non di quello che hanno scritto i giornalisti in concomitanza con quello che la direzione vuole coprire per giustificare eventuali pestaggi.
Un abbraccio da tutti noi detenuti 1°padiglione 4°piano in solidarietà con Salazar vittima di questo sporco e infame sistema. Grazie di tutto, ciao!
fine luglio 2016
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[…] Questa mattina è accaduto un fatto brutto: in diversi detenuti siamo riusciti a salvare un giovane marocchino che si era impiccato, abbiamo fatto in tempo ad alzarlo. Dopo una sosta in infermeria l’hanno portato purtroppo in isolamento “per motivi di sicurezza”. Spero al più presto lo riportino qui.
Tutto questo è accaduto per lo smisurato menefreghismo di Opera. La sua situazione, che a dir poco è sconvolgente. Praticamente più di un anno fa questo ragazzo ha preso un colpo ai testicoli. Da quel momento ha patito un dolore allucinante. Ha passato un anno sempre lamentando il dolore, ha fatto un paio di visite e qualche controllo; tutti privi di esiti su cosa gli provocasse il dolore.
Così, come accade sempre, è stato messo nel dimenticatoio di Opera. Lo vedevo quanto soffriva, non riusciva a sedersi, a camminare e non dormiva. Parlava con tutti, si sfogava, diceva sempre che non sopportava più quel dolore. L’altra sera gli hanno fatto un’iniezione; prima lo curavano con le bustine antinfiammatorie. Quella puntura gli ha provocato una reazione allergica. Fortunatamente non è andato in shock anafilattico (grave reazione allergica a rapida comparsa e che può causare la morte), comunque, il forte dolore e questo menefreghismo l’hanno portato a commettere l’estremo gesto. Per fortuna o per puro caso, ringrazio il destino che l’ha salvato.
Un’altra angheria e prepotenza viene dagli educatori, in primis Pizzuto, la direzione. Qui continuano a mettere dei bandi per trasferimenti in altri istituti. Qui in ogni sezione siamo 50, ebbene in certe sezioni almeno 20 chiedono di essere trasferiti, di andare via. Qui si sono chiesti cosa c’è che non va, perché così tanti se ne vogliono andare.
Così è stata fatta una riunione con i richiedenti trasferimento. Molti hanno detto che era per avvicinamento colloqui, altri per lavoro, altri ancora hanno detto che è per il modo di operare di Opera, non sei seguito e aiutato da educatori e assistenti sociali. Non c’è una sanità decente. Non ci sono possibilità di lavoro.
Insomma Opera ti porta a fine pena. Visto che è così allora vogliamo finire la pena in altri istituti dove non sei tutti i giorni torturato psicologicamente.
Ma alla fine tutte le richieste di trasferimento sono state bloccate. Ti rendi conto di che cosa è Opera; qui davvero se non hai un minimo di forza per lottare contro gli abusi e le torture, vieni assorbito da queste mura e dall’istituzione sporca e capitalista, fino a commettere atti di autolesionismo. Questo perché Opera ti lesiona il cervello: parlando tra detenuti, a tutti ci viene la frase “Opera ti devasta psicologicamente”, assurdo davvero.
Qui tutti ringraziano che l’altra sera, nonostante il temporale, siete venuti a manifestare la vostra solidarietà, una cosa che accresce domande, interesse in tanti a capire meglio il senso della nostra lotta.
Un saluto a pugno chiuso a tutte/i le/i compagne/i, grazie per tutto, alla prossima, sempre a testa alta.
inizio agosto 2016
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Nella raccolta dei sacchi dell’immondizia un lavorante ne ha trovati alcuni che contenevano posta non consegnata, come opuscoli di OLGA, lettere, telegrammi, libri… Hanno timori, nascondono.
Nella sezione 41bis ci portano lavoranti (pulizie, porta-vitto …) solo stranieri, così le guardie si sentono più sicure nel nascondere quello che vogliono.
I prigionieri stranieri sono trattati peggio in tutto, anche nel prendere botte e isolamento; in quella sezione spesso sono da soli.
La ditta che vende il sopravvitto, ma anche prodotti per l’igiene, carta, biro, matite, scarpe… sono ladri autorizzati dalla direzione; dovrebbero fare i prezzi del primo supermercato vicino al carcere, ma non lo fanno, e la roba, non è di prima scelta.
Il carcere che ormai hanno finito di costruire al posto del campo di calcio, porterà qui altre 600 persone. Già non funziona niente ora, con tutti quegli arrivi sarà ancora peggio.
estate 2016
lettera dal carcere di Livorno
Ciao ragazzi, sono arrivati i libri, sono bellissimi, specialmente Charlie Bauer. Non immaginate quanto tempo mi sono impegnato a leggerli; mi è passato più veloce il tempo, mentre leggevo con la testa evasa da queste mura. Quei libri mi hanno aiutato tanto distraendomi un po’ e facendo passare prima le lunghe giornate di noia che ci sono. I libri cambiano in meglio le nostre giornate.
Il caldo è insopportabile, si soffoca, siamo pieni di zanzare e scarafaggi in cella, per non parlare dei topi grandi come gatti che girano intorno al carcere. Le zanzare ci mangiano, compriamo tutti gli zampironi. Ci siamo inventati una trappola per dare la caccia alle zanzare. In pratica è una bottiglia di plastica capovolta con infilato nel foro del tappo il manico della scopa; la bottiglia viene bagnata di olio, il bastone lo si lega alla branda innalzandolo verso l’alto, nel volare le zanzare prima o poi si posano sulla bottiglia e ci rimangono attaccate, muoiono. Quasi tutti ne abbiamo costruita una, ci arrangiamo come si può.
