indice n.114
VENTIMIGLIA: COntro le DEPORTAZIONI DEI MIGRANTI IN FUGA
Dalla Puglia alla Calabria contro lo sfruttamento che uccide
AGGIORNAMENTI DALle lotte dentro e contro i CIE
Lettera dal carcere Le Vallette di Torino - Blocco C, 11° Sezione
torino: Se la misura è colma
la resistenza contro il tav e la sua repressione continua
lettera dal carcere di opera (mi)
Lettera di Davide dal carcere di Agrigento
Riflessioni dal carcere sulle elezioni comunali del 4 giugno
Resoconto sulla giornata di sabato 25 giugno a L’Aquila
SULLO STUPRO NON CONTATE SUL NOSTRO SILENZIO!
CONTRO LA TORTURA DI STATO, CONTRO L’ERGASTOLO OSTATIVO
Riflessioni da una segreta penale in spagna
Lettera dal carcere di Viterbo
Lettere dal carcere di Sulmona (aq)
Lettera di un ragazzo, ‘Volare’, rigettato in galera dopo 5 anni…
Da Roma a Cremona per la giornata di solidarietà del 7 luglio
il mondo in uno sputo
Solidarietà agli Antifascisti fiorentini sotto processo!
DIFENDERE MILANO E LE SUE PERIFERIE SARà LA NOSTRA OSSESSIONE
Sulla “Loi travail” e non solo
VENTIMIGLIA: COntro le DEPORTAZIONI DEI MIGRANTI IN FUGA
Dalla scorsa estate la frontiera tra Italia e Francia, soprattutto la città di Ventimiglia, è divenuto un luogo largamente militarizzato, per contenere il flusso di migranti che approdano via mare in Italia attraverso le rotte di fuga dai Paesi dell’Africa del Nord e del Medio Oriente.
Dall’estate scorsa, nella città di Ventimiglia, così come nelle valli circostanti, si sono realizzate iniziative di solidarietà ai migranti in fuga e di resistenza alle pratiche vessatorie e repressive dello Stato e del suo braccio militare. Nelle ultime settimane di giugno si sono svolte una manifestazione di protesta sabato 18 giugno, organizzata tra Italia e Francia, nei territori intorno alla frontiera, e l’occupazione della ex dogana nei pressi del valico di Fanghetto, prontamente sgomberata, giovedì 23.
In seguito allo sgombero, alcuni compagni sono stati fermati e condotti nel CRA di Nizza (Centre de Rétention Administrative – Centro di detenzione amministrativa, il corrispettivo del Cie italiano), dove sono stati detenuti per 20 giorni, per poi essere espulsi dalla Francia. Qui di seguito il racconto di queste giornate e il comunicato dei compagni che sono stati fermati e poi espulsi dal CRA.
Documento dalla Dogana Liberata a Breil sur Roya
Nella Val Roya vogliono costruire un nuovo tunnel per permettere a più merci di passare facilmente tra Italia e Francia. Il raddoppio del tunnel del Tenda rovinerà l'ambiente e la qualità della vita delle persone che ci abitano. Nel frattempo stanno riducendo il numero dei treni della linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza: da otto a due. A essere ridotte non sono solo le corse del treno ma anche molti altri servizi di utilità pubblica nella valle: ospedali, scuole e poste. La frontiera tra Italia e Francia è chiusa per le persone: da più di un anno a Menton Garavan avvengono controlli razzisti sui treni, centinaia di persone sono bloccate a Ventimiglia, rastrellate per le strade, respinte al confine e deportate quotidianamente. In dieci giorni quasi mille persone sono state deportate verso il Sud Italia.
Si costruiscono infrastrutture per aumentare i profitti di alcuni, si riducono i servizi per alcune persone, mentre se ne respingono altre.
Sabato 18 giugno c'è stata una manifestazione per prendere parola contro quanto avviene in questo territorio. L'obiettivo era quello di raggiungere Menton da Breil, incontrando i migranti a Ventimiglia, ma la manifestazione è stata bloccata sul confine, dove i solidali hanno sostato per molte ore, determinate a continuare a lottare. Dopo un’assemblea, si è deciso di non rassegnarsi di fronte allo schieramento di polizia che impediva la manifestazione, ma di tentare qualcosa d’altro: si è scelta l’occupazione dell’ex dogana. Un luogo di segregazione e controllo dei popoli si è trasformato in un luogo di incontro aperto, per discutere e organizzarsi insieme, per lottare contro il sistema, che genera lo sfruttamento delle persone con o senza documenti, e la devastazione dell'ambiente.
Sgombero dell’ex dogana francese in Val Roya
Dopo la "velorution" di sabato 18 giugno, che è stata bloccata sul confine dalla polizia italiana, i manifestanti riuniti in assemblea hanno deciso di riqualificare un luogo simbolo dell’oppressione e del controllo sulle persone. L'ex dogana francese in Val Roya è diventata un luogo di incontro e organizzazione per far convergere due lotte: quella contro la costruzione del tunnel del tenda bis, che permetterà a più merci di passare devastando l'ecosistema e la vita della valle, e la lotta contro le frontiere e la deportazione delle persone senza documenti.
Oggi, giovedì 23 giugno, questo spazio è stato sgomberato. Cinque compagni/e italiani/e sono stati portati alla stazione della PAF (Police aux frontières) a Menton. Trattenuti dieci ore, interrogati e perquisiti. Quattro compagni sono stati portati al CRA (centro di detenzione amministrativa) di Nizza mentre una compagna è stata espulsa direttamente in Italia. Tutti* hanno ricevuto un decreto di espulsione per un anno dalla Francia. Costruiamo solidarietà per i trattenuti e libertà per tutte e tutti!
Alcun* complici e solidali.
Dal centro di detenzione di Nizza
L’estate scorsa, mentre migranti e solidali resistevano sugli scogli alla frontiera di Ventimiglia, a Vievola, all’estremità nord della valle Roya, un presidio di abitanti lottava contro il raddoppio del tunnel del col di Tenda ed il conseguente traffico di mezzi pesanti. I nostri rispettivi percorsi parevano distanti, ma già si intravedeva un nesso comune. Ci siamo incontrati sulle rive del mare così come sulle montagne e abbiamo sentito che confrontarci era importante e necessario. Poi a settembre il presidio di Vievola e quello dei Balzi Rossi sono stati sgomberati. Per i solidali le valli sopra Ventimiglia sono state un rifugio naturale. È da lì che la lotta contro la frontiera è ripartita, e sono queste valli che hanno accolto i tanti fogli di via emessi dalla questura di Imperia.
In val Roya è proseguita la costruzione del tunnel di Tenda e a questo triste scenario si sono aggiunti i migranti, che quotidianamente, con coraggio e determinazione, attraversano questo territorio in direzione di Parigi, Calais, l’Inghilterra.
Abbiamo quindi sentito il bisogno di rincontrarci, in più occasioni, e ne è nata una nuova storia. La manifestazione di sabato 18 giugno è stata quindi contraddistinta dall’incontro tra le lotte contro la devastazione del territorio e quelle contro frontiere e deportazioni. Le forze dell’ordine italiane ci hanno impedito di proseguire verso Ventimiglia e Menton, dove la biciclettata-corteo sarebbe dovuta terminare. Si doveva impedire che i manifestanti incontrassero i migranti bloccati e deportati al confine italo-francese. Ne è seguita un’assemblea spontanea che ha deciso di continuare la mobilitazione occupando l’edificio della vecchia dogana francese, situato a poca distanza dal valico frontaliero di Fanghetto. Italiani/e e francesi insieme abbiamo oltrepassato le frontiere territoriali, linguistiche e culturali che ancora ci dividevano e insieme abbiamo trasformato un luogo di controllo e separazione tra i popoli in uno spazio liberato. Uno squarcio di luce nelle tenebre del presente in cui abbiamo dato vita e forza alle lotte a venire.
L’esperienza è durata fino a giovedì mattina quando reparti della gendarmerie hanno effettuato lo sgombero. Ai cinque italiani presenti è stato notificato un decreto di espulsione per un anno dal territorio francese. In quattro invece di essere riaccompagnati alla frontiera, come avvenuto nel caso di Giulia (non trattenuta perché al CRA di Nizza non esiste una sezione femminile), abbiamo subito un trasferimento al centro di detenzione amministrativa di Nizza (l’equivalente dei CIE italiani).
Tra di noi l’umore è alto, soprattutto dopo il partecipato presidio che si è tenuto venerdì sotto le mura del centro. Rifiutiamo fermamente le etichette che stampa e prefettura vorrebbero cucirci addosso, perché sappiamo bene come questi organi tendano sempre a limitare, dividere e reprimere. L’intreccio di percorsi in questo territorio di frontiera sta disegnando nuove geografie e siamo fieri di essere parte di questa comunità in lotta. Ringraziamo ogni persona che, in Italia come in Francia, ha manifestato solidarietà con noi e ogni migrante deportato/a e detenuto/a in Europa.
Per un mondo senza galere e autorità! Ni frontières, ni camions, autogestion!
Andrea, Rafael, Vincenzo, Arturo.
I compagni rinchiusi nel CRA sono stati liberati martedì 28 giugno con un decreto di espulsione di un anno dalla Francia.
Da giovedì 23 a martedì 28 non è mancata la solidarietà ai quattro compagni, che si è manifestata attraverso vari presidi sotto il CRA, che si sono succeduti senza sosta, fino alla loro liberazione. I compagni hanno dovuto presenziare prima davanti al giudice delle libertà, poi davanti la corte amministrativa, in seguito al ricorso presentato dagli avvocati dei compagni, contro il decreto di espulsione, che infine non è stato confermato (diversamente, il decreto di espulsione era stato comminato a Giulia, altra compagna fermata insieme ai quattro giovedì 23 in occasione dello sgombero della ex dogana occupata e non tradotta al CRA di Nizza, solo perché questa struttura non ha una sezione femminile).
Il giorno precedente a queste udienze, lunedì 27 giugno, le guardie del CRA avevano proposto ai quattro compagni di venire liberati il giorno stesso, proponendo una sorta di “trappola”: se i compagni avessero accettato, sarebbero stati liberati con il decreto di espulsione, accompagnati in manette alla frontiera italiana e consegnati alla polizia. Saggiamente i compagni hanno rifiutato e, dopo le udienze, hanno ottenuto la liberazione senza espulsione dal territorio francese. Riportiamo di seguito alcune considerazioni espresse nei comunicati di solidarietà a Andrea, Rafael, Vincenzo e Arturo.
La volontà delle autorità è chiara: impedire l'incontro e il contagio delle lotte. Divide et impera. Uno spazio di organizzazione transnazionale per agire congiuntamente contro la devastazione dell'ambiente, la mercificazione delle vite e la privazione della libertà di movimento non poteva non fare paura. La dogana liberata era un luogo pericoloso proprio perché costituiva il tentativo di opporre alla logica della divisione, dei confini e del controllo quella dell'autorganizzazione e autogestione, della convergenza di lotte differenti. Una zone a defèndre per intessere relazioni sociali che il potere vorrebbe disgregate e frammentate, una ZAD per cospirare insieme, un passo oltre per abbattere quei confini disegnati dal potere e abitare nuovi spazi di libertà. La criminalizzazione costante e il controllo dei/delle migranti non riguarda solo chi è senza un documento ma chiunque lotta ogni giorno con determinazione contro le frontiere e il sistema che le sostiene. La lotta per la libertà riguarda oggi più che mai tutte e tutti.
I provvedimenti presi contro i compagni italiani segnalano anche il chiaro tentativo di dividere una comunità in lotta. La Val Susa insegna che il gioco del potere è quello di distinguere tra buoni e cattivi, reprimere, come segnalano le ultime misure prese nei confronti di 23 persone, chi con costanza e determinazione continua ad organizzarsi.
Una dimostrazione inedita quanto inconfutabile dell'evidenza che la criminalizzazione dei migranti e i campi di concentramento delle democrazie occidentali non possono riguardare solo chi sfugge dalle miserie degli altri continenti, ma sono uno strumento del Potere da contrastare e combattere con ogni mezzo.
Ci sono state anche azioni solidali diffuse nei territori italiani, non solo a Ventimiglia. Sabato 25 giugno, verso le 14.00, il treno della Deutsche Bahn Monaco-Rimini è stato bloccato nella stazione di Rovereto con una catena da una parte all'altra dei binari. Posizionato inoltre uno striscione con la scritta "Blocchiamo tutto da Ventimiglia al Brennero".
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Il tempo delle deportazioni
La volontà del ministero dell’interno di svuotare la città di Ventimiglia dai/dalle migranti non poteva che essere fallimentare, ma in queste settimane stiamo vedendo cosa può provocare un piano di questo tipo: una spirale di repressione, violenza e razzismo.
A Ventimiglia ora ci sono più di 400 persone bloccate dal regime di confine. I controlli da parte della polizia francese continuano a battere tutta la Costa Azzurra in cerca di persone in viaggio, per poi respingerli a Ventimiglia; dall’altra parte la polizia italiana sta attuando da settimane una costante repressione sui/sulle migranti presenti in città e portando avanti sistematici rastrellamenti nelle stazioni precedenti, come quelle di Torino, Milano, Genova e Savona. Fermi, perquisizioni, fogli d’espulsione e deportazioni diventano la prassi quotidiana che sta colpendo le persone senza documenti fuori dagli spazi della chiesa o della Caritas.
La caccia all’uomo: di giorno i neri, di notte i bianchi
Lunedì 30 maggio tutte le forze dello stato dalle prime ore del mattino hanno invaso e militarizzato la città. Il lungo mare, i marciapiedi e le strade di Ventimiglia sono stati controllati e rastrellati, una vera e propria caccia all’uomo di persone senza documenti; persino i canneti lungo il fiume sono stati perlustrati da forestali e alpini. Nel corso di tutta la giornata, per mezzo di controlli razziali, sono state fermate e deportate un centinaio di persone. Quanto è avvenuto quel giorno è diventato ordinario a Ventimiglia.
La sera di lunedì, con un pretesto, la polizia è entrata dentro la chiesa dove un centinaio di migranti avevano trovato rifugio e ha preso tutte i/le solidali europei/e presenti: 6 denunce a piede libero e 9 fogli di via da Ventimiglia e altri cinque comuni della provincia di Imperia.
Martedì 31 Maggio, i migranti ospitati nella chiesa hanno deciso di non nascondersi più: hanno marciato sulle strade lasciate vuote, verso la frontiera. La polizia li ha bloccati e dopo ore di presidio, i migranti hanno accettato la mediazione della Caritas. Altri/e solidali, che cercavano di raggiungere la marcia, sono stati/e fermati/e: altri due fogli di via, per un totale di 11 interdizioni in 24 ore. La repressione che ha colpito migranti e solidali dà una chiara indicazione su ciò che spaventa chi ci governa. La questura intende colpire la volontà di organizzazione dei migranti e chi la sostiene, non considerandoli meri soggetti passivi.
La solidarietà attiva viene criminalizzata anche a Idomeni o Udine, perché ciò che fa paura è che le persone senza documenti smettano di sentirsi isolate e vulnerabili e si organizzino per reagire alla persecuzione de facto che li colpisce.
Protezione e normalizzazione: la gestione dei migranti tra Caritas e Croce Rossa
La chiesa offre un altro “rifugio”, nel quale in pochi giorni si sono ammassate centinaia di persone e, anche se a Ventimiglia ormai è in atto un regime razziale, l’attenzione è tutta sul supporto materiale e caritatevole. Quando centinaia di persone in viaggio si riuniscono in assemblea alla chiesa per opporsi all’ennesima violenza collettiva, arrivano le minacce: il sindaco di Ventimiglia e il capo della polizia chiariscono che chi manifesta o si muove in grandi gruppi alla frontiera rischia la deportazione.
La Caritas è diventata l’unico gestore accettabile per le istituzioni. Intanto si semina il panico: sui giornali tre casi di varicella e una presunta scabbia sono diventati il pretesto per creare l’allarme. La Asl provvede immediatamente con un rapporto igienico-sanitario, il quale legittima la prefettura ad intervenire nella chiesa, nel momento in cui lo riterrà opportuno.
Il dibattito pubblico si concentra solo sulla possibilità o meno di creare un luogo istituzionale dove ospitare le persone in transito, tra l’intransigenza isterica di Toti e Alfano, le paure dei residenti e la solidarietà di alcuni cittadini. I migranti tornano ad essere un soggetto da gestire, non lasciando spazio ed agibilità alla loro autorganizzazione.
L’ipotesi è quella di un centro di accoglienza gestito da Croce Rossa, Caritas e Arci Nazionale, dove i “transitanti” registrati possono sostare 48h, lasso di tempo nel quale verranno resi edotti dei diritti e delle tutele a cui possono accedere se richiedono asilo in Italia, per poi essere “liberi” di scegliere se farsi identificare o meno. E se rifiutano di farsi identificare?
La terribile routine della deportazione e il regime di frontiera ovunque, all’indomani del Migration Compact
Il piano Alfano si muove con una duplice strategia, da una parte il tentativo di fermare le persone prima di Ventimiglia, come richiesto dal sindaco Ioculano, dall’altra trasferire forzatamente i migranti in altre zone d’Italia. Dal 6 di giugno ogni giorno tra le 50 e le 100 persone, fermate e controllate perché nere, prelevate dalle strade, fatte scendere dai treni, perquisite ed umiliate, vengono deportate dalla città di Ventimiglia su bus di Riviera Trasporti S.p.a e aerei della Mistral Air dagli aeroporti di Genova, Milano o Firenze. Il piano è chiaramente quello di ridurre il numero di persone, identificarne ed espellerne il più possibile allargando le file dei dublinati che attraversano l’Europa.
La contraddizione è grottesca: le strutture di accoglienza in tutto il paese esplodono, dai centri detentivi e di smistamento per migranti in tutta Italia (Hub, Cara, Hot Spot) vengono rilasciati sul territorio nazionale decine di persone giornalmente, molte con il foglio d’espulsione, mentre la loro presenza viene bandita dalle zone di confine. La frontiera si estende ovunque e la libertà di movimento di tutte e tutti viene ostacolata nelle strade e nelle stazioni di ogni città, ben prima di Ventimiglia e del Brennero.
Nonostante tutto il movimento di donne e uomini verso la frontiera italo-francese non si arresta, le persone in viaggio si inseriscono in una giostra disumana, tra confini, centri di detenzione e identificazioni forzate. Mentre gli aerei decollano senza fare troppo scandalo, mentre diventa normale il trasferimento forzato di esseri umani (perché tanto ritornano a Ventimiglia), i potenti europei deportano i siriani in Siria attraverso la Turchia, gli eritrei in Eritrea grazie al regime sudanese e i sudanesi in Sudan tramite l’Arabia Saudita e la Giordania.
L’Unione Europea e il governo italiano stanno prendendo accordi ed elargiscono soldi a Erdogan, come alle dittature africane, per esternalizzare i confini della fortezza Europa. É in via di definizione il controllo dei flussi di persone tramite il Migration Compact e la gestione dei migranti si stringe con l’anti-terrorismo.
Eludere i controlli, inceppare la macchina
Il controllo delle persone in viaggio attraverso la detenzione, l’identificazione forzata e lo smistamento coatto di questi da un luogo all’altro è parte di un meccanismo che mira a restringere le libertà di tutte e tutti. La svolta securitaria e fascista dei governi europei, legata al pretesto del terrorismo, si attua con la militarizzazione pervasiva dei territori, con la repressione delle forme di solidarietà attiva e delle proteste dei migranti. Ciò rende palese l’urgenza di rilanciare la lotta per la libertà di tutte/i quante/i con o senza documenti.
