indice n.113
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i lager
brennero, 7 MAGGIO: UNA GIORNATA DI LOTTA
Lettera dal carcere di Rossano (cs)
Lettere dal carcere di Milano-Opera
lettera dal carcere di parma
sull’isolamento di davide delogu
Cartolettera di Davideddu dal carcere di agrigento
Lettera dal 41bis di Spoleto
La galera sotto il segno del 41bis: memoria
Roma: resoconto del presidio davanti al dap del 13 maggio
L’Aquila, sabato 25 giugno 2016: presidio in città e sotto il carcere
Lettera dal carcere di Bancali (ss)
Lettera dal carcere di Terni
La vicenda di Antonio Fiordiso: in carcere si tortura
Lettera dal carcere di Massama (or)
1° giugno 2016: Sciopero collettivo dei detenuti
usa: interruzione del lavoro contro la schiavitù carcerariacontro l’ergastolo ostativo
Sulla conclusione del processo per il 15 ottobre romano
le pene alternative non sono così poi alternative
La Francia e noi. 5 brevi riflessioni
Modena, contro fascismo, razzismo, per la casa
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i lager
Lampedusa brucia ancora!
Nella notte del 17 Maggio, intorno alle 22,30 si è diffusa la notizia di un incendio nel hotspot di Lampedusa. Nel centro, che ha una capienza massima prevista di 500 persone, erano presenti 531 persone. Si è trattato di una rivolta dei reclusi, che hanno messo a fuoco materassi e arredi di un padiglione, già distrutto in passato dalle proteste dei migranti nel 2009 e 2011 e che sono stati fermati dall’intervento della celere. Da giorni a Lampedusa i/le migranti protestavano contro le identificazioni forzate e per poter lasciare l’isola.
Per opporsi all’ennesima deportazione aerea hanno scelto di rivoltarsi. Dai media apprendiamo che il padiglione incendiato, uno dei tre presenti nella struttura, è stato completamente distrutto dalle fiamme e dichiarato inagibile. Non ci sono feriti, ma le forze dell’ordine hanno fermato 4 persone la notte del 17 e altre la mattina del 18 maggio, perché accusate di aver appiccato l’incendio; nella mattina del 18 tutti loro venivano già imbarcati verso Porto Empedocle per poi essere imprigionati nel carcere Petrusa di Agrigento, con accuse pesanti: incendio, tentata strage, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Altre 150 persone sono state trasferite con il traghetto di linea dall’hotspot di Lampedusa a Porto Empedocle (Ag). Nel centro restano 360 persone.
qui di seguito il comunicato che hanno scritto e diffuso all’inizio del mese di maggio.
“Noi siamo profughi/rifugiati siamo venuti qui perché scappiamo dai nostri paesi in guerra, i paesi da cui proveniamo sono Somalia, Eritrea, Darfur (Sudan), Yemen, Etiopia. Il trattamento che riceviamo nel campo di Lampedusa è inumano (ci sono stati anche casi di maltrattamento da parte delle forze dell’ordine per il forzato rilascio delle impronte digitali). Se non lasciamo le impronte gli operatori della gestione del centro sono aggressivi verbalmente e fisicamente nei nostri confronti, ci sono discriminazioni per la distribuzione dei pasti e ci vietano di giocare a pallone nel cortile.
I materassi sono bagnati dall’acqua che esce dai bagni e questo può causarci anche malattie. Ci sono minori, donne incinte e persone con problemi d i salute che non ricevono le cure adeguate. Siamo a Lampedusa, chi, da 2 mesi, chi, da 4 mesi. Finché non ci daranno la possibilità di andare via da questa prigione in un luogo in cui ci sono condizioni di vita più dignitose ci rifiuteremo di dare le impronte. Siamo venuti per il bisogno di libertà, umanità e pace che pensavamo ci fosse in Europa. Non vogliamo essere rinchiusi in una prigione senza aver commesso reato, vogliamo una vita più dignitosa e provare ad avere protezione dato che scappiamo da situazioni che ci mettono in condizioni di rischiare la vita. Lasciare le impronte in queste condizioni non ci lascia la libertà delle nostre scelte future come ad esempio potersi ricongiungere ai propri familiari o comunità già presenti negli altri paesi. Vogliamo andare via da lampedusa per avere la protezione che cerchiamo scappando dai nostri paesi. Molti di noi sono in sciopero della fame e della sete e non smetteranno finchè non saranno soddisfatte le nostre richieste”.
Milano: via Corelli diventa tendopoli
La situazione degli arrivi a Milano mette in emergenza la città vetrina che si adopera per mentenere sotto controllo le strade e i quartieri dal centro alla periferia. Non potendo più contare sui posti resi disponibili dai vari enti preposti all’accoglienza, si amplia l’ex Cie ora CARA di via Corelli. L’ultima settimana sono stati 600 gli arrivi a Stazione Centrale, da qui scatta l’allarme, gestito dalla protezione civile, che ha già disposto nuove tende nei cortili di Corelli. Non è ancora chiaro come pensano di gestire tale sovraffollamento, qui le parole tratte da repubblica.it: “L'ex caserma ha nella parte in muratura quasi 300 posti letto, divisi in camerate. Nel grande cortile sono stati poi montati alcuni prefabbricati, che ospitano un altro centinaio di persone. Di fronte all'emergenza in corso però si è deciso di accrescere ulteriormente la capacità del centro allestendo la tendopoli. Le tende sono quelle blu della protezione civile, come quelle che ospitano altri 400 migranti nel campo vicino all'aeroporto militare di Bresso.”
Le tendopoli a Milano diventano quindi due, una a Corelli, una a Bresso e il prefetto Marangoni sta vagliando possibili ampliamenti a Garbagnate, Legnano e Peschiera Borromeo. La super leghista Legnano si è già detta contraria, a confermare le sue posizioni razziste. Rimane quindi la necessità di ampliare i posti disponibili per l’accoglienza, che con l’ultimo bando di assegnazione arrivano a 2.500 per la città di Milano, ma centri e tendopoli varie sono già sovraffollate, rendendo infernale la vita di chi è costretto ad abitarle. Il Naga recentemente ha denunciato le condizioni di vita del campo di Bresso: "La struttura è sovraffollata, c'è degrado, poca assistenza, tutti si lamentano perché non arriva il trasferimento da quella tendopoli che dovrebbe essere solo un cento di smistamento. C'è chi rimane lì per mesi, in attesa, senza sapere nulla del suo destino".
Roma: protesta allo SPRAR di via Tiburtina 994
La protesta è iniziata martedì 10 maggio, con la scelta dei migranti di autogestire il centro in cui sono costretti a vivere, allontanando gli operatori. Le motivazioni e le rivendicazioni dei ragazzi si riferivano sia a condizioni di vita materiali (ritardo pagamento pocket money, mancata consegna degli abbonamenti dei mezzi pubblici e dei kit per l’igiene personale…), sia alla gestione delle loro vite da parte della cooperativa, ma soprattutto all’attesa indeterminata dei documenti, che obbliga molti di loro nella struttura da oltre 3 anni.
Alle proteste precedenti avvenute in questo Sprar sono seguiti gli allontanamenti di alcune persone, individuate dalla cooperativa come responsabili. Anche in questo caso, infatti, ci sono state 34 denunce a carico dei migranti per interruzione di pubblico servizio e violenza privata, tramite una lista di nomi fornita dalla cooperativa. I migranti del centro sono scesi in strada con dei cartelli, dove si poteva leggere: “vogliamo i nostri diritti”, “siamo senza documenti da 9 anni”, e anche “non vogliamo più Eta Beta”. Quest’ultimo il nome della cooperativa che con bando del comune ha in carico la gestione dello Sprar. La protesta di martedì ha significato sicuramente un momento di rottura forte con la cooperativa e con il sistema di gestione chiamato accoglienza. Anche in questa occasione, operatori e attivisti (Communia, Esc, Clap) hanno cercato di accomunare le vertenze sindacali alle lotte dei migranti, utilizzando il momento di contrapposizione alla cooperativa per proporre un ennesimo confronto con le stesse istituzioni responsabili delle condizioni delle persone in lotta. I migranti hanno rifiutato questa proposta in quanto consapevoli che gli operatori sarebbero stati gli unici interlocutori della trattativa e che la situazione sarebbe stata destinata a non risolversi definitivamente a causa della mediazione al ribasso da parte degli attivisti. Ancora una volta si è mostrata la tendenza a considerare i migranti delle persone incapaci di prendere delle decisioni autonome: mentre la loro volontà era di portare avanti la protesta con un picchetto permanente, nonostante i continui ricatti insiti nel sistema della richiesta d’asilo, veniva inoltre agitato lo spauracchio del CIE per intimidirli e convincerli a orientare diversamente la lotta.
Domenica 15 maggio probabilmente il Pigneto sarà teatro dell’iniziativa di RetakeRoma che metterà al lavoro (gratuito) persone costrette nel circuito degli Sprar. Nella più normalizzata divisione sessista dei ruoli, gli uomini puliranno il quartiere e le donne cucineranno: decoro e legalità sono le parole d’ordine. Questo si inserisce all’interno di un progetto più ampio di categorizzazione delle persone migranti per favorirne la criminalizzazione, attraverso la differenziazione tra buoni (richiedenti asilo) e cattivi (senza documento ed extralegali).
Il 2 giugno saremo all’isola pedonale del Pigneto dove da più di due anni il feroce attacco dello Stato, tra rastrellamenti e militarizzazioni, è richiesto a gran voce anche da una parte della cittadinanza. Daremo vita a un momento di discussione sulla gestione delle persone migranti da parte dell’Europa e lo sfruttamento tramite il ricatto del lavoro gratuito. Il 4 giugno, come ogni mese, saremo al CIE di Ponte Galeria a fianco delle persone recluse, in un momento in cui lo Stato sta ristrutturando e fortificando il lager a seguito delle rivolte che ne hanno distrutto una parte. (Da un comunicato a firma “nemici e nemiche delle frontiere”).
Taranto: aggiornamento sull’hotspot
Dopo quasi due mesi di funzionamento, un breve aggiornamento sull’hotspot di Taranto. L’iniziale gara di appalto per l’affidamento del centro è stata contestata da alcuni partecipanti, per cui attualmente l’hotspot è commissariato ed è gestito dal Comune di Taranto su incarico diretto della Prefettura. Responsabili sul campo sono la Polizia Municipale e la Protezione Civile, con l’ausilio della Croce Rossa e di associazioni e cooperative individuate direttamente dal Sindaco. Direttore dell’hotspot è Michele Matichecchia, comandante della Polizia Municipale. Mentre fra le associazioni, la più attiva sembra essere la cattolica Noi e Voi (Associazione di Volontariato Penitenziario Noi e Voi, già impegnata in progetti di “reinserimento” per i detenuti del carcere cittadino).
La capienza prevista è di 400 posti, ma dalle cronache si nota che il numero di persone presenti è sempre superiore a tale cifra. Com’era prevedibile, sin da subito sono state disattese le direttive ministeriali in base alle quali gli immigrati vi dovrebbero essere trattenuti per un massimo di 72 ore e poi, espletate le schedature, trasferiti in altre strutture (CIE o centri di seconda accoglienza). Se nella fase di avvio della gestione del centro è stato messo in pratica il trattenimento di tutti gli stranieri per due e più settimane, dopo la fuga del 13 aprile – quando circa ottanta immigrati scavalcarono le recinzioni disperdendosi per la città – ora c’è in campo una differenziazione di trattamento. Chi accetta di essere identificato (foto-segnalamento e impronte digitali) ottiene un tesserino e di giorno può uscire dal centro in attesa di essere trasferito, generalmente all’hub di Bari. Chi rifiuta di farsi identificare – e si è saputo di un gruppo di immigrati in questa situazione – è trattenuto nell’hotspot per almeno due settimane, senza poter disporre del telefono e altri effetti personali. Poi se ribadisce il proprio rifiuto (ci saranno dei tentativi di convincimento?) viene cacciato dalla struttura con il foglio di via dall’Italia; probabilmente evita il CIE perché dopo le ultime rivolte e danneggiamenti la possibilità di reclusione in quei centri si è notevolmente ridotta. Un ruolo fra gli ingranaggi di questa nuova macchina di reclusione se l’è ritagliato anche l’AMAT, l’azienda municipalizzata dei trasporti pubblici di Taranto, che ha messo a disposizione mezzi e autisti per il trasporto dall’hotspot alla questura, dove vengono emessi i fogli di respingimento differito, ma pure per la caccia all’uomo scatenata dalle forze dell’ordine per catturare e riportare nell’hotspot gli ottanta fuggitivi del 13 aprile.
A costo di essere ripetitivi, continuiamo ad affermare che quanti partecipano alla gestione e al funzionamento delle galere per stranieri – dalle associazioni cattoliche alle cooperative ed alle amministrazioni di destra e di sinistra – hanno compiti esclusivamente di tipo carcerario. L’umanitarismo che spesso professano serve solo a mascherare interessi, di tipo economico o politico, di un settore in costante crescita: la gestione e il controllo delle eccedenze umane in condizione di emergenza. Un buon proposito resta quello di non rendere facile, a questi figuri, di continuare nel loro lavoro di secondini.
Ventimiglia: deportazioni e fogli di via
Non c'è stato alcuno sgombero del campo di Ventimiglia. È bastata la minaccia di un'azione di forza della polizia a far ripiegare il campo di fortuna sorto qualche settimana fa sulle rive del fiume Roya. È evidentemente la scelta di una comunità fragile, poco sicura di se stessa perché nata in mezzo alle ostilità, in quest'europa in guerra. I/le migranti in viaggio hanno sperato fino all'ultimo che di fronte a una scelta tanto umile l'intervento militare non ci sarebbe stato.
Domenica 29 aprile quindi all'ora indicata dall'ordinanza del sindaco Ioculano migranti e solidali si trovavano in spiaggia, in assemblea, a discutere di dove andare, come rimanere visibili, come riuscire a rimanere a Ventimiglia senza essere deportati. Ai telefoni dei/delle solidali presenti cominciano a giungere telefonate allarmanti. Avvocati, associazioni e altre fonti sono unanimi: ci sono almeno 150 uomini delle forze dell'ordine a Imperia che si preparano ad una grossa operazione. Pullman e aerei sono pronti per il giorno successivo.
L'assemblea ricomincia e alla scelta di resistere prevale il bisogno di protezione. Non tutti sono d'accordo, ma alla fine ci si dirige verso la chiesa più vicina. L'idea è di occuparla senza mediazioni. Le porte della chiesa vengono chiuse, si prova a forzare e il prete pare spaventato, ma poi interviene il Vescovo, di nuovo lui, Suetta, che quando le cose precipitano è sempre pronto a metterci una buona parola.
Molte persone, circa duecento, trovano quindi rifugio in chiesa. In città ce n'è almeno un altro centinaio. In molti non ci stanno e si dirigono verso il confine, altri provano a nascondersi in città. Diversi solidali, vista la situazione, preferiscono restare in strada e continuare a monitorare quanto accade. Si smonta il campo in spiaggia e si cerca comunque di supportare i/le migranti in chiesa. La loro scelta non piace a tutti/e, ma sebbene sia evidente la difficoltà a costruire insieme un discorso collettivo non schiacciato dalla paura, rimane la determinazione di tante persone a non andarsene da Ventimiglia.