Le guardie della spesa per la cucina dei detenuti prendono da questa tutto quello che gli serve a casa per cucinare e mangiare; gli oggetti che ci vendono nel sopravvitto i prezzi sono da insulto, inoltre tutto quello che avanza se lo prendono le guardie addette. E’ tutto un mangia mangia che va contro di noi, che subiamo; qualcuno diventa lecchino, viene insomma messo a tacere dai regali delle guardie. Pochi riescono a sottrarsi a questi traffici.
Anche leggendo questi libri si vede chiaramente com’è cambiato il detenuto. L’unione e le rivolte di un tempo sono sempre più rare, l’unione tra detenuti non è più comune come prima. Ogni problema che si ha con la polizia penitenziaria è solo tuo, e combatti da solo contro loro. E queste cose sono all’ordine del giorno. Una volta non era così.
Ciao ragazzi vi auguro una buona estate.
luglio 2016
Saluto al carcere di Ferrara
La sera di martedì 2 agosto, a Bologna, a seguito di una lite in casa, il compagno Divine si è trovato alla porta la polizia che immediatamente entrano nell'abitazione effettuando una perquisizione ed allertando la digos. A seguito di questa perquisizione, come scritto dalla stampa di regime, venivano rinvenuti oggetti e sostanze di uso comune che se collegati tra loro con alchemica sapienza potevano generare un ordigno, oltre a svariato materiale cartaceo riconducibile agli ambienti anarchici. Come risaputo in casa di un anarchico, anche del minestrone andato a male può diventare un'arma.
Divine viene portato in questura dove viene trattenuto per più giorni in assenza di comunicazione con l'esterno e con gli avvocati. Il giorno dopo i giornali parlano di un soggetto che gravita intorno all'area anarchica trovato in casa con materiale potenzialmente esplosivo e immediatamente rilasciato con denuncia a piede libero. La notizia risulta falsa visto che, nonostante i tentativi, nessuno riesce a vedere Divine o ad avere notizie sicure sul suo rilascio. Dopo 4 giorni infatti arriva la conferma che il compagno si trova rinchiuso nel carcere di Bologna (ora trasferito a Ferrara) con le stesse accuse già scritte sui giornali, in attesa che il giudice si pronunci sul da farsi.
Domenica 21 agosto settembre alle sei del pomeriggio una quarantina di compas ha raggiunto il carcere per esprimere immediata vicinanza, solidarietà al compagno Divine arrestato ormai da oltre 10 giorni. Nei primi 4-5 giorni successivi al fermo-arresto il compagno non è stato reso rintracciabile né all'avvocato, ancor meno ai parenti stretti. Poi si è saputo che l'avevano portato al carcere di Bologna, si è andati a salutarlo e dalle sezioni ci hanno urlato che era sì lì, ma sotto all'infermeria. Da lì pochi giorni dopo l'hanno trasferito a Ferrara nella sezione AS2, la stessa dove si trovano i compagni Francesco, Nicola e Alfredo. Da compas delle città vicine è stata lanciata la decisione di farsi vedere, sentire. Così è andata.
Nelle 2 ore di saluto si è riusciti a urlargli che ci era tornata indietro la posta, che nessun* l'ha dimenticato, anzi! A urlare a tutti, che l'odio contro carcere e carcerieri di ogni risma, prepotenze, ruberie, isolamenti ci appartiene. Ci siamo alla fine spostati verso la sezione AS1, da dove hanno risposto nelle maniere più diverse.
Il balzo-abbraccio comunicativo è riuscito nonostante questure e galere e... l'agosto.
Martedì 23 finalmente sua mamma è riuscita ad incontrarlo al colloquio e gli ha portato le prime cose al colloquio, per il resto sta bene... Attualmente non si trova in isolamento, ha la censura sulla posta, può ricevere e scrivere lettere.
Ecco l’indirizzo: Divine Umoru, via dell'Arginone, 327 - 44122 Ferrara
Milano, agosto 2016
lettere di marco: aggiornamento dalla ‘discesa’
Dopo il trasferimento di novembre 2015 da Bostadel a Saxerriet (Salez) nella sezione “chiusa di transito”, il 10 dicembre 2015 ci fu “riunione di trasferimento con la direzione del carcere, i responsabili del DAP Zurigo ed il mio legale, ove furono deliberati e poi ordinati i seguenti “passio”, ora già realizzati:
- Gennaio 2016 trasferimento interno dal “transito” in una “sezione aperta”
- Febbraio 2016 2 uscite di 5h accompagnate da personale dell’istituto
- Marzo 2016 2 uscite ognuna di 5h accompagnate da “figura di riferimento di propria scelta che si assume la responsabilità”
- Aprile 2016 2 uscite, una di 5h e una di 12h accompagnate da “figura di riferimento di propria scelta che si assume la responsabilità”
- Maggio 2016 2 uscite di 12h accompagnate da “figura di riferimento di propria scelta che si assume la responsabilità”
- 18 maggio altra “riunione di coordinamento esecutivo”
In questa riunione fu decisa (con ordine scritto a metà giugno) la concessione di un’uscita di 12h sia per giugno sia per luglio + un permesso di fine settimana di 24h in giugno e uno di 36h in luglio, nonché un permesso di 24h e uno 36h nel mese di agosto; dopo di che, dopo un’altra “riunione di coordinamento esecutivo” prevista agli inizi di agosto, sarebbe previsto che a settembre 2016 (circa tre mesi prima del “previsto” …) potrei iniziare un “lavoro esterno” per sei mesi (lavorare fuori, sere/notti dentro, i fine settimana fuori). Il contratto di lavoro richiesto (min. 50%) e un posto in un carceretto nell’area di Zurigo dovrebbero, di quanto ne so, già essere certi.