Dobbiamo reagire: mettere granelli di sabbia nella macchina del controllo e della guerra diffusa per incepparla; organizzarci e dare vita a geografie alternative al di fuori delle regole dello sfruttamento economico, del razzismo e della paura.
Complici e responsabili dell’attuazione del piano Alfano sono anche coloro che hanno messo a disposizione i mezzi: la Riviera Trasporti S.p.a., che si è prestata al trasferimento forzato dei migranti, sia verso l’aeroporto di Genova sia verso altre destinazioni; il Gruppo Poste Italiane, i cui charter utilizzati per i pacchi e le corrispondenze postali, sono gli stessi che hanno concretamente deportato gli esseri umani; le Ferrovie dello Stato, che mettono a disposizione personale e spazi per i fermi e le perquisizioni.
Alcune/i solidali di Ventimiglia e dintorni, al fianco di chi viaggia, contro ogni frontiera.
18 giugno 2016, da noborders20miglia.noblogs.org
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UK: RESPINTA RETATA ANTI-MIGRANTI A DEPTFORD
Lo scorso lunedì pomeriggio, il quartiere di Deptford, a Sud-Est di Londra, ha respinto il team retate dell’ufficio Immigrazione degli Affari Interni. I bulletti degli Affari Interni, a quanto si dice, erano stati avvistati diverse volte nelle settimane precedenti mentre facevano le cosiddette “raccolte di informazioni”, vale a dire molestando i negozianti per avere il permesso di svolgere “operazioni” nei loro locali, così da evitare la scocciatura di chiedere un mandato al tribunale.
Lunedì 13 giugno sono tornati in forze, ma la gente li ha cacciati e mandati via a mani vuote. Sono partiti con diverse auto civetta ma hanno abbandonato in strade secondarie i loro furgoni razzisti, successivamente ristrutturati con finestrini rotti e messaggi scritti con le bombolette. La notte successiva, sono apparsi manifesti lungo tutta la strada principale di Deptford per spiegare quello che era successo.
È importare mantenersi all’erta. È possibile che la resistenza abbia allontanato le retate per un po’: dopo la resistenza della scorsa estate, al mercato di East Street non ci sono state visite per quasi un anno. Ma questa certezza non si può garantire, potrebbero tornare ogni giorno per vendicarsi. Il manifesto dice: “I bulli dell’ufficio immigrazione (UKBA) sono stati avvistati per tutta la scorsa settimana nei dintorni della strada principale di Deptford, molestando i negozianti. Lunedì sono tornati per le retate contro i lavoratori e sono stati cacciati via. Nel nostro quartiere i/le migranti sono benvenut*. Poliziotti, ufficiali giudiziari, proprietari immobiliari non sono benvenuti! Risponderemo agli attacchi!”. (da network23.org/antiraids)
Il mercato di Deptford è un obiettivo regolare delle retate degli Affari Interni, spesso fatte insieme a polizia, consiglio comunale e altri enti. Ad aprile c’è stata l’ultima grande retata. Come per gli altri mercati di strada di Londra (come quello di East Street), ci sono chiari collegamenti tra questi attacchi che mirano ai/alle migranti e gli attacchi più ampi sul quartiere, come quelli di proprietari immobiliari e autorità statali che collaborano per “ripulire” l’area, sgomberando tutte le persone considerate indesiderabili. Ma la resistenza sta crescendo. A Deptford c’è un banchetto informativo di “Deptford Anti Retate” ogni sabato nel mercato, e questo lunedì ha mostrato che le persone sono pronte al contrattacco.
21 giugno 2016, da rabble.org.uk
Dalla Puglia alla Calabria contro lo sfruttamento che uccide
Siamo i lavoratori e le lavoratrici delle campagne della provincia di Foggia e della Piana di Gioia Tauro. Ancora una volta, uniti e determinati, scendiamo nelle strade per chiedere quello che ci spetta, consapevoli del fatto che i problemi che ci riguardano, così come i loro responsabili, hanno ovunque lo stesso nome!
Lo scorso 8 giugno l’omicidio di Sekine Traoré alla tendopoli di San Ferdinando, per mano di un carabiniere, non ha fatto che evidenziare in modo tragico una verità che denunciamo da anni: le condizioni di estrema precarietà e la segregazione prodotte dalle politiche migratorie, il razzismo, l’iper-sfruttamento che caratterizza il settore agricolo in tutta Italia non possono che produrre epiloghi drammatici. Omicidi, aggressioni e morti sul lavoro sono manifestazioni estreme di una condizione di violenza strutturale e generalizzata che colpisce quotidianamente lavoratori e lavoratrici delle campagne ed uccide in silenzio.
E’ ora di dire basta! Non possiamo più accettare tutto questo!
A Foggia, da settembre dell’anno scorso, portiamo avanti un percorso di lotta che adesso si allarga ad altri territori, per riprendere il controllo delle nostre vite.
- Vogliamo una condizione giuridica riconosciuta! Molti di noi sono in Italia da 15/20 anni, costretti a vivere ai margini perché quando abbiamo provato a “conquistare” un permesso di soggiorno siamo stati truffati dalle stesse leggi di questo paese (le sanatorie, così come i decreti flussi e anche tutto il business che gira intorno alle richieste di asilo). Mentre chi di noi è arrivato più recentemente ha pochissime possibilità di ottenere un permesso, condannati quindi a subire tutti i possibili meccanismi di sfruttamento.
- Vogliamo vivere e lavorare in condizioni migliori! Le baracche e i ghetti in cui viviamo (in campagna come in città) sono noti a tutti, così come le sfruttate condizioni di lavoro, in agricoltura come in altri settori. I contratti collettivi per i lavoratori agricoli, violati in tutto e per tutto, prevedono fra l’altro il diritto a trasporto ed alloggio gratuiti, che eviterebbero molti dei problemi più urgenti che ci affliggono.
Siamo insieme a chi lotta nei centri per richiedenti asilo, che son tutto fuorché accoglienti. Basti pensare ai centri di accoglienza per i richiedenti asilo di Puglia e Calabria, dove ogni settimana avvengono proteste contro gli abusi, a cui la repressione è l’unica risposta.
A chi lotta nei CIE, massima espressione di un sistema di controllo, contenzione e repressione che assume mille forme. A chi lotta nei luoghi di approdo, dove l’Unione Europea a braccetto con il governo italiano continua a infrangere la libertà di movimento e di richiesta di protezione internazionale, praticando la tortura e costituendo i famigerati Hotspot. A chi lotta nei luoghi di transito, come a Ventimiglia, dove la polizia pratica rastrellamenti quotidiani. A chi lotta per condizioni di lavoro migliori per tutti, contro le politiche di austerità, i licenziamenti, gli abusi, in Italia come nel resto d’Europa. E a chi lotta per la casa, come noi e come tanti in molte città. Quando urliamo che la “nostra lotta è la vostra lotta” è perché lo sfruttamento lavorativo, la speculazione sulle abitazioni e la conseguente marginalizzazione coinvolgono italiani e stranieri, chi proviene dai paesi comunitari, i richiedenti asilo e i rifugiati!
Il Governo nazionale, così come le Prefetture e le Regioni, spinti dalle nostre richieste hanno dichiarato più volte di voler risolvere le numerose aberrazioni che persistono nell’organizzazione del lavoro del settore agricolo. Settore che ha un ruolo chiave per la produttività di molti territori, ed è motore fondamentale per l’economia del paese. E noi “stranieri”, provenienti da altre parti d’Europa così come dall’Africa, siamo indispensabili per la sostenibilità del comparto. Ma nonostante le mobilitazioni, le dichiarazioni e le promesse tutto è rimasto immutato.
Forse non siamo stati ascoltati con la dovuta attenzione? Come non vengono ascoltati tutti coloro che stanno rivendicando la necessità di vivere una vita che non sia solo sopravvivenza, precarietà e abuso!
Invitiamo tutti e tutte ad unirsi a noi in questa ennesima giornata di lotta: vogliamo documenti, contratti, case – non campi di lavoro! – e trasporto gratuito! È necessario scardinare i meccanismi che producono lavoratori senza diritti perché stranieri, e li dividono da lavoratori, precari e disoccupati europei ed italiani, per poter ampliare il fronte di lotta contro le politiche che fanno pagare la crisi ai più deboli.
Noi non ci arrendiamo!
VERITA’ E GIUSTIZIA PER LA MORTE DI SEKINE TRAORE’ E DI TUTTE LE VITTIME DEL RAZZISMO ISTITUZIONALE! WE STILL NEED YES!
Comitato Lavoratori delle Campagne - Rete Campagne in Lotta - CSOA Sparrow (Ce)
30 giugno 2016, da campagneinlotta.org
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No Justice No Peace: per Sheikh Traoré!
Una nuova tragedia, dal copione purtroppo sempre uguale a se stesso, si è consumata ieri nella tendopoli di San Ferdinando, nei pressi di Rosarno. Questa volta ne ha fatto le spese un ventisettenne maliano che abitava nella tendopoli, Sheikh Traoré, il quale aldilà di ogni ricostruzione possibile è stato brutalmente assassinato ieri mattina, mercoledì 8 giugno.
La dinamica riportata dalla questura e dai media è alquanto discutibile, ed è tesa esclusivamente a tenere in piedi la tesi della legittima difesa. Come è possibile che le forze dell’ordine, in numero superiore (pare fossero ben 7), debbano ricorrere alle armi da fuoco per sedare una persona, anche se questa fosse in uno stato non controllabile? Come è possibile che, come raccontato dalle voci delle persone presenti al campo, il lancio del “coltello” e lo sparo siano in momenti temporali differenti, provando l’ipotesi di un’esecuzione a freddo? E come è possibile che un procuratore della Repubblica, prima che si siano concluse le indagini, già avvalori la tesi della legittima difesa? Comportamenti che ricordano l’assassinio di Davide Bifolco, avvenuto a Napoli 2 anni fa, seguiti, se pur con parole diverse, dal sindaco di Rosarno e dai sindacati.
Per il vero ci troviamo di fronte a un nuovo omicidio di stato in un’altra delle estreme periferie. La risposta dei braccianti della tendopoli non si è fatta attendere: stamane, 9 giugno, sono scesi in corteo ed hanno raggiunto il comune di San Ferdinando, dove hanno ottenuto di parlare con i suoi rappresentanti chiedendo soluzioni immediate, giustizia e verità per la morte di Sheikh, la fine delle aggressioni che i braccianti della tendopoli e degli altri insediamenti subiscono quotidianamente, di ritorno dal lavoro.
I problemi che vivono i braccianti agricoli e gli abitanti della tendopoli come di molti altri luoghi simili, in tutta Italia, sono molteplici: scarsezza di risorse igieniche e sanitarie, mancanza di acqua ed elettricità in alcuni casi; condizioni abitative che si sommano alle condizioni di vita nel lavoro, con l’altissimo tasso di sfruttamento legate alla dipendenza e alle difficoltà burocratiche per l’ottenimento del permesso di soggiorno.
Come recitavano i cartelli imbracciati stamane dai lavoratori, ricordando anche le vittime del razzismo di stato oltreoceano, senza giustizia non c’è pace! Verità per la morte di Sheikh Traoré e di tutte le vittime di questo sistema fatto di discriminazione e sfruttamento. Da Foggia a Rosarno, uniti in un solo grido e in una sola lotta.
Rete Campagne in Lotta
9 giugno 2016, tratto da infoaut.org
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genova: APPELLO PER LA PRESENZA IN AULA IL 12 LUGLIO
LEGA... CHE MARONI!
Da qualche giorno è iniziato il processo contro alcuni compagni per i fatti avvenuti nel dicembre 2012 contro il congresso nazionale della lega nord. Per quella giornata, che per la Lega rappresentava un passaggio obbligato per la raccolta di consensi in Liguria, era stato annunciato un corteo a cui, si favoleggiava, avrebbero preso parte diverse centinaia di militanti leghisti provenienti da tutta Italia che, passando per la via principale del centro storico, sarebbero confluiti alla presentazione di un libro di Roberto Maroni.
Quello che di fatto è successo è che questo fantomatico corteo non si e’ svolto mentre un presidio antileghista si è mosso per varie ore nelle vie adiacenti al centro storico.
In occasione del processo vogliamo sottolineare che questo partito si sta sempre più caratterizzando per le sue posizioni xenofobe e reazionarie che spesso sfociano in violenza, ma che queste stesse posizioni, difficilmente definibili politiche, sono ormai state sdoganate e governano, pur con qualche ciclico dissesto, Comuni e Regioni italiane, fra cui la nostra. L’operazione leghista di marketing e di propaganda è risultata vincente. Chiediamoci il perché.
Spacciandosi come fenomeno interclassista e trasversale e semplificando il linguaggio politico per accogliere un malcontento diffuso, la Lega ha avuto gioco facile nel guadagnarsi consensi a destra, a sinistra e al centro. Del resto il qualunquismo ed il populismo, nella sua peggiore accezione, erano stati evidenti sin dalla nascita della Lega: sorta come movimento antisistema e antipolitico - tanto che una parte del suo elettorato era inizialmente proveniente dall’aggregato del vecchio PCI deluso dalla svolta riformista del partito - in pochi mesi si è candidata ad essere luogo sufficientemente vuoto per diventare un approdo sicuro per la piccola e media borghesia italiana (legata al territorio, antistatuale e antiglobalizzazione) che non trovava più una “giusta “ rappresentanza nella classe politica dirigente, impegnata a difendere gli interessi del capitale internazionale.
E di fronte al costante peggioramento delle condizioni di vita all’interno della fortezza Europa, il consenso nei confronti della Lega è cresciuto, grazie anche ad una nuova operazione di marketing: il rafforzamento di elementi ideologici propri del fascismo e del nazismo. Non è un caso che sempre più militanti di CasaPound o di Forza Nuova siano presenti nelle iniziative leghiste a mo’ di servizio d’ordine o che, con queste forze, vengano formate liste elettorali congiunte.
Dal canto suo il centro sinistra italiano, dopo aver spianato la strada alla legittimazione istituzionale del razzismo (ad esempio creando nel 1998 i primi lager per immigrati con la legge Turco Napolitano, poi seguita dalla Bossi-Fini) ha favorito un processo di fascistizzazione della società che si è fatta sempre più concreto e tangibile.
Non si salvano di certo i grillini, proni a dictact di ricchi capi, impigliati in “reti” immateriali, disposti ad accettare l’appoggio elettorale delle destre per scalzare il PD, sbandieratori delle manette e dei codici prodotti dallo stesso sistema che dicono di voler scalzare.
La guerra fra poveri è così diventata una costante e viene alimentata ogni giorno dalle guerre umanitarie per ristabilire la democrazia nonché dalle varie riforme del lavoro, della scuola, della sanità, ecc., tese a mantenere il controllo di una classe su un’altra.
Ed i risvolti sociali - la desolidarizzazione di classe - sono sotto gli occhi di tutti noi: quotidiani sono gli episodi di intolleranza nei confronti di chi è più povero o differente dallo standard di comportamenti o le esternazioni razziste ed omofobe tipiche del ventennio mussoliniano, anche a livello istituzionale.
Indicando come responsabili dei nostri mali gli immigrati accampati in attesa dei caporali che li ingaggino per raccogliere pomodori a tre euro all’ora, ma anche facendo distinzioni fra “meritevoli” di asilo e migranti economici, costoro di fatto sviano la nostra attenzione dal dato reale che gli imprenditori hanno già intascato 8.500 euro all’anno per ogni nuovo assunto. Ed intascheranno almeno altri tre miliardi annui con il taglio dell’imposta sui redditi delle società: il triplo di quanto costa l’accoglienza degli immigrati nel suo complesso.
Il potere politico dipende dalla soddisfazione dei padroni. Ecco perché, ad esempio, chi guadagna meno di 8.000 euro l’anno non riceverà il bonus di 80 euro al mese. E’ lo stesso Renzi ad affermare che i più poveri non potrebbero comunque acquistare nulla e non concorrerebbero, quindi, all’arricchimento di nessuno. Tanto vale che non abbiano neppure l’elemosina.
Ma la lega è sempre un passo avanti… Offrendo soluzioni semplici e qualunquiste a problemi che hanno radici profonde, fa leva sulle bassezze umane come la volontà di affermazione di una superiorità “innata”, di differenziazione e di predominio, dovute all’ingigantimento mediatico di frustrazioni, insicurezze e paura di ciò che non si conosce.
L’immigrato, che come un barbaro ha depredato la nostra economia e sta colonizzando la nostra cultura, ci sta spingendo verso il baratro. Questo è quanto la propaganda della Lega ci dice, diffondendo paure irrazionali e speculando su di esse, creando il problema del nemico ed offrendo la sua distruzione come soluzione. Il meccanismo manipolatorio è evidente: l’additare un nemico comune è sempre stato funzionale alla creazione del consenso e soprattutto alla coesione con una classe che non è la nostra.
Quello a cui stiamo assistendo è una conseguenza del colonialismo economico che determina i continui flussi migratori, nella cui gestione l’Italia sta mostrando il suo vero volto come è evidente dalle continue deportazioni che subiscono gli immigrati, deportazioni accompagnate dal silenzio complice di tutti coloro che assistono senza intervenire ad una simile operazione.
Fermiamo le deportazioni degli immigrati e smascheriamo le complicità. Lega o non Lega, solo la lotta di classe può sovvertire gli equilibri a favore degli sfruttati.
Il 12 luglio il p.m. farà la sua requisitoria, i compagni leggeranno le loro dichiarazioni ed i difensori procederanno alla arringhe.
Appuntamento alle ore 9 davanti al tribunale per sostenere i compagni in aula.
30 giugno 2016, Spazio di documentazione “Il Grimaldello”
AGGIORNAMENTI DALle lotte dentro e contro i CIE
Torino, Cie di C.so Brunelleschi
All’interno delle mura del Cie di corso Brunelleschi l’afa di questi giorni è ancora più insopportabile. I racconti insofferenti della brutalità della polizia e quelli più sollevati di piccole proteste raggiungono il fuori in maniera frammentaria. Si riceve la notizia da parte di Montassar che, dopo quarantotto giorni di sciopero della fame e circa dieci della sete, ha ricominciato a mangiare e bere, preoccupato dal dolore costante ai reni e dalla necessità di ricorrere inevitabilmente ad una dialisi se il digiuno totale fosse continuato. Montassar è un ragazzo tunisino, che fino al mese di maggio era in attesa del rinnovo dei documenti necessari per rimanere in Italia; proprio durante l’attesa di questa trafila burocratica, che sempre più spesso decide arbitrariamente della vita di moltissime persone, è stato fermato dalla polizia e portato nel Cie. La sua è una storia di resistenza all’espulsione.
Per punizione al fatto che ha scelto di opporsi all’espulsione non mangiando gli è stata vietata l’uscita nel campo dove s’incontrano i reclusi delle differenti sezioni. A furia di litigare con i poliziotti, ieri sera, è riuscito a ottenere il permesso di recarsi in questo campo.
La qualità e la quantità del vitto sta sollevando lamentele. Il caldo e la partecipazione di tanti al mese di Ramadan fa si che la necessità di acqua sia maggiore e che quella fornita non sia sufficiente. Ciò ha scatenato brontolii, diverbi e proteste. Se l’acqua non è abbastanza il cibo servito è scadente. All’assaggio della loro razione, l’altro ieri, due ragazzi disgustati hanno scaraventato i piatti ancora pieni in faccia ai poliziotti di turno. Più tardi gli stessi sono stati prelevati dalla sezione e sono stati messi in isolamento. Da mesi questa sezione è sempre quasi zeppa, sono ora lì rinchiusi in tredici. Grosso modo, chi partecipa a qualsiasi tipo di protesta e interrompe la normale gestione del centro finisce in isolamento.