Lunedì 30 aprile, alla mattina, poco prima delle 6, è scattata l'operazione di "sgombero" della città. La situazione è grottesca: squadroni di carabinieri, militari, agenti di polizia e della guardia di finanza sfilano per la città dando la caccia ai/alle migranti. Gruppi di almeno una ventina di agenti rastrellano e inseguono poche persone che si nascondono o che non sanno nemmeno cosa stia succedendo.
Una disparità di forze terribile e agghiacciante. La città è militarizzata. I controlli si concentrano dapprima nella zona della spiaggia, della stazione e nel lungo Roia. Le persone vengono fermate, alcune chiuse dentro la sala d'attesa della stazione e viene loro tolto il telefono. Verso le 9 del mattino parte il primo autobus pieno di persone senza documenti, pare diretto verso qualche centro vicino a Ventimiglia.
Per tutto il giorno tra la frontiera alta e la città continuano questi rastrellamenti. Vengono fermate le persone che arrivano con il treno da Genova. Altri due autobus partono verso le 13, questa volta la direzione è Genova dove ad aspettarli pare ci siano dei voli della Mistral Air, compagnia area delle Poste Italiane, diretti verso i cara di Mineo e di Bari. Gli ultimi due autobus partono, invece, verso le 16 in direzione dell'autostrada. Non è chiara quale sia la loro meta.
La situazione in stazione a Ventimiglia torna alla normalità: nel corso del pomeriggio i rastrellamenti avvengono direttamente a Genova Principe, dove almeno una decina di persone sono state fermate. Dopo il primo giorno di rilancio del piano Alfano la strategia delle autorità appare la stessa di qualche settimana fa: deportare le persone senza documenti presenti a Ventimiglia e bloccare nuovi arrivi in città. Solo che a questo punto il fallimento di questa politica razzista e violenta può essere mitigato dal protagonismo di santa romana chiesa.
In chiesa le assemblee si susseguono, mentre le notizie di quanto accade a Ventimiglia riempiono i media locali e nazionali. Le cronache dicono che le operazioni di polizia scorrono tranquille, come se la pulizia etnica di una città fosse ordinaria amministrazione. Il resto della scena è tutta del vescovo Suetta, sempre pronto alle emergenze, che propone una tendopoli nel giardino del seminario gestita da Croce Rossa e Protezione Civile. Le tendopoli poi diventano tre, ma in realtà si sa ancora poco delle trattative tra Vescovo, Sindaco e Prefetto. Suetta sembra non aver alcun problema a stare allo stesso tavolo dei responsabili delle deportazioni in corso.
I limiti di queste giornate sono evidenti. La scelta dell'assemblea è stata più un'espressione del bisogno di protezione e della volontà di superare il confine, che una scelta politica. Chiesa cattolica e Croce Rossa hanno mostrato un attivismo già visto in passato e stanno continuando a spostare il discorso pubblico sui bisogni, eludendo la questione centrale, quella del confine e della sua chiusura e guardandosi bene dal denunciare violenze e deportazioni, a cui peraltro la CRI ha spesso e volentieri partecipato. Per la polizia la giornata è stata fin troppo tranquilla, con duecento persone protette dalla chiesa non restava che rastrellare le strade prendendo i/le migranti in piccoli gruppi e aspettando quelli/e che arrivavano in stazione.
Restano comunque delle possibilità. Le persone rifugiate in chiesa sono sfuggite alla deportazione e da due giorni sono in assemblea permanente con i/le solidali presenti. Domani si dovrà uscire da quella maledetta chiesa e a quel punto si capirà meglio dove va la determinazione delle persone in viaggio e di chi le supporta e fino a che punto le autorità sono disposte ad arrivare pur di tener fede ai loro propositi razzisti. La strategia del governo è fallimentare, su questo non ci sono dubbi, e le persone continueranno ad arrivare a Ventimiglia e a bruciare il confine, tutti i giorni.
Post scriptum: mentre finiamo di scrivere queste righe la polizia è entrata dentro la chiesa dove si sono rifugiate le persone senza documenti e ha preso tutte le/gli europee/i solidali. Quindici persone sono state portate nella caserma di polizia e stanno subendo una perquisizione personale ed un identificazione fotodattiloscopica. Sono stati successivamente emanati fogli di via per molti/e solidali.
La frontiera è ovunque, fermare le merci per fare passare le persone, bloccare tutto, inceppare la macchina delle espulsioni!
Alcune/i solidali di Ventimiglia e dintorni al fianco di chi viaggia, contro ogni frontiera.
Torino: resistenza dei migranti e dei solidali e repressione ossessiva
Nelle giornate del 20, 21 e 22 maggio si è svolto un incontro di discussione e lotta, che ha visto la partecipazione di diversi compagni da diversi luoghi d’Italia e da Parigi, Calais e Vienna. Gli incontri vogliono sollevare alcuni nodi critici, teorici e pratici, e i limiti incontrati nelle lotte con i migranti e immigrati che, nell'ultimo anno in particolar modo, si sono sviluppati in varie parti d'Italia e non solo. In pratica sentiamo il bisogno di riprendere una discussione riguardo questi argomenti specifici, senza per forza dover trovare una sintesi di analisi e di intenti ma piuttosto un terreno di confronto fertile nel quale poterci ritrovare nei mesi a venire. Queste le domande intorno alle quali è ruotata la discussione:
- L'arrivo massiccio di immigrati previsto nei prossimi mesi potrebbe ricreare durante l'estate prossima una situazione simile a quella vissuta l'anno scorso a Ventimiglia, dove si stanno già ammassando centinaia di profughi. La chiusura della frontiera austriaca sta ostacolando il passaggio verso il Nord-Europa deviando, probabilmente, i flussi provenienti dai Balcani e dal meridione, verso il confine nord-occidentale. Come poter immaginare un intervento di lotta che tenga conto delle contingenze pratiche che tali situazioni creano? Come portare avanti una solidarietà attiva con i migranti stessi senza scadere in dinamiche assistenziali ma rilanciando piuttosto percorsi di lotta e complicità? Quali limiti e quali possibilità offrono questi spazi nati attorno a una situazione d'emergenza?
- L'enorme flusso di migranti viene fatto transitare negli Hotspot di recente apertura, che fungono da filtri attraverso i quali decidere della destinazione di ogni migrante, e in seguito incanalato verso strutture di seconda accoglienza quali gli Sprar, i Cas e i Cara. Questi luoghi esistono da parecchi anni ma nell'ultimo periodo si stanno moltiplicando per far fronte a un numero sempre maggiore di richiedenti asilo. La retorica dell'accoglienza, utilizzata per giustificare l'esistenza di tali strutture, nasconde una complessa rete di appalti nella quale si inseriscono cooperative e imprese che incassano lauti guadagni nella fornitura di servizi. E non solo. Il “parcheggio” offerto ai richiedenti asilo costringe molti a sottostare a un percorso di integrazione, reale o meno, costruito attorno ad attività educative e prestazioni lavorative di sfruttamento. A margine di questi percorsi ufficiali le strutture di seconda accoglienza rappresentano in molti casi un bacino di manodopera sottopagata da utilizzare nei lavori agricoli, nei cantieri o nei ristoranti, dove il caporalato trova ampi spazi di manovra. Quali possibilità di intervento contro cooperative, ONG, associazioni o enti che gestiscono tali strutture? Come intercettare momenti di conflittualità messi in atto dagli stessi migranti e in che modo poter intervenire? Come ci si può contrapporre alla propaganda dell'accoglienza mettendone in luce le contraddizioni più profonde e le sue finalità di controllo?
- I Cie sono l'ultimo luogo di transito per gli immigrati in attesa di espulsione, catturati durante le retate oppure provenienti dal carcere, dai luoghi di sbarco o di frontiera. Anche se la gestione dei Cie cambia a seconda della loro localizzazione e dei vari gestori che li hanno in appalto, negli ultimi anni tali strutture tendono a diventare sempre più simili a delle galere: la repressione interna a suon di controlli serrati, reparti di isolamento, privazione dei telefoni per comunicare con l'esterno, conferma questa ipotesi. Nonostante ciò le rivolte e le evasioni dei reclusi rimangono un esempio lampante di come poter chiudere questi Centri. La gestione dei servizi è una fonte costante di guadagno per ditte ed enti, talvolta i medesimi sia per i Cie che per i centri adibiti alla seconda accoglienza. Come poter sostenere dall'esterno le rivolte dei reclusi e come portare avanti anche in maniera autonoma la lotta contro i Cie?
I partecipanti a questa tre giorni hanno attraversato in corteo Piazza della Repubblica, durante il Balon del sabato mattina, e le strade di Aurora, dove i controlli e le retate dei senza-documenti sono all’ordine del giorno. Nel corso del corteo con scritte sugli autobus, manifesti sui muri e interventi al megafono è stata ribadita la necessità di organizzarsi assieme per resistere alle forze dell’ordine e sono stati ricordati alcuni tra i responsabili delle deportazioni, come Poste Italiane proprietaria della compagnia aerea Mistral Air particolarmente attiva nelle espulsioni.
Domenica pomeriggio si è invece svolto un rumoroso presidio sotto il Cie di Corso Brunelleschi, difeso per l’occasione da più di un centinaio di celerini e agenti in borghese. Oltre ai soliti petardoni e interventi al microfono sono state lanciate anche molte palline da tennis oltre le mura del Centro, cosa che non accadeva ormai da mesi visto che gli ultimi tentativi erano stati subito ostacolati dalle forze dell’ordine presenti. Il presidio si è poi concluso con un corteo lungo via Monginevro seguito da lontano dai blindati e dai cordoni della Celere.
A concludere questa tre giorni contro le frontiere è stata quindi la polizia politica su mandato del Tribunale torinese. Per una contestazione avvenuta lo scorso ottobre contro la Ladisa, azienda che si occupa della distribuzione di pasti al Cie, dodici compagni si sono visti notificare ieri mattina un divieto di dimora dal comune di Torino. Una denuncia per violenza privata in concorso e una per deturpamento - dato che nel corso della contestazione sono stati versati all’interno degli uffici della Ladisa dei secchi di letame - sono bastate ai giudici per disporre il loro allontanamento. Banditi dalla città perché, conclude il Gip, a causa della loro ostinazione altre misure non riuscirebbero ad allontanarli dalle lotte. Una strategia, quella dei divieti di dimora, da minimo sforzo e massimo risultato per le autorità cittadine. Con l’utilizzo di una misura cautelare minore, la cui notizia non fa fragore come quella di un arresto, toglie di mezzo, dalla geografia cittadina, braccia e teste impegnate nella ricerca quotidiana delle possibilità di confliggere, organizzarsi insieme, immaginare qualcosa di radicalmente altro. Una misura che non dura solo alcuni mesi, ma essendo considerata lieve può essere rinnovata per più di un anno, e dunque costringe le persone toccate a prendere le valigie e inventarsi un motivo per vivere altrove.
Torino: dal CIE di C.so Brunelleschi
Hassan, da due mesi rinchiuso nel Cie torinese, si vede prelevato una mattina di fine aprile per essere espulso: manette di velcro a mani e piedi viene caricato in auto, direzione aeroporto di Malpensa dove viene portato sull’aereo di linea scortato da quattro poliziotti. Ma lui di tornarsene in Marocco proprio non ne vuole sapere e così comincia a lamentarsi, ad agitarsi provando a resistere all’espulsione. Tanto dice e tanto fa che riesce ad attirare l’attenzione di alcuni viaggiatori, dell’equipaggio e del pilota che decide di non volare con un uomo legato e in quelle condizioni. Hassan viene quindi fatto scendere dall’aereo e portato in uno stanzino dell’aeroporto dove viene malmenato dagli scontenti poliziotti che lo accompagnavano; quindi viene riportato al Cie di Torino e messo in isolamento. Ma le botte prese fanno male e Hassan chiede a gran voce di essere portato in ospedale per accertamenti. Come sempre accade le orecchie degli operatori interni al Cie e della polizia sono sorde alla richiesta e così Hassan e i suoi compagni di reclusione cominciano a chiamare il Pronto Intervento per far arrivare un’ambulanza. Anche i solidali fuori, avvisati della situazione, si mobilitano e il centralino del 118 continua a ricevere richieste di intervento. Alla fine un’ambulanza arriva alla porta del Centro ma non viene fatta entrare; operatori e polizia continuano a sostenere che nessuno ha bisogno di cure ospedaliere, anche quando Hassan ingerisce delle monete in segno di protesta. Quello di cui invece hanno bisogno i gestori del Cie è la quiete e così in risposta al trambusto creato per avere una visita in ospedale decidono di sequestrare il telefono al ragazzo. Hassan però non ci sta e spacca un televisore minacciando di fulminarsi con i cavi. Come tutta risposta viene arrestato con l’accusa di danneggiamento e trasferito alle Vallette. Qualche giorno fa ha avuto la direttissima e il giudice ha deciso di liberarlo con l’obbligo di soggiorno a Torino e il rientro notturno. Una storia come tante dicevamo, ma con un finale che anima delle riflessioni. Sì perché la determinazione e il coraggio di Hassan, la solidarietà dei suoi compagni di reclusione e di quelli fuori ha fatto sì che le porte del Cie prima e del carcere poi si chiudessero dietro di lui, restituendogli una seppur limitata libertà. La lotta paga, insomma e a noi non può che far piacere sostenere coloro che, soli o in compagnia, non si arrendono al destino loro imposto ma cercano invece una via verso la libertà.
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Versavia: appello per le giornate AntiFrontex, 21-23 maggio
Quest’anno più che mai abbiamo bisogno del vostro supporto per dire NO alle politiche migratorie dell’Unione europea e alle attività criminali della sua agenzia di controllo delle frontiere, Frontex.
La chiusura delle frontiere della ricca Europa per escludere i paesi del Sud e dell’Est – saccheggiati e tenuti in condizioni di povertà – mira a preservare le disuguaglianze su entrambi i lati. Le frontiere non funzionano solo verso l’esterno. La stretta sui confini provoca una crescente limitazione dei diritti delle persone e della libertà anche qui, in Europa. Spostare il “problema” della migrazione su paesi come la Turchia, ignorare la morte di migliaia di persone nel Mediterraneo, la detenzione di coloro che cercano aiuto e una vita migliore in Europa, sono direttamente collegati col preservare il capitalismo come sistema, nella sua variante più sanguinaria.
Le condizioni di lavoro per coloro che sono impiegati illegalmente in Europa, su scala di massa, spesso non sono differenti dalla schiavitù. Solo una piccola percentuale di coloro che richiedono l’asilo ottengono i documenti che consentono loro di sfuggire al destino di lavoratori illegali. Mantenere i migranti in una posizione precaria serve solo allo sfruttamento economico, rende possibile liberarsi rapidamente di loro ogni volta che reclamano un qualsiasi loro diritto e permette contemporaneamente di mantenere bassi i salari per i lavoratori locali che possono sempre essere sostituiti da lavoratori sottopagati illegali. L’isteria anti-migranti in tutta Europa rappresenta un cinico gioco politico il cui scopo è quello di mantenere il potere e il privilegio dei pochi benestanti.