In seguito potrebbero aggiungersi alcuni mesi di lavoro e di soggiorno (in una casa propria) esterno e, al più tardi agli inizi del 2018, la liberazione condizionale.
Le mie capacità di mantenimento delle relazioni politiche/personali (anzitutto per il lavoro di scrittura) già negli ultimi anni sono state fortemente ridotte anzitutto con i continui trasferimenti e le conseguenti riorganizzazioni, anche da zero, di questo lavoro. E ora, in questo lungo passaggio “tra dentro e fuori”, suddette capacità sono ancora più ridotte (e spesso al lumino …) oppure assorbite in altro modo nella tanto intrigante quanto impervia riorganizzazione, ex-novo, di un resto di esistenza solidale fuori dalle mura in qusta società galera. Sono degli sforzi che tuttx lx solidali direttamente impegnatx come anch’io stesso li dobbiamo affrontare con degli “spazi” a volte anche più ridotti e certamente più incerti che non il “carcere-carcere”.
Non trattasi, perciò, in nessun modo di indifferenza e di desolidarizzazione personale e/o politica se ora non sono e in futuro non sarò più in grado di mantenere quel sacco di corrispondenza e lavoro di scrittura come fino a poco tempo fa.
Tuttavia, per gli spazi un tantino più “liberi”, già con l’imminente periodo di lavoro esterno la situazione potrebbe iniziare ad essere più propizia a suddetta riorganizzazione e perciò anche a quelle delle comunicazioni.
Con l’ennesimo imminente cambio di indirizzo comunicherò anche l’inizio del suddetto periodo. Sempre resistendo, sempre contribuendo, sempre solidale.
26 giugno 2016
***
Carissimx amicx e compas de l’”Opuscolo”, dapprima confermo e ringrazio di cuore per gli ultimi numeri dell’Opuscolo! Dal prossimo settembre 2016 inizierò un lavoro esterno e passerò ogni giorno lavorativo e fine settimana in “libertà” con la conseguente “libera” accessibilità alla stampa di movimento, alla “rete” ecc. Perciò non sono più nelle condizioni e di conseguenza non più “legittimato” a ricevere ancora il vostro in questi lunghi anni importantissimo e estremamente apprezzato abo gratuito per prigionierx, per il quale, naturalmente voglio qui ringraziarvi.
In seguito diffonderò un ulteriore aggiornamento. Cari saluti solidali, Marco.
28 agosto 20146
Marco Camenisch, Postfach 1, CH - 9465 Salez
sull’importanza di un soccorso antifascista
Segue un contributo dal carcere su memoria, come affrontare i processi poggiati su “devastazione e saccheggio” e sull’importanza dell’antifascismo.
Ciao compagni! Inizio questa lettera dicendovi che ho letto il documento ‘Rompere la piazza’ e vi chiedo di fare i miei complimenti a lo ha realizzato. Finalmente si ragiona serenamente. Detto questo vi informo che ho ricevuto l’opuscolo insieme al libro di Charlie Bauer e vi ringrazio infinitamente per la costante solidarietà. Il testo già l’ho letto, ma non ci sono problemi; l’ho messo ora a disposizione degli altri detenuti. Senza dubbio i libri sulle lotte carcerarie e dei ribelli sono i più consultati e apprezzati.
Il sotto-proletariato che riempie questi luoghi di morte della politica non se ne fotte un cazzo, però è tendenzialmente rivolto verso i nostri ideali. Facevano benissimo i ‘NAP’ a mettere al centro della loro attività i rapporti tra dentro e fuori.
Quei tempi purtroppo sono ormai passati e se prima migliaia di compagni riempivano le prigioni, e lavoravano anche su questa categoria di proletari, oggi i prigionieri politici ne siamo davvero un manipolo. Da un lato è un bene, nessuno dovrebbe finire in galera, restino macerie di questi posti; dall’altro però si palesa che fuori vi è poca attività antagonista. E questo è un male.
Non voglio tuttavia ora soffermarmi ad analizzare la situazione perché c’è davvero da piangere, permettetemi di chiudere questa piccola parentesi, evidenziando le differenze fra noi e la Francia sulle risposte al ‘Jobs Act’. In Italia un corteo e tante chiacchiere (ricordate Landini tuonare: …occuperemo le fabbriche…), in Francia cortei, scontri e paese paralizzato. I cittadini di OltrAlpe e il loro sindacato dei lavoratori hanno insegnato cos’è la dignità a noi italiani smidollati e al nostro sindacato guidato dalle pedine del capitalismo.
Cari compagni c’è un lavoro enorme da fare per tornare ad avere un’opposizione sociale seria. Bisogna che qualcuno si sporchi le mani. Ci vuole una progettualità a lungo termine! Questo è un discorso che va fatto un po’ su tutto, iniziando proprio dall’antifascismo e dal carcere (repressione).