Negli ultimi giorni sono arrivate da dentro le mura del Cie di corso Brunelleschi due notizie che affiancate l’una all’altra palesano le contraddizioni che animano questo mai pacificato Centro di reclusione. La prima riguarda sette figuri che accompagnati dall’ispettore, questo giovedì, hanno gironzolato tra i corridoi del Cie per controllare che le condizioni di reclusione rispettino gli standard che la democrazia impone. Ai reclusi hanno detto di essere del Movimento Cinque Stelle e, anche se la notizia non è confermata da nessun giornale, non ci par strano da credere dato che non è la prima volta, e non sarà certo l’ultima, che anime belle e indignate varchino quel cancello e, accompagnati da chi quel luogo lo gestisce, si facciano raccontare di come vada tutto bene.
La seconda notizia, a nostro avviso ben più importante, è arrivata invece nella serata di giovedì. Pare, infatti, che mentre i penta stellati varcavano, per entrare, il cancello del Cie, qualcuno al contrario non ci abbia fatto ritorno. Un ragazzo magrebino che era stato scortato fino alla prefettura cittadina per un’udienza in cui si discuteva la sua richiesta d’asilo, da lì è riuscito a scappare sgusciando fuori dalla macchina che lo trasportava e seminando poi il troppo lento poliziotto che lo scortava. Ci auguriamo che sia ancora in libertà. È un sollievo sapere che fuggire sia sempre possibile e ci auguriamo che ogni nuova evasione faccia nascere e alimenti in chi rimane una voglia irrefrenabile di provarci.
Roma: sul presidio del 4 giugno al Cie di Ponte Galeria
Sabato 4 giugno, ci siamo dat* appuntamento come ogni mese alla stazione Ostiense per raggiungere insieme il C.I.E. di Ponte Galeria. Abbiamo scelto la prima data disponibile a dispetto della festa che celebra la stessa repubblica che determina la condizione di esclusione e sfruttamento delle persone razzializzate e non. Abbiamo scelto di farlo nonostante il lungo week-end, perché sentivamo l’urgenza di comunicare con le ragazze recluse, avere notizie della loro vita all’interno del C.I.E. e comunicare loro la nostra solidarietà. Abbiamo scelto di farlo perché la prigione che le rinchiude è in corso di ristrutturazione e presto avrà nuove celle, quelle della sezione maschile distrutta nella rivolta di dicembre.
La partenza ha visto trenitalia con polfer e digos di turno impedirci di salire se sprovvist* di biglietto e i numeri esigui hanno determinato che alcun* di noi lo pagassero davvero. Al disturbo della partenza abbiamo risposto scandendo cori a ogni fermata che ricordassero la presenza del C.I.E. alla città. All’arrivo davanti al lager, la digos, con atteggiamento aggressivo, ha colto il primo pretesto utile per provocare, costringerci sul marciapiede (che divide il parcheggio dalla strada che costeggia il C.I.E.) e circondarci. Il presidio si è svolto dunque con un cordone di poliziotti posizionati a pochi centimetri da noi. Nonostante questo, le nostre grida e quelle delle ragazze recluse hanno risuonato insieme rispondendosi, gli interventi dei/delle solidali e la musica hanno raggiunto l’interno forti e chiari; e un lancio di palline con messaggi ha comunque tentato di superare le mura. Al ritorno di nuovo il teatrino dei controllori, che chiamano la polizia, e quindi l’arrivo della digos sul binario e le camionette che si posizionano sul lato opposto della ferrovia.
Quello che sappiamo è che la situazione dentro è, come sempre, difficile. Le persone al momento sono fra le 50 e le 60 con entrate e uscite giornaliere. Nonostante l’arrivo dell’estate, l’accesso ai servizi igienici è precario e mancano dalla carta igienica al sapone. Questo, insieme alla sporcizia nelle camerate (materassi e coperte luride) genera malattie della pelle e dermatiti. L’accesso alle cure è negato e si somministrano antinfiammatori e psicofarmaci per qualunque patologia. Il cibo è come al solito scadente e si sono moltiplicate le limitazioni sui generi alimentari che possono essere consegnati dall’esterno, limitazione estesa anche al tabacco. Inoltre alcuni avvocati, che già ricevono il gratuito patrocinio, hanno cominciato a chiedere ulteriori pagamenti alle detenute.
Se il clima teso all’interno è costante, il tentativo di rendere impossibili i momenti di solidarietà di fronte alle galere per persone senza documenti caratterizza da mesi l’atteggiamento delle procure: se a Brindisi tre compagni sono stati condannati per un saluto solidale, a Torino altri tre sono stati espulsi; se contestare chi specula sulla (mal)nutrizione dei reclusi costa l’allontanamento dalle proprie città e lotte, il nostro intento rimane fermo. L’invito è quello a sostenere le lotte partecipando ai presidi e alle iniziative di solidarietà e organizzandone di nuove. Rilanciamo l’invito alle giornate di mobilitazione promosse dai compagni e dalle compagne di Torino in risposta alla repressione.
Giovedì 30 luglio, Cie di Brindisi-Restinco
Abbiamo raggiunto ancora una volta le mura del Cie di Brindisi-Restinco. I fogli di via mirati a scoraggiare la solidarietà esterna non hanno impedito un ennesimo saluto ai detenuti del centro. Dopo il presidio dello scorso 20 febbraio, un contatto costante con l'interno per rompere l'isolamento con la lotta è ancora possibile.
A distanza di quattro mesi, il Cie di Brindisi risulta essere affollato: 8 persone sono rinchiuse per ogni stanza delle 3 sezioni, le nazionalità sono varie - Nigeria, Marocco, Egitto, Kosovo, Albania, Russia, Pakistan, Afghanistan...
Come di frequente, una parte dei detenuti in contatto con noi sono individui stabilizzati in Italia da tempo, che da un momento all'altro hanno subito un troncamento della loro vita comune con un blocco di polizia, per poi trovarsi catapultati nel centro di Brindisi. Questo conferma come un lager per immigrati si regga su controlli random di potenziali irregolari da incarcerare e mettere a profitto per l'arricchimento degli enti gestori dei centri in questione. La militarizzazione di molte città italiane permette l'estensione delle frontiere nel tessuto urbano, fungendo da preambolo alla detenzione allo sfruttamento di immigrati.
Oltre a ciò, non mancano le già note lamentele per il cibo fornito al Cie dalla ditta Ladisa spa. Cibo scadente, maleodorante, e che - a detta di alcuni detenuti - provoca forti dolori allo stomaco e prurito diffuso.
Le condizioni igieniche tendono a peggiorare nel corso dell'estate: scarafaggi e altri parassiti infestano le stanze del Cie. Inoltre, dalla sezione B un detenuto sostiene che gli addetti alle pulizie passano così raramente che le stesse persone rinchiuse si trovano costrette a ripulire con le scope la propria galera. Una situazione di ulteriore umiliazione che, da quanto dichiarato dallo stesso contatto, è anche occasione di derisione di parte di alcuni operatori del centro. Varie persone hanno anche testimoniato di pestaggi e minacce da parte delle guardie nei confronti di chi protesta. A tal proposito, sembra che all'uso punitivo della stanza di isolamento sia subentrata l'usanza di condurre i dissidenti al cortiletto della sezione per essere pestati.
Il saluto di giovedì scorso è stata un'occasione per sentire da dentor il forte desiderio di evadere e mettere fine a questa gabbia. Desiderio espresso nelle parole urlate dei detenuti dalle finestre inferriate, dai loro insulti contro militari e poliziotti, e nell'entusiasmo di un piccolo momento di rottura con la mortificante normalità di quel lager. (Nemici delle frontiere - Lecce)
Milano, giugno 2016
Lettera dal carcere Le Vallette di Torino - Blocco C, 11° Sezione
Topi, scarafaggi, igiene, cella, vitto poco niente e di pessima qualità; niente attività socio-ricreativa-culturale. 3 ore d’aria 21 ore in cella ammuffita, disadorna 4x2 metri, con due detenuti costretti a darsi il cambio in piedi o sul letto.
Niente igiene personale carta igienica, detersivi per la cella, spugne, liquido, stoviglie, specchio ecc. ecc.
L’ispettore del blocco “C” usa minacce verbali, di violenza fisica sono stato tacciato altrimenti mi avrebbero picchiato in tre per aver chiesto la televisione che, a parere loro, non è ministeriale. Una doccia (freddissima) per 46 detenuti e cioè tre docce a settimana, se va bene. Siamo tutti bronchitosi perché con le finestre, anche chiuse, la cella sembra la galleria del vento della Ferrari.
Materassi e cuscini di spugna marci, dove hanno dormito e sudato chissà quante persone; idem le coperte. Uno esce e le molla in terra; arriva uno nuovo e gliele consegnano senza disinfettarle con una promiscuità che è una bomba ad orologeria. Le lenzuola vengono cambiate una volta al mese (12 cambi l’anno) ma la lavanderia interna lava lenzuola degli ospedali piuttosto che le nostre.
Nella nostra sezione (detenuti comuni) ci sono detenuti di una cellula I.S.I.S. chiusi in cella 24 ore e un violentatore fisico della moglie (siamo incompatibili per legge).
Totale assenza di assistenza medica e nell’eccezione derisione di alcuni agenti con frasi tipo: hai mal di testa? Sbattila sul muro che ti passa.
Per il dottore la tachipirina è una panacea per tutti i dolori, senza una visita mirata a verificare la diagnosi (da radiare dall’Albo). L’infermeria pratica orari d’ufficio, con un solo dottore ogni 350 detenuti; oltre l’orario sono gli agenti che dispensano medicine senza averne titolo.
Ai colloqui vengono perquisiti anche i neonati con asportazione del pannolino. Una cosa così degradante che ora le mogli dei detenuti si rifiutano di venire a colloquio (il body scanner è la soluzione). Insomma un campo di concentramento D’Antan.
Dopo tutte queste violenze psicologiche e morali molti qui accennano, e non velatamente, propositi suicidi e autolesionisti; e sinceramente anch’io sto accarezzando l’idea. Stiamo sperando che questo GRIDO D’AIUTO non rimanga inascoltato, altrimenti sarà tragico. Gli episodi di razzismo sono all’ordine del giorno, quotidianamente vengono violati l’articolo 18, le norme penitenziarie europee, con raccomandazione (2006) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
L’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo Detenuto, proibisce in termini assoluti le torture, le pene e i trattamenti inumani o degradanti quali che siano i comportamenti dei soggetti in essere, imponendo allo stato (italiano) l’obbligo che tutti i detenuti siano in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana e che le modalità di esecuzione della pena non provochino sconforto, stress e malessere, ma benessere, gioia di vivere e salute per un reinserimento nella società civile – senza traumi, come legge prevede.
Io mi chiamo Porcedda Roberto. Risponderò a tutti quelli che mi scrivono, però mandate dei francobolli. Se conoscete a Torino qualche associazione dove fare 4 ore di volontariato uscirei agli arresti domiciliari. Grazie.
giugno 2016
Porcedda Roberto, C.C. Lorusso e Cotugno. Via Aglietta 35 - 10151 Torino
torino: Se la misura è colma
Il Tribunale di Torino non ha esaurito le cartucce, anzi a ritmo serrato le richieste dei Pm trovano giudici pronti a sottoscriverle. Così sull’inizio dell’estate cadono altre misure cautelari a pioggia contro chi partecipa, in una maniera o in un’altra, all’opporsi mettendosi in mezzo a progetti che stravolgono i luoghi e la vita di chi ci abita, a meccanismi di sfruttamento ed esclusione. Dopo i dodici divieti di dimora comminati contro chi ha portato un po’ di letame alla ditta che distribuisce il cibo ai reclusi del Cie di corso Brunelleschi, sono diciannove le misure di diversa natura affibbiate dal giudice delle indagini preliminari di Torino lo scorso 21 giugno a chi ha partecipato a una giornata di lotta esattamente l’anno scorso attorno al cantiere di Chiomonte, lungo i sentieri e le strade della Val Clarea.
Tra le persone coinvolte in questa stretta repressiva c’è gente che in Valle ci vive da sempre, chi ha deciso di passarci attratto dal conflitto, c’è chi ha fatto delle lotte parte principale della propria vita, chi attraverso l’esperienza nell’opposizione alla costruzione dell’Alta Velocità ha cambiato i tempi, le priorità, la socialità nella propria esistenza. Senza alcuna differenza le misure hanno raggiunto chi in maniera ostinata continua a esserci nonostante le difficoltà che la lotta sta passando.
Ciò che ora viene messo in campo è l’ennesimo tassello di una strategia che si palesa in maniera sempre più netta: riportare le cose in ordine, togliere degli strumenti per lottare, fiaccare l’animo di chi ha deciso di esserci per far saltare i piani di chi ci governa. L’esperienza ci insegna che la lotta capace di essere efficace, di tracimare ed effettivamente scompaginare la routine delle cose incontrerà prima o poi l’ostacolo posto dalla legge. Sulla pelle di chi viene accusato, arrestato, messo al bando, obbligato a stare all’interno dei confini di un comune, a firmare ogni giorno dai carabinieri e nell’ombra dello spavento che la deterrenza proietta su chi gli sta accanto.
Se un tempo le carte giudiziarie rincorrevano il ritmo della lotta in Valle e i pubblici ministeri andavano affinando gli strumenti più congeniali per indebolire il contesto, cercando di dividere tra buoni e cattivi, gente autoctona e alloctona, fallendo, oggigiorno la cassetta degli attrezzi dei Pm è ben assortita e oliata, le misure sono ben calibrate sulle specificità di chi compone questo contesto vasto ed eterogeneo e la repressione viaggia in contemporanea a ciò che succede, quasi in prevenzione di conseguenze contagiose e imprevedibili.
Per questa inchiesta Rinaudo ha addirittura forzato la mano tirando fuori dal cappello un “fermo cautelare”, applicato solitamente per fatti più gravi quali l’omicidio, che ha costretto alcuni giorni due persone in carcere, in regime di isolamento per la maggior parte del tempo, poiché il Gip che ha firmato le carte dell’operazione del 21 giugno non aveva accettato di mettere i due sotto misure cautelari. Così il Pm ha disposto una settimana prima una perquisizione a casa dei ragazzi grazie alla quale ha potuto far scattare le manette senza dover chiedere il permesso a un giudice.
E se certi stratagemmi tanto arroganti quanto non convenzionali inquadrano oramai un atteggiamento giudiziario ben consolidato messo in campo dalla Procura, ciò che salta all’occhio dopo quest’ennesima inchiesta è la volontà di alcuni indagati di non accettare le disposizioni cautelari.
Qualcuno si è rifiutato fin da subito di presentarsi dai carabinieri per la firma quotidiana, manifestando pubblicamente la volontà di violare anche il possibile aggravamento della misura. Un altro dal giorno in cui è stato costretto agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni ha scelto di uscire dalla sua casa, informando tutti della sua decisione, consapevole delle conseguenze del suo gesto. Un altro ancora, fino a pochi giorni fa uccel di bosco, ha deciso di svelarsi durante una fiaccolata e ha dichiarato di non voler consegnarsi alla polizia, ma che aspetterà invece la notifica delle carte assieme a un presidio permanente davanti al luogo dove ha scelto di stare.
La maggior parte delle misure cautelari comminate fanno ricadere la gestione direttamente sui mezzi e la volontà di chi la subisce: i domiciliati si autocostringono in casa, affrontando da soli, tante volte senza riuscire più a lavorare, i costi della propria prigionia; chi è cacciato dalla città deve reinventarsi da un’altra parte e trovare un modo per vivere; chi è sottoposto alla firma mette i suoi passi sulla strada della caserma e organizza la propria vita sui nuovi orari imposti.
Violare le misure cautelari fino alle estreme conseguenze vuol dire costringere le istituzioni a prendersi la responsabilità di una punizione che in altro modo non sarebbe rispettata, quindi incarcerando chiunque non accetti le prescrizioni.
Se un tale atteggiamento fosse contagioso e diffuso potrebbe creare un corto circuito difficile da assestare.
Se il lavoro fatto fin qui dal Tribunale di Torino è paradigmatico di come evolvono e si limano gli strumenti di gestione e controllo della popolazione, del territorio e dei possibili conflitti che ne scaturiscono, la scelta di violare le misure apre una possibilità: che questo modus operandi non diventi una convenzione, che non possa neanche essere esportabile altrove.
Non accettare che delle carte del Tribunale riescano a piegare la quotidianità delle persone che vengono colpite vuol dire anche per chi rimane loro accanto avere in mano una scommessa: affinché queste scelte non portino solamente a conseguenze che ricadano sulla pelle di chi le fa, ma siano invece l’occasione di rintuzzare dello spazio di possibilità effettiva nella lotta, è necessario stringersi attorno a chi è stato colpito, a chi se ne frega delle disposizioni del giudice, e rilanciare.
Quale altra buona indicazione allora se non quella di fare di queste violazioni carburante per una solidarietà che sappia sostenere queste scelte e spingere un passo in là i percorsi intrapresi, alla faccia di Procuratori e Tribunali.
29 giugno 2016, da autistici.org/macerie
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torino e dintorni: ANCORA perquisizioni, arresti e “misure preventive”
La mattina del 23 giugno sono scattate diverse perquisizioni a cui sono seguiti tre arresti in carcere, nove agli domiciliari stretti e diversi obblighi di firma quotidiani.
Gli arresti in carcere di Vincenzo e Lorenzo sono scattati per volontà del pm Rinaudo che, dopo aver ordinato le perquisizioni ai due giovani pochi giorni fa, ne ha disposto la traduzione in carcere in regime di isolamento in attesa dell’udienza del gip (a loro è stato aggiunto, come si vede più avanti, Fulvio).
Alla base delle perquise ecc. è quanto accadde il 28 giugno dello scorso anno. Quel giorno a Chiomonte oltre mille manifestanti sfilarono in corteo, dapprima scontrandosi con la polizia a ridosso di jersey posizionati a sbarrare Via dell’Avanà (cioè l’accesso automobilistico e camionale al cantiere) e poi dall’altro lato, dallo sbarramento di transenne tirate giù dai manifestanti. Ne seguì un pressante movimento della polizia, sostenuto da un massiccio lancio di candelotti.
Dallo studente universitario alle ultrasettantenni, dai bambini ai lavoratori, tutti anche quel giorno senza particolari differenze hanno deciso di esporsi, senz’altro di non arretrare.
Fra le compagne e i compagni arrestat* c’è Nicoletta, che ha così precisato la sua scelta: “…Che sia chiaro, io non accetterò di andare tutti i giorni a chiedere scusa ai carabinieri, non accetterò che la mia casa diventi la mia prigione. Decidano loro, tanto la nostra lotta è forte, lottiamo per il diritto di tutti a vivere bene, lottiamo non solo per la nostra valle ma per un mondo più giusto e vivibile per tutti. Noi non abbiamo paura e non ci inginocchiamo davanti a nessuno, e quindi io a firmare non ci vado e nemmeno starò chiusa in casa ad aspettare che vengano a controllare se ci sono o non ci sono. Siamo nati liberi e liberi rimaniamo! Liberi ed uguali!”