Da alcuni anni a Varsavia, in occasione dell’anniversario della nascita dell’agenzia Frontex, che coincide con quello dell’omicidio razzista di Max Itoya, un’alleanza di gruppi e attivisti in solidarietà con i migranti organizza le giornate AntiFrontex. Quest’anno non vogliamo limitare le azioni alla capitale della Polonia, dove si trova il quartier generale di Frontex. Vogliamo invitare vari gruppi e le persone in luoghi diversi ad esprimere la loro solidarietà con i migranti e i lavoratori.
Le date dal 21 al 23 maggio devono essere giornate di opposizione alle politiche di Frontex e della UE nei confronti dei rifugiati. Vi invitiamo ad organizzare azioni di solidarietà nelle vostre località, in modo da poter tutti essere in grado di diffondere il nostro mancato consenso al discorso del potere dominante.
NO al regime delle frontiere a alle politiche di sfruttamento!
(da Migracja.noblogs.org)
Appello alla mobilitazione internazionale del collettivo “Soutien Migrantes 13” di Marsiglia contro l’accordo UE-Turchia
Dopo aver consegnato i migranti ai “passeurs” e reso la Grecia una trappola di rifugiati, rifiutando ostinatamente di aprir loro mezzi legali di accesso al proprio territorio e avallando la chiusura della rotta dei Balcani, l’Unione europea è impegnata oggi in un vero e proprio baratto della vergogna. Con l’accordo tra l’UE e Turchia saranno massicciamente rinviati in Turchia tutti i migranti che hanno raggiunto la Grecia dal Mar Egeo nelle peggiori condizioni e rischiando la vita, e che a seguito di una indagine dubbia si vedono arbitrariamente negare la copertura legata all’asilo.
Le aree “sensibili” cambiano e sono definite solo in funzione degli interessi specifici dell’Europa, opponendo “zone di guerra” ad aree di povertà, create dalle guerre economiche delle potenze imperialiste, che sostengono dittature per garantirsi l’accesso ai mercati e alle risorse. E oltre alle espulsioni spettacolari, ci sono strumenti più insidiosi per per spingere i migranti a partire di loro sponte come la detenzione a ripetizione, per mesi o addirittura anni, negli “hot-spots” alle frontiere d’Europa o nei centri di detenzione al suo interno, dove sono sottoposti a violenze, torture, costanti umiliazioni e mancanza di accesso alle cure. In questa corsa agli egoismi xenofobi, un’altra vergogna sta emergendo: per arrivare ai suoi fini, l’Europa accetta di trattare con un Paese che viola apertamente le libertà individuali e collettive più fondamentali, che è in guerra contro il proprio popolo. Mentre l’UE si appresta a pagare miliardi di euro, come prezzo per questo baratto di migranti, la Turchia copre con il silenzio la violenza inflitta agli oppositori del regime: tutti conoscono i bombardamenti e massacri subiti dai curdi, tutti ormai sanno che la stampa d’opposizione è completamente imbavagliata e che l’epurazione delle università e della magistratura sono in corso. L’Unione europea dà 6 miliardi di € a uno Stato che è noto per armare jihadisti, continuando allo stesso tempo a diffondere ovunque la confusione nauseante tra terrorismo e migrazione. L’accordo ha già provocato la morte di diverse centinaia di migranti nei pressi della costa egiziana, passaggio ancora più pericoloso per evitare la Turchia. Ma i leader delle “democrazie occidentali” preferiscono raccogliere i cadaveri, piuttosto che accogliere l’esilio.
Distruggiamo l’intesa tra questi stati razzisti e polizieschi! Autodeterminazione dei popoli e degli individui!
Spagna: chiamata per una giornata di lotta lunedì 16 maggio
Se chiudono le frontiere, blocchiamo le strade!
Poche settimane fa, un gruppo di residenti dell’Alt Urgell ha creato la piattaforma di supporto con i rifugiati dell’Alt Urgell. Dopo aver visto con impotenza, tristezza e rabbia, un giorno dopo l’altro, l’azione vergognosa da parte dell’Unione europea che blocca e militarizza i suoi confini, permettendo e causando la tragedia dei rifugiati e migranti in fuga dalla guerra e dalla miseria, causata e alimentata dagli interessi economici della stessa Unione europea, abbiamo deciso di organizzarci. Da allora ci siamo mobilitati ogni domenica bloccando la strada che porta ad Andorra, bloccando la frontiera, come mezzo di pressione al fine di forzare la UE ad aprire le frontiere. È un’azione che richiede pressione, è chiaro che da soli sarà impossibile aprire i confini. Ecco perché facciamo un appello ad estendere i blocchi stradali e a farlo in modo coordinato. Per avere un maggiore impatto proponiamo la data del pomeriggio di lunedi 16 maggio, in coincidenza con l’ultimo dei tre giorni di vacanze in Catalogna. Chiediamo a tutti i collettivi di supporto ai rifugiati e migranti, alle brigate e alle organizzazioni politiche e sociali di unirsi ai blocchi. La situazione è totalmente insostenibile e giorno dopo giorno sempre più morti si accumulano sul fondo del Mediterraneo. Non possiamo continuare a permettere questo genocidio. Se bloccano le frontiere, blocchiamo le strade.
Milano, giugno 2016
brennero, 7 MAGGIO: UNA GIORNATA DI LOTTA
Non doveva essere una giornata di testimonianza. Non è stata una giornata di testimonianza. Ci sono donne e uomini che non vogliono accettare barriere, filo spinato, detenzione amministrativa, immigrati che muoiono in massa alle frontiere di terra o di mare, campi di concentramento. All'interno di una giornata di lotta internazionale – con cortei in diversi paesi e varie iniziative anche in Italia, di cui cercheremo di fare un resoconto – al Brennero varie centinaia di compagne e compagni si sono battuti. Difficile immaginare un contesto più sfavorevole di un paesino di frontiera con una sola via di accesso. Quelle e quelli che sono venuti lo hanno fatto col cuore, consapevoli che nella battaglia contro l'Europa concentrazionaria che gli Stati stanno costruendo – di cui il confine italo-austriaco è un piccolo pezzo, il più vicino a noi – si paga un prezzo. L'aspetto più prezioso sta proprio qui: nel coraggio come dimensione dello spirito, non come fatto banalmente “muscolare”. Siamo fieri e fiere di aver avuto a fianco donne e uomini generosi, con un ideale per cui battersi.
In tutte le presentazioni della giornata del 7 maggio – e sono state tante – siamo sempre stati chiari: se ci saranno le barriere, cercheremo di attaccarle, altrimenti cercheremo di bloccare le vie di comunicazione, a dimostrazione che il punto per lorsignori non è solo erigere muri, ma gestirli; sarà una giornata difficile.
Lo scopo della manifestazione era bloccare ferrovia e autostrada. Così è stato. Va da sé che se tra una manifestazione combattiva e il suo obiettivo si mette quella frontiera costituita da carabinieri e polizia, il risultato sono gli scontri.
Siamo riusciti a salire al Brennero senza aver chiesto il permesso a nessuno perché lo abbiamo fatto collettivamente, in treno e con una lunga carovana di auto. Abbiamo preso – senza pagarlo – un treno Obb, società ferroviaria responsabile di controlli al viso e di respingimenti. Per gli altri, solo la determinazione a reagire con prontezza ha distolto gli sbirri dai controlli all'uscita dell'autostrada. Le auto che non erano nella carovana sono state purtroppo fermate e i compagni a bordo non hanno potuto raggiungere il Brennero.
Quella di sabato è stata una manifestazione contro le frontiere anche nel senso che erano presenti tanti compagni austriaci. Non sono certo mancati limiti organizzativi e di comunicazione. Tutt'altro. Ma questa è una discussione tra compagne e compagni.
Ci rivendichiamo a testa alta lo spirito del 7 maggio, con la testarda volontà di continuare a lottare contro le frontiere e il loro mondo.
La solidarietà nei confronti dei compagni arrestati, che ora sono di nuovo con noi, è stata calorosa. Nel carcere di Bolzano, i cui detenuti hanno risposto con entusiasmo al presidio di solidarietà, i quattro compagni sono stati accolti come fratelli.
Ciò per cui ci scandalizziamo rivela sempre chi siamo.
Per noi l'orologio danneggiato della stazione del Brennero ha questo significato: che si fermi il tempo della sottomissione.
abbattere le frontiere
10 maggio 2016, da informa-azione.info
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Cortei selvaggi a Bologna in solidarietà agli arrestati per la manifestazione al Brennero
Di rientro dalla giornata al Brennero, in serata, al grido di “Tout le monde déteste la police”, un corteo selvaggio ha attraversato le strade della Bolognina per chiedere l’immediato rilascio degli attivisti arrestati durante il corteo della mattina. Al passaggio dei manifestanti alcuni cassonetti della spazzatura di via Matteotti sono stati ribaltati e alcune transenne sono state divelte provocando qualche disagio al traffico cittadino. Anche nel pomeriggio di domenica le azioni di solidarietà sono proseguite con un breve presidio in piazza Maggiore. Subito dopo in una cinquantina hanno attraversato via Ugo Bassi dove si sono fermati davanti il consolato d’Austria per chiedere ancora una volta libertà per gli arrestati del giorno prima al Brennero. Gli stessi attivisti No border hanno poi proseguito fino in via del Pratello, presidiata da tre blindati della polizia e forze dell’ordine in assetto anti sommossa.
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Cos’è un muro?
Sul “passo indietro dell’Austria rispetto alla barriera del Brennero”
Nella mobilitazione contro la chiusura della frontiera fra Austria e l’Italia abbiamo definito le barriere “l’emblema del nostro presente”. Non c’è dubbio che le dichiarazioni dello Stato austriaco di costruire una barriera al Brennero hanno fatto sì che le intenzioni dei nemici di ogni frontiera si concentrassero lì. C’è un aspetto simbolico-emotivo della realtà (e della lotta) che non va trascurato, perché le sue ricadute sono estremamente pratiche. In tal senso, la giornata del 7 maggio è stata importante, per la sua natura internazionale e la volontà di battersi che ha espresso. I balletti politico-mediatici degli ultimi giorni meritano un paio di ragionamenti. Gli stessi fini (ignobili) si possono ottenere con mezzi diversi: il contenzioso fra autorità austriache e autorità italiane è tutto lì. Si possono controllare e respingere gli immigrati senza intralciare il transito delle merci. Il muro è un emblema, ma un emblema ha un mondo dietro, senza il quale non funzionerebbe. Cerchiamo di spiegare alcuni passaggi per capire come continuare a lottare contro le frontiere e il loro mondo.
Fino a metà marzo, le autorità italiane stavano adeguando le misure da prendere rispetto alla decisione austriaca di “chiudere la frontiera”. Altro che coro di protesta, come scrivono oggi i giornalisti. Le mozioni votate dal consiglio provinciale trentino, ad esempio, prevedevano di intensificare i controlli dei Tir a Sud, per evitare colli di bottiglia al Brennero. Determinare quanto i blocchi di treni e autostrada e la stessa giornata del 7 Maggio abbiano pesato sul preteso dietrofront austriaco non è facile e nemmeno particolarmente interessante. Ma non ci piace neanche passare per fessi. Innanzitutto, i lavori per la barriera al Brennero sono solo sospesi. Un significativo aumento del flusso di immigrati e il rischio di perdere consenso a favore dell’estrema destra potrebbero cambiare la situazione. Intanto, oltre confine, il decreto legge sullo stato di emergenza e sullo schieramento dell’esercito ai confini è passato. Ma c’è dell’altro, ed è ciò che di più conta. Lo Stato italiano sta rafforzando la detenzione amministrativa e costruendo nuovi hotspot (centri di smistamento fra profughi da “accogliere” e irregolari da internare ed espellere). Intanto, i controlli sull’eurocity Milano/Venezia-Verona–Monaco (OBB) sono aumentati. Siamo di nuovo di fronte ai treni dell’apartheid. A Verona sono ripresi i controlli al viso, per cui chi ha la pelle scura fa sempre più fatica a salire sugli OBB. Il ministro dell’Interno italiano si è vantato, nella conferenza della settimana scorsa con il suo omologo austriaco, che nessun “irregolare” arriva in Austria con quei treni. Anche senza muro, dunque, la polizia del Tirolo ha ottenuto ciò che voleva. 50 poliziotti della questura di Bolzano e 60 militari sono impegnati stabilmente in funzione anti-immigrati. È questa la frontiera in movimento che va contrastata, a partire dai suoi collaborazionisti.
Il 7 maggio è stato solo un passaggio. Cosi come la macchina della deportazione si articola sul territorio, che anche i nemici e le nemiche delle frontiere si organizzino.
16 maggio 2016, da abbatterelefrontiere.blogspot.org
Lettera dal carcere di Rossano (cs)
Amici di Olga, spero che state tutti quanti bene, io sto bene, vi scrivo quest’ultima lettera da questo carcere per salutarvi calorosamente e ringraziarvi per la vostra solidarietà e vicinanza in questi anni. Ormai il mio fine pena è vicino. Il 18 maggio dovrei uscire e poi verrò espulso in Marocco.
Avevo fatto un’udienza per “verificare” la mia pericolosità sociale e secondo il Magistrato di Sorveglianza io sono estremamente pericoloso e che le mie condanne, dopo le stragi di Parigi e Bruxelles, sono tardive e strumentali, per questo non potrei rimanere in Italia, il bello è che non ho mai espresso la volontà di rimanere in Italia, semplicemente volevo dimostrare che sono cresciuto e cambiato e che non ho nessun rancore verso l’Italia o gli italiani, ma ormai sono “marchiato”…
Eravamo arrivati ad essere in 21 in questo carcere di 16 celle, alcuni dovevano stare in 2 in una cella per mezza persona, ma adesso hanno aperto a Nuoro un’altra AS2 e qua ora siamo in 12. Siamo rimasti 1 anno con la censura e non mi arrivava nulla. Ogni tanto, se andava bene, mi arrivava da casa una lettera su tre. Ma ormai il peggio è passato e ora devo iniziare una nuova vita. Non so se una volta in Marocco sarò libero o se mi interrogheranno… ma appena posso vi scriverò e, come vi avevo detto in passato ve lo ripeto anche oggi, chiunque di voi vorrà venire a farsi un giro in Marocco è il benvenuto. E’ il minimo che possa fare per ricambiare la vostra solidarietà.
Un grande saluto a tutti. A presto. Jarmoune Mohamed.
11 maggio 2016
Seguono alcuni estratti dall’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Cosenza in risposta alle richieste avanzate da otto prigionieri della sezione speciale di Rossano Calabro.
[…] il magistrato di sorveglianza di Cosenza nell’udienza del 24 marzo 2016 ha preso in esame il reclamo dei detenuti [seguono i nomi degli otto prigionieri] tutti ristretti nella casa di reclusione di Rossano […] hanno inviato una missiva a questo ufficio, lamentando:
1) La mancata fruizione del campo sportivo particolarmente penalizzante in considerazione delle ristrette dimensioni degli spazi destinati all’aria nel reparto ove essi sono detenuti;
2) il mancato funzionamento dei corsi scolastici;
3) il ritardo nella consegna della corrispondenza e in alcuni casi lo smarrimento della medesima.
[…] dall’audizione dei detenuti è emerso che dopo la fissazione dell’udienza sono iniziati i corsi scolastici onde sul punto non è più necessaria una decisione.