Non è degno della lotta di resistenza assistere impotenti a fatti come quelli di Fermo. Se i topi fascisti alzano la testa è perché noi lo permettiamo. Ci vogliono risposte partigiane! Proprio sull’antifascismo possiamo ricostruire tutto. E’ un valore che unisce le varie anime.
Sul carcere e in generale sulla repressione, la situazione è più delicata, visto che si parla di questi temi solo quando dentro finisce qualche ribelle. Senza troppi giri di parole, io sono per la creazione di un ‘Soccorso Antifascista’ (come era allora il ‘Soccorso Rosso’). Non ha davvero senso continuare ad improvvisare quando avvengono degli arresti.
Fermiamoci un secondo a pensare. Se a livello nazionale c’è un’organizzazione supportata da tutti, che mobilita, fa controinformazione con un sito, lavora per far uscire gli arrestati, garantisce supporto economico e collega chi lotta dentro con chi lotta fuori, non credete che il nemico poi si troverà spiazzato?
L’apparato repressivo punta proprio a isolare e demonizzare chi alza la testa. Pensate se al loro attacco trovano dinnanzi un’organizzazione del gemere… sto forse sognando ma da buon comunista non smetterò mai di farlo. A pugno chiuso.
Luglio 2016
USA: guerra di classe aperta
L’8 luglio a Dallas (Texas) si svolge una partecipata marcia di protesta, convocata dopo gli ennesimi omicidi di afroamericani da parte della polizia. Al termine della marcia, la polizia viene messa sotto tiro; rimangono uccisi cinque agenti e feriti almeno altri dieci. Ragione della manifestazione erano i recenti assassinii compiuti dalla polizia: in particolare quello di Alton Sterling a Baton Rouge (capitale della Louisiana), martedì 5 luglio, e di Philando Castile a Falcon Heights (Minnesota) il giorno successivo.
Subito dopo gli spari subiti, la polizia punta le armi sui manifestanti neri, bianchi e latini che alzano le mani urlando: “non sparare”. Il probabile autore degli spari sulla polizia si sarebbe trincerato in un parcheggio dove viene raggiunto da una bomba mortale lanciata da un robot della polizia. Si chiamava, Micah Johnson, afroamericano e veterano della guerra in Afghanistan.
La polizia attribuisce la responsabilità di questo attacco al movimento Black Lives Matter (Rispettare la vita della popolazione nera), organizzatore della protesta che, per il vero, ha preso le distanze dagli spari, dichiarando: siamo a favore della dignità, della giustizia e della libertà. Non dell’omicidio.
A Baton Rouge la polizia ha arrestato DeRay McKesson attivista del movimento Black Lives Matter perché, questo il pretesto, filmava e commentava il comportamento della polizia. Lo hanno infine accusato di blocco stradale e liberato qualche giorno dopo dietro pagamento di una cauzione di 500 dollari.
Gli assassinii di Sterling e Castile hanno destato particolare rabbia nella comunità nera; hanno avuto l’effetto della goccia che fa traboccare il vaso. Sterling, 37enne nero, padre cinque volte, è stato ucciso dai poliziotti davanti a un supermercato dove vendeva CD: prima lo hanno gettato e immobilizzato a terra, infine gli hanno sparato in testa. L’esecuzione di Castile invece ha avuto particolare eco anche perché la sua compagna ha trasmesso live su facebook l'agonia del suo compagno appena colpito dalla polizia durante un normale controllo in auto, mentre estraeva i documenti dal portafoglio.
Immediatamente in tante città le strade sono state percorse da manifestanti determinati, che hanno bloccato incroci stradali, come a Oakland; a Dallas appunto è stato fatto fuoco sulla polizia. Lo stesso giorno a Houston (Texas) la polizia uccide Alva Braziel, afroamericano, perché durante un controllo si sarebbe rifiutato di consegnare l’arma che portava. La polizia uccide e compie arresti di massa: solo a New York ha arrestato oltre 70 persone (nere).
Sempre a Baton Rouge, domenica 17 luglio, la polizia viene presa di mira dalle armi: rimangono uccisi tre poliziotti, tre sono feriti. L’attacco viene attribuito a Gavin Long, afroamericano, anche lui veterano, ma della marina militare dove è rimasto oltre 5 anni, dal 2005 al 2010, affrontando in particolare la guerra in Irak. Viene ucciso da colpi sparati da nuclei speciali della polizia negli stessi momenti dell’attacco.
Obama ha definito sia Johnson che Long “autori individuali impazziti”. I media USA seguono, a modo loro e scrivono che adesso “gli USA sono minacciati dalla guerra civile”, perché vengono uccisi dei poliziotti, ma tacciono dei 585 cittadini USA, in gran parte neri, uccisi quest’anno dalla polizia; solo nelle prime settimane di luglio di queste morti se ne contano 37 (tante quante in Inghilterra, però in 15 anni).