Anche Fulvio, di anni 64, messo agli arresti domiciliari li ha rifiutati, affermando che “non posso essere prigioniero di me stesso. Da qualche tempo ha deciso di vivere in una dimensione collettiva come quella del presidio di Venaus e di dar vita, con altri ‘giovani’ al Nucleo Pintoni Attivi. E’ questo un collettivo che non molla la valle, soprattutto il cantiere, con passeggiate, grigliate, battiture notturne attorno al cantiere di Chiomonte”.
C’è anche Marisa, ultra 70enne, che avendo difficoltà a deambulare stava sul furgone della manifestazione, per lei c’è obbligo di firma quotidiano.
Ci sono anche Giuliano, Luca, Eddi, Gianlu, Aldo, Silvano, Enrico, Davide, Niccolò, Gianmarco, Paola, Luca, Andrea, Ernesto, Brandue e Lorenzo, insomma, studentesse-studenti universitari, lavoratrici-lavoratori, madri-padri; persone, insomma, che fanno parte del movimento No Tav.
Il tribunale ha inoltre deciso anche la condanna contro Stella e Costanza, due giovani No Tav ed Emilio, pescivendolo della valle, fermate per un blocco autostradale di protesta successivo alla condanne del processone No Tav. A fronte della richiesta da parte del pm di 1 anno e 3 mesi di detenzione, il giudice ha pensato fosse opportuno raddoppiare la pena a 2 anni e 7 mesi...
La sera stessa a Bussoleno si è tenuta l’assemblea popolare per decidere manifestazioni di solidarietà da realizzare per rispondere agli attacchi. Il Palanotav è gremito. Prendono la parola, sul principio che ‘Ribellarsi è giusto’, Nicoletta che esplicita la scelta di non sottostare a firme ecc. assieme a Giuliano che anziché stare chiuso nella sua casa ai domiciliari, è intervenuto in assemblea esprimendo chiaramente la scelta con le parole: la nostra speranza nella libertà è più forte di ogni autorità.
Nelle loro parole la determinazione, il coraggio e la consapevolezza di quello che stanno facendo. A tutte le no tav e i no tav sottoposti a misure esprime attivamente solidarietà, a cominciare dalla fiaccolata in programma per il giovedì successivo a Bussoleno, durante la quale anche Gianluca rifiuta l’arresto domiciliare: “Ci attaccano perché siamo No Tav, per quello che questo movimento rappresenta in Italia e per un pezzo di Europa. Personalmente non sono disposto ad accettare degli arresti domiciliari con restrizioni che pregiudicano la qualità e la dignità della vita. Sono pronto ad assumermi con altri le conseguenze di questo gesto. Se vogliono arrestarci, che ci arrestino. Questo rafforzerà il movimento, gli permetterà di andare avanti, proprio in questo periodo in cui degli spazi si aprono…”
Torino: la lotta contro i divieti di dimora raggiunge lo scopo
Giusto due settimane prima, venerdì 10 giugno, un corteo per le strade di Torino ha deciso di violare pubblicamente i dodici “divieti di dimora” appioppati nei giorni precedenti ad altrettanti compas. Dalle frequenze di Radio Black Out è stata data lettura del seguente comunicato che esprime le ragioni di questa scelta.
“È a Torino che abbiamo visto portare via uomini e donne perché non avevano un documento. A Torino abbiamo visto la polizia caricare un corteo di operai che avevano osato ribellarsi.
A Torino abbiamo visto le pattuglie dei carabinieri aiutare padroni e banche a sbattere in strada i nostri vicini di casa in ritardo con l’affitto o con il mutuo. A Torino abbiamo visto interi quartieri trasformarsi secondo le esigenze dei ricchi sulla testa dei più poveri che li abitano. A Torino e nelle sue valli abbiamo visto la celere bastonare le persone accampate a difesa della terra in cui vivono.
Ma a Torino abbiamo anche visto decine di persone sollevarsi per permettere a un clandestino di scappare a un controllo e centinaia di facchini tener testa a chi li voleva cacciare dai cancelli del CAAT (Centro Agricolo Alimentare Torino). Qui abbiamo visto intere vie chiuse dai cassonetti per respingere un ufficiale giudiziario e decine di abusivi riprendersi la piazza sotto gli occhi impotenti della polizia. È a Venaus che le stesse persone bastonate hanno rialzato la testa e spazzato via plotoni di celere riconquistando il terreno perduto.
Se è vero che ovunque soprusi e ribellioni sono all’ordine del giorno, è a Torino che noi abbiamo deciso di coltivare un sogno comune. Puntiamo i piedi, qui vogliamo rimanere, qui vogliamo lottare.
Dodici divieti di dimora a chi in una giornata di ottobre era andato presso la sede di Ladisa, ditta fornitrice dei pasti all’interno del Cie di corso Brunelleschi, a restituirgli un po’ della merda che quotidianamente somministra ai reclusi. Un‘iniziativa all’interno di un percorso di lotta contro il Cie e contro chi lo fa materialmente funzionare. [...]”
A sostegno del preciso e chiaro rifiuto del divieto dettato dalla straffottenza dello stato si è formato un concentramento di un’ottantina di compas che al termine della trasmissione ha raggiunto in corteo la sede della radio. Nel corteo aperto dallo striscione “Dove stare e come lo decidiamo con la lotta”, sono entrate bandite e banditi al grido di “Da Torino non ce ne andiamo”, “Non ci caccerete mai”, “I vostri divieti sono per noi solo carta straccia” che ha tenuto la strada per circa un’ora anche attacchinando manifesti. La gente incontrata lungo il tragitto ha accolto interessata quel che stava accadendo.
Il corteo ha poi raggiunto il parco dove in queste giornate si tiene la festa di Radio Black; un altro momento di sostegno alla scelta di non accettare nessun obbligo tanto meno dettato dallo stato.
Il martedì successivo, 14 giugno, si è tenuto un presidio davanti al tribunale di Torino in occasione dell’udienza di Riesame per i dodici compas colpiti dai “divieti di dimora”.
Una cinquantina tra compas e solidali hanno sostenuto la scelta di non accettare il divieto di dimora nel Comune di Torino deciso da questura-procura. Lungo il percorso si è attacchinato e volantinato; uno striscione con la scritta “Da qui non ce ne andiamo” è apparso su una gru… Nel presidio davanti al tribunale si intonano cori contro queste ennesime misure e per dare sostegno ai/alle bandite/i che entrano in aula, soprattutto per la lettura di un comunicato collettivo, eccolo:
“Sappiamo che uno dei ruoli di tribunali e procure è quello di stroncare i conflitti sociali. Ovviamente non ce ne stupiamo né ci aspettiamo che vada diversamente. In questi anni la stretta collaborazione tra giudici per le indagini preliminari e pubblici ministeri ha permesso di applicare decine e decine di misure cautelari contro chi lotta. Questi dodici divieti di dimora si inseriscono in questa strategia.
Dopo anni di attacchi repressivi abbiamo deciso di non rispettare queste misure. Venerdì siamo tornati a Torino e non abbiamo intenzione di andarcene. Non accetteremo da questo Collegio decisioni che ci dividano. Nessuno di noi sarà lasciato indietro.”
Il giorno dopo, 15 giugno, il tribunale del Riesame ha annullato il divieto di dimora per tutte e tutti. Sabato 18 giugno trecento manifestanti si sono trovati in Piazza Castello per partire in un corteo aperto dallo striscione con la parola d’ordine emersa in queste giornate: Da qui non ce ne andiamo.
Nonostante la revoca si è deciso di confermare l’iniziativa anche per dare spinta alle lotte, per riuscire a mettere in piedi risposte adeguate agli attacchi repressivi.
Milano, giugno 2016
Dopo la decisione di alcuni No Tav di non rispettare le misure cautelari comminate dai soliti pm torinesi, sono scattati alcuni arresti. Gian Luca è stato fermato a Genova e poi portato a Torino, in questura, per ricevere la notifica degli arresti domiciliari con tutte le restrizioni ma non intende rispettare l'imposizione delle restrizioni comunicative, continuerà quindi a parlare, telefonare e utilizzare internet.
Nella tarda serata di domenica 3 luglio sono stati arrestati Giuliano e Luca, che si stavano preparando per partecipare alla biciclettata “dalle Alpi ai Pirenei” in partenza da Venaus. Per loro erano previsti gli arresti domiciliari, che non hanno mai rispettato.
L’aula 59 dove si è svolta l’udienza per Giuliano e Luca, processati per direttissima per il reato di evasione dopo l’arresto in flagranza di domenica 3 luglio, era piena.
Per l’evasione il giudice ha deciso di dargli i domiciliari ma rimangono in carcere in seguito alla violazione degli arresti domiciliari.
Il prossimo 18 luglio ci sarà il seguito del processo di questa mattina, nel frattempo, venerdì 8 luglio il Tribunale della Libertà di Torino si esprimerà in merito a eventuali revoche o sostituzioni delle prime misure cautelari.
Nel tardo pomeriggio una quarantina di compas ha raggiunto il carcere per un saluto a Luca e Giuliano, e a tutti i prigionieri, anche perché da dentro nei giorni scorsi è uscita una lettera, un “Grido d’aiuto” (riportato in questo opuscolo) che descrive le condizioni di fame, isolamento, sporcizia regnanti in particolare nel blocco C. La comunicazione è riuscita.
Qui gli indirizzi per scrivere:
Luca Germano e Giuliano Borio,
Casa Circondariale Lorusso Cotugno, via Adelaide Aglietta 35, 10151 Torino.
la resistenza contro il tav e la sua repressione continua
Notte di resistenza No Tav in valsusa da Pian delle Rovine e da Giaglione
Ieri sera, 4 giugno 2016, da Pian delle Rovine (fraz. di Giaglione in Valsusa che sovrasta dall’alto la piccola e laterale val Clarea e il cantiere tav che vi ha sede) e dal campo sportivo di Giaglione si è sviluppata la seconda serata di lotta no tav.
Con il minimo sforzo un centinaio di attivisti hanno ottenuto ottimi risultati. Sorpresa doveva essere e sorpresa è stata. Percorrendo i sentieri della val Clarea si è arrivati alle spalle delle forze di polizia che erano posizionate sulla strada che collega Giaglione al cantiere protetti da recinzioni montate su dei jersey.
Il blocco che doveva servire a fermare gli attivisti in arrivo dal paese è stato dunque colto di sorpresa e alle spalle dall’altro corteo che si è calato lungo i sentieri che partono da pian delle Rovine. Costretti a ritirarsi dal bosco i poliziotti sono arretrati per circa una mezz’ora verso il cantiere e il vicino viadotto autostradale. Solo l’arrivo di rinforzi con il classico cambio turno prolungato ha permesso ai difensori della speculazione di ritornare sulle posizioni iniziali. Proseguono e proseguiranno le iniziative, anche sabato 4 giugno partendo ancora da Pian delle Rovine, all’insegna della mobilità e della sorpresa.
I boschi si dimostrano amici dei no tav, che li proteggono, li attraversano e li curano. Diverso è il trattamento per chi li invade e li distrugge, per chi li vorrebbe trasformare in una triste colata di cemento, per loro dal bosco arriva solo la paura e la resistenza della valle di Susa.
Notizia di questi giorni, il cantiere del tunnel di base partirà da Chiomonte, dal cantiere del tunnel geognostico. Per ora niente piana di Susa, stazione internazionale e autoporto. Una scelta che viene descritta dai media nazionali come “strategica”, economicamente vantaggiosa e soprattutto “sicura”. Ci sono voluti ben 17 professori universitari per capire che l’invasione della media valle e della sua piana tra Bussoleno e Susa era “pericolosa” per l’ordine pubblico. Tutti si congratulano per la scelta ai piani alti della mangiatoia Tav Torino-Lione ma la domanda che lasciamo con serate come quella di ieri, con un doppio senso neanche troppo velato è: siete proprio “sicuri” delle-nelle vostre scelte? Si proseguirà a breve anche con l’estate di lotta, che tutti ci auguriamo lunga e proficua per il movimento no tav.
Arrivano le trivelle per i sondaggi Tav, e Rivalta (Torino) risponde
Poco prima dell’alba dell’8 giugno decine di mezzi di polizia e carabinieri sono in paese per scortare due trivelle della ditta EuroGeo Srl di Paderno Dugnano (Mi). Trivelle portate li per eseguire un paio di sondaggi finalizzati al progetto definitivo della tratta nazionale della Torino-Lione.
I luoghi dei sondaggi sono in mezzo ai campi di grano e granturco che la progettata linea devasterebbe irrimediabilmente. Ogni strada – asfaltata o sterrata – è presidiata da furgoni e decine di uomini in antisommossa oltre a un gran numero di agenti della Digos. Il clima è surreale, i residenti devono giustificarsi per superare lo sbarramento, il sindaco, che si trova in Rivalta, non è stato minimamente informato, come già avvenuto qualche mese fa.
Si forma da subito un presidio nei pressi della rotonda sulla strada che da Rivoli giunge a Rivalta. Si va al mercato a volantinare, a raccontare cosa sta succedendo. Il locale comitato convoca una assemblea pubblica per la serata. Durante la giornata il presidio aumenta. Contiamo nei vari blocchi 24 furgoni di polizia e carabinieri (più i cacciatori di Calabria nelle loro mimetiche), sono quasi 200. I tecnici, un consigliere regionale e il sindaco, riescono ad avvicinarsi alle trivelle, anche attorno ai sondaggi un nugolo di mezzi e uomini.
Alcuni provano ad aggirare i blocchi e la reazione degli uomini in divisa è subito muscolare, non ci riescono. Nel tardo pomeriggio si forma un’assemblea; è molto partecipata, centinaia di persone: famiglie, anziani e ragazzi. Molti interventi sottolineano la provocatorietà di questo sfoggio di forza, la protervia di chi militarizza un’intera porzione di territorio, l’arroganza di chi vuole imporre un cantiere in questa maniera. Altri si domandano cosa capiterà con i cantieri veri e propri se per fare due buchini da pochi centimetri di diametro hanno dovuto mettere in piedi tutto questo. Finita l’assemblea ci si muove in corteo verso uno dei blocchi, un’ora di confronto e poi si rientra.
Rosta/Buttigliera: attraverso i boschi i No Tav raggiungono la trivella!
Dopo le numerose iniziative di ieri a Rivalta che hanno visto centinaia di persone scendere in piazza e denunciare la militarizzazione del territorio (con a testa sindaco e assessori della giunta comunale). Quella di oggi è stata un’altra giornata di mobilitazione del movimento No Tav contro la campagna di sondaggi propedeutici alla Torino Lione.
Stamattina, infatti, gli abitanti di Buttigliera e quelli lungo la strada per Rosta, si sono ritrovati il territorio completamente presidiato da mezzi ed uomini delle forze dell’ordine, nello specifico decine di camionette di polizia e carabinieri disposte ad ogni accesso al paese e in posti di blocco lungo la strada principale.
Il tam tam No Tav è partito immediatamente, lanciando un primo appuntamento alle 18 in Via Cornaglio/Via Cellino ed un secondo alle 21, ben più partecipato, nella piazza del Comune. Ci si è così ritrovati in circa duecento subito dopo cena e in seguito ad una breve assemblea alle 22.00 ci si è messi in marcia.
Quasi immediato é stato il primo fronteggiamento con la polizia che, a poche centinaia di metri dalla partenza, ha bloccato la via che raggiunge il centro storico del paese, minacciando rappresaglie.
Il corteo No Tav, dopo qualche coro e protesta è tornato indietro; attraverso un via secondaria è stato aggirato il blocco della polizia, riuscendo ad immettersi alle sue spalle e sulla strada che porta al luogo della trivella. Dopo un rocambolesco inseguimento la polizia è riuscita, momentaneamente, a bloccare la strada, cercando poi di riguadagnare metri con scudate e calci.
I gruppi dei manifestanti hanno deciso allora di saltare la bialera (piccolo corso d’acqua) per muoversi attraverso prati e campi. La sterzata, ha consentito così di entrare nel bosco, di suoerare i blocchi della polizia ed arrivare alle spalle del sito di sondaggio, attestandosi a circa una trentina di metri della trivella.
La polizia, in grande allarme, ha tentato di presidiare l’accesso lanciando qualche lacrimogeno e cercando di alluminare la zona boschiva in cui c’erano i No Tav protetti dal buio della notte e dagli alberi, senza avere però il coraggio di avvicinarsi troppo.
Per una mezzoretta si è quindi continuato a presidiare, lanciando cori e a ribadendo una promessa: per loro sarà sempre difficile fare ciò che vogliono!
Alla prossima, avanti No Tav!
giugno 2016, tratto da autistici.org/spintadalbass e notav.info
lettera dal carcere di opera (mi)
Ciao, scusami se rispondo in ritardo alla tua lettera, ma stavo aspettando qualche notizia da Maurizio. L’unica cosa che sono riuscito a sapere è che finisce a fine giugno il 14 bis, poi si dice che dovrebbe tornare su in sezione… Lo spero tanto, ma per come vanno le cose qui al bunker di Opera, ho qualche dubbio.
Per quanto riguarda la vostra visita dell’altra sera, con piacere ti comunico che ha avuto un ottimo rimando da parte dei detenuti, oltre ai soliti, se ne sono uniti tanti altri che prima restavano in branda; anche qui nella sezione dove sto io in molti hanno partecipato, questo mi fa molto piacere, perché è un piccolo ma grande passo in avanti.
Poi mi sono inorgoglito perché in molti mi hanno chiamato dicendomi che voi chiamavate me, io purtroppo sono dal lato opposto del campo, ma non ho negato la mia presenza, mi sono messo al cancello e gridavo e sbattevo cancelli, anche Maurizio dall’isolamento vi chiamava.
Sono molto contento del tuo impegno nel coinvolgere persone del quartiere dove sei attivo nella lotta contro gli sfratti, nelle case popolari ci sono molti che conoscono questo sporco mondo del carcere. […]
Rimango allibito nel leggere che il DAP vuol far passare questo sporco e infame sistema carcerario come un mezzo di recupero dei detenuti. Io vedo sulla mia pelle questa sporca menzogna: sono carcerato da sette anni, ho una regolare condotta, sono nei termini per i permessi o benefici di legge, ho tutto in regola, ho mille problemi fuori e ho una figlia sofferente per la mia assenza… più riabilitato di così cosa vogliono?!? Ma sti merda, in primis l’educatore Pizzuto, vogliono farmi fare altri sei/sette mesi e poi vogliono iniziare a farmi un programma. Tolto questo, i culi che scaldano le sedie al DAP sanno che qui ad Opera, quando si fulmina una lampadina ce la dobbiamo comprare noi? E chi come me non ha possibilità, deve stare al buio, anche andare al bagno al buio, bagni privi di finestre. La cosa più ridicola è che quando chiediamo la lampadina (sono tre giorni che vivo al buio) ci rispondono che non ce ne sono, però l’impresa che ci fornisce la spesa che acquistiamo, loro le lampadine le trovano e ce le vendono a 3 euro l’una… quello che mi chiedo io: la direzione non può rifornirsi di queste benedette lampadine e fornircele?
I Signori del DAP sanno che qui a Opera il vitto è uno schifo e chi non può fare la spesa deve distruggersi il fegato con la sbobba che passano; sono tre giorni di fila che come primo c’è riso! Oppure, a Roma sanno che qui acquistare generi di primo consumo è come farsi rapinare, visti i prezzi della merce?
Il Sig. Siciliano, invece di perdere tempo a pubblicizzare il “modello Opera”, dovrebbe farsi un giro per le sezioni e vedere la realtà che viviamo noi detenuti; oltretutto, siamo anche vittime di sbirrazzi prepotenti, cafoni e scansafatiche… Che guardi questo il Sig. Siciliano, al posto di pubblicizzare un’utopia!