Deve considerarsi pacifico, perché non contestato dalla direzione della casa di reclusione, che a seguito dei recenti fatto di terrorismo internazionale, verosimilmente per motivi di sicurezza, i detenuti del reparto di alta sicurezza sottocircuito A.S. 2 con appartenenza Terrorismo Islamico Internazionale non hanno più avuto accesso al campo sportivo esterno. Consta inoltre al Magistrato di Sorveglianza per averlo verificato nel corso delle visite ispettive che gli spazi destinati all’aria per i detenuti appartenenti al sottocircuito di cui sopra sono più piccoli e angusti di quelli degli altri reparti […]
[…] il magistrato ritiene che l’aspettativa (del campo sportivo) non possa assumere la veste di un vero e proprio diritto soggettivo tutelabile […] perché nessuna norma di legge o del regolamento garantisce l’accesso al campo sportivo, prevedendo l’ordinamento penitenziario esclusivamente il diritto di trascorrere all’aria aperta un tempo che non può mai essere inferiore ad un’ora giornaliera. Ciò nonostante, questo Magistrato, anche in considerazione dell’assoluto silenzio serbato sul punto dalla direzione della casa di reclusione che non ha inteso esplicitare in alcun modo le ragioni che hanno determinato l’esclusione dei detenuti islamici dall’accesso al campo sportivo, ritiene di dovere sollecitare la suddetta direzione all’adozione di misure che, pur garantendo le imprescindibili ragioni di sicurezza all’interno dell’istituto, possano almeno in parte soddisfare le esigenze di una più alta qualità delle ore d’aria manifestate dai detenuti islamici.
Quanto infine alla doglianza relativa al ritardo nella distribuzione della corrispondenza deve ritenersi che eventuali ritardi siano conseguenza del provvedimento di visto di controllo cui la corrispondenza dei detenuti medesimi è attualmente sottoposta. Anche in questo caso, non potendo il Magistrato imporre una precisa tempistica nell’espletamento delle attività relative al visto di controllo, può solo raccomandare alla direzione della casa di reclusione l’adozione di tutti gli accorgimenti necessari a che quel provvedimento non incida in maniera eccessiva sul diritto dei detenuti alla sollecita distribuzione della corrispondenza. In definitiva il reclamo per come proposto deve essere rigettato […]
Lo stesso magistrato il 7 aprile 2016 alla richiesta della direzione del carcere di Rossano di proroga del visto di controllo della corrispondenza degli stessi otto prigionieri rinchiusi nella sezione AS2, risponde:
[…] Rilevato che il provvedimento è stato più volte prorogato: che nella richiesta di proroga odierna si riferisce espressamente che i controlli fin qui eseguiti non hanno fatto emergere alcuna circostanza di rilievo sotto il profilo della previsione dei reati e della sicurezza dell’istituto penitenziario; che l’attuale situazione di allarme internazionale dovuta alla recrudescenza del terrorismo di matrice islamica non può comportare, in assenza di soecifici e concreti elementi di sostegno, ad una compressione sine die del diritto alla riservatezza della corrispondenza dei detenuti islamici; che non sussistono i presupposti per un’ulteriore proroga del provvedimento […] Rigetta la richiesta di proroga.
Lettere dal carcere di Milano-Opera
Dentro il carcere di Opera.
- Il dentista per operare vuole essere pagato, così chi non può lascia stare (perde i denti).
- Nel padiglione in costruzione ci saranno 600 posti; dovrebbe essere pronto per la fine dell’anno. Si dice che è per i semiliberi, che ora vengono tenuti (sono circa 100) in una sezione che si dimostra troppo piccola; ora ci sono oltre 100 persone in celle da 4 ma anche da 6 o anche 8 persone.
- Chi sta male sono quelli che hanno l’art. 21: 4 ore di lavoro e le restanti 20 dentro – che non c’è niente; un’altra voce dice che lì lavoreranno tutti. Ho i miei dubbi. 8 anni fa qui c’erano tanti lavori, che poi sono stati chiusi dal nuovo direttore. L’ultima voce è che diventa un carcere a parte dalle sezioni AS1, 2 e 3. Così questo diventa un carcere con 2.000 persone, sarà ancora peggio.
- Lampadine, televisione, materasso si devono comprare, così i tagliandi per le raccomandate e per spedizione pacchi, la scopa e spazzolone per pulire la cella. Passano, al mese, uno straccio e una bottiglia di detergente, che per metà è acqua.
- Chi lavora prende da due a tre euro l’ora, che sono 40 o 50 euro al mese, perché dal salario totale tolgono i 108 euro per il mantenimento carcere; e così rimane una miseria per chi lavora.
- A chi rifiuta il lavoro viene fatto rapporto (che implica la negazione, nel semestre in cui cade la punizione, dei 45 giorni di liberazione anticipata).
- Al I° e II° Reparto, in particolare al “recinto” hanno più ‘libertà’, ma sono più facilmente minacciati per ogni cosa. Non ho accettato queste cose, avrò fatto anche male, non importa, ma ho solo la mia dignità di persona e non voglio essere una marionetta, non l’accetto e non lo accetterò mai, e questo mi porta a non essere visto bene, e mi allunga la mia carcerazione.
- Il Centro clinico non funziona per niente; di come dovrebbe funzionare ha solo il nome. Ci sono 100 posti, poi una piccola sezione del 41bis e AS. Fino a un anno fa ci lavorava un rumeno, le persone venivano trattate abbastanza bene. Ora hanno la loro cucina lì.
- Alla palestra si va quasi tutti i giorni, lì c’è il calcetto, poi c’è anche ogni giorno un passeggio dove si può giocare a pallone.
- Le celle di punizione sono in un reparto a parte, sono 23 e due sono ‘lisce’ e lì non hai niente, neanche i lacci, e di lì esci solo quando parli con lo psichiatra.
- In punizione non hanno la televisione né i fornelli, non possono cucinare, devono mangiare per forza quello che c’è nel carrello del vitto: quasi sempre riso, mezzogiorno e sera, e purtroppo uno deve mangiare per sopravvivere. Adesso lì ci sono due che ci stanno da più di un anno, perché vogliono partire. Ci sono due passeggi, uno lungo 10x5 metri e l’altro 5x5, in testa hanno la rete. Il sole ci batte due ore al mattino, dalle 10,30 alle 12,30. La doccia c’è tutti i giorni dalle 8 alle 11, dalle 13 alle 16.
- L’azienda che fornisce il vitto e il sopravitto ha in mano tutti i carceri della Lombardia; i suoi prezzi sono salati.
- Il reparto 41bis si trova dove c’era prima il femminile, è circondato da un muro di cinta. Ha sala colloqui e cucina dentro. I detenuti che fanno i lavoranti nella sezione 41bis sono tutti stranieri e non dicono niente di particolare, o non vogliono dire niente. Fanno i colloqui martedì, giovedì e venerdì, 6 persone alla volta; chi ha figli piccoli, gli ultimi 10 minuti li può abbracciare. In tanti anni ho visto troppe volte la macchina nera, e molte persone si sono tolte la vita. Solo due volte è uscita la notizia, e poi solo silenzio.
- Chi prende le botte sono quasi sempre gli stranieri; al II° Reparto viene spesso usato il bastone. E le persone stanno zitte, hanno paura di perdere qualcosa che hanno (niente), ma perdono la dignità. Tanti se la cantano anche dicendo bugie per ottenere chi sa cosa. I tempi sono cambiati in peggio.
- Questo pure in Alta Sorveglianza dove tanti hanno fatto il 58ter (ord. pen. ‘collaborazione’) per poter uscire in permesso.
- Ecco perché gli scioperi iniziano oggi, ma domani sono già finiti! C’è molto da scrivere su questo, ma diventerei monotono. Ma si combatte sempre per quelli che non si arrendono mai, anche se si è pochi. Per me ne vale la pena. Per cui resto con i veri principi. Per il resto si va avanti per il meglio possibile, ma anche sapendo che fuori si lotta per noi carcerati, anche se molti non meritano aiuto.
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[…] La nostra lotta, qualcosa sta cambiando, molti più detenuti si interessano, vogliono scrivere sugli abusi subiti. A volte ci arrivano i volantini dati ai famigliari e nel discutere fra noi si va sempre a finire sul discorso di indulto e amnistia. Bisogna spiegare che la nostra lotta è diversa, che più che altro si basa sull’abolizione dei regimi duri e sulle torture e abusi che subiamo. Va detto che il rimando in queste discussioni è positivo, è un aiuto al volantinaggio.
Il cibo fa sempre più schifo, è chiaro: se dovessi vivere di carrello credo che ne patirei e sono molto vicino e solidale con chi purtroppo non ha altro da mangiare. La situazione è brutta anche perché il sopravvitto ha prezzi allucinanti, paghiamo tutto due terzi in più del normale; ogni spesa che facciamo è una rapina legalizzata.
So che in isolamento dove sta Maurizio è scoppiato un altro casino. Un detenuto di colore (non so la nazionalità), si è ritrovato in cella la squadretta e l’hanno pestato. Sentivo le grida dalla finestra, tra cui quelle di Maurizio. Spero che non abbia subito altre conseguenze; se la sta già passando da schifo in 14bis, non vogliamo che vada in peggio.
L’altra sera ho visto in tv il presidio sull’autostrada del Brennero; come posso vi seguo.
Ti racconto l’ultima angheria. Fra meno di un anno esco. Di recente mi ha chiamato l’educatrice e mi ha detto che chi coordina il progetto a cui partecipo sostiene che sono pronto per una misura alternativa; a un certo punto però si è meso in mezzo un altro educatore, componente del progetto, che si oppone. Non ho capito il perché... Alla fine hanno deciso di iniziare con dei permessi. Boh! Un grande saluto a pugno chiuso.
inizio maggio 2016
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[...] neanche il telex a loro mi hanno fatto partire, lo hanno bloccato con i soliti motivi di “ordine e sicurezza dell’istituto”. Come saprete (ed era scontato) sono in isolamento per le solite ritorsioni per aver pubblicato abusi e pestaggi, di cui ne vado fiero e lo rifarei. Voglio ringraziare di cuore tutti i miei compagni di sezione A e C, 4° Piano, 1° Padiglione, per aver protestato quando mi hanno portato in isolamento, e che solo attraverso un mio scritto, dove li rassicuravo di star bene e di non protestare, hanno smesso: perché non volevano rientrare in cella (li adoro). Questo mi ha commosso tanto, dopo tanti anni di lotte per qualsiasi mio compagno senza distinzioni di etnie e culture, aver saputo che tutti si sono mobilitati, mi sento di mandare un caro e fraterno abbraccio ad ognuno di loro per dirgli che gli voglio bene, e di continuare ad essere uniti e soprattutto a scrivere agli indirizzi che hanno avuto per pubblicare ogni abuso.
Io sono stato portato in isolamento; ieri ho scoperto di trovarmi qua per minacce ad un agente! Con offese per il direttore (falso). Ho detto al direttore che se l’avessi offeso lo confermavo, comunque ho dato a lui il mio scritto sul rifiuto a presenziare al consiglio di disciplina, anche se poi sono andato per dirgli che sono disgustato delle cose che accadono qui dentro, soprattutto dei pestaggi verso gli ammalati. Subito mi ha risposto un dottore lì presente, dicendo che: al Centro Clinico c’è un detenuto sulla carrozzina (un bestione di 2 mt) così ha detto (“bestione” = animale) che ogni giorno prende per il collo gli agenti e nessuno lo tocca!!! Logicamente è di parte e deve conservare il suo posto di lavoro. Hanno minacciato due detenuti che lavoravano al Centro Clinico, perché vogliono farla pagare a chiunque diffonda notizie su quello che fanno. Lottiamo uniti.
Alla fine di tutto ciò ho detto di aprirmi il blindato perché sono solo io ad averlo chiuso, e lui, ridendo, ha detto: muratelo vivo… poi mi ha detto che se vuole mi fa applicare il 14bis; e io gli ho risposto che cosa aspetta a farlo? Tanto non ho paura di niente e al mio fianco ci sono tutte/i i/le compagne/i che sostengono le mie/nostre lotte e che non mi lasceranno mai solo, ovunque mi trasferiscano e che sono pronti a protestare sotto il D.A.P.
Compagni/e sappiate che abbraccio tutte/i che in strada, nelle piazze, nelle vali, nelle radio, riviste, ecc., daranno voce a me contro questi aguzzini che stanno cercando di isolarmi da tutte e tutti voi; e non mi arriva più posta da ottobre 2014. Scrivete sempre anche raccomandate, io nelle sofferenze ho il vostro amore e affetto che mi rende felice e vi amo e vi adoro a tutte/i.
Hanno creduto (e pensato) di gestirmi attraverso abusi, false promesse, sparizione della posta, negazione della ludoteca a un mio pronipote di soli 2 anni con seri problemi di salute, ora che stanno per trasferirmi saranno felici ed io dico a costoro di ‘farsi fottere’ perché sono felice di lottare contro i loro crimini e tra 2 anni uscirò a mi unirò ad ogni presidio furi dai carceri, soprattutto a Opera.
Ho scritto una lettera al D.A.P. che vi spedisco, da pubblicare [non è mai probabilmente partita, di sicuro mai arrivata! ndr], dove li informavo che anche se venivo trasferito non avrei smesso di lottare, dato che la colpa di tutto è della direzione di Opera. Vediamo dove mi mandano. E poi tutti/e i/le compagne/i di cuore e coraggio, sapranno come sviluppare la loro solidarietà che scalderà il mio cuore.
Materassi strappati, passeggio senza tettoia e sporco di pipì. Aria impossibile, una sola doccia funzionante, sbobba per animali, psicofarmaci a quantità, due ragazzi diventati robot (poverini) vittime di questo sporco sistema che vige a Opera… malati psichici al Centro Clinico chiusi 24 ore al giorno (raccontato da tutti i lavoranti). Ed ora, dopo lo scandalo sul Centro Clinico per quello che abbiamo pubblicato, la direzione si è affrettata a passare degli opuscoli dove (essi) si vogliono impegnare a dislocare i malati nelle sezioni per vincere l’inerzia e l’apatia (ipocriti).
Scriverò una lettera aperta al ministro Orlando, dove tutti/e potranno leggerla e trarne le conclusioni. Così tutti coloro che parlano di legalità e giustizia dovranno chiedersi perché i detenuti che pubblicano crimini vengono sottoposti a rappresaglie-abusi-isolamenti e continui trasferimenti? Questa è legge? Siamo in uno stato totalitario? Fascista? E’ legale torturare e picchiare gli ammalati?
Avrò tante domande da porre, dove in tanti anni di lotte non ho mai avuto risposte ma solo anni e anni e anni di isolamenti e trasferimenti, e 4 anni di censura (per imbavagliarmi) fallito. Questo sistema va cambiato, combattuto. Io continuerò a farlo anche se da una cella di isolamento (ma sempre a testa alta). [...]
dall’isolamento di Opera, inizio di marzo
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)
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Carissimi/e compagni/e, poco fa non credevo ai miei occhi che mi stavano consegnando gli “opuscoli” ed erano due delle mie sorelle e fratelli di “Ampi Orizzonti” e una con un libro di un compagno di Genova… c’è stata una conversione!!! Sia lodato Gesù Cristo … ah ah ah. Io aspettavo la fine del 14bis per darvi un resoconto di tutto, anche perché non so mai cosa scrivere perché mi vengono bloccate, e dopo 16 mesi oggi ho ricevuto i primi opuscoli. A ottobre come sapete per darli da leggere a un amico che avevano declassificato dal 41bis mi hanno dato 15 giorni di isolamento, poi avevano proibito ai lavoranti di passare qualsiasi cosa.