C’è da tener conto del fatto che gli autori degli spari sulla polizia sono entrambi stati militari e che negli USA circolano almeno 300 milioni di armi portatili; bisogna ricordare che nelle lotte degli anni ‘60 (sempre negli USA) i neri addestrati nella guerra in Vietnam, tornati a casa, impiegavano quel che avevano appreso contro polizia e guardia nazionale che procedevano senza scrupolo alcuno contro la popolazione in lotta per i diritti umani ad essa negati. Razzismo e sfruttamento conseguente oggi sono sempre presenti, però aggravati dall’approfondirsi della crisi…
9 luglio 2016, tratto da varie fonti
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La storia di “Butter”
I suoi amici lo chiamano ‘Butter’ (Burro), ma per avvocati, giudici e poliziotti è Terrance (Terry) Williams, che doveva essere impiccato già il 3 ottobre 2012. Il soprannome ‘Butter’ se lo porta dietro sin dal liceo, tempo in cui ha inizio la sua carriera sportiva nella squadra di rugby della scuola. Butter perché si muoveva con un’elasticità pari a quella del burro. Tanti allora credevano che dovesse avere un futuro nella squadra professionisti di Philadelphia Eagles, ma non è andata così.
Nel 1984, all’età di 18 anni, Butter venne arrestato e condannato a morte per aver ucciso l’uomo che aveva cercato di compiere contro di lui abusi sessuali. 4 anni dopo l’arresto e la condanna di primo grado, secondo la Corte d’appello delle udienze comuni di Filadelfia, nelle sue dichiarazioni si evidenzia come nel processo di primo grado l’accusa avrebbe nascosto illegalmente le prove materiali e “ripulito” gli atti. Da quelle prove emergeva che nella realtà l’ucciso aveva compiuto abusi sessuali nei confronti di parecchi giovani dell’età di Terry ed anche in uno spazio temporale lungo. Nel processo contro Terry però il procuratore avrebbe rifiutato quegli atti perché l’autore era considerato “uomo retto della chiesa”.
Come conseguenza della testimonianza di Terry, nel settembre 2012, il giudice d’appello cancellò sia la condanna a morte che la sua esecuzione. Come era immaginabile il procuratore fece ricorso presso la Corte suprema della Pennsylvania nella quale sedeva, fra gli altri, il procuratore Ronald D. Castille, che nel primo processo contro Terry aveva chiesto e ottenuto la sua condanna a morte. Così la Corte suprema finì con l’esprimersi contro la sentenza della corte d’appello e riconfermò la condanna a morte.
Gli avvocati di Butter si rivolsero dunque alla Corte Suprema degli USA, ultima istanza giuridica statunitense. Il 9 giugno 2016 quella corte emise una sentenza sorprendente: cinque giudici contro tre scrissero che l’ex procuratore Castille ora in pensione, nel prendere quella decisione si era trovato confuso e che non dovesse prenderci parte. Ciononostante invece il suo voto fu ammesso. Perciò, sostiene la Corte Suprema di Washington, questa forzata presa di posizione di Castille viola l’articolo 5 della Costituzione USA riguardante il “procedimento corretto”. Così il caso di Terry deve ora essere riportato in tribunale “imparziale” [probabilmente di un altro stato USA ndt].
In seguito a questa decisione il caso Terry fa legge. I tribunali in questo paese adesso sono esortati, devono entrare nel ballo, i giuristi per pregiudizio sempre rifiutano di esprimersi nei casi in cui l’accusa ha giocato un ruolo determinante. Il pensionato Castille liquida la decisione della Corte Suprema con una risata sprezzante e descrive il suo ruolo di giudice presidente come “azione processuale limpida”.
‘Butter’ Williams, che dopo 30 anni soffre di gravi problemi psichici, si trova ancora pur sempre sulla “sedia calda”. Il procuratore in carica, competente nei suoi confronti, non sembra voglia rinunciare e cerca di rimettere in strada un’accusa che riconfermi la condanna a morte.
11 luglio 2016, di Mumia Abu-Jamal, da jungewelt.de
Beaumont-sur-Oise (francia): la polizia uccide, notte di rivolta
Un giovane di 24 anni, Adama, è morto nelle mani della polizia ieri nei pressi di Beaumont-sur-Oise, una cité dell’estrema periferia a Nord di Parigi.
Secondo il racconto di chi ha assistito all’arresto, tra cui il fratello della vittima, il 24enne è stato inseguito e picchiato poi portato esanime dentro il commissariato. Qualche ora dopo la polizia ne ha annunciato la morte, ufficialmente per un problema cardiaco.
Una ricostruzione che non ha convinto nessuno e che suona come la solita presa in giro a chi sa benissimo cosa succede davvero nei commissariati di banlieu.
Da subito decine di giovani hanno iniziato a riunirsi davanti alla gendarmerie per protestare contro la brutalità della polizia e nella notte si sono verificati incidenti nelle zone limitrofe con macchine date alle fiamme e barricate, l’arrivo della polizia, a piedi e in elicottero, è stato accolto con lanci di oggetti (e forse colpi di arma da fuoco). Le forze dell’ordine hanno reagito lanciando granate stordenti tra cui la tristemente nota LBD40 che ha causato la morte di Remi Fraisse nell’ottobre del 2014.
Gli scontri sono proseguiti anche la notte successiva. Molotov contro un commisariato, barricate e macchine incendiate davanti alla sede del comune. La polizia ha fermato 9 persone durante gli incidenti mentre, nel pomeriggio, i familiari e amici di Adama si erano invitati alla conferenza stampa della prefettura per fornire la propria versione dei fatti e chiedere di vedere il corpo del proprio caro ma la polizia li ha caricati e spintonati via.