Un’altra cosa che ti volevo scrivere, legata sempre all’acquisto della spesa è che, forse sai già, qui per cucinare usiamo fornelli da campeggio, a parte il costo esorbitante di un fornello - che costa 15 euro, mentre fuori solo 9, le bombolette di ricambio costano 1,90 euro, mentre fuori 0,90 euro - tolta questa rapina legalizzata, le bombolette di ricambio sono custodite in un magazzino chiuso a chiave, dove nessun detenuto ha accesso: quando si chiede il cambio del gas vuoto con quello pieno, il cambio lo fa l’appuntato. Beh’, qui sul piano dove sto c’è un ammanco di cinquanta bombolette, bombolette acquistate da noi detenuti ad un prezzo superiore del 110%. Sparite! E nessuno sa dove! Noi abbiamo fatto una mezza rivolta e siamo riusciti a recuperare ognuno la propria scorta di bombolette, ma rimane il mistero di dove siano finite cinquanta bombolette! La cosa assurda è che essendo un fatto accaduto dove non può essere incolpato un detenuto, la storia è già stata insabbiata… che pubblicizzi questo il Sig. Siciliano!
L’altro giorno ho visto in TV il presidio a Torino dei compagni NoTav. So che ne hanno arrestati 11, spero siano già usciti. Invece il presidio dell’Aquila, spero sia andato bene e che siate riusciti a farvi sentire. Purtroppo non ho il piacere di conoscere la compagna Nadia Lioce, ma ricordo bene la sua storia, per quanto riguarda gli sbirri assolti per l’omicidio di Michele (*) che ti posso dire… come scrivi tu, lo Stato non condanna i suoi servi, al massimo li sospende dal lavoro o gli dà quattro anni di arresti domiciliari. [...]
Un grosso abbraccio con affetto e stima a tutti/e compagni/e della lotta.
Opera, 26 giugno 2016
(*) Il 23 maggio scorso, la corte d’Assise d’Appello di Milano ha confermato le assoluzioni dei quattro poliziotti che erano imputati per omicidio preterintenzionale nel processo per la morte di Michele Ferrulli, manovale di 51 anni ucciso da alcuni poliziotti il 30 giugno 2011, mentre lo stavano ammanettando a terra. Anche in primo grado, nel luglio 2014, gli agenti erano stati assolti. I quattro agenti erano in aula al momento del verdetto come anche la figlia di Ferrulli, Domenica, e con lei anche Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva, morto nel 2008 all’ospedale di Varese dopo il trattamento ricevuto nella caserma dei carabinieri (il processo di primo grado è finito con l’assoluzione di due carabinieri e sei poliziotti).
Lettera di Davide dal carcere di Agrigento
La lettera il compagno l’ha spedita dall’ ‘isolamento di Petrusa’ il 7 marzo 2016; la lettera è stata ‘sottoposta a visto di controllo’, consegnata al magistrato di sorv., che l’ha riconsegnata alla direzione del carcere, che l’ha spedita a ‘Ampi Orizzonti’, con relativi timbri, il 13 giugno 2016, oggi, 23 giugno è arrivata a Milano. Nella stessa busta Davide ci spedisce la decisione sottoscritta dal vicecapo del DAP, Massimo De Pascalis, presa a metà febbraio, nei suoi confronti , e cioè: non gli è consentito di partecipare ai sorteggi mensili per fare il lavorante manuale, gestire la biblioteca, partecipare-organizzare attività culturali, ai corsi scolastici; può stare con altri solo nel tempo della socialità interna, mentre deve andare all’aria da solo, “in assenza di altri detenuti”, e soltanto due ore al giorno; la corrispondenza è sottoposta a visto di controllo “previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria competente”…
Poi c’è un foglio del mds di Agrigento che dispone “il trattenimento dell’opuscolo proveniente dalla Associazione Ampi Orizzonti…” perché …“il contenuto dell’opuscolo, ove si fomenta la lotta contro l’amministrazione carceraria e le Istituzioni in genere, è simile o analogo a quello degli atti analizzati che hanno determinato il provvedimento di censura, e quindi potenzialmente compromettente la sicurezza e l’ordine interno ed esterno al carcere, e ciò anche in considerazione della personalità del detenuto”…
E’ vero che Ampi Orizzonti dà voce, sostiene la lotta, fa quel che può contro il carcere in quanto apparato violento, costitutivo dello stato capitalista, che in nome del profitto conduce guerre di saccheggio in ogni dove, istituisce leggi come il ‘Jobs Act’ che mirano ad avvilire le condizioni di lavoro, a ridurre lavoratrici-lavoratori di ogni nazionalità a semplici pedine da spostare e anche cancellare a proprio interesse e piacimento; il carcere, in ogni sua forma, serve allo stato per intimidire, anche colpire a morte chi si ribella, per imporre la devastazione sociale, lo sfruttamento, linfe vitali dell’ordine imperialista.
Il mds di Agrigento vuole il carcere, soprattutto nel suo ‘ordine interno ed esterno’, cioè che ammutolisce, impaurisce, rende servizievoli, muti e divisi i prigionieri, che li uccide nella dignità e anche fisicamente. Per questo cerca di nascondere, di far sparire, quanto è accaduto anche nel carcere di Agrigento, come riportato proprio nell’opuscolo 109 da loro sequestrato a Davide. Di seguito alla lettera riportiamo il comunicato ‘fomentatore’ che impaurisce il mds di Agrigento e chissà chi altro, chi tiene in isolamento Davide da oltre 2 anni, crepino.
Saludi a Totus! Mi è appena arrivato il provvedimento del magistrato di sorveglianza (mds) che sequestra l’opuscolo 109, e che unisco a questa lettera così da mettervi al corrente pure della mia disponibilità a intervenire nella maniera più utile per noi (se si ritiene vi sia il caso) per contrapporre il potere dell’mds, utilizzato come strumento politico per blindare un certo tipo di informazione.
Voglio ricordare che il provvedimento di censura originario era basato sul ritrovamento della famosa dispensa in mio possesso dal titolo: “Criminologia del terrorismo anarco-insurrezionalista”, che non è “simile o analogo” al contenuto dell’opuscolo. Mi piacerebbe sapere se l’avv. avesse l’interesse a scrutare questa situazione e quella in generale, tra le quali il discorso delle riviste e degli stessi opuscoli di OLGa, che rimangono depositati in magazzino perché non sono del “tipo consentito”, in quanto non rientrano nel circuito commerciale all’esterno, non essendo in libera vendita.
Detta così allora non potrei neanche ricevere fotocopie! Così il sopruso tornerebbe ad estendersi se non vi si pone rimedio.
I libri che non passano invece sono quelli autoprodotti o con edizioni alternative. In pratica si vuole riprodurre anche sulla stampa che ricevo (o ricevevo) la cultura dominante capitalista, reprimendo la critica sociale e l’autodeterminazione culturale. E tutto questo ebbe inizio mesi prima che mi applicassero nuovamente il 14bis. Sembra di non averlo mai terminato dall’ultimo regime di tortura del 14bis, tra isolamenti disciplinari e altri senza alcun titolo, parrebbe di essere stato sempre in questa situazione.
Comunque vi sto unendo anche il decreto del DAP sul 14bis, sia per voi che per l’avv, nel caso avreste modo di vederlo. Ovviamente nel punto in cui si cita che “rimane consentita la socialità all’interno della sezione detentiva” non è realizzabile. E’ solo un modo per pararsi il culo dalla CEDU [Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, è una Convenzione internazionale redatta e adottata nell'ambito del Consiglio d'Europa, ndr] che ha paragonato l’assenza totale di socialità a trattamenti disumani e degradanti.
Sono praticamente senza una virgola da leggere e gli ultimi libri da voi spediti (Sciascia…) che rientravano nel quadro di editori famosi con tutti i diritti d’autore connessi (invece i diritti umani non sono più neanche un privilegio, ma completamente annullati !) li ho fatti fuori in un nonnulla.
Qui il silenzio è tombale e la sezione di isolamento è vuota, a parte un signore in 14bis che è nell’altra estremità e quindi sigillati nelle proprie celle come siamo, è impossibile scambiare due parole.
Vi spedisco il tutto tramite R.R.R. per essere relativamente più sicuri che arrivi.
Volevo specificare che riguardo al rapporto che si legge nel decreto, dove per un brevissimo tempo ho frequentato un corso di computer, per poterlo fare, mi son dovuto rivolgere al Tribunale di Sorveglianza di Palermo per potermi mettere nelle condizioni di accedere.
Comunque nonostante la condizione quotidiana di assassinare le proprie tensioni non vi è mai sconfitta nel cuore di chi lotta!
Con un sorriso trionfante vi abbraccio con forza. Fatemi sapere se i due provvedimenti qui presenti li avete ricevuti! Hasta sa berritta sempre!
Isolamento di Petrusa, 7 marzo 2016
Davide Delogu, c.c. Contrada Petrusa - 92100 Agrigento
Riflessioni dal carcere sulle elezioni comunali del 4 giugno
Ciao compagni! Mentre vi scrivo sto seguendo in tv i risultati elettorali e l’assenza della falce e martello mi mette una gran tristezza. Non che io riponga le mie fiducie nel parlamentarismo, anzi, sono sempre più convinto che solo una sollevazione popolare possa cambiare questo sistema, però tale cosa denota la scomparsa dei comunisti.
C’è tanto lavoro da fare per far risorgere i nostri ideali e sono del parere che tutti i compagni debbano fare un passo indietro per poi farne cento avanti. Iniziare da una serie di autocritiche è il punto di partenza. Non ha davvero senso continuare con questo fratricidio, proprio ora che tra i comunisti c’è stata una vera scrematura che ha allontanato l’ala destra.
Se avessimo il coraggio di lanciare una costituente comunista dove mettere al centro le parole: solidarietà, antifascismo e rivoluzione… Perdonate il mio sfogo.
Ho letto con tanta attenzione l’ultimo numero (dell’opuscolo) e sono contento della buona riuscita dei presidi. Mi sembra ottimo presidiare fuori dal tribunale di sorveglianza per sensibilizzare sulle iniziative “Pagine contro la tortura”. Il mio consiglio è di fare lo stesso sotto il DAP. Sono loro che hanno più peso e visto che è un qualcosa che riguarda il territorio nazionale, credo abbia più senso.
Sono invece molto preoccupato per la situazione di Davide Delogu. Ciò che sta subendo è una vera e propria tortura fisica e morale. Lui, attualmente, insieme a Maurizio, sono i detenuti che più stanno subendo (tolti i compas in regime di 41bis) l’isteria fascista e repressiva di questo stato pertanto, il mio consiglio, è di concentrare tutte le nostre forze su la loro condizione.
Il 14bis è la morte in terra e pensare a quella cella senza tv, senza fornello, senza socialità, senza la possibilità di alcun stimolo, mi logora dentro.
Vi esorto a mettere in campo ogni strumento: comunicati, presidi, interessate qualche personaggio pubblico, manifestiamo sotto il ministero, interessiamo il garante dei detenuti. Qualsiasi cosa è buona. Lo so che per un anarchico o per un nemico dell’autorità è difficile battere certe strade o accettare che l’apparato politico parli di noi, ma la misura è colma e non possiamo più accettare che si compiano certi abusi su una persona. Vi mando un saluto a pugno chiuso.
giugno 2016
Resoconto sulla giornata di sabato 25 giugno a L’Aquila
In una città ancora spettrale, dove interi quartieri colpiti dal terremoto del 2009 non hanno conosciuto nessuna ricostruzione, anzi, rimangono abbandonati al logorio interessato della speculazione edilizia, si è svolta una manifestazione contro il 41bis.
Il carcere si trova a Preturo, un paesino situato nei pressi de L’Aquila, dove c’è la più alta concentrazione di prigionieri sottoposti al 41bis, compresa una sezione femminile (l’unica in Italia), in cui oggi sono chiuse 7 prigioniere.
La giornata è stata anticipata nel corso della settimana precedente da un attacchinaggio in città e nei pressi del carcere, dove le guardie sono state ben attente a staccare ogni manifesto. Anche in città volantini e manifesti sono stati fatti sparire il più in fretta possibile, a dimostrazione di un atteggiamento particolarmente ostile nei confronti di ogni discorso contro il carcere, soprattutto contro il 41bis. Nonostante ciò, alcuni aquilani, oltre quelli elencati con nome e cognome dalla cronaca locale, hanno preso parte sin dalla mattinata alle iniziative in programma.
E’ la terza volta che si organizza a L’Aquila una giornata contro il 41bis, quelle precedenti avvennero nel 2007 e nel 2011. Come le volte precedenti la giornata è stata organizzata in due momenti: prima un corteo in città dove diffondere quanto sta accadendo nel carcere, poi un presidio attorno al carcere.
Avendoci prescritto un corteo lungo strade deserte, abbiamo deciso di fermarci in una via del centro, luogo di passaggio di poche persone, comunque il più affollato della città. Lì siamo rimasti oltre due ore, distribuendo diversi volantini che documentano e informano, fra l’altro, circa la mobilitazione specifica iniziata da oltre un anno per cancellare la circolare del DAP, che vieta a chi è chiuso/a nel 41bis di ricevere libri, opuscoli, riviste dall’esterno, di poterli quindi solo acquistare tramite l’amministrazione penitenziaria. Il presidio in città della mattina è riuscito a comunicare con numerose persone, molte delle quali si sono fermate a discutere, nonostante la presenza numerosa e incessante di polizia, carabinieri, vigili urbani, che hanno scortato i compagni e le compagne per tutta la giornata.
Verso le 13 ci si è spostati per un breve corteo improvvisato, senza rispettare le indicazioni di percorso imposte dalla sbirraglia varia, che ci avrebbero ricacciati in mezzo al nulla. Di gente per strada ce n’era pochissima, mentre gli sbirri erano tanti al punto di accerchiarci. Nonostante queste difficoltà e nonostante i nostri numeri esigui (eravamo solo una settantina) abbiamo proseguito per un breve percorso cittadino, prima di spostarci verso Preturo, verso il carcere. Numerosi gli striscioni innalzati durante il corteo, a dimostrazione di una partecipazione variegata di aree e appartenenze diverse, che condividono però tutte che “41bis = tortura” questo è infatti lo striscione di apertura del corteo. Sugli altri striscioni si poteva leggere: “No alla repressione antiproletaria e antipopolare. Libertà per tutti i compagni prigionieri nelle carceri dell’imperialismo” - Soccorso Rosso Proletario – “Difendere le condizioni di vita dei prigionieri rivoluzionari – Solidarietà a Nadia Lioce – Movimento Femminista Proletari Comunisti”.
In seguito abbiamo raggiunto il carcere in pullman e auto, sempre scortati dalla polizia e siamo riusciti ad entrare in un prato adiacente la struttura. Da lì potevamo vedere le bocche di lupo di una quarantina di celle, dalle quali ci sentono, lanciano urla, riescono a sventolare dei panni, persino una maglietta rossa, e avviare una breve e quasi impercettibile battitura.
Gli interventi che si sono succeduti nel corso del pomeriggio hanno dato conto delle condizioni riservate alle donne in quel carcere, in particolare a Nadia (compagna delle Brigate Rosse PCC chiusa in quella sezione dal 2005; della solidarietà internazionale ai prigionieri politici, rivoluzionari; della recente spedizione a singole persone (circa 80) chiuse in 41bis di un catalogo di libri messo a disposizione da 24 librerie, case editrici; delle iniziative per la campagna Pagine contro la tortura, tra cui i presidi del 16 aprile sotto diverse carceri con regime di 41bis e il presidio al DAP di Roma.
Agli interventi sono state intervallate delle letture, fra le quali quella che segue:
Mi hanno portato ‘I figli del capitano Grant’ di Giulio Verne. Non ho mai amato Verne, ma oggi questo libro è per me un’altra cosa: è la pagina stampata che farà deviare la mia mente dal corso uniforme e grigio dei pensieri, che ormai non sanno più dove posare; è la testimonianza concreta di una piccola fonte di calore umano accanto a me, nel gelo di questa solitudine, che penetra fino alle ossa. Tratto dal libro Tempo dei vivi 1943-1945 di Bianca Ceva, partigiana, scrittrice nell’Oltrepò di Pavia-Piacenza, arrestata e imprigionata nel carcere di Voghera nel luglio del 1943. Le SS e i fascisti le vietano di tenere in cella dei libri, m.a, finalmente, dopo diversi mesi riesce a procurarsene uno
Con l’avvicinarsi di un temporale, abbiamo lanciato i saluti assieme all’impegno di dare continuità alla lotta contro il 41bis, a cominciare dal ritiro della circolare che vieta l’ingresso ai libri.
giugno 2016, OLGa
SULLO STUPRO NON CONTATE SUL NOSTRO SILENZIO!
Il 12 febbraio del 2012 a L'aquila, Rosa viene stuprata e lasciata agonizzante in mezzo alla neve dal militare dell’operazione “strade sicure”, Francesco Tuccia.
In aula verrà difeso dagli avvocati Antonio Valentini e Alberico Villani. A sostenere Rosa, dentro e fuori le aule dei Tribunali ci sono centinaia di donne, sia del L’aquila che provenienti da altre città, molte da Roma. Siamo uscite in massa quando l’avv. Valentini ha pronunciato la frase “consenso reciproco” e portato avanti una difesa ancora incentrata sul rafforzare la cultura dello stupro.
A novembre del 2015 l'avv. Antonio Valentini viene invitato a parlare da un’associazione abruzzese alla Casa Internazionale delle donne di Roma, che con una lettera pubblica, revoca la partecipazione di siffatto personaggio, dando seguito alle decine di mail e telefonate di donne che si erano espresse in questo senso in quei giorni.
Una di queste mail, che avremmo potuto scrivere e abbiamo scritta ognuna di noi, è quella che riportiamo sotto.
Il 13 novembre il convegno sulla commissione Grandi Rischi “Verso la Cassazione” si svolge regolarmente in assenza del difensore di Tuccia, ma il 18 maggio 2016 il pm dell'Aquila firma un ordine di sequestro di tutto il materiale tecnologico ad una compagna di Roma, che aveva diffuso a mezzo chat la mail che riportiamo qui sotto. La donna verrà denunciata dall’avv. Antonio Valentini per diffamazione aggravata.
Alla Casa internazionale delle donne sono aquilana terremotata e ho perso persone, luoghi e ricordi a noi tanto cari con il terremoto.
Quel che è successo a L’Aquila nel 2009 e oltre non lo dimentico. Non dimentico la violenza e la militarizzazione con cui lo stato ha cercato di nascondere le sue responsabilità, sorvegliare i terremotati e reprimere chi osava lottare. Non dimentico lo sciacallaggio di comitati politico-affaristico-mafiosi sulla pelle degli sfollati.
Quando ho sentito che l’avvocato Valentini avrebbe assistito gratis tutti gli aquilani terremotati, pensai fosse un uomo coraggioso, ma poi abbiamo capito che non era coraggio quello, ma solo un esercizio di potere.
No, non dimentico quel che è successo a L’Aquila nel 2009 e oltre. Circa 70.000 militari arrivati da tutta Italia a sorvegliare neanche 35.000 sfollati nelle tendopoli. Erano loro i padroni del territorio, non gli aquilani terremotati. No, Non dimentico quel che è successo a L’Aquila nel 2009 e oltre. Quando la notte del 12 febbraio 2012, in una discoteca di Pizzoli (AQ), una giovane donna di 20 anni, “Rosa”, fu stuprata e ridotta in fin di vita da un militare, Tuccia, in compagnia di 2 altri commilitoni del 33° reggimento artiglieria "Acqui", impiegati nell’operazione “strade sicure”. Sono loro i padroni del territorio e alcuni sono anche aquilani.