Il 16 il presidio è stato stupendo. Mio fratello è venuto con voi; questo è il minimo che ogni detenuto deve fare, solo uniti riusciremo nelle nostre lotte. Dobbiamo dirlo ai famigliari, a amici, parenti, conoscenti. Quello che farò io appena uscirò, porterò i quartieri sotto le carceri.
Ho aderito con lo sciopero della fame al presidio contro il 41bis; ho sentito le bombe-carta sotto la mia finestra e sentivo urlare il mio nome. Come al solito ho urlato e il mio cuore urlava parole d’amore e affetto per tutte/i voi.
Qui non ci sono abusi, sono tutti educati e rispettosi, mai un pestaggio o un solo schiaffo. Qui c’è un tunisino che ha distrutto tre celle, tre tv, non ci ha fatto dormire per settimane, ha mandato all’ospedale un agente… eppure… C’è un ragazzo piantonato a vista perché voleva suicidarsi, verso di lui si riscontra umanità.
Io sono stato portato in una cella dove non vedo nessuno, però le notizie dalle sezioni le ho sempre ricevute, per cui isolarmi è impossibile e in tre mesi se c’erano abusi eravate informati.
Bellissima l’iniziativa in tribunale. Ci risentiremo dopo il 14bis. Abbraccio tutti/e i/le compagne/i, amici e solidali che hanno manifestato in tutta Italia contro la tortura del 41bis.
Abbraccio tutti/e i compagni/e e cari amici sottoposti al 41bis e in EIV e AS2.
Compagni/e come sempre da una cella di isolamento a testa alta, un abbraccio anarchico ribelle e No Tav. Con ogni bene Maurizio
Un abbraccio fraterno a Davide D. e invito tutti/e i/le Compagne/i ad una lotta senza tregua contro la direzione del carcere e il MdS che da 2 anni gli prorogano il 14bis (illegale). Davide sempre al tuo fianco ci sarò anche io fuori a lottare per te e le sofferenze che ci causano devono essere una ragione di orgoglio per noi che non cadremo mai. T.V.B. forza e coraggio fratello siamo tutti/e con te contro quei criminali. Baci.
20 maggio 2016
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)
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Dopo aver passato almeno 137 giorni in isolamento in un anno, da inizi aprile 2016 Maurizio è sottoposto ancora una volta al 14 bis (il che significa: isolamento, privazione di televisore, armadi e ogni altro suppellettile, fornello solo al mattino e poi ritirato, due ore d’aria da solo, blindo chiuso).
Dopo le varie proteste collettive nel carcere di Opera, dopo la petizione firmata da più di cento detenuti, dopo alcune iniziative solidali all’esterno, arriva la consueta rappresaglia da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nella persona di Santi Consolo.
Vale la pena citare alcuni passaggi dell’ordinanza con cui viene decretato l’isolamento punitivo per tre mesi nei confronti di Maurizio.
“Il detenuto ALFIERI Maurizio, nel corso dell’ultimo anno, si è reso responsabile di numerose infrazioni disciplinari per atteggiamenti offensivi, inosservanza degli ordini, promozione di disordini o sommosse, atteggiamenti offensivi nei confronti degli operatori penitenziari”. Fin qui è un copia-incolla da tante altre applicazioni del 14 bis. Il passaggio più infame è subito dopo: “nonché intimidazione e sopraffazione dei compagni”. Come se il 14 bis imposto a Maurizio fosse a protezione degli altri prigionieri! Prigionieri talmente “intimiditi e sopraffatti” che una decina di loro sono stati sottoposti all’isolamento per aver subito protestato contro la misura applicata a Maurizio.
Ma persino i burocrati del DAP fanno apparire la verità tra le righe menzognere delle loro ordinanze.
Eccola qui: “L’elevata pericolosità dell’Alfieri, oltre dai gravi reati per i quali è stato condannato, viene contraddistinta anche dalla contiguità dello stesso ad ambienti dell’area antagonista ed anarco-insurrezionalista, dalla sua capacità di farsi promotore ed organizzatore di forme di proteste all’interno dell’istituto, nonché dalla dimostrata capacità di saper veicolare all’esterno lettere caratterizzate dalla falsa rappresentazione della realtà detentiva, descrivendo un’immagine negativa e vessatoria dell’istituto penitenziario, della Direzione e degli operatori penitenziari.
Ne è prova il manoscritto realizzato e distribuito durante la manifestazione di protesta attuata da parte del gruppo “OL.Ga”, avvenuta il 19 marzo 2016 all’esterno della Casa di Reclusione di Milano “Opera”, che risulta essere analogo a quello distribuito … in data 09 marzo 2016 presso il palazzo di Giustizia di Milano, e collegato alle manifestazioni di protesta che hanno visto protagonista, all’interno del carcere, il detenuto Alfieri”.
Colpendo Maurizio si vogliono colpire le proteste dei detenuti e la solidarietà fra dentro e fuori. Maurizio, il quale ha fatto uno sciopero della fame anche in occasione della giornata del 16 aprile, con i vari presìdi davanti alle carceri che ospitano le sezioni dei 41 bis, paga ancora una volta la sua caparbietà e la sua generosità. Facciamo sentire ai suoi aguzzini che non è affatto solo.
24 maggio 2016, Nave dei folli (Rovereto)
lettera dal carcere di parma
Cari amici, con questa lettera vi scriviamo dal carcere di Parma. Ieri 16/04 siete venuti qui fuori a darci sostegno, conforto e coraggio. Purtroppo, però, dopo le prime esultanze subito siamo stati minacciati dalle guardie. Io (Elia) ed altri abbiamo preso rapporto per aver aderito pacificamente ai vostri cori e slogan di supporto. L'oppressione del regime si è nuovamente palesata. Speriamo tornerete presto, la vostra presenza lì ha dato molto fastidio. Qui da noi al 3° piano sono saliti commissari ed alti gradi dell'infame milizia e, nascosti dietro le finestre, vi spiavano per poi minacciarci nuovamente.
Qui non è garantito quasi nulla di quanto previsto. Nonostante sentenza C.E.D.U. e conseguenti, siamo ancora a regime chiuso ed in situazione di sovraffollamento nonostante le belle parole del ministro Orlando... solo parole appunto!
Tre sezioni vivono a regime chiuso 20 ore su 24, regime interno mediamente restrittivo ma soprattutto in formula retrograda. L'abuso di potere da fisico è diventato psicologico a seguito delle denunce su vari pestaggi. La magistratura di Sorveglianza di Reggio Emilia è un po' sorda, pertanto gli interventi sono a lumaca e non rispettano la gravità di quanto denunciato.
Io sono sottoposto addirittura all'infame regime del 14 bis (sorveglianza particolare) e dalla mia cella privata di tutto armadi, specchio, TV, fornello e abbigliamento contato, ieri ho provato gioia nel vedervi ed ho urlato tanto da prendermi l'infame rapporto disciplinare redatto da una guardia schiava di un regime oppressivo ma i tempi sono, stanno e cambieranno sempre più. Grazie per come ci avete sostenuto e grazie per non averci lasciati soli. Quando date gli indirizzi leggeteli un po' più piano così li scriviamo meglio. Mi chiamo Elia Digrande, salutatemi la prossima volta.
Vi ringrazio a nome di tutti noi, anche di chi ha avuto paura a strillare e ad aderire alla giusta causa della ribellione.
Grazie raga. Speriamo di rivedervi presto e, una volta fuori, lottare insieme. Ciao.
17 aprile 2016
Elia Digrande, Via Burla, 59 - 43100 Parma
sull’isolamento di davide delogu
Lettera inviata ad alcuni quotidiani della Sicilia
Egregio signor Direttore, mi chiamo Rossetti Busa Mauro, mi rivolgo a lei con questa mia lettera per denunciare l’amministrazione carceraria di Agrigento per i continui abusi che arbitrariamente vengono fatti ad un detenuto, Davide Delogu, che si trova in quel carcere in cella di isolamento da ormai un anno. Scrivo questa lettera di solidarietà dal carcere di Terni.
Davide non ha possibilità di vedere la televisione, armadietti in cui deporre la biancheria, neppure acqua sufficiente per potere lavarla, è solo anche nelle d’aria, la corrispondenza è sottoposta a censura – in pratica gli viene consegnata solo qualche lettera e libro, rivista, e con molto ritardo, rispetto alla corrispondenza in arrivo. Questi trattenimenti e censure avvengono senza nessuna comunicazione giudiziaria che li ‘giustifichi’, che li limiti nel tempo. Nulla a cui potersi appellare. Non gli vengono consegnate nemmeno sapone, disinfettante, carta igienica per la propria igiene, compresa la pulizia della cella.
Le racconto la storia di Davide. Lui prima di Agrigento era detenuto nel carcere di Cagliari. Da lì è stato trasferito, circa 2 anni fa, perché insieme ad altri detenuti fu partecipe ad una protesta. Per questo venne sottoposto all’isolamento punitivo, 14bis, rinnovabile ogni 6 mesi. Da quel momento è considerato ‘soggetto pericoloso’ riguardo alla ‘sicurezza interna’. Nelle ‘misure’ cui è sottoposto gli hanno anche tolto i colloqui con la fidanzata.
Le condizioni riservate a Davide, purtroppo, vengono applicate a tanti altri detenuti, che protestano per i propri diritti. Mi fermo qui e vorrei sperare che questa mia lettera riesca a trovare in lei la sensibilità per essere pubblicata. Dimenticavo di dirle che più volte nel corso di questi anni di isolamento, come in questi giorni, Davide ha intrapreso scioperi della fame contro l’isolamento. La ringrazio della sua attenzione, saluti.
Terni 12 maggio 2016
Mauro Rossetti Busa, via delle Campore, 32 - 05100 Terni
Cartolettera di Davideddu dal carcere di agrigento
Saludi cara Olga! Vi inviai una bella lettera post-udienza da Oristano che consegnai la sera di martedì 26 aprile. 7 ore dopo mi impacchettarono per il confortevolissimo viaggio: Oristano-Cagliari-Roma-Palermo-Agrigento. In cui ero l’unico detenuto, considerata “l’urgenza”. Fatemi sapere se vi è giunta la lettera.
Ho saputo dei nuovi numeri dell’opuscolo, e anche se mi impediscono (arbitrariamente o meno non fa differenza) di averli, qualcosa la si viene a sapere ugualmente.
Sono mesi che non ho un cazzo da leggere e per principio, rifiuto quelli della biblioteca, dato che i miei libri e altro, non si schiodano dall’ufficio comando, perché “non commercializzabili all’esterno” o “non corrispondono alle normative sull’editoria italiana”! Per la distruzione delle potenzialità del pensiero critico! Ma non mi avranno mai!
Saluti fiammeggianti! Davide.
isolamento 14bis Agrigento, 15 maggio 2016 (“visto di controllo” con relative timbrature, del 24 maggio, arrivata a Milano oggi, 3 giugno.
Davide Delogu, Casa Circondariale, contrada Petrusa - 92100 Agrigento
Lettera dal 41bis di Spoleto
Care/i compagne/i di Ampi Orizzonti, ho ricevuto la fotocopia della cartolina e solo il testo delle due ordinanze dei magistrati di sorveglianza (mds) di Spoleto e di Udine. Il resto è stato bloccato dalla censura. Della cartolina solo fotocopia del testo.
Comunque tutto bene, ho fatto subito un reclamo al mds di Spoleto appellandomi all’ordinanza del 26.4.’16, che molto probabilmente sarà del magistrato che è competente per Terni, essendo sempre il mds di Spoleto. Mentre l’altro magistrato, sempre di Spoleto, ha respinto anche l’ultima istanza da me presentata, sempre per i libri, le stampe ecc.
Che dire, adesso attendo risposte. Interessante anche l’ordinanza di Udine. Comunque già L’Aquila aveva risposto in termini positivi, manca solo Spoleto.
Un saluto con stima, a pugno chiuso a voi tutti, a presto sentirci, ciao Roberto.
23 maggio 2016
Roberto Morandi, 10 - 06049 Spoleto (Perugia)
Chi volesse avere una copia delle ordinanze citate può richiercele alla casella postale.
La galera sotto il segno del 41bis: memoria
Ciao ragazzi, con immenso piacere ho avuto riscontro da parte vostra. Ci tenevo, siete sempre stati presenti nei miei pensieri…
Mi dicevate di parlarvi del 41bis. Pochi come me lo conoscono dato che ci sono stato tra i primi a Pianosa nel 1992 e l’ho re-incontrato di recente a Opera dove ci sono arrivato da un altro uguale. Dopo la chiusura nel 1998 di Pianosa e dell’Asinara, vari carceri si sono attrezzati per applicare la tortura. Dopo la riforma di Alfano il tutto si è risolto in un cimitero per vivi dove sono stato rinchiuso per 24 anni senza possibilità di soluzione tranne quella di aspettare la morte definitiva, dato che la morte la vivi ogni giorno, perché è ogni giorno che si muore quando non hai più nulla, neanche la speranza.
Il sistema è strutturato in modo tale da spersonalizzarti dal momento stesso della sua applicazione. Sei in un carcere normale per svariati motivi ti viene applicato il 41bis, vieni chiamato in matricola per una notifica. Ti accorgi che ti hanno applicato il 41bis perché te lo comunicano per iscritto. Ma da quel momento non puoi più tornare in sezione, non puoi salutare chi hai lasciato, né per prendere ciò che hai lasciato in cella. Il tutto ti viene fatto trovare direttamente sul furgone che ti deve trasportare. Vieni messo lì con tutto il tuo avere. Vista l’ora non ti danno nemmeno un soldo, il tutto ti viene spedito dopo.
Arrivi nel carcere dove sei assegnato. Già appena arrivi c’è l’accoglienza a muso duro a partire dall’addetto alla matricola che deve darti un saggio della situazione, ma, se gli rispondi subito a tono abbassa la cresta. Sullo stesso filo si presentano gli operatori, che vogliono saggiare con chi hanno a che fare. Appena capiscono che non c’è trippa per gatti, nel senso che capiscono che sei pratico del 41bis, fanno solo il loro “lavoro”, specie se tra di loro trovi qualcuno che ti conosce da altro 41bis e sanno che non ti fanno impressione né per numero né per atteggiamento, ma qualcosa la devono pur sempre fare per dirti che sei al 41bis, specie per chi come me sanno che sto già scontando l’isolamento diurno per l’ergastolo.
Il magazziniere è più ciò che ti toglie di ciò che ti dà, solo l’essenziale, il resto per averlo lo devi chiedere ogni giorno sino a stressarli se non ti danno retta.