In Francia le violenze e il razzismo della polizia sono un’esperienza quotidiana per chiunque abiti nei quartieri, 103 persone sono state uccise dalle forze dell’ordine dal 2005 godendo, proprio come in Italia, di una totale impunità. Proprio nel 2005 la morte Syd e Bouna aveva scatenato una rivolta che si era propagata in tutte le banlieu della Francia in un’ esplosione di rabbia contro una giustizia schierata sempre dalla parte degli abusi in divisa.
Un’inchiesta è stata attivata dall’Ispezione della gendarmerie ma la tensione non sembra placarsi nei quartieri nord. Anche da questa sponda dell’atlantico la questione della violenza razzista della polizia torna di drammatica attualità grazie alla risposta di chi non lascia che tutto passi sotto silenzio.
20 luglio 2016, da infoaut.org
La brace che non si spegne
La lotta dei maestri infuoca il Messico
Hanno iniziato minacciando gli insegnanti di riduzioni del salario per assenza da sciopero, hanno continuato riducendo gli stipendi di 1.300 insegnanti arrivando a licenziarli senza alcun indennizzo, poi le violenze di militari e paramilitari, gli arresti, le uccisioni e la strage di Nichiztlàn. Questa la politica repressiva in atto da parte del Governo di Enrique Pena Nieto per soffocare il movimento di lotta dei maestri contro la Riforma educativa.
Dopo la prima ondata di lotta del 2013, i maestri hanno ripreso con scioperi, blocchi, presidi e manifestazioni dal 15 maggio di quest’anno, partendo dallo stato di Oaxaca e infiammando poi Chiapas, Michoacàn e Guerrero, in modo particolare. La lotta ha ripreso vita nel mese di Maggio quando gli insegnanti hanno istituito un presidio nella piazza principale di Oaxaca per esprimere il loro dissenso contro la riforma e chiedere che venissero rilasciati i dirigenti della sezione 22 delle CNTE (Coordinadora Nacional de Trabajadores de la Educacion) che riunisce la maggior parte dei maestri.
Il 12 maggio, tre giorni prima dell’inizio dello sciopero a oltranza, un gruppo proveniente dalle comunità indigene è arrivato nella piazza di Oaxaca per sostenere la lotta dei maestri e spiegare il perché: chiusura delle classi con meno di 30 alunni, istituzione delle “scuole di concentramento” dove i bambini provenienti da diverse comunità saranno riuniti anche se appartenenti a classi diverse (senza tener conto che questo significa per molti bambini l’obbligo a doversi spostare, spesso a piedi, per diverse ore per andare alla scuola più vicina), chiusura delle scuole che non raggiungono almeno 50 studenti (ossia la quasi totalità delle scuole presenti nelle comunità indigene), trasformazione dell’insegnante da lavoratore stabile a figura precaria e piegata alle necessità di Stato, istituzione di un test di valutazione per gli insegnanti (con criteri alquanto arbitrari) che segneranno la fine lavorativa di molti di essi, istituzione di un programma unico educativo (in un paese, il Messico, fatto di un mosaico complesso di etnie e differenze socio-culturali enormi).
Una riforma che apre le porte non solo all’omologazione culturale, all’appiattimento su criteri standardizzati, ma una riforma del lavoro che spalanca le porte alla privatizzazione e alla precarietà anche nel mondo della scuola.
La parole d’ordine per descrivere tutto ciò ci ricorda qualcosa: “Autonomia”. La stessa usata per descrivere le recenti riforme educative in ambito europeo (basta pensare a quella italiana). La Riforma educativa messicana, infatti, rappresenta un altro anello del complesso sistema internazionale che oramai segue le stesse direttrici da un capo all’altro del pianeta. Non è un caso che gli stessi maestri rivendichino questa lotta, non solo come una lotta contro l’annullamento del diritto allo studio, contro il precariato e la privatizzazione, ma anche e soprattutto come una lotta al capitalismo, perché dietro le riforme degli ultimi anni vi è un preciso disegno di seguire le direttive del capitale internazionale.
E così la Riforma educativa si inserisce in un più ampio quadro di esproprio e saccheggio: 40% del territorio messicano è stato concesso per 50 anni ad aziende transnazionali. Espropri di miniere, occupazioni di città, privazione dei diritti dell’individuo, conditi con la ferocia della violenza repressiva che qui fa da padrone, rientrano in un necessario piano di “pulizia” dei territori per consegnarli pacificati alle aziende e al capitale.
Ecco perché la lotta dei maestri ha travalicato i discorsi di settore e ha avuto l’appoggio attivo di una enorme fetta della popolazione e non solo. L’EZLN, dopo l’attacco di poliziotti e paramilitari il 20 luglio al presidio dei maestri a San Cristobal, ha comunicato la decisione delle comunità indigene di devolvere ai maestri in lotta gli alimenti raccolti per permettere a centinai di basi d’appoggio di partecipare al CompArte (svoltosi a fine Luglio tra San Cristobal e i caracol zapatisti). Un sostegno fatto di comunicati e azione pratica, così come migliaia di persone che hanno sostenuto, in forma organizzata e non, i tanti presidi e blocchi dei maestri nel paese.
Il punto è perché parlare della lotta dei maestri? Non solo per dare la nostra solidarietà, ma forse per riflettere su un aspetto: se il capitale viaggia su una costante tensione all’internazionalizzazione delle pratiche di dominio e sfruttamento, le lotte devono saper viaggiare in direzione ostinata e contraria ma forti dell’idea che ogni lotta rappresenta un insegnamento se sappiamo riportala, con le nostre prassi, nei nostri territori.