Ora l’avv. Valentini, che è “amico” di tutti, doveva correggere il tiro e conquistare quelli più potenti, quelli del braccio armato dello Stato. Così si offrì di difendere gratuitamente lo stupratore avellinese Francesco Tuccia. Alle prime udienze per stupro, le compagne, le donne arrivate da tutta Italia percepirono netta la sensazione che a L’Aquila il militare stupratore si trovava in un ambiente amico. Ricordo nettamente la sensazione appiccicosa di schifo e violenza, esercitati sulla nostra pelle di donne, alle parole dell'avv. Valentini: “Tra i due ragazzi vi fu consenso esplicito. La pratica del fisting presuppone una particolare posizione della donna, assolutamente incompatibile con le modeste ecchimosi refertate sulla ragazza e soprattutto con il fatto che aveva, sebbene scesi, i pantaloni addosso”. Modeste ecchimosi le lacerazioni all’apparato digerente e genitale di Rosa! “Solo” 48 punti per ricostruire le parti interne lese! Uscimmo in massa dall’aula, disgustate e indignate per la violenza che l’intervento dell’avvocato “amico di tutti” evocava. E’ chiaro che l’ingresso di un tale individuo in un posto così è un insulto, una minaccia a tutte le donne e una provocazione: perché proprio alla casa internazionale delle donne? Ci giochiamo le ovaie se l’idea non è stata proprio sua, dell’avvocato “amico di tutti”. CI RIGUARDA TUTTE.
17 giugno 2016, da inventati.org/unastanzatuttaperse
CONTRO LA TORTURA DI STATO, CONTRO L’ERGASTOLO OSTATIVO
L’ergastolo ostativo è una delle peggiori forme di tortura previste e disciplinate dalle leggi dello stato italiano. Sono passati ottantasei anni dall’entrata in vigore del codice penale – i cui artt. 17 e 22 reintroducevano l’ergastolo – sono passate costituzioni e riforme, ma i padroni e il loro stato, con l’introduzione dell’art. 4bis O.p. nel 1992, hanno deciso di rendere salda l’esistenza del carcere a vita senza nessuna maniera o quasi di uscire, se non senza vita. Per i “normali” ergastolani, che sono una netta minoranza rispetto all’insieme dei condannati all’ergastolo, la pena è temperata dalla possibilità di ottenere dei benefici, dopo un certo numero di anni scontati. Prima l’art. 21 (lavoro all’esterno), i permessi premio (dopo 10 anni), poi la semilibertà, poi, dopo 26 anni, la libertà condizionale.
L’ergastolo ostativo colpisce chi è condannato per reati di “criminalità organizzata” o per “terrorismo”, ma riguarda in realtà un grande numero di detenuti per alcuni reati molto comuni (elencati dal testo dell’art. 4bis: rapina, sequestro, contrabbando…) per i quali la sentenza, o anche solo gli sbirri (in fase di esecuzione pena), ipotizzino, senza alcun dovere di provarlo, un collegamento con mafia e “terrorismo”. Questo collegamento per molti può consistere anche solo nell’aver chiacchierato ai passeggi con altri detenuti ritenuti contigui con la mafia oppure politicizzati… Come se l’essere in carcere e incontrare le persone che vi stanno, avvenisse per volontà del prigioniero!
A chi è sottoposto all’ergastolo ostativo sono negati tutti i benefici, in nome di una valutazione sulla “pericolosità” del soggetto basata sul rifiuto di collaborare con lo stato, su legami veri o presunti con la criminalità organizzata o con la lotta politica, o sulla mancata partecipazione all’opera “rieducativa” (tradotto: diventare un infame disposto a cantare ciò che sa e a inventare il resto, e essere un docile cagnolino di chiunque abbia il potere in mano, dal magistrato al più basso in grado dei secondini)… In realtà la prognosi, nella quasi totalità dei casi, si basa, oltre che sul reato per cui è stata comminata la condanna, sulla semplice parola di poliziotti e carabinieri, dei secondini e degli operatori penitenziari, su cui i magistrati di sorveglianza si adagiano senza alcuno scrupolo, anche quando le relazioni recitano solo che i collegamenti non si possono provare, ma neanche escludere!
L’unica previsione di legge che può spezzare l’ostatività è l’art. 58 ter O.p.: il prigioniero deve “collaborare”, e farlo nei termini che richiede lo stato. Esiste una debole, residua possibilità, che venga riconosciuto che la collaborazione, anche se fornita, sarebbe ininfluente, oppure essa sia impossibile, e dunque di essere così declassificati a ergastolani “comuni”, ma si tratta di una casistica ininfluente.
Insomma: ostaggi fino alla morte o fino alla perdita della propria dignità, gettando in galera altre persone, talvolta indicate da chi conduce le indagini, in cambio della declassificazione. La discrezionalità di questa gente, fuori dalle chiacchiere garantiste degli esegeti della legge e delle loro pieghe mentali, è smisurata, e non trova nessun contraltare. Nelle mani del più semplice esecutore statale, sia lo sbirro di un commissariato periferico che manda le informazioni, o sia l’educatore che non trova il prigioniero abbastanza remissivo, sta la vita intera di un ergastolano ostativo. Tutto ciò malgrado le chiacchiere degli amici della “legalità” e dei difensori della Costituzione, della “umanità” della pena e della “rieducazione”, gli stessi uomini di stato che ne hanno da sempre fatto carta straccia, quando si tratta di opprimere i poveri.
Per lottare contro questa tortura, alcuni detenuti hanno lanciato una campagna di mobilitazione rivolta sia ai detenuti che alla società esterna.
Sul retro troverai quindi la proposta dei detenuti per uno sciopero collettivo con diverse proposte di lotta. SOLIDARIETA’ AI DETENUTI IN LOTTA!
La Biblioteca dell’evasione, Via Casaggia 12 - Sassari
due lettere dall’isolamento speciale in spagna
Salve compagni, saluti e Anarchia!! Sono Noelia Cotelo prigioniera anarchica rinchiusa nelle segrete dello Stato spagnolo. Già da diversi mesi ho iniziato a ricevere il vostro opuscolo, ma per il fatto che mi trovo nel Fies-5 ho la posta censurata e limitata a 3 lettere settimanali, per cui mi risulta un po’ complicato essere in contatto con voi, come con chiunque.
Tenterò lo stesso, ogni tanto, di scrivervi e inviarvi anche pensieri, riflessioni, poesie, etc. affinchè le pubblichiate nell’opuscolo anticarcerario che mi state mandando.
In regime Fies passo 23 ore al giorno senza far niente, ho tempo da buttare per scrivere mie riflessioni. La cosa difficile è inviarle. Comunque vi spedisco 2 poesie sovversive che spero vi trasmettano tutta la mia forza, rabbia, coraggio e ribellione, affinchè seguiate ad alzare la voce ben forte. Ché questi bastardi non pensino essere gemiti ma grida di guerra.
Per favore compagni, se potete, mandatemi qualcosa da leggere. Anche se non so esprimermi in italiano, perché sono in isolamento e non posso praticarlo con nessuno, lo capisco perfettamente.
Senza poter far altro che raccontare, per il momento, termino qui. Vi invio da questo luogo un forte e lacerante grido libertario che trapassi le sbarre e gli oppressivi muri delle prigioni. Forza e onore. Noelia.
Da 5 mesi non ricevo l’opuscolo anticarcerario. Continuate a inviarmelo quando potete. Un abbraccio.
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Che cos’ è la libertà per te Noelia? Mi domandava una notte una compagna di presidio; beh, le risposi, per me la vera libertà consta nella libertà delle azioni, nella libera scelta e ritrovarsi con i miei affini, nella condivisione della libertà di pensiero, espressione e movimento in un mondo sempre più marcio, più respressivo e oppressivo, prigioniero della sottomissione, del conformismo e dell’avarizia generata dai privilegi che il capitale concede ai grandi capitalisti e impresari che lucrano attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e della Madre Terra, mentre condanna la restante popolazione alla miseria e alla schiavitù, per poi creare assurde leggi, con le quali imprigionare nelle sue macro gabbie chiamate carceri, quei ribelli che osano criticarle e combatterle. Per me la libertà è il bene più prezioso che possiamo e dobbiamo avere, assieme alla nostra dignità di combattenti e resistenti; l’unico bene per cui valga la pena morire o ammazzare; l’unica cosa per cui, per quanto ci imprigionino in queste tombe di cemento armato, mai potranno zittirci. Ogni atto ribelle, ogni confronto diretto con lo Stato-capitale o con i suoi sbirri che ci ingabbiano, ogni grido di libertà con i nostri affini, ogni gesto di complicità antiautoritaria, incluso ogni rappresaglia e castigo imposto per non piegarci, né sottometterci al controllo di quelli che pretendono decidere per noi quello che dobbiamo fare, dire o pensare, ci fa essere un poco più liberi.
Di fatto, oggi, la libertà si trova sequestrata dalla giustizia borghese, custodita dalle sue frontiere di spine, chiusa a chiave nelle sue macro gabbie di sterminio e custodite dai suoi sbirri e carcerieri, e sappiamo che non basta resistere, perché, anche se resistere è vincere, ciò a sua volta, significa conformarsi e rassegnarsi davanti all’ordine stabilito; per vincere realmente e non solo in forma astratta, è necessario passare all’attacco, ed è risaputo che non esiste miglior difesa più di un buon attacco diretto alle viscere della grande bestia capitalista che ci opprime. E’ chiaro che per essere liberi, bisogna voler essere liberi! Anche a costo, paradossalmente, di far passare alle nostre ossa un lungo periodo in prigione. Nell’eventualità non dobbiamo arrenderci, la lotta deve continuare da questo lato del muro, fino alla distruzione di tutti i suoi carceri. Che il mondo sia in guerra, è un fatto. Non resta che passare all’azione, combatterla o rassegnarci. E siccome nei nostri cuori insorti non c’è spazio per la sconfitta, distruggeremo le sue prigioni da dentro.
Per l’Anarchia! Per la libertà! Per la dispersione del caos, fino alla distruzione delle sue gabbie! Perché mai esisterà muro sufficientemente alto, né gabbia abbastanza chiusa che freni la nostra ansia di libertà, né il nostro anelito di distruggere tutto quello che ci opprime.
18 maggio 2016
Noelia Cotelo Riveiro, Fies-5 C. Penitenciario de Topas
Modulo aislamiento 1 galeria - C. Postal: 37799 Salamanca España
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Segue il comunicato di una compagna anarchica spagnola, imprigionata nel penitenziario di Soto del Real, a Madrid, con l’accusa di aver rapinato una banca nei pressi di Aachen, in Germania, ormai due anni fa.
L’operazione della polizia catalana che ha portato al suo arresto si è svolta il 13 Aprile, quando alcune abitazioni private e uno spazio occupato di Barcellona, il Blokes Fantasma, vengono perquisiti e una ventina di persone portate in questura.
Solo questa compagna, già indagata per una precedente operazione poliziesca denominata Pandora, viene arrestata con un mandato di arresto europeo. Da allora la compagna si trova rinchiusa – prima a Soto del Real a Madrid e poi al carcere di Brieva, ad Avila – per esser poi estradata in Germania, dove si svolgerà il processo a suo carico.
Durante la sua detenzione non sono stati pochi gli abusi di potere da parte delle guardie e della direzione del carcere che, allegando “ragioni di sicurezza”, non solo le hanno negato la possibilità di avere una visita coniugale con la sua compagna il giorno del loro matrimonio, ma le è anche stata proibita qualsiasi comunicazione telefonica con la stessa e con un’altra persona. Inoltre, il vicedirettore della prigione le ha imposto diverse sanzioni disciplinari con l’accusa di – secondo lui – “incitare all’ammutinamento” le altre detenute, e un’altra per aver parlato con le altre prigioniere durante la notte.
Solidarietà e vicinanza alla compagna così come a tutti i prigionieri che scelgono di non abbassare la testa e di lottare!
Compagne e compagni, scrivo dal carcere di Brieva, Avila dove mi hanno appena portato dopo un mese e mezzo di detenzione nel carcere di Soto del Real, Madrid, sempre in Fies e in regime di isolamento. Avrei voluto scrivere prima ma le comunicazioni e informazioni sono molto lente e limitate, per questo non l'ho fatto fino adesso.
Apprezzo profondamente tutti i gesti e dimostrazioni di solidarietà e sostegno. Li ho sentiti così forte che hanno attraversato i muri, le sbarre e tutti i sistemi di sicurezza e controllo. Per quanto ci provino, non riusciranno mai a rompere o frenare la nostra volontà e la nostra determinazione a ribellarci contro questo mondo di miseria totale in cui ci obbligano a vivere.
Sono precisamente le condizioni più difficili quelle che ci danno più forza e determinazione per avanzare ed affilare la varie possibilità di conflitto che abbiamo, sia qui dentro che fuori. Le lotte per la liberazione da ogni forma di oppressione e autorità sono molteplici, come lo sono le metodologie e le giuste e legittime pratiche di lotta: dal semplice rifiuto a riconoscere qualsiasi autorità, all'attacco o esproprio di una banca. La cosa più importante delle azioni è che possano essere compresi gli obiettivi, il fine e il valore.
Quando le differenti lotte si intrecciano tra loro in un contesto più ampio, diventano complementari, si rafforzano, rompendo con la separazione tra il politico e il quotidiano/personale; perché tutte le decisioni personali che prendiamo durante la nostra vita finiscono per essere politiche così come le scelte politiche influenzano direttamente la nostra vita privata.
È evidente che bisogna stare attente ad ogni passo che facciamo per non cadere nelle grinfie dello stato e dei suoi servi. Ma sappiamo bene che lottare ha il suo prezzo. Lo stato e i media rispondono ogni volta con maggiore repressione e con persecuzioni mediatiche sempre più pressanti, rivolte a tutte quelle che gli si mettono contro.
Per ora sono qui, ma probabilmente presto verrò estradata in Germania. Mi sento forte per poter affrontare questa situazione e tutto quello che verrà. Soprattutto orgogliosa delle nostre idee, dei nostri valori e delle pratiche anarchiche, della vita che abbiamo scelto e che continuiamo a scegliere ogni giorno.
Forza e solidarietà a tutte e tutti combattenti, perseguitatx e detenutx!
La lotta continua, non ci fermeranno mai!
1 giugno 2016, Carcere di Brieva (Avila, Espana)
Lettera dal carcere di Viterbo
Ciao carissimi amici e compagni/i, mi diletto a farvi sapere cosa succede qui a Viterbo, e quello che ho letto sull’opuscolo è veramente brutto che al giorno d’oggi e specialmente nel nostro paese, anzi in Italia, ci sono tanti problemi, in particolare in questo fottuto carcere ne sto passando di tutti i colori. Mi trovo all’inferno ma continuo a lottare come ho sempre fatto, mettendo a soqquadro tutto il sistema del loro schifoso potere.
Qui la repressione, gli abusi, le provocazioni, le istigazioni sono all’ordine del giorno, ti pestano, ti portano in isolamento anche per sciocchezze, ma con me hanno trovato pane per i loro denti. Ho preso un altro rapporto disciplinare perché un servo dello stato ha provato a mettermi le mani addosso, e mi sono infuriato con tutta la rabbia che ho nei loro confronti.
Hanno provato a portarmi in isolamento ma non ci sono riusciti, ma mi trovo nella mia cella chiusa. Per 20 giorni posso andare all’aria insieme agli altri comuni e farmi una doccia al giorno (nella busta trovate – e infatti ci sono – le “notifiche”)
Non trovano il modo di farmela pagare cara e si ridicolizzano a farmi solo queste sciocchezze e dispetti. In sezione ho tutta la solidarietà dei detenuti e mi dicono di stare tranquillo che ‘hai quasi finito la tua lunga condanna e sei davvero un matto’. Ma non è così. Lotterò fino all’ultimo giorno, fino a quando non sono libero. Mi rompono i coglioni e io faccio lo stesso contro di loro (la violenza porta violenza).
Tocca fare qualcosa, ma dove posso fare da solo faccio l’impossibile per mettergli i bastoni fra le ruote, anche se avrò conseguenze.
Odio questo sistema, lo stato e i suoi servi! Di carceri brutti ne ho conosciuti tantissimi, ma Viterbo è uno schifo. Non ha diritto a niente, per non parlare poi del magistrato di sorveglianza dott.ssa Carpitella infame, cattivissima. La conosco bene perché ho avuto a che fare per altri problemi quando mi trovavo qui dal 2004 fino al 2006. Mi conoscono e non possono vedermi, mi odiano; ma io li odio più di loro e gli auguro…!
Questo carcere sta sotto inchiesta per tutte le persone che sono morte in isolamento, perché in tempi passati c’era la squadretta della morte, ti entravano in cella, anche in sezione con la divisa antisommossa, caschi, scudi, manganello e potete immaginare come ti pestavano. Ma purtroppo succede ancora oggi, anche se la squadretta della morte non c’è più. Ma se ti portano in isolamento ancora ti pestano e ti spaccano le ossa e la testa. E’ successo poco tempo fa a un ragazzo che avevo conosciuto a Velletri. Dopo circa 5 giorni è stato trasferito a Civitavecchia, dove sta meglio.
Grazie a mio fratello e all’avvocato mi sono tutelato (mi mancano pochi mesi al fine pena), con un esposto riguardo alla mia incolumità: io devo stare in regime aperto perché è certificato che ho la ‘seminfermità mentale’, ma se ne fregano.
Un saluto a Davide Delogu che sta passando un brutto periodo, ti sono arrivate le lettere? Un saluto a tutti/e i prigionieri a testa alta e a pugno chiuso, un saluto anarchico ribelle rivoluzionario, a presto a tutte e tutti in libertà! Claudio.
17 giugno 2016
Claudio Perrone, Strada S. Salvatore, 14/b - 01100 Viterbo
(*) Le ‘notifiche sono due: l’una parte dalla ‘Direzione Casa Circondariale Viterbo’ che notifica al compagno la decisione del ‘Consiglio di Disciplina’ presa contro Claudio, che gli infligge 10 giorni di esclusione da attività ricreative e sportive per aver commesso l’infrazione di inosservanza di ordini e prescrizioni o ingiustificato ritardo nell’esecuzione di essi. L’altro invece è disposto dal DAP, dall’‘ufficio comando delle guardie del carcere di Viterbo’ che esclude il compagno ‘dalle attività ricreative e sportive’ ciò non gli consente di recarsi nella sala socialità, ai campi sportivi polivalenti esterni e alla palestra detenuti; ‘può fruire liberamente dei cortili passeggio’.
Lettere dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni di Olga… Per motivi giustizia mi hanno trasferito a Messina, però i processi erano a Catania. Come si suol dire, sono indesiderato a Catania, Siracusa, Augusta oltre che a Caltanissetta, dove le ‘torture’ psicologiche sono state più tremende… quindi è successo quello che non doveva succedere. Non ero in me, quindi quella notte la ‘violenza’ l’ha fatta da padrona, dopo che per 9 mesi, ogni giorno, quella violenza mi ha scavato nel cervello.