Vieni messo in una cella e ti chiudono blindo e sportello in quanto non puoi comunicare con nessuno e non hai niente, nemmeno la televisione, perché prima devono valutare in quale gruppo ti devono mettere. Perché lì si va in gruppo di 4 persone e vedi solo quelli, con gli altri non puoi parlare pena il rapporto disciplinare, ma solo se gli dici ciao. Persone che ritrovai, persone che non vedevo da anni e che non avevano mai lasciato il 41bis; appena mi aprirono il blindato e lo sportellino mi misi a salutare tutti quelli che vedevo, risultato 4 o 5 rapporti disciplinari al giorno, al punto tale che mi spostarono in altro gruppo intimando gli altri che, a ricevere il saluto, anche loro sono passibili di rapporto disciplinare. Ma di per sé con il rapporto disciplinare non accade nulla, lo usano per toglierti la televisione, per farti andare al passeggio da solo per 15 giorni. Ma la vera ripercussione è sul fatto che puoi fare un colloquio al mese di 1 ora con vetro divisorio, ma mandano indietro il mangiare che ti portano i famigliari. Non avendo il tempo di avvisarli, perché loro gestiscono la posta, ti fanno le peggiori nefandezze. In pratica i famigliari se ne tornano amareggiati perché non sono riusciti a darti un poco di mangiare.
Tutto è contato a livello di abbigliamento, in cella non puoi tenere nulla. Ciò che ti viene dato lo devi restituire la sera e ti viene riconsegnato al mattino. Perciò se la sera hai desiderio di un caffè, di un tè o di una camomilla te li puoi solo sognare.
Il mangiare ti viene dato da loro tramite un lavorante con cui non puoi scambiare una parola. La posta viene vista come mezzo di tortura non te ne danno mai, specie se sei oggetto di attenzione particolare o magari ti vengono per dirti che è arrivata della posta ma è stata mandata al magistrato e non la vedi più, perché anche se fai ricorso non ti risponde nessuno, perché i magistrati di sorveglianza e i carcerieri sono tutti una cosa. In pratica, se vogliono, perdi ogni contatto con i famigliari e hai ben poco da fare, riesce a passare solo qualche raccomandata con ricevuta di ritorno perché non possono farla sparire.
Perquisizioni, ogni giorno ti mettono la cella sottosopra. Regole rigide che tirano sempre a spersonalizzarti. Tutto è strutturato solo a uno scopo, a farti ricordare che non hai speranza. Se ti chiamano per uscire dalla cella, negli orari non previsti per il passeggio, non ti dicono mai dove devi andare, anche se si tratta di visita medica. E’ tutto un sistema.
A molti li ho visti invecchiati, ma molti battagliare, solo che lì le battaglie sono fine a sé stesse, perché non hai strumenti per intaccare il sistema, dato che non puoi fare proteste collettive, visto che con gli altri non puoi parlargli e non hai modo neanche criptico di farglielo sapere.
In una sezione di 20 celle ci sono 10 guardie, diversi graduati che vigilano, ma quello su cui loro giocano per spezzare la volontà dell’individuo è l’abitudinarietà alla negazione dei tuoi diritti e ogni tanto qualcuno crolla. Di fatto sono strutture fatte per indebolire il soggetto perché le alternative sono: o aspetti la tua ora per morire o cerchi mezzi subdoli per uscire da quel regime.
Purtroppo oggi ogni tanto qualche invertebrato lo pescano. I medici sono d’accordo con loro, aspettano un sì o un no da parte loro prima di scriverti una terapia; e sai quanti medici sono stati presi per pezzi di merda come anche le guardie, perché certi detenuti non lasciano passare nulla, subito rispondono a tono, non ti picchiano, ma appena li offendi ti fanno qualsiasi tipo di ostruzionismo possibile. Ma ripeto, che ogni battaglia è fine a sé stessa, tranne a farti dire: sono ancora vivo non mi piegherete mai.
Sarebbero tante altre le sfumature da dire, ma nella sostanza il discorso è questo. Nei 2 anni che sono stato lì, almeno quattro persone sono morte di malattia o di vecchiaia. E’ un cimitero. Non ci danno la pena di morte ma civilmente ti uccidono, dato che non hai nessuna speranza. Eppure dicono che è costituzionale.
Maggio 2016
Roma: resoconto del presidio davanti al dap del 13 maggio
Situato in largo L. Daga, presso il confine ovest di Città del Vaticano, Il DAP è il comando della polizia penitenziaria, l'organo supremo che impone e determina le regole della vita quotidiana nelle galere. Ciò vale anche per le sezioni 41bis, rispetto alle quali il potere d'imporre queste regole è del tutto insindacabile, a costituire un esempio che facilita e normalizza l’estensione dell’impiego di ogni genere di abuso e violenza – compreso l’omicidio – sull’intero sistema carcerario. Non è un caso che a puntare occhi e dita oggi sul DAP si siano trovate unite realtà che nell’autunno scorso si sono mosse contro l’uccisione di Eneas (avvenuta nel carcere di Pesaro) e le persone e i collettivi che aderiscono alla campagna "Pagine contro la Tortura" con l'obiettivo della cancellazione-ritiro della “circolare” del DAP che nega a chi è chiusa/o nelle sezioni 41bis di ricevere libri, riviste, ma anche lettere, per corrispondenza postale anche se portate da parenti quando si recano al colloquio; da oltre un anno libri e riviste entrano nelle celle 41bis solo se acquistati dalle guardie.
Il carattere unitario della manifestazione emerge dagli interventi lanciati dall’impianto – soprattutto dal grido ASSASSINI, oltre che dagli striscioni che appendiamo attorno allo slargo in cui ci si trova: DAP - MAGISTRATI - POLIZIA SIETE I RESPONSABILI DELLA MORTE DI ENEAS SIETE DEGLI ASSASSINI; 41BIS = TORTURA; SOLIDARIETA’ AI RIVOLUZIONARI PRIGIONIERI.
Dal cancello dell’enorme edificio del DAP protetto da poliziotti, ci separa la strada. Non siamo tant*, una trentina, ma certamente c’è la coscienza di affrontare una realtà che riguarda da vicino lo sviluppo della lotta della classe sfruttata, tutta.
Libri, corrispondenza, comunicazione dentro le galere, la loro circolazione, il sostegno reciproco fra interno-esterno di cui siamo capaci, da sempre hanno importanza vitale per vincere la logica della resa, della sconfitta, perseguita dallo stato nei confronti di chi si ribella nei modi più diversi alla dittatura del capitale.
Ad un certo punto della manifestazione attraversiamo la strada per adagiare davanti al portone d’ingresso qualche scatolone di libri; li vogliamo consegnare al DAP per farli entrare in carcere, visto che le nostre spedizioni, quelle di diverse case editrici e librerie, fatta eccezione per qualcuna, sono cadute nel vuoto, nel silenzio tombale che è prerogativa del carcere e dei suoi organi amministrativi, in primis il Ministero di Giustizia.
I poliziotti ci si parano davanti, per un po’ riusciamo a bucare il cordone, a mettere libri là dove volevamo… riusciamo anche a ostacolare e bloccare le auto in uscita, con a bordo funzionari del DAP, a fermarle, a gridare: assassini! fate entrare i libri, perché non fate entrare i libri? Vigliacchi, dove nascondete i libri, la posta?... Il blocco va avanti a lungo, a singhiozzo, più volte gli sbirri mettono e tolgono i caschi, fino a quando il cordone della polizia con manganelli e scudi ci spinge sul marciapiede da dove eravamo partiti.
Il bilancio della giornata è positivo, abbiamo distribuito numerosi volantini, ma soprattutto concludiamo il presidio con la consapevolezza di aver portato il nostro messaggio direttamente al DAP, il punto più alto della catena di comando del sistema carcerario. Gli ultimi interventi urlano chiaramente che non finisce qui: dopo i presidi simultanei davanti alle carceri di Tolmezzo, Cuneo, Milano (Opera), Parma, Terni, fino in Sardegna, a Bancali, dopo la "visita" agli aguzzini del DAP, la campagna continua; prossima tappa il 25 giugno a L'Aquila, con il suo carcere interamente dedicato al 41 bis, dove nonostante le difficoltà, abbiamo già portato la nostra solidarietà in altre due occasioni. Andiamo avanti, a testa alta, solidali con tutti i prigionieri, per un futuro senza padroni, sfruttatori, sbirri e sbarre...
Milano, giugno 2016
41 bis = tortura
L’Aquila, sabato 25 giugno 2016: presidio in città e sotto il carcere
Di seguito una sintesi provvisoria del testo di indizione della giornata di mobilitazione a L’Aquila del 25 giugno.
Da alcuni mesi chi è sottoposto al regime previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario non può più ricevere libri, né qualsiasi altra forma di stampa, attraverso la corrispondenza e i colloqui sia con i parenti sia con gli avvocati. Libri e stampa in genere possono ora entrare nelle celle a 41bis soltanto se acquistati tramite l’amministrazione penitenziaria.
Questa ulteriore censura – e non di poco conto vista l’importanza vitale della lettura nelle sezioni di isolamento totale – va ad aggiungersi a un lungo elenco di gravi restrizioni che sono state oggetto, in questi ultimi anni, di ragionamenti critici e di diverse mobilitazioni davanti alle carceri, tra le quali ricordiamo L’Aquila, nel 2007 e 2011, Parma nel 2012, e, nell’aprile di quest’anno, Opera-Milano, Parma, Cuneo, Tolmezzo-Udine, Terni, Bancali-Sassari.
Anche se con un diverso orientamento, riflessioni critiche arrivano anche da ambiti istituzionali. A tal proposito basti qui citare l’ “indagine conoscitiva sul 41-bis”, dell’aprile di quest’anno, visibile sul sito del Senato, lo sciopero dei penalisti del settembre scorso indetto dall’Unione delle Camere Penali contro l’applicazione e l’estensione del processo in videoconferenza, come pure le ordinanze con le quali diversi magistrati di sorveglianza hanno tentato di disapplicare questa ennesima restrizione. In particolare, con una recente ordinanza in merito all’ennesimo reclamo, il MdS di Spoleto, competente su Terni, ha deciso di “sospendere il procedimento in corso sino all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale”, un segnale che la faccenda, anche sotto il profilo giuridico, è tutt’altro che conclusa.
Il regime del 41-bis è l’elemento trainante nella scala del trattamento differenziato che caratterizza il sistema carcerario italiano. Adottato trent’anni fa, si è via via inasprito e esteso. Questa condizione detentiva è imposta oggi ad oltre 700 prigionieri e prigioniere, fra loro una compagna e due compagni rivoluzionari, militanti delle BR-PCC, trasferiti in queste sezioni da dieci anni.
Il 41bis è attualmente in vigore in 13 sezioni interne alle carceri di: Novara, Parma, Opera-Milano, Tolmezzo-Udine, Ascoli Piceno, Viterbo, Secondigliano-Napoli, Terni, Spoleto, L’Aquila, Rebibbia-Roma, Bancali-Sassari e Uta-Cagliari.
Le motivazioni accampate per la detenzione al 41bis sono pretestuose poiché il fine di evitare il perdurare dei legami con l’associazione è secondario rispetto a quello di estorcere informazioni che portino a nuove accuse, a nuove incarcerazioni. E’ sotto gli occhi di tutti/e come più di vent'anni di 41-bis non abbiano di certo arginato l’influenza della cosiddetta criminalità organizzata che invece permea sempre più l’economia così come la politica, rendendo palese la natura criminale ed assassina dell’economia capitalista.
Come dimenticare l’arroganza con cui Stato e padroni, veri responsabili della strage dell’Aquila del 2009, hanno imposto la gestione “emergenziale” del post terremoto? E le risate con cui la cricca politico-affaristico-mafiosa si sfregava le mani pregustando gli affari sulla ricostruzione? Presi da una sorta di sindrome di Stoccolma in una specie di carcere a cielo aperto, rinchiusi nelle tendopoli militarizzate della Protezione Civile, narcotizzati dalla propaganda di regime e poi dissolti, isolati nei villaggi di cartapesta di Berlusconi e Bertolaso, gli aquilani non dovevano unirsi e non dovevano capire chi fossero i veri sciacalli e i veri responsabili di 309 morti.
Per contro ciò che ha mantenuto intatta la sua funzione è il carcere di Preturo, con più di 100 celle adibite al regime di 41bis.
Questa tortura quotidiana, esplicitamente finalizzata alla delazione, alla sottomissione e all’annientamento della dignità di chi la subisce, diventa parte integrante e stabile della quotidianità in ogni tipo di galera. Infatti, con il passare del tempo, le leggi e le norme di natura emergenziale si consolidano cosicché ogni restrizione adottata nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle sezioni dell’Alta Sicurezza e in quelle “comuni”, specialmente contro chi osa alzare la testa.
Così la censura, il carcere preventivo, l’isolamento punitivo applicato con l’art. 14-bis o.p., il processo in videoconferenza, i rapporti per i più umani gesti sociali, specialmente se espressi da persone immigrate, insieme ai sempre esistenti pestaggi – che troppo spesso si concludono in “suicidio” cioè nella morte di chi viene colpito – costituiscono oggi non più l’eccezione ma la normalità della condizione detentiva.
Una condizione che attraverso la differenziazione, l’individualizzazione del “trattamento”, il ricatto della premialità e l’utilizzo della violenza di stato per chi resiste alla sottomissione, è lo specchio del più generale sfruttamento, a cominciare dall’imposizione di condizioni misere e umilianti, fatte anche di lavoro gratuito e schiavile.
Le libertà di leggere, scrivere, comunicare, parlare sono forme sociali che la classe oggi dominante devasta con i suoi lugubri mass-media, per imporsi sulle persone e così facilitare la realizzazione dei suoi interessi, a cominciare dalle guerre saccheggiatrici in Afghanistan, Siria, Libia e Iraq, dove oggi l’Italia è la seconda forza militare straniera presente.
Inebetiti dalla martellante propaganda di guerra sotto la bandiera della “lotta alla mafia”, al “terrorismo”, all'“immigrazione” assistiamo quasi inermi alla generalizzazione e all’approfondimento di forme di controllo, coercizione e deterrenza che accompagnano una fase storica segnata dalla recessione globale e dall'apertura di nuovi e preoccupanti fronti di guerra.
Basti qui citare la recente legge “antiterrorismo”, dell’aprile dell’anno scorso, che se da una parte crea nuove fattispecie di reato tanto generiche e arbitrarie quanto lo è il concetto di terrorismo, dall'altra, rifinanzia decine di missioni militari italiane all'estero per diverse centinaia di milioni di euro.
Nel mentre le città vengono via via militarizzate, sorgono veri e propri campi di internamento, si applicano leggi speciali per reprimere il dissenso (come l’utilizzo del reato di “devastazione e saccheggio” per reprimere le manifestazioni di piazza), vengono smantellate pezzo dopo pezzo la sanità, la scuola, l’edilizia pubblica, viene data libertà di licenziamento e di sfruttamento…
La giornata a L’Aquila non è dunque soltanto espressione di lotta contro il carcere, di solidarietà e sostegno a chi anche nel carcere di Preturo tiene la testa alta, a chi anche in quel carcere ha fatto reclamo scritto contro la circolare del DAP, fra cui Nadia, Salvatore e chissà quanti altri dei quali nulla si sa fuori.
Essa vuole essere parte della più vasta mobilitazione contro le guerre saccheggiatrici, lo sfruttamento, la repressione, dai fogli di via passando per le espulsioni delle persone arrivate in Europa perché messe in fuga dalle guerre. Dagli arresti domiciliari, fino all’isolamento e alla tortura che lo stato adopera per dividere, intimidire, per imporre interessi devastanti in ogni senso. In quest’ottica, fa proprio l’appello alla mobilitazione lanciato dalle carceri, per i primi di giugno di quest’anno, contro l’ergastolo ostativo.