Segue una testimonianza di una compagna messicana coinvolta personalmente in questa lotta.
Sassari, agosto 2016
notizie dal fronte notav
Un appuntamento fisso ormai quello dell’apericena il venerdì sera ai cancelli di Chiomonte. La sera del 30 luglio decine di persone si sono ritrovate come di consueto all’ ingresso della centrale elettrica e dopo una breve assemblea hanno deciso di provare, attraverso i sentieri, a raggiungere Via dell’ Avanà chiusa ai cittadini a causa di un’ordinanza prefettizia e della guardia permanente delle forze dell’ordine.
Un primo blocco da parte della polizia, immancabilmente in assetto antisommossa, era in attesa dei No Tav su uno dei sentieri che si snoda tra le vigne, ma una trentina di attivisti presenti è riuscita ad aggirare le guardie e arrivare sulla via che nel 2011 è stata una delle protagoniste principali della Libera Repubblica della Maddalena. Dopo aver mangiato e bevuto alla faccia degli agenti della digos presenti, gli attivisti hanno percorso via dell’Avanà fino a raggiungere il cancello dall’interno del “fortino” e si sono poi ricongiunti agli altri rimasti ai cancelli per continuare il presidio davanti alla centrale.
In seguito l’apericena è proseguito con le battiture dei cancelli e l’accensione di fuochi davanti agli stessi assai poco graditi dalle forze di polizia presenti, che hanno reagito con l’utilizzo dell’idrante per tentare di spegnerli e di allontanare i presenti.
Non credano i signori del Tav e le loro guardie che sia così semplice dissuaderci dalla nostra lotta.
La sera del giorno dopo è tornata a sventolare la bandiera No Tav all’interno del fortino a difesa di quel cantiere che ormai da anni continua a devastare la nostra terra.
Gli attivisti si sono dati appuntamento intorno alle 17.00 a Giaglione, da lì circa 200 persone si sono mosse in corteo verso la Val Clarea.
Nessun jersey (barriere mobili di cemento) ad attenderli questa volta. Nell’attesa che tutti gli attivisti raggiungessero il posto per la cena in programma, un gruppo ha dunque proseguito la passeggiata e raggiunto il ponte del Clarea ritrovandosi di fronte reparti di polizia e carabinieri in assetto antisommossa posizionati lì per impedire il passaggio ai No Tav. Ma questo non ha assolutamente spaventato il popolo No Tav, che ha continuato a presidiare il ponte e ha proseguito successivamente con un momento di convivialità poco distante da lì, dove nel frattempo era stato allestito il posto con tavoli, panche e cibo a volontà.
Finita la cena, complice la notte senza luna e l’estate con i suoi fitti boschi, un gruppo di attivisti è riuscito a raggiungere il cantiere ed attaccarlo con i fuochi d’artificio illuminando il cielo della Clarea e sventolando la nostra bandiera nel fortino violato, mostrando a tutti quanto nella realtà anche la sicurezza di quel posto, per cui vengono spesi ogni giorno migliaia di euro, sia una grande truffa.
Verso l’una di notte la manifestazione si è conclusa e, tra cori e soddisfazione, si è fatto ritorno al presidio di Venaus. Non poteva avere chiusura migliore il campeggio lanciato dal movimento che ha tenuto sulle spine per due settimane i signori del Tav e le forze dell’ordine a guardia del “mostro”. Ma l’estate non è ancora finita, ci saranno ancora molte altre iniziative come quella di questa sera alle 19.30 al presidio di Venaus dove ci sarà un apericena e a seguire la proiezione del film.
Il cartun d’le ribeliun. Avanti No Tav!
luglio 2016, estratti da notav.info
parma: IN MERITO ALLO SGOMBERO DELLO STABILE DI VIA ZAROTTO
Dopo 8 ore di resistenza da parte degli abitanti e dei solidali accorsi, si sono concluse le operazioni di sgombero della casa occupata di via Zarotto. Per le famiglie e i singoli sono state trovate delle soluzioni di accoglienza temporanea.
L’esito delle trattative avviate durante le operazioni di sgombero lascia però aperte tutte le questioni che da anni la Rete Diritti in Casa pone in merito alla emergenza abitativa.
Lo sgombero eseguito per tutelare il diritto della proprietaria Dina Zanchi di mantenere vuoto uno stabile già rimasto vuoto per 20 anni, ripropone la tematica delle migliaia di alloggi sia privati che pubblici che giacciono inutilizzati, in alcuni casi in progressivo degrado, a fronte di centinaia di sfratti in corso di esecuzione, di sovraffollamento abitativo con alloggi abitati da più famiglie, di affitti ancora a livelli stratosferici, di famiglie e singoli costretti ad abitare in alloggi fatiscenti.
La strada indicata da chi in condizioni di estremo bisogno ricorre allo strumento dell’occupazione è quella dell’utilizzo degli alloggi abbandonati, non utilizzati, invenduti per risolvere l’emergenza abitativa. Quello dell’emergenza casa è un problema di cui tutti sono ben coscienti ma che nessuno vuole veramente affrontare: il motivo principale è che dietro al bisogno di case si nasconde uno dei business speculativi più indegni di questa società, con il mercato privato che controlla la quasi totalità degli alloggi con un unico fine: trarre dalla casa il massimo guadagno possibile e spese di chi della casa ha bisogno.