Questo per dire che il Ministero della Giustizia, il suo Ufficio III° ha richiesto la teleconferenza, essendo che io da loro sono definito ‘particolarmente pericoloso’. L’ ‘Ufficio III° Trattamento Detenuti dimentica tutti i miei reclami sui Diritti Umani, sulla non applicabilità della legge, cioè dell’Ordinamento Penitenziario, su tutti i fronti, compresa la salute.
Ancora in un centro clinico non mi ci portano (in quello di Torino ci sono stato 3 anni). Nella cella le barriere architettonico sono infinite; le celle non sono in regola anche sul loro metraggio. Cioè, in una cella piccola convivo con un altro detenuto (‘mio’ piantone), inoltre c’è la sedia a rotelle, quindi potete immaginare che ‘tortura’ c’è ad andare in bagno (cesso). La doccia non è in cella, ma fuori, quindi le barriere architettoniche potete immaginarle.
Per le mie patologie prendo 15-16 pillole al giorno, oltre all’antidolorifico a base di morfina perché ho dolori alla schiena nonché alle ossa per via di artrosi degenerative. Per concludere, la pressione sanguigna, come si suol dire, è ‘ballerina’, prima è alta poi è bassa. Come potete comprendere vivo un calvario ogni giorno.
Detto questo: l’ultimo vostro opuscolo l’ho ricevuto a marzo con due libri grandissimi…
L’1 e 2 giugno faremo sciopero della fame contro il 4bis e l’ergastolo ostativo. Bisogna lottare sempre, sempre, non arrendersi mai. In quell’opuscolo la copertina è stata dedicata a Paola, desidero esprimere il mio dispiacere a Gimmy nonché dirgli che sono vicino al suo dolore.
Questo è lo Stato Macellaio, nonché uno Stato di polizia, dove Magistratura Democratica di sinistra da 25 anni e più ha sospeso il Diritto penale nonché i Diritti a 360 gradi.
I politici cosa fanno? Si spaventano a ristabilire il Diritto sospeso da tale Magistratura. I pm diventano giudici giudicanti o li trovi alla Corte d’Appello, al Tribunale della Libertà, in Cassazione.
Quindi vince la ragione della forza e non la forza della ragione. Speriamo che finalmente i politici con la p maiuscola mettano fine a questa macelleria giudiziaria.
Concludo nel salutare con un carissimo abbraccio i NoTav di Torino nonché tutti quelli che si battono per una giustizia ‘giusta’. Un carissimo abbraccio a voi, Francesco.
30 maggio 2016
Francesco Di Stefano, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L’Aquila)
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Carissimi compagni e compagne. Ho ricevuto con piacere vostre notizie e l’ultimo opuscolo di Nunatak che leggo con gioia e poi farò girare nell’altra sezione. Vi ringrazio per tutto quello che fate e per le belle iniziative che portate avanti contro l’industria della guerra e delle armi, importante anche la solidarietà ai popoli in lotta come ai palestinesi per avere diritti e libertà. Sappiate che avete il mio sostegno e la mia condivisione in tutte le lotte che portate avanti per la libertà e per un mondo di pace e senza guerre dove tutti possono vivere liberi.
Il concetto di “regola” presuppone che alla base di questa società ci sia un libero accordo, un insieme di norme volontariamente condivise dagli individui che la compongono. Ma è veramente così? I governi rappresentano davvero la volontà dei governati? Il povero acconsente di buon grado che il ricco si ingrassi sul suo lavoro?
Il ladro ruberebbe anche se avesse ereditato dal padre una fabbrica dal padre o se potesse vivere di rendita?
In realtà, per come funziona questa società, possiamo solo decidere come comportarci di fronte a leggi, che altri hanno stabilito per noi e che un governo ha imposto alla immensa maggioranza degli uomini e delle donne…
Ancora prima di chiedersi allora se è giusto o meno punire con il carcere chi trasgredisce le regole, bisogna chiedersi chi decide – e come – le regole di questa società?
Ci dicono che il carcere protegge dalla violenza. Ma è così?
Come mai le violenze peggiori – pensiamo alle guerre o alla fame imposta a milioni di persone – sono perfettamente legali?
Perché si finisce in carcere se si uccide per gelosia, se si ruba per fame ma si fa carriera o si diventa addirittura “eroi”, se si bombarda una popolazione intera?
Il carcere punisce solo la violenza che dà fastidio allo stato o ai ricchi. Quante sono le imprese che violano continuamente le leggi? Quanti sono i padroni che finiscono in galera?
Vi sono vicino. Tanti cari saluti a tutti con affetto.
23 aprile 2016
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L’Aquila)
Lettera di un ragazzo, ‘Volare’, rigettato in galera dopo 5 anni…
Carissimi amici di Ampi Orizzonti… ho letto il vostro opuscolo d’aprile ed assieme a questo mi è stato prestato il libro ‘Liberare i dannati della terra’, bello! Interessante! Non sono un rivoluzionario né un ribelle o anticonformista né contro le forze dell’ordine né a loro favore. Sono semplicemente un uomo. Mi faccio delle domande, leggo, ascolto i tg e la propaganda che viene fatta attraverso la tv. In carcere ho litigato con le guardie fino ad arrivare allo scontro fisico; altre le ho rispettate perché brave persone, e così via.
Mi chiedo: ma è possibile una società senza classi né prigioni? Magari un mondo anarchico? O è tutto un’illusione? Dove ci vorremmo cullare? Vi invito, se ne avete voglia, a disquisire sull’argomento.
Uno dei tanti pericoli di oggi è la MAFIA (quella dei professionisti dell’Antimafia), essa, forte dei suoi presunti ideali, schiaccia il popolo per ridurlo alla schiavitù. Ve lo dice uno che per 4 volte, è stato raggiunte da ‘custodie’ cautelari sin dall’età di 23 anni.
Ci hanno allevati nelle loro batterie di massa (polli) ‘schematizzati’ ed ‘arricchiti’ di arresto in arresto, elevandoci a ‘soldati’, a ‘boss’. Poi le nostre storie sono state date in pasto a tv, giornali e google per darci un tocco d’internazionalità e consacrarci come il ‘Male’. Ovviamente ciò avviene per la stragrande maggioranza della popolazione carceraria e non, sotto molteplici profili. Le mie, ovviamente, sono considerazioni, senza voler essere un ‘lamento’.
Una volta lessi il libro da voi inviatomi ‘ La banda Bonnot’, una frase mi rimase impressa: ‘si ha bisogno di cattivi che restino tali per poter fare dei distinguo e vivere sereni’! Quanto ho scritto al giudice in una mia difesa. Penso che l’abbia colpito più la frase che il processo che oggi è una ‘mera quantificazione della pena’.
Concludo con una stretta di mano per ciò che fate. Purtroppo noi detenuti, spesso, siamo appiattiti anche per i nostri diritti elementari. Vedi Pannella che nessuno se lo filava, mentre Egli si batteva per Noi!
maggio 2016
Da Roma a Cremona per la giornata di solidarietà del 7 luglio
Giovedì 7 luglio ci sarà la sentenza di primo grado contro tre compagni imputati nella seconda tranche del processo per il corteo antifascista del 24 gennaio 2015.
Il corteo fu organizzato a Cremona in solidarietà con Emilio, un compagno del c.s.a. Dordoni gravemente ferito in un attacco fascista.
Il primo processo, conclusosi il 21 gennaio scorso, condannò in primo grado i quattro imputati a 4 anni di reclusione e 200.000 euro di risarcimento per la parte civile (il comune di Cremona), confermando l’accusa di devastazione e saccheggio.
Per tre di loro, la misura cautelare degli arresti domiciliari è stata tramutata in divieto di dimora nel comune di Cremona, mentre permane l’obbligo di dimora per l’unico compagno residente in quella città.
Anche a Roma e Milano – per i processi del 15 ottobre 2011 e del 1 Maggio NoExpo 2015 – le procure stanno utilizzando il reato di devastazione e saccheggio per punire duramente chi ha scelto di riversare la propria rabbia in quelle strade, attaccando i luoghi simbolo dello sfruttamento e dell’oppressione.
L’uso politico di questo reato è un chiaro tentativo di inibire i momenti di rivolta che interrompono la pacificazione sociale, colpendo poche persone per intimorirne molte, cercando di isolarle e spezzare la solidarietà.
Un articolo del codice penale, quindi, che reprimendo il presente guarda al futuro.
Consapevoli dell’importanza di rispondere alla repressione creando nuove complicità e lotte, come Rete Evasioni saremo a Cremona il 7 luglio per partecipare a questa giornata in solidarietà con i compagni arrestati e continuare il confronto su devastazione e saccheggio cominciato a Roma e proseguito a Milano.
Non lasceremo i nostri compagni e le nostre compagne sole di fronte alla repressione; invitiamo tutte e tutti a partecipare a questa giornata di solidarietà e di lotta.
Liberi tutti, libere tutte
3 luglio 2016, da inventati.org/rete_evasioni
La repressione non ci fa paura!
Solidarietà agli Antifascisti fiorentini sotto processo!
Il prossimo 4 luglio si svolgerà l'udienza di appello per il processo riguardante i fatti di via della Scala del 2009, dopo che in primo grado è stata emessa una condanna di otto mesi contro 11 antifascisti fiorentini per tentate lesioni. Ricordiamo i fatti: la mattina del 6 Novembre 2009 11 compagni vengono svegliati nel cuore della notte. Sono accusati di aver tentato un assalto alla sede di Forza Nuova il 23 Maggio. Dopo una inutile perquisizione alla ricerca di armi ed esplosivo, vengono portati presso la Polizia Scientifica per l’identificazione e per il prelievo del dna. Un presunta rissa, senza nessun contatto, diventa così il pretesto per provare a intimidirli e per porre sotto sequestro materiale informatico di ogni tipo ottenendo così spiarne la vita personale e l'attività politica.
La stessa mattina un compagno viene arrestato, adducendo un presunto pericolo di fuga, e gli viene poi contestata l'aggravante di terrorismo, utilizzando la nuova definizione dell' art. 270 sexies del C. P. introdotto dal Decreto Pisanu del 2005. Attraverso questo strumento l’attività politica e la solidarietà sociale possono sempre diventare, a discrezione delle autorità, “condotta terroristica”, com'è poi avvenuto ad esempio nei confronti dei militanti No Tav. Anche se poi l'aggravante di terrorismo cade in giudizio, com'è successo per ora nel processo fiorentino così come in quello torinese, resta chiaro il fatto che isolare e criminalizzare i propri obiettivi con l'etichetta di “terrorista” è da decenni un tassello fondamentale di una strategia repressiva complessiva, in cui magistrati e polizia si muovono di concerto con i mezzi di comunicazione. Così come è chiara la volontà di punire immediatamente i compagni attraverso la carcerazione preventiva, che l'utilizzo di questi reati agevola e legittima.
La realtà dei fatti di quella sera è ovviamente ben diversa. Tanti compagni sono accorsi in soccorso di una ragazza accerchiata da dieci nazisti che giravano beatamente per il centro storico armati di catene e bastoni, dopo aver aggredito un giovane che usciva da un concerto. Le testimonianze spontanee che confermavano la verità dei fatti sono state ignorate e, come è successo in tanti altri casi, a finire condannati sono stati gli antifascisti.
Non è certo una novità che la giustizia dei tribunali e la polizia siano conniventi con i fascisti. Basti rammentare quanto è accaduto dopo la strage di piazza Dalmazia, quando l'inchiesta è stata insabbiata e Casseri liquidato come se fosse un pazzo. Piuttosto vogliamo sottolineare la continuità con le più recenti ondate repressive, che hanno colpito gli antifascisti a seguito del corteo del 16 novembre 2013 e del presidio delle Piagge del 6 dicembre 2014, così come la relazione con il processo contro il movimento fiorentino, che andrà a sentenza nei prossimi mesi, in cui ad essere colpite sono state anche le manifestazioni di solidarietà con gli imputati di via della Scala. E vogliamo ricordare anche le condanne in appello che hanno colpito pochi giorni fa 8 compagni per aver contestato nel 2009 la presenza di Forza Nuova a Rignano.
In uno scenario di crisi sempre più profonda, di fronte al moltiplicarsi delle tendenze verso la guerra, per la borghesia europea l'arma della repressione diventa sempre più importante: occorre colpire subito chi si oppone alle politiche antipopolari, ai licenziamenti, ai tagli, alle spese militari, alle opere inutili come il Tav o gli inceneritori, cercando di dividere tra “buoni” e “cattivi”, per evitare che possa organizzarsi e radicarsi una opposizione sociale reale. E occorre colpire subito chi si oppone alla presenza dei fascisti, alla loro propaganda razzista, che altro non fa che rilanciare la spinta reazionaria e guerrafondaia dei governi, ed è quindi pienamente funzionale ai loro piani.
Lo sviluppo di un apparato repressivo sempre più articolato va di pari passo con l'accentramento dei poteri nelle mani degli apparati esecutivi, nazionali e comunitari, con la restrizione delle libertà individuali, sindacali e politiche, con lo svuotamento delle istanze rappresentative a tutti i livelli.
Quanto succede in queste settimane in Francia, dove vediamo il governo impiegare a piene mani gli strumenti repressivi dello “stato di emergenza” per colpire la protesta sindacale e studentesca contro la legge el Khomri, equivalente francese del Job Act, riassume molto bene i termini dello scontro in atto.
Per questo riteniamo che la repressione debba essere vista come un fronte di lotta fondamentale, e la solidarietà come l'elemento centrale di questa lotta. E che sempre di più debbano legarsi l'un l'altro i diversi fronti, contro la guerra, contro lo sfruttamento e la repressione sui posti di lavoro, contro le devastazioni ambientali, contro la repressione e il carcere, contro la limitazione dei diritti civili e politici, contro le riforme costituzionali autoritarie. Perciò a tutti coloro che si sentono impegnati su questi fronti rilanciamo le ragioni della solidarietà militante verso i compagni che vengono oggi colpiti per il loro antifascismo, e soprattutto la necessità di manifestare questa solidarietà nelle strade.
L'antifascismo non si processa!
giugno 2016, Firenze Antifascista
Il mondo in uno sputo
Alcuni giorni fa nelle carceri italiane sono iniziati i prelievi destinati a costituire l'Archivio Nazionale dei Dna, istituto di competenza del Ministero degli Interni che raccoglierà i profili genetici di tutte le persone detenute, indagate, arrestate o fermate, assieme ai Dna ritrovati sui luoghi del delitto. Si tratta di una decisione presa a livello europeo — sancita nel 2005 dal Trattato di Prüm sottoscritto da Germania, Francia, Belgio, Spagna, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria (e recepito dall'Italia nel 2009) — nell'ambito della cosiddetta «lotta contro il terrorismo e la criminalità», ma non solo europeo. Adesso, ufficialmente con qualche anno di ritardo, le autorità italiane hanno cominciato a mettere in atto una misura che altrove è in vigore da tempo.
La schedatura genetica viene definita da tutti i governi un «potente strumento nella lotta contro il crimine», in grado di fornire elementi determinanti per punire i colpevoli di reati particolarmente odiosi e scagionare le persone innocenti coinvolte. Evocata soprattutto nei casi di stupro e omicidio, la prova del Dna viene presentata come se fosse definitiva, irrefutabile, sinonimo di verità assoluta. Oggi, sia l'archivio britannico che quello francese contengono milioni e milioni di codici genetici, ed il loro numero è in costante aumento. Tutti potenziali stupratori assassini? No di certo.
Punto di incontro fra una «giustizia uguale per tutti» ed una «scienza al servizio di tutti», il prelievo del Dna è una procedura giudiziaria che possiede il medesimo carattere esponenziale ed irreversibile della tecnica. Esattamente come la giustizia e la scienza, è funzionale solo agli interessi dello Stato. Così, nella perfida Albione il prelievo del Dna è previsto non solo per risolvere casi particolarmente efferati, ma anche nei confronti di chi viene accusato di accattonaggio o ubriachezza o partecipazione a manifestazione non autorizzata (per avere un'idea della generalizzazione di tale pratica, basti pensare che già alla fine del 2007 era stato rivelato che il database britannico conteneva i dati di 150.000 ragazzini di età inferiore ai 16 anni); mentre nella terra dei diritti dell'uomo il campo di indagine genetica, in origine proposto per scoprire un assassino seriale, è stato esteso nel corso degli anni al fine di stanare anche gli autori di scritte e graffiti sui muri o del danneggiamento di colture Ogm.
L'efficacia punitiva e quella dissuasiva della prova del Dna sono entrambe legate ad un requisito di partenza: il Dna deve essere già presente nell'archivio. È del tutto inutile possedere il Dna di uno stupratore omicida se non si hanno i Dna con cui confrontarlo. Più Dna si raccolgono, più è probabile trovare il colpevole (efficacia punitiva). Più Dna si conservano, più è probabile che diminuiscano i reati (efficacia dissuasiva). Schedare geneticamente tutta la popolazione è quindi indubbiamente l'ideale dal punto di vista securitario, perché garantirebbe al tempo stesso il massimo della prevenzione e il massimo della repressione. Ricorda, lo Stato ti conosce, sa tutto di te, quindi... male non fare, paura non avere. Perché ciò dovrebbe sollevare scrupoli etici in chi accetta la logica securitaria? Perché chi invoca telecamere dappertutto e non ha nulla contro le intercettazioni ambientali e telefoniche, né contro il prelievo delle impronte digitali, dovrebbe poi preoccuparsi per una eventuale mappatura genetica?
Se il Dna non mente, come assicurano gli scienziati, se il suo test è un procedimento scientifico che funziona, allora qual è il problema? Che il Dna non menta, già non è affatto certo. Ma lo Stato che lo interroga, altro che se mente! In fondo, non serve nemmeno truccare la risposta quando è possibile truccare la domanda. Cominciamo pure dalla risposta, quella del Dna. Magistrati e scienziati sono concordi nel presentarla come fosse la prova suprema, indiscutibile. Poiché l'acido desossiribonucleico è una macromolecola presente nelle cellule degli organismi viventi, responsabile della trasmissione e dell'espressione dei caratteri ereditari, a quanto pare unica, diversa da individuo ad individuo, lo sputo del Dna sputerà automaticamente la Verità.
Ora, sebbene i media parlino sempre genericamente di prova del Dna è bene sapere che ne esistono due tipi: quello nucleare e quello mitocondriale. Il Dna nucleare proviene per metà dal padre e per metà dalla madre, è quello più preciso e discriminante, si trova solo nelle cellule «vive» presenti nella saliva, nel sangue, nello sperma, nei bulbi piliferi. Ma ha un difetto: non appena si stacca dal corpo, si degrada molto facilmente. Spesso, al momento dell'analisi, non è più sfruttabile. Il Dna mitocondriale, invece, viene trasmesso in linea materna, è molto meno preciso (può essere condiviso da persone che non appartengono alla stessa famiglia, e può variare fra familiari) e si trova anche nelle cellule «morte» come lembi di pelle. Per questo dura più a lungo. Da un traccia di Dna, cioè da un pezzetto del corpo umano, si ricava un «profilo», ovvero una serie di dati che corrispondono a una parte del Dna dell'individuo. Non è tutta la sequenza del Dna, ma solo una parte di essa, quella scelta dagli esperti.