Togliere al sistema penale, di cui le carceri ne sono la base, la capacità di esercitare la violenza per dividere la classe sfruttata è oggi più che mai necessità vitale. In questo senso la lotta contro il 41-bis, contro il carcere è di importanza generale.
Confrontarsi, approfondire la conoscenza della realtà in cui siamo immersi è necessario per costruire unità effettiva nella lotta; segno che anche questa giornata vuole vivere, comunicare.
Campagna “pagine contro la tortura”
Lettera dal carcere di Bancali (ss)
[...] ho ricevuto il tuo pacco di cose e per di più i libri di S. Milosevic. Come sicuro lo sai, la maggior parte di noi slavi conosce bene la situazione nella ex Jugoslavia. E’ la prima volta che mi capita di leggere in occidente un libro che racconta la verità. Purtroppo, come si sa, il mondo occidentale è molto sporco, ci sono tanti lecchini agli ordini di “padroni” e bastardi. Però ci sono anche persone che combattono.
Ho letto l’opuscolo e vedo che vi date da fare. Sono stati qui i compagni di Sassari. Ma come sapete questi vermi qui gli hanno impedito di avvicinarsi troppo vicino. Poi ci sono pochi detenuti, sono 40-50 quelli a cui era piaciuto vedere lo spettacolo dalle finestre. Questo stato di merda ha costruito un sistema merdoso, dove comandano loro, e gli altri devono stare muti.
Vedo in tv Striscia la Notizia dove l’Agenzia delle Entrate fa furti e ricatti peggio dei mafiosi, ah, ah. C’è la democrazia delle repubbliche delle banane. Povero popolo italiano.
Per me, ti posso dire che sto sempre uguale. Non mi fanno lavorare, non mi danno niente, ma non me ne frega niente. Io ho quello che non può togliermi nessuno e nemmeno vermi come loro. Quelli della direzione del carcere non mi vedono bene, ma non me ne frega niente, che vadano affanculo sti fascisti di merda.
Finisco questa lettera, spero di trovarvi tutti voi compagni in buona salute. Vi ringrazio per tutto quello che fate. Molti detenuti non sono informati bene di quello che fate. Un caro saluto a tutte-i le/i compagne/i, Jasmir.
24 maggio 2016
Sabanovic Jasmir, SP 156, via Abbaccurrente, 4 - 07100 Bancali (Sassari)
Lettera dal carcere di Terni
Ciao cari/e compagni/e torno a scrivervi dopo un po’ di tempo. Voglio innanzitutto ingraziarvi della regolarità con cui arrivano gli opuscoli, una fonte primaria di un’informazione al di fuori dei canali consueti, dissociata da tutto ciò che è inquadrato, statalizzato e burocratizzato, permettendomi di rimanere informato con notizie senza filtri e sicuramente su di una prospettiva diversa dall’istituzione “carcere” – per come vogliono sia questo “contenitore” di poveracci e “criminali”, di “pericolosi”, come lo “stato di diritto” ci descrive agli occhi delle persone, diciamo “perbene”.
Malgrado le varie perquisizioni a cui è stata sottoposta la mia cella, con preventivo sequestro e successiva restituzione degli “opuscoli” da voi inviatimi, sicuramente “fonte” di alta pericolosità, visti gli argomenti trattati. Con ciò, a cui ho assistito, mi ha dimostrato ancora una volta il volto bigotto e spaventato di questi rappresentanti delle istituzioni davanti a voci fuori dal coro e principalmente idee che la loro mente non ha modo di comprendere. Questa è l’ennesima dimostrazione con chi abbiamo a che fare, una “giustizia” gigante dai piedi d’argilla, che è debole con i forti e forte con i deboli.
Non è mia intenzione dilungarmi in considerazioni scontate, vengo a riportarvi con mio profondo rammarico che il presidio da voi organizzato qui nel carcere di Terni (16-04-2016), qui in media sicurezza (detenuti comuni), un po’ per la distanza della struttura dalla stradina dove eravate, si è sentito poco, però volevo sottolineare che qui in sezione. Eccetto pochi interessati, è passata in secondo piano, senza adesione alcuna. Bisogna considerare anche, che, veramente molti non sanno nemmeno perché sono qui, quindi, se tanto mi dà tanto…
La situazione per il resto è la medesima di ciò che avevo evidenziato nella mia precedente lettera, le problematiche sono le stesse nell’area sanitaria (anche se hanno inaugurato la nuova area sanitaria con grandi proclami sui TG regionali), ma soprattutto nell’area trattamentale, che mette in evidenza senza ombra di dubbio le menzogne e le ipocrisie di questo comparto dello stato, “Giustizia”. Se la raccontano con qualche corso didattico e non esiste alcun modo regolare di affrontare un percorso come dicono loro – atto alla “risocializzazione”, se non quello di mettere la propria dignità sotto i piedi: fare il leccaculo o, peggio, il collaboratore interno, ed allora sì che si hanno tutte le strade spianate per qualsiasi opportunità lavorativa e premiale con i benefici di legge a disposizione.
Una piccola parentesi, ho fatto ad aprile una camera di consiglio per la detenzione domiciliare, il rigetto riporta che malgrado il fine pena breve (2 mesi) e il mio comportamento regolare inframurario (ho beneficiato di 4 trimestri), non si può concedere la suddetta detenzione perché il mio percorso di revisione critica della mia condotta antisociale, non è completo. Da ciò mi scaturiscono un milione di domande, e poi debbo prendere atto solo che, non essendo mai incline al loro tipo di “detenuto”, puoi essere regolare quanto vuoi, ma tanto rimane solo la privazione della libertà fino a fine pena.
Vi lascio con la speranza e la certezza che continuate malgrado le difficoltà, alla lotta comune, senza quartiere, contro questo sistema. Senza arretrare mai di un passo.
Un mio caro saluto a Marco Pannella, combattente del popolo per la libertà.
Ciao Marco.
20 maggio 2016
Sandro Malacchia, Strada delle Campore, 32 - 05100 Terni
La vicenda di Antonio Fiordiso: in carcere si tortura
Ancora una volta il mostro assassino mostra il suo vero volto alla vittima e ai suoi familiari. Lo Stato, nella sua missione principale di cane da guardia della proprietà privata, decide di prendersi in custodia coatta un ragazzo di 27 anni e, dopo averlo tenuto sotto la sua “tutela” per 4 anni, ne restituisce il corpo privo di vita ai parenti; senza tralasciare tutta la serie di traversie fisiche, morali e burocratiche che in casi come questo riserva loro.
Nell’ottobre del 2015 i familiari vengono a sapere che il loro congiunto, detenuto nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce, non si trova più lì.
Dopo richieste insistenti riescono a farsi dire che era stato trasferito in infermeria e da lì a quella del carcere di Taranto per abuso di psicofarmaci. Trovando il tutto molto strano, i parenti riescono a sapere che da Taranto, Antonio (questo il suo nome) era stato trasferito niente meno che ad Asti. Poco dopo il giovane viene di nuovo trasferito all’ospedale di Taranto, dove i familiari riescono finalmente a vederlo.
Lo stato in cui lo trovano è disumano: irrigidimento degli arti e atrofie muscolari, in dialisi per intensa disidratazione, lividi evidenti sul corpo, commozioni cerebrale e intercostale, impossibilità a parlare. Il primario conferma che è arrivato in ospedale in stato comatoso, con polmonite così avanzata che era divenuta una setticemia ormai diffusa anche nel sangue; operato d’urgenza ai reni per la forte disidratazione.
Al carcere di Lecce danno la colpa ad alcuni detenuti che si sarebbero accaniti su di lui, ma tutto ciò non trova conferma in nessun incartamento dell’istituto.
Antonio muore l’8 dicembre in ospedale, senza riuscire a dire molto, nelle condizioni in cui era, su cosa sia realmente accaduto, anche se ha fatto intendere ad un pestaggio da parte delle guardie. Un giudice di Taranto ha già chiesto l’archiviazione del caso. Un altro detenuto, compaesano di Antonio, aveva iniziato a fare delle domande un po’ scomode su quanto accaduto al suo compagno, ma è stato subito trasferito a Reggio Calabria. Questi i fatti, in breve.
Ciò che ci preme è che il caso di Antonio non venga taciuto e nascosto e che ancora una volta una morte di Stato passi per mero incidente. Siamo consapevoli che il carcere non ha affatto la funzione di rieducare ma semmai quella di vendicarsi di chi è uscito fuori dai ranghi e di fungere da monito per chi non si adeguerà alle regole sociali.
Il carcere è il luogo della disumanizzazione, della spersonalizzazione, della violenza istituzionale, della privazione degli affetti.
Il carcere è un abominio e la vicenda di Antonio Fiordiso, come quella di tanti altri detenuti o di persone ammazzate mentre erano nella custodia di qualche forza di polizia ne sono la conferma. Vogliamo sapere chi sono i responsabili della morte di Antonio, vogliamo che nel ricordo Antonio riacquisti la sua dignità vilipesa.
4 maggio 2016, da informa-azione.info
Lettera dal carcere di Massama (or)
Cari compagni, vi scrivo per informarvi che da alcuni giorni abbiamo terminato lo sciopero perché le nostre richieste sono state esaudite (ostacoli, abusi, celle sovraffollate, il blocco di detenuti in arrivo, orari colloqui, telefonate ai famigliari…)
E’ venuto anche il vice-capo del DAP, Massimo De Piccolis a farci visita. Prima era venuto anche il garante nazionale dei detenuti, prof. Mauro Palma.
Un abbraccio Pasquale
Oristano, 5 maggio 2016
Pasquale De Feo, Località Su Pedraxiu - 09170 Massama (Oristano)
1° giugno 2016: Sciopero collettivo dei detenuti
contro l’ergastolo ostativo
Dal primo giugno comincerà lo sciopero collettivo dei detenuti contro l’ergastolo ostativo. Questa iniziativa è partita dai detenuti di Catanzaro.
Questo scioperò avrà varie modalità di adesione (sciopero della fame, astensione dal vitto, “battiture”) e potrà essere appoggiato anche da “liberi” cittadini dall’esterno.
Il testo-manifesto di questa iniziativa è espresso dalla lettera che leggerete tra poco, inviata ufficialmente al Ministro Della Giustizia Orlando, ma da considerare anche patrimonio di conoscenza pubblica e coscienza civile.
L’ergastolo ostativo è il risultato di una imprevedibile interpretazione sfavorevole dell’art. 4 bis.1 OP affermatasi dal 2008-2009, e pertanto non applicabile retroattivamente ex art. 7 CEDU (Corte EDU, casi Kafkaris, Del Rio Prada, Contrada; Sezioni Unite della Cassazione, caso “Beschi” 2010 Corte Cost. sentt. n. 364/98 e 230/2012), e l’incostituzionalità dell’art. 4 bis.1 OP come presunzione legale, come dimostrato dalla tesi di laurea di Claudio Conte (110 e lode con menzione accademica), “Profili costituzionali in termini di ergastolo ostativo e benefici penitenziari”, Uni-Cz, 2015 (in possesso del Garante nazionale detenuti prof. Mauro Palma, e del prof. Luigi Ventura, Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro e Relatore della tesi, che sollecitiamo il Ministero a convocare).
Da tale studio si evince che per superare l’abuso dell’ergastolo ostativo, non c’è bisogno di nuove leggi, ma di fare rispettare quelle esistenti, con una Circolare ministeriale interpretativa ai Giudici di sorveglianza.
I sottoscritti ergastolani/non ergastolani/liberi cittadini informano il Ministro che dal 1° giugno 2016 attueranno una protesta pacifica (garantita dalla Costituzione), finché Ella non ci farà sapere, anche tramite televisione, che è a conoscenza di tale studio, libero poi di ritenerlo fondato o infondato.
Ella deve sapere che nella civilissima Italia l’ergastolo ostativo non è stato previsto dalla legge nel 1992 e che 1.400 persone sono condannate a morire in carcere solo per una discutibile interpretazione opera di pochi giustizialisti, e migliaia di reclusi sono esclusi dalle misure alternative illegittimamente.
Modalità di adesione alla mobilitazione (nel testo che viene fatto circolare è presente una casella, accanto alle voci successive, che può essere barrata):
-Raccolta di firme da inviare al Ministro di Giustizia.
-Rifiuto del vitto dell’Amministrazione.
-Battitura dalle ore 16.00 alle ore 16.30 in carcere o in luoghi pubblici.
-Fermata al rientro dei passeggi (o sit-in/riunioni) dei cittadini liberi per10 minuti.
-Sciopero della fame.
5 aprile 2016, da urladalsilenzio.wordpress.com
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E’ possibile fare reclamo contro il 4bis e vincerlo
Nelle carceri circola un lavoro di ricerca per superare l’ostacolo del 4bis, rappresentato dal fatto di essere “ostativo” alla scarcerazione di una persona condannata all’ergastolo che non si presti “a collaborare”. Questo lavoro si è già concretizzato in un’istanza da parte di un detenuto ergastolano costretto in galera in base al dettato del 4bis. Chi volesse l’istanza intera ce lo faccia sapere che la spediamo. Qui ci limitiamo a riprendere i suoi tratti essenziali.
La possibilità consiste nell’avanzare “incidente di esecuzione” presso la corte d’appello competente con la richiesta di convertire la pena dell’ergastolo in pena temporanea (30 anni), ciò insieme alla verifica della legittimità costituzionale insieme alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) in merito alla condanna all’ergastolo perpetuo a dell’art. 4bis.
La CEDU è chiara: gli stati membri emettano pure condanne all’ergastolo che però vanno subordinate alla condizione che lo stato membro “preveda nel suo ordinamento giuridico una revisione dell’ergastolo, su richiesta o al più tardi dopo 20 anni di carcere”…
La richiesta di incidente di esecuzione si fa forte inoltre della Costituzione italiana dove in diversi suoi articoli sostiene: che l’ergastolo è possibile inserirlo nella condanna “soltanto se associato alla possibilità della liberazione condizionale”. Nel 2003 la Corte Costituzionale inoltre precisava ai tribunali competenti che il “ravvedimento” della persona condannata non è limitabile alla “collaborazione” come invece viene attribuito dal 4bis, ciò non consente al giudice ulteriori riferimenti.
Questa, in estrema sintesi, l’istanza di cui si parla, volta ad ottenere delle sentenze di illegittimità dell’art. 4bis da parte delle corti di Appello. Questo invito coinvolge tante persone e sta divenendo momento che da vita a proteste. Insomma, lo si deve studiare bene per coglierne tutte le sue implicazioni.
Del resto, anche in questo caso - come in quello delle circolari DAP e delle sentenze della cassazione sul divieto di inviare, portare, libri a chi in 41bis - ci si trova di fronte a comportamenti dettati dall’interesse a rendere sempre più terrorizzante la controrivoluzione, le carceri e quindi le condanne e i modi di consumarle. Ciò non sorprende ma di certo ci dobbiamo attrezzare per affrontare un’offensiva (che coinvolge anche i processi, le aggressioni contro scioperi, guerre, occupazione delle case…) che va oltre le leggi, compresa la Costituzione, quella europea compresa.
usa: interruzione del lavoro contro la schiavitù carceraria
Prigionieri da tutti gli Stati Uniti hanno appena rilasciato questo invito all'azione per un'interruzione del lavoro dei prigionieri coordinata a livello nazionale contro la schiavitù carceraria che si terrà il 9 Settembre 2016.
Questa è una chiamata all'azione contro la schiavitù in America.
In una sola voce, che nasce nelle celle di isolamento a lungo termine e che ha fatto eco nei dormitori e nei bracci dalla Virginia all'Oregon, noi prigionieri degli Stati Uniti giuriamo di porre finalmente fine alla schiavitù nel 2016.
Il 9 settembre del 1971 i prigionieri hanno conquistato e chiuso Attica, il più famigerato carcere dello Stato di New York. Il 9 settembre del 2016, inizieremo un'azione volta a chiudere le prigioni in tutto il paese. Non chiederemo la fine della schiavitù carceraria, la finiremo noi stessi smettendo di essere schiavi.
Nel 1970 il sistema carcerario statunitense si stava sgretolando. In Walpole, San Quentin, Soledad, Angola e molte altre prigioni, le persone si erano alzate in piedi, combattevano e prendevano possesso delle loro vite e corpi liberandoli dalle colonie-prigioni. Negli ultimi sei anni abbiamo ricordato e rinnovato quella lotta. Nel frattempo, la popolazione carceraria è aumentata a dismisura e le tecnologie di controllo e confinamento si sono sviluppate divenendo le più sofisticate e repressive nella storia del mondo. Le prigioni sono diventate più dipendenti dalla schiavitù e dalla tortura per mantenere la propria stabilità.
I prigionieri sono costretti a lavorare per poco o a gratis. Questa è schiavitù. Il 13° emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti mantiene un'eccezione legale perché la schiavitù possa continuare nelle carceri degli Stati Uniti. Essa afferma "né schiavitù né servitù involontaria, se non come una punizione per il crimine di cui il partito deve essere stato debitamente condannato, deve esistere all'interno degli Stati Uniti."
I sovrintendenti guardano ogni nostra mossa, e se noi non eseguiamo i compiti designati come piace a loro, siamo puniti. Possono avere sostituito la frusta con lo spray al peperoncino, ma molti degli altri tormenti restano: l'isolamento, la contenzione fisica la denudazione e l'investigazione dei nostri corpi come se fossimo animali.
La schiavitù è viva e vegeta nel sistema carcerario, ma entro la fine di quest'anno, cesserà. Questo è un appello per porre fine alla schiavitù in America. Questa chiamata va direttamente agli schiavi stessi. Non stiamo facendo richieste o pretese ai nostri carcerieri, stiamo chiamando noi stessi all'azione. Ad ogni prigioniero di ogni istituzione statale o federale di questa terra, noi chiediamo di smettere di essere uno schiavo, di lasciare che i raccolti marciscano nei campi della piantagione, di andare in sciopero e cessare di riprodurre le istituzioni della loro reclusione.
Questo è un appello per un arresto del lavoro prigioniero a livello nazionale per porre fine alla schiavitù carcere, a partire dal 9 settembre 2016. Essi non possono gestire queste strutture senza di noi.
Negli ultimi anni sono aumentate le proteste non violente, le interruzioni del lavoro, gli scioperi della fame e gli altri rifiuti di partecipare alle procedure ed alle esigenze della prigionia. Lo sciopero dei prigionieri della Georgia nel 2010, i massicci scioperi della fame a staffetta della California, l'interruzione del lavoro del Free Alabama's Movement nel 2014, hanno richiamato maggiormente l'attenzione, ma sono ben lungi dall'essere le uniche manifestazioni del potere prigioniero. Grandi, a volte efficaci scioperi della fame sono scoppiate presso la Ohio State Penitentiary, nella Menard Correctional dell'Illinois, a Red Onion in Virginia, così come molte in altre prigioni. Il movimento di resistenza in espansione è vario e interconnesso, ed include i centri di detenzione per immigrati, i carceri femminili e le strutture giovanili. Lo scorso autunno, le donne prigioniere a Yuba County Jail in California si sono unite allo sciopero della fame iniziato dalle donne detenute in centri di detenzione degli immigrati in California, Colorado e Texas.
I prigionieri in tutto il paese si impegnano regolarmente in una miriade di dimostrazioni di potere al suo interno. La maggioranza delle azioni è compiuta con solidarietà prigioniera: la costruzione di coalizioni trasversali alle linee razziali e di banda per affrontare l'oppressore comune.
Quarantacinque anni dopo Attica, le onde del cambiamento stanno tornando nelle prigioni americane. Questo settembre speriamo di coordinare e generalizzare queste proteste, per costruire un'unica marea che il sistema carcerario americano non potrà ignorare o resistere. Speriamo di porre fine alla schiavitù carceraria rendendola impossibile, rifiutando di essere ancora schiavi.
Per raggiungere questo obiettivo, abbiamo bisogno di sostegno da parte di persone all'esterno. Una prigione è un ambiente di facile blocco, un posto di controllo e confinamento dove la repressione è integrata in ogni muro di pietra e in ogni anello della catena, in ogni gesto ed in ogni routine. Quando ci ribelliamo a queste autorità, essi si abbattono su di noi, e l'unica protezione che abbiamo è la solidarietà dall'esterno. L'incarcerazione di massa, che sia in strutture private o statali, è uno schema in cui cacciatori di schiavi pattugliano i nostri quartieri e controllano le nostre vite. Richiede criminalizzazione di massa. I nostri travagli sul lato interno sono uno strumento utilizzato per controllare le nostre famiglie e le comunità all'esterno. Certi americani vivono ogni giorno non solo nella minaccia di esecuzione stragiudiziale, come è stato richiamato in ampio ritardo dalle proteste che circondano la morte di Mike Brown, Tamir Riso, Sandra Bland e tanti altri, ma anche sotto la minaccia di cattura, di essere gettati in queste piantagioni, ammanettati e costretti a lavorare.
La nostra protesta contro la schiavitù carceraria è una protesta contro la linea diretta da scuola a carcere, una protesta contro il terrore della polizia, una protesta contro i controlli dopo il rilascio. Quando aboliremo la schiavitù, perderanno gran parte del loro incentivo a imprigionare i nostri figli, smetteranno di costruire trappole per tirare indietro coloro che hanno rilasciato. Quando rimuoviamo il movente economico e il grasso del nostro lavoro forzato dal sistema carcerario degli Stati Uniti, l'intera struttura dei tribunali e della polizia, di controllo e di cattura di schiavi deve spostarsi per ospitarci come esseri umani, piuttosto che come schiavi.
La prigione ha un impatto su tutti, quando ci ergeremo e porremo il nostro rifiuto il 9 settembre 2016, abbiamo bisogno di sapere che i nostri amici, le nostre famiglie ed i nostri alleati sulla parte esterna ci copriranno le spalle. Questa primavera ed estate saranno le stagioni dell'organizzazione, di diffondere la parola, di costruire reti di solidarietà e di mostrare che siamo seri e di cosa siamo capaci.
Fatevi avanti, alzatevi in piedi, unitevi a noi.
Contro la schiavitù carceraria. Per la liberazione di tutti.
Per ulteriori informazioni, aggiornamenti e materiali e opportunità organizzative seguite i seguenti siti: SupportPrisonResistance.net, FreeAlabamaMovement.com, IWOC.noblogs.org.
tradotto da iwoc.noblogs.org
LA CATASTROFE E' OGNI GIORNO IN CUI NON ACCADE NULLA
Sulla conclusione del processo per il 15 ottobre romano
Il 12 maggio si è tenuta l'ultima udienza del processo di primo grado per i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma. Fu una giornata di lotta in cui la rabbia e l'insofferenza, a lungo trattenute, sfociarono in numerose azioni di attacco contro luoghi rappresentativi dello sfruttamento e dell'oppressione e che ebbe il suo culmine negli scontri di piazza S. Giovanni.
Eravamo in tanti/e a vivere quella giornata di rivolta, oggi alcuni di noi rischiano di pagarne le conseguenze. Come abbiamo già visto per il processo di Genova l'accusa di devastazione e saccheggio è lo strumento attraverso il quale il potere attua la sua vendetta: colpendo alcuni/e vuole intimorirne molti.
Le condanne sono pesanti, da 4 mesi fino a 9 anni (distribuite tra 15 imputati, due sono stati assolti). Inoltre, ministeri (Ministero degli Interni, Ministero della Difesa, Ministero dell'Economia), banche (Banca Popolare del Lazio), Comune di Roma e aziende municipalizzate (ATAC e AMA), hanno ottenuto ingenti risarcimenti in qualità di parti civili danneggiate. La beffa, oltre che il danno, dal momento che proprio questi sono tra i soggetti che ogni giorno devastano e saccheggiano le vite di milioni di uomini e donne.
La magistratura si è accanita contro chi ha espresso una rottura della pacificazione sociale indicativa di una tensione reale che al potere fa paura, una tensione che ci auguriamo si ripeta con sempre maggiore frequenza ed estensione.
Rivoltarsi è l'unico modo possibile per cambiare l'ordine delle cose, continuare ad attaccare è la prima forma di solidarietà verso i compagni colpiti dalla repressione.
La stessa rabbia e determinazione esplose a Roma le abbiamo vissute nelle manifestazioni del 24 gennaio a Cremona e del 1° maggio a Milano.
Nella loro specificità si è trattato, in tutti i casi, di momenti di conflitto condivisi e partecipati da molti/e, rispetto ai quali il potere ha risposto con gli stessi strumenti repressivi.
Proprio l'uso strumentale del reato di “devastazione e saccheggio” denota la natura politica di questi processi a cui viene però attribuita in maniera formale, da parte dello Stato, una funzione puramente tecnico giuridica. La repressione ha tentato di azzittire gli accusati, di dividerli, di isolarli, di privarli della solidarietà.
Vogliamo rompere questi meccanismi, essere vicini ai nostri compagni, difenderli, rivendicare con fierezza le ragioni per cui abbiamo lottato. Vogliamo unire gli sforzi dei/delle solidali per costituire quella forza in grado di rispondere all'attacco.
Questa sentenza non pone fine a niente, né alla lotta né alla solidarietà: facciamo appello a tutte e tutti a partecipare alle prossime udienze dei processi di Milano e Cremona, e a dare il loro contributo in ogni modo e luogo ritengano necessario e utile.
Il silenzio è complicità, la rassegnazione è morte!
Solidarietà a tutti i compagni colpiti dalla repressione. Libertà per tutti e tutte.
10-100-1000 15 OTTOBRE!
Prossimi appuntamenti processuali: 14 giugno, Milano; 7 luglio Cremona.
Le compagne e i compagni riunitisi in assemblea a Roma il 12/05/2016
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Resoconto del presidio davanti al palazzo di giustizia di Milano
Giovedì 5 maggio in quel palazzaccio era fissato il primo grado, per gli scontri a Milano del 1° Maggio 2015, contro i compagni arrestati il 12 novembre scorso, Casper (ancora a S.Vittore), Molestio (da poco in comunità), Iddu e Nano (ai domiciliari).
La sera precedente una quarantina di compas ha girato attorno a S.Vittore facendosi sentire con “Fuori tutti dalle galere…”, botti e battiture; la risposta da dentro è stata semplicemente corale, diretta. In particolare Molestio e Casper sono stati salutati per comunicare loro forza di fronte ai giudici e alla giustizia di classe.
Il mattino seguente, attorno alle 9, abbiamo aperto davanti al palazzaccio diversi striscioni, fra i quali “Il 1° Maggio 2015 c’eravamo tutti – Il 1° Maggio complici e solidali con gli arrestati”, volantinato un foglio sulle ragioni della lotta contro l’Expo, a cominciare dalle guerre imperialiste, comprese nelle devastazioni ambientali, sociali condotte dal saccheggio globale delle multinazionali (Coca Cola, Monsanto, Mc Donald’s... promotrici anche di Expo 2015) che obbligano milioni di persone a fuggire dai paesi d’origine; che hanno imposto, anche nei sei mesi Expo a chi è riuscita/o a trovare lì dentro un posto di lavoro, condizioni di lavoro estremamente friabili, offensive.
Colpire gli arrestati con l’accusa di “devastazione e saccheggio”, come nei processi più recenti (contro la manifestazione a Roma del 15 ottobre 2011, a quella di Cremona del 24 gennaio 2015) combacia col ripetuto fine penale di tentare di espellere le ragioni di classe dalla lotta attraverso il tentativo di ridurre le persone aggredite in aggressori, e via di questo passo devastante. Intorno a mezzogiorno si è occupata, con striscioni, anche con il banco del cibo, la strada davanti al tribunale.
Negli interventi lanciati dall’impianto sono stati ripresi i temi del volantino uniti alla necessità di rafforzare il movimento di lotta costruendo unità fra le lotte per l’abitare e quelle nel settore del trasporto e immagazzinamento delle merci. In questo contesto, per rafforzarsi e distendersi, deve trovare posto anche la lotta contro “repressione”, cioè, carcere, tribunali, espulsioni che, appunto, diffondono terrore, divisioni, paralisi con esecuzioni mortali, arresti, campagne razziste… con la devastazione, il saccheggio proprie del capitale.
Negli interventi, si è anche detto: impariamo dalla Francia, dove si sta esprimendo una forte opposizione al tentativo di varare una legge simile al “Jobs Act” varato in Italia, che ha imposto condizioni di lavoro più degradanti a lavoratrici-lavoratori. Unirsi a questa esplosione, con tutta l’intelligenza e determinazione necessarie, può solo portarci chiarezza e slancio. Facciamolo e al più presto.
L’udienza si è conclusa verso le 15 con le richieste del pm di: 5 anni e 8 mesi per Casper e Molestio e di 4 anni e 4 mesi per Iddu e il Nano (con l’applicazione dello sconto di 1/3 previsto dal rito abbreviato).
Dopo la requisitoria dell’accusa, è stato il turno dell’avvocato Pelazza, difensore di Iddu: l’arringa si è concentrata sul reato di devastazione e saccheggio, mettendone in luce gli aspetti controversi, attraverso l’analisi dei casi degli ultimi vent’anni. A Iddu non è stato permesso di concludere la lettura della propria dichiarazione spontanea, in quanto ritenuta non inerente al procedimento.
La difesa degli altri tre imputati e la sentenza sono rinviate alle prossime udienze, rispettivamente il 9 e 14 giugno.
Il Comune di Milano non potrà più costituirsi parte civile (perché avanzata in ritardo), quindi in causa rimangono Unicredit e il Ministero dell’Interno, le cui richieste ammontano a 870.000 € e 300.000 €. Infine la novità: il “risarcimento per le ore di straordinario” che pretenderebbe la DIGOS (poco meno di 8.000 €).
Milano, maggio 2016
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Bologna: incontro-discussione su devastazione e saccheggio
Cosa si intende per devastazione e saccheggio? Qual’é la sua storia e la sua giurisprudenza? Riflessioni sull’ormai famigerato art. 419 c.p. con cui le procure portano avanti dal 2001 la loro crociata contro il dissenso radicale.
In un particolare momento storico di crisi socio-economica dovuta all’avanzare in tutta Europa del capitalismo e delle destre fasciste-razziste e xenofobe, Potere costituito e Stato cercano di estirpare qual si voglia espressione di malcontento e rivolta sociale.
Non è un caso, infatti, che contemporaneamente in tre procure d’Italia (Roma, Cremona, Milano) si portino avanti processi, riguardo a giornate di lotta, nei quali viene ripescato quell’odioso capo d’imputazione (