Per risolvere l’emergenza abitativa occorre andare ad intaccare questi interessi del mercato privato: per questo guardiamo con interesse alla mozione approvata dal Comune di Livorno, amministrato da una giunta del Movimento 5 Stelle, che sostiene la requisizione degli immobili abbandonati per destinarli all’emergenza abitativa. Un piccolo passo nella direzione che auspichiamo, un passaggio che le famiglie senza casa sono spesso costrette a fare da sole tirandosi addosso poi la repressione di magistratura e polizia ma che evidentemente è possibile fare anche con il sostegno di istituzioni consapevoli del problema e degli strumenti per risolverlo. Un passaggio che il Comune di Parma, seppur guidato da un partito uguale a quello di Livorno, non ha per ora avuto il coraggio di fare, nemmeno in via sperimentale, ma che si rivela sempre più come passaggio necessario e già sperimentato nella storia italiana (basti pensare alle requisizioni del Sindaco di Firenze La Pira negli anni 50/60).
Uno stabile come quello di Via Zarotto non può essere lasciato nelle mani di chi non è capace di gestirlo: anche gli altri edifici che hanno subito sgomberi a Parma (Via Cagliari, Via Casa Bianca, Ex Lux, Via San Leonardo, Via Bengasi, Ex scuola di Marore, Ex Bunker) giacciono inutilizzati a distanza di anni dallo sgombero, costituendo tra l’altro situazioni di degrado urbano (e in alcuni casi di pericolo) per l’abbandono.
Il comune di Parma se vuole affrontare realmente la questione abitativa deve porsi con più coraggio e decisione: se da un lato apprezziamo l’impegno profuso per trovare una sistemazione precaria agli sfollati dalla casa di Via Zarotto, dall’altro non possiamo che criticare la mancata presa di posizione nelle sedi opportune in opposizione allo sgombero, sgombero che tra l’altro ha poi seriamente messo in difficoltà i servizi sociali dello stesso comune. Allo stesso modo occorre una presa di posizione netta per la requisizione degli alloggi abbandonati che in diverse occasioni abbiamo visto essere di grandi proprietari immobiliari (come i Tegoni o la sopra richiamata Dina Zanchi) che si pongono poi arrogantemente per ottenere gli sgomberi in tempi brevi.
Un capitolo a parte poi lo merita la Chiesa che a parole, come dice Papa Francesco, sarebbe chiamata ad aprire le proprie porte e offrire i propri beni immobili a chi non ha nulla ma che nei fatti si muove spesso come i privati lasciando anche case vuote o immobili semivuoti come, ad esempio, il seminario minore a Parma per dirne uno fra tanti e tutto questo senza neppure doverci pagar le tasse.
La questione casa occuperà l’agenda politica ancora per molto tempo: al di là delle retoriche lamentele, occorre andare al nodo del problema: il diritto all’abitare potrà essere effettivo solo se la casa cessa di essere un business speculativo.
4 agosto 2016, Rete diritti in Casa Parma
Firenze: due giorni di lotta per spazi di libertà
Giovedì 4 agosto, alla mattina, un'ingente schieramento di forze dell'ordine e pompieri prova a sgomberare lo stabile occupato in via Toselli, a Firenze. L'occupazione dell'edificio risale al dicembre del 2015, quando fu sottratto all'abbandono da decine di giovani autorganizzati nella campagna “Occupa con noi!”. Lo stesso edificio era stato infatti precedentemente occupato dal Movimento di Lotta per la Casa, violentemente sgomberato nel marzo 2015. Venne murato in seguito per tentare di renderlo inaccessibile, ma come si vede non ci sono riusciti.
Quest’ultimo sgombero non si è concluso in un giorno: le barricate costruite all'interno dello stabile sono riuscite a mettere in grossa difficoltà polizia, i pompieri compresi i loro fabbri. Nel corso dello sfondamento sono stati arrestati cinque ragazzi (e altri quattro nelle ore seguenti) con l'accusa di resistenza. C’è anche chi è riuscito a raggiungere il tetto e da lì a ostacolare lo sgombero, a opporsi, affrontando anche il continuo lancio di lacrimogeni all'interno dello stabile.
Nel frattempo fuori si è formato un presidio, però mobile, che insomma si sposta in corteo nelle vie circostanti. Il traffico è bloccato in tutti i viali circostanti.
La resistenza prosegue fino alla sera di venerdì 5 i compas decidono di scendere dal tetto; ma la mobilitazione non si ferma. Un corteo partecipatissimo li abbraccia, si mette in cammino da piazza Puccini per entrare nelle strade del quartiere, urlando: BASTA SGOMBERI! TUTTI LIBERI, TUTTE LIBERE!
agosto 2016, liberamente tratto da infoaut.org
Libro: “Le Cayenne italiane - Piano e Asinara: il regime di tortura del 41bis”
Il libro è composto da un’ampia introduzione e da una nota autobiografica di Pasquale De Feo che ha avuto anche l’idea di dedicare questa speciale edizione alle violenze avvenute a Pianosa e all’Asinara (1992/2001).
Su queste torture scrivono soprattutto i detenuti che le hanno provate sulla propria pelle, ma anche i loro parenti, magistrati, avvocati e uomini politici.…
Affinché non si perda la memoria di questa pagina buia del paese, in modo che non venga manipolata la storia da parte dello Stato.
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