Il profilo del Dna si ricava quindi dall'analisi di alcuni punti dell'intera sequenza del Dna. Ottenuto questo profilo, le autorità cercano delle corrispondenze, delle similitudini, fra quelli presenti nei loro archivi. Ebbene, seguendo tale procedimento, il risultato non potrà mai essere la verità assoluta, ma solo un’approssimazione basata sul calcolo delle probabilità. E infatti sono già stati registrati numerosi casi in cui la risposta fornita dall’analisi del Dna si è dimostrata errata. Il caso più recente, e a noi più noto e vicino, è proprio quello relativo all'omicidio di una ragazzina di 13 anni, avvenuto nel 2010 nel bergamasco. Pur di trovare il responsabile venne prelevato il Dna di 18.000 persone, fra cui tutti gli abitanti della zona (che si prestarono volontariamente). Il presunto colpevole è stato arrestato proprio in base al suo profilo genetico. Sugli indumenti intimi della ragazza sono state trovate tracce del suo Dna nucleare. Però, ops, non vi era alcuna traccia del suo Dna mitocondriale! Il fatto è giudicato inspiegabile dagli stessi esperti. Sarà per questo che gli inquirenti «costruirono» un video che mostrava il furgone dell'imputato sul luogo del rapimento della ragazza? Sarebbe questa la verità inconfutabile, indiscutibile, per trovare la quale sono stati spesi oltre 3 milioni di euro?
Di casi simili ne sono avvenuti altri, In Inghilterra e in Francia. Non è quindi un caso se alcuni preferiscono parlare di «compatibilità» del Dna. I profili in realtà non corrispondono, possono essere al massimo «compatibili». Cosa significa questo? Che la prova regina che dimostrerebbe la responsabilità (penale) di un essere umano, tale da giustificare la sua condanna e reclusione, è che una parte del Dna dell'imputato sarebbe compatibile con una parte del Dna rinvenuto sulla scena del delitto, e in quanto tale forse attribuibile al colpevole. Verità di fatto o ipotesi alquanto approssimativa?
C'è poi il problema degli errori e delle contaminazioni che possono avvenire, sia nel corso dei prelievi che in quello delle analisi. Scambi di etichette, di provette, incroci di tessuti organici.
Davvero esilarante è la storia della «donna senza volto», considerata dai media la «peggiore assassina seriale che l'Europa abbia mai conosciuto», la quale avrebbe commesso il suo primo reato in Germania nel 1993. Nel corso degli anni il suo Dna venne trovato sul luogo di diversi omicidi e furti, una ventina in tutto, avvenuti in mezza Europa (Germania, Francia, Austria). Imprendibile, inafferrabile, nessuno l'aveva mai vista eppure lasciava il suo profilo genetico ovunque. Contro di lei si scatenò una battuta di caccia colossale: migliaia di testimonianze, interrogatori serrati ai suoi presunti complici, 12 milioni di euro spesi nel corso delle indagini e una taglia di 100.000 euro sulla sua testa. Migliaia di prelievi di Dna vennero effettuati su donne nel sud della Germania, in Francia, in Belgio, e persino in Italia. Finalmente nel marzo 2009 la «donna senza volto» fu identificata, inchiodata alle sue responsabilità. La verità inconfutabile venne a galla: era una lavoratrice della ditta che forniva a molte polizie europee i bastoncini utilizzati per i prelievi genetici!
Come abbiamo visto, la risposta del Dna è tutt’altro che sinonimo di verità. Ma c'è di peggio: è la stessa domanda ad essere falsa. Perché, anche se la prova del Dna fosse autentica, anche se tutta la sequenza del Dna venisse analizzata e combaciasse perfettamente con tutta la sequenza del Dna rivenuto sulla scena del delitto, ciò cosa dimostrerebbe? Nulla, non sarebbe comunque una prova di colpevolezza. Il Dna trovato su una bottiglia lanciata contro le forze dell'ordine nel corso di una manifestazione non necessariamente appartiene a chi l'ha scagliata. Potrebbe essere il Dna di chi l'ha confezionata, di chi l'ha venduta, di chi l'ha comprata, di chi l'ha aperta, di chi l'ha bevuta, di chi l'ha passata, di chi l'ha buttata via... Il Dna rinvenuto sulla scena di un delitto non necessariamente corrisponde a quello del colpevole, potrebbe benissimo trattarsi di quello di qualcun altro. Di più, la presenza del Dna non dimostra nemmeno l'effettiva presenza sulla scena del delitto della persona a cui corrisponde. C’è stato un tempo ormai remoto in cui gli stessi uomini di legge sostenevano che un delatore non dovesse nemmeno entrare nell'aula di un tribunale. La sua parola non può costituire elemento di prova, può solo fornire agli inquirenti una pista da seguire tutta da verificare. Se la sua confidenza fosse suffragata da prove concrete, dovrebbero essere queste a fare testo. La sua parola, di per sé, non conta nulla. Da questo punto di vista il rinvenimento del Dna sulla scena di un delitto, anche qualora fosse davvero quello del sospettato, è ancora meno attendibile. Il delatore dice chi è (a suo parere, interesse, memoria o conoscenza) il responsabile di un crimine. Il Dna dice chi (forse, probabilmente, in alcuni casi sicuramente) può essere transitato nel luogo in cui è avvenuto un delitto, o essere venuto a contatto con la vittima. Ma poiché la giustizia è cieca, per vedere tende ad affidarsi ad altri. Agli esseri umani, ad esempio, anche quando sono spregevoli come i delatori. Infatti oggi la parola di due «collaboratori di giustizia» basta a far condannare qualcuno. Figurarsi quindi se la giustizia non si affida ancora più volentieri al microscopio della scienza, la quale da sempre ha il vizio di presentare le sue ipotesi come inattaccabili verità. «È vero, è provato scientificamente, lo dice la scienza». Invece la storia dice e ripete che una ipotesi scientifica, presentata come vera in una data epoca, potrebbe essere considerata falsa poco più tardi. Lo Stato, che ama farsi passare per garante del bene di tutti laddove serve solo l'interesse dei pochi, amministra una Giustizia che dovrebbe essere uguale per i soliti tutti ma che è fatta da leggi scritte e applicate dai soliti pochi. Lo Stato, come la sua Giustizia, sono ovviamente di parte, ma hanno un disperato bisogno di apparire neutri, oggettivi, al di sopra delle parti. Per questo si servono della scienza. Quando Lombroso misurava il cranio per identificare ladri e assassini, quando Hitler misurava il naso per scovare speculatori giudei, cosa facevano di tanto diverso da chi oggi consulta la biologia per far trionfare la giustizia? Ci troviamo così di fronte a questo paradosso: nessuna «verità» scientifica può essere considerata una certezza, eppure oggi tutto ciò che la società vuol far passare come se si trattasse di una certezza non può fare a meno di usare argomenti scientifici. Ciò che invece è certo, indiscutibile, agghiacciante, è purtroppo altro. I governi di molti paesi stanno schedando milioni di persone, usando argomentazioni che preannunciano una schedatura totale. Chi detiene il potere, politico o anche solo economico, avrà accesso ai dati più intimi di ognuno di noi e potrà farne qualsiasi cosa. Non occorre avventurarsi in scenari fantascientifici, basta attenersi a quanto già accaduto solo ieri per intuire cosa ci aspetta domani. Qualcuno ricorda le bottiglie molotov fatte trovare nel cortile della scuola Diaz di Genova nel luglio 2001, subito dopo la mattanza perpetrata dalla polizia? Ecco, da ora in poi per eliminare gli indesiderabili le autorità non avranno neanche più bisogno di costruire inchieste apposite, istruire falsi pentiti, fabbricare false prove. No, basterà far scivolare un qualcosa di impercettibile come una goccia di saliva, un cappello, un mozzicone di sigaretta — appartenenti a chi si vuole eliminare — sulla scena del prossimo crimine. All'interno di questo mondo, di questo ordine sociale, gli esseri umani trascinano una esistenza scialba, priva di bellezza e passione, immersi nella angoscia e nella disperazione, alla quotidiana ricerca di briciole di sopravvivenza. Il mal di vivere provoca ovunque conflitti, atti di violenza. Lo Stato interviene per arginare degli effetti di cui è esso stesso la causa principale. Pretende di imporre punizioni decretate da leggi fatte a sua protezione. E per identificare gli autori di questi atti di violenza si affida alle ipotesi della scienza, che vengono spacciate per verità. Il cerchio si chiude nella coerenza dell'abiezione. Uno Stato infame applica una giustizia cieca attraverso una scienza manipolabile e manipolatrice; il tutto presentato come un esempio di virtù. Il mondo in uno sputo.
giugno 2016, estratti da finimondo.org
DIFENDERE MILANO E LE SUE PERIFERIE SARà LA NOSTRA OSSESSIONE
Spenti i riflettori sulle amministrative dopo la vittoria di Beppe Sala ricomincia il teatrino politico della città di sopra: Milano rimane l’ultimo avamposto del Pd Renziano, una roccaforte da difendere perché, si sa, nella città meneghina i soldi girano a volontà.
Le rivolte che da circa quattro mesi scuotono la Francia ci ricordano che il Jobs Act rimane una ferita aperta soprattutto per i giovani precari, per questa generazione che vive con gli ultimi residui di welfare familiare che anestetizza gli effetti di un presente senza futuro. Il lavoro gratuito per aggiungere altre voci a un curriculum già povero di esperienze reali è stato uno dei prodotti della Milano di Expo che Sala vorrebbe estendere a tutta la città. Più flessibilità, meno diritti, più sfruttamento, meno stabilità lavorativa: questo è ciò che vorrebbero farci vivere. Vogliono farci ingoiare la pillola con la politiche del “camouflage”, tentando di venderci un futuro bello a prima vista, ma che nasconde a malapena nient’altro che miseria, precarietà, speculazione, povertà.
Milano come Londra ci dicono, come se bastasse un’enunciazione per cambiare la situazione attuale. La città dei manager, dei soldi facili, della speculazione edilizia, degli appalti truccati, dei grandi eventi inutili e dello spreco dei soldi pubblici: è questo il reale progetto della nuova giunta. Dopo la grande vetrina di Expo, il mancato pagamento delle spese ha causato il fallimento di due imprese, la Tecnochem, che ha realizzato i materiali per costruire il ponte sull'Autostrada A4, e la Stratex, che ha costruito il padiglione della Cina. La prima dava lavoro a 60 dipendenti, la seconda retribuiva 80 lavoratori: adesso gli stabilimenti sono chiusi, gli operai disoccupati.
Chi ha il potere è meno criminale di tutti gli altri, o almeno così si dice: solo per questo sono passate nel silenzio più totale l’archiviazione delle indagini a carico di Sala sul giro di appalti truccati in favore di Farinetti e sulla pubblicazione di una dichiarazione di redditi che “dimenticava” di citare una villa in Svizzera, un’immobiliare in Romania (con un investimento finanziario di oltre un milione di euro) e quote di partecipazione (per un valore complessivo di 759mila euro) nella Kenergy. Un altro socio della Kenergy, società energetica attiva nel settore fotovoltaico, è Roberto Tasca, che per una strana coincidenza è anche il nuovo Assessore al Bilancio. Insomma, niente di nuovo: siamo abituati ai favori tra amici della politica istituzionale.
E poi arriva la sua vera ossessione: le periferie. La città di sopra ha bisogno di estendere i propri tentacoli anche sulle periferie e tenta continuamente di trasformarle, di cambiarne la composizione sociale, di renderle dei nonluoghi, di cacciare i miserabili ancora più in periferia e fare spazio alla Milano che avanza, alla Milano che conta e che fattura. Eliminare il popolare e rendere i quartieri degli avamposti per speculatori e sciacalli, perché riqualificare le periferie significa soldi facili. Il problema non è la riqualificazione in sé, ma i termini speculativi con cui si pensa di agire.
Gli unici a dover decidere delle periferie sono coloro che le abitano; prima di qualsiasi cantiere della M4 vengono i bisogni di chi i quartieri li vive ogni giorno. Perché non ci stanno facendo un favore, perché l’unico motivo per cui le case cadono a pezzi è stata finora l’impossibilità di produrre profitti, perché di speculatori e mafiosi ne abbiamo già fin troppi.
Della vita delle persone non si parla mai. Delle relazioni e delle pratiche di solidarietà che gli abitanti hanno messo in atto per vivere bene in mezzo alle difficoltà, della vita che scorre tra i cortili, i parchi, i mercati. Le periferie sono un altro mondo, è vero: solo chi ci abita può capire quali sono le priorità di un cambiamento. Blaterano di guerra agli abusivi quando i manager di Aler che hanno fatto sparire un miliardo di euro sono ancora liberi, quando le 10000 case di cui si parla da anni sono ancora vuote. La politica non è neutra, esiste una guerra di classe, e c’è chi si organizza per difendere i propri privilegi e speculare sulla miseria, per mantenere la propria egemonia culturale e politica sulle fasce più deboli di questa città.
Per questo difendere Milano e le sue periferie dalle mani dei manager, degli speculatori e dei banchieri deve essere il compito dell’altra Milano, quella dal basso.
Giovedì ci sarà il primo consiglio comunale in Giambellino. Il quartiere non stenderà un tappeto rosso, né contribuirà al teatrino politico. La vita scorrerà come al solito e i suoi abitanti saranno lì a vivere il proprio quartiere come tutti i giorni: se la giunta viene in periferia, allora dovrà ascoltare i suoi abitanti.
Per questo invitiamo la Milano che non si arrende e che in questi cinque anni lotterà per i propri diritti e per difendere i propri territori a venire domani in Via Odazio dalle 10:00 dove il calore degli abitanti del Giambellino saprà accogliere tutti e tutte.
giugno 2016, Milano lotta
Sulla “Loi travail” e non solo
Dalla fine di maggio all’inizio di giugno la Francia è stata investita da un’ondata di scioperi, a cui ha aderito la quasi totalità del comparto lavorativo del paese. Milioni di persone sono scese in strada organizzate dai sindacati. Le manifestazioni che hanno fatto da cornice a scontri di piazza molto duri, si sono susseguiti per tutto l’arco temporale della protesta. La scintilla che ha dato il via alle agitazioni, è stato il varo della riforma del codice del lavoro, detta ”Loi travail”, o legge “El Khomri”, dal nome della ministra che ha redatto una sorta di “jobs act” italiana, a cui il governo francese non ha mai negato di essersi ispirato e come tale, vede, ad es., la presenza di uno degli emendamenti più odiosi: l’allargamento dei casi di licenziamento, ricalcato, per l’appunto, sulle orme dello stravolto articolo 18 italiano. I punti più controversi della “Loi travail” possono essere riassunti grossomodo nella:
- Diminuzione degli stipendi e aumento delle ore di lavoro. Tramite un semplice accordo aziendale, per ragioni non necessariamente determinate da difficoltà economiche, il datore di lavoro potrà, per una durata massima di cinque anni, imporre una diminuzione dello stipendio o un aumento delle ore di lavoro. I dipendenti saranno obbligati ad accettare, pena il licenziamento.
- Tempo di lavoro e straordinari. Attualmente la durata settimanale di un contratto di lavoro a tempo pieno è fissata a 35 ore. Al di là, cominciano gli straordinari, pagati almeno il 10% in più, a meno che l’accordo sindacale non preveda un tasso più vantaggioso per il salariato. Con la nuova legge, anche qualora un accordo sindacale preveda un tasso più vantaggioso, prevarrà l’accordo aziendale. La durata massima di ore settimanali è fissata a 44 ore e quella giornaliera a 10 ore. La nuova legge prevede che con un semplice accordo aziendale si possa passare a 46 ore settimanali e a 11 giornaliere.
- Licenziamento per ragioni economiche. Attualmente un datore di lavoro può licenziare qualora l’azienda si trovi in difficoltà economiche oppure sia costretta a chiudere. La nuova legge ridefinisce il concetto, allargandolo al caso in cui l’azienda consideri che una riorganizzazione sia “necessaria al mantenimento della competitività sul mercato”. Se licenziato per ingiusta causa, l’indennizzo che il salariato potrà reclamare al giudice del lavoro, avrà, con la nuova legge, un tetto massimo che andrà dai 3 mesi, per chi ha meno di due anni di anzianità, ai 15 mesi, per chi ne ha più di venti.
- Congedo per il decesso di un familiare. Attualmente fissata dalla legge ad almeno due giorni, la durata del congedo sarà decisa da un accordo sindacale oppure aziendale.
- La reperibilità. Le ore di reperibilità saranno considerate alla stregua delle ore di riposo settimanale e di conseguenza non retribuite.
E’ inutile commentare che anche in Francia si è consumato l’ennesimo tradimento nei confronti dei lavoratori e come questa legge sia un ulteriore passo indietro verso lo stralcio di ogni precedente conquista sindacale e come questo processo sia desolatamente inarrestabile. La Francia è lontana, o meglio, è vicina mediaticamente, come ogni altro angolo del mondo oggi ma non abbiamo la facoltà per poter giudicare una realtà che non viviamo direttamente ma mediata dalla tonnellata di veline a cui siamo sottoposti tutti quotidianamente.
Quello che possiamo fare è porci la domanda che in questo mese di proteste un po’ tutti ci siamo posti: ma perché la gente in Francia è scesa in strada e in Italia no?
Ci si è sentito dire che Hollande sia stato poco furbo a presentare la legge alla fine del suo mandato con un consenso ai minimi storici, mentre Renzi abbia emanato il “jobs act” appena eletto, quindi con la popolarità alle stelle.
Eppure la legge francese sulla flessibilità del lavoro è più blanda di quella italiana. Uno dei primi punti su cui il governo francese ha ceduto è l’idea di mettere un tetto agli indennizzi per chi viene licenziato senza giusta causa. Poi la “Loi travail” non presuppone neppure l’ipotesi di un contratto a tempo indeterminato con tutele crescenti che invece prevede il “jobs act”. E per finire, il punto più controverso, quello che ha concentrato il grosso del malcontento, l’articolo 2 che privilegia i contratti aziendali su quelli di categoria, è una misura che in Italia esiste già da molti anni. E allora come mai in Francia milioni di persone sono scese in piazza e in Italia, nel 2014, anno del “job acts”, manco mezza? Come mai i comparti strategici della produzione e dei trasporti hanno incrociato le braccia al di là delle Alpi, ingaggiando un duro braccio di ferro col governo e qui da noi neanche una voce di protesta si è levata quando in questi giorni, dopo che un giudice ha ribadito che il nuovo art. 18 non è da estendersi anche agli statali, la Confindustria strepitava essere una grande ingiustizia e discriminazione che il mondo del lavoro in Italia avesse due pesi e due misure?
Viviamo finalmente in un mondo di eguali, dove nessuno protesta più, perché non esistono più le classi sociali? La Sinistra italiana si è così emancipata che per esternare il dissenso, nel rispetto della pluralità democratica, delle istituzioni e della non violenza, (salvo poi, invocarla, quando si tratta di liquidare sparute situazioni riluttanti) non ha bisogno neanche più dei finti carrozzoni organizzati dai sindacati confederali?
La collettività ha interiorizzato così tanto senso di responsabilità cittadinista che ha deciso di abbandonare, una volta per tutte, vetuste idee utopiche di cambiamento, a favore dell’accettazione dell’attuale realtà storica di sfruttamento, secondo un sano principio di pragmatismo etico?
Al di là delle battute, forse sì. Avranno contribuito sicuramente 20 anni di Berlusconismo e il conseguente rincoglionimento televisivo a darci la mazzata finale, ma sembra che nel nostro paese si siano veramente avverate le più fosche previsioni distopiche.
Il Belpaese è sempre più popolato da zombi. Sembriamo essere diventati il più avanzato laboratorio di sperimentazione del controllo sociale da parte dello Stato e del capitale, i cui cittadini, lobotomizzati attraverso la tecnocrazia digitale, vengono direzionati a piacimento, secondo il modello della rete.
Milano, luglio 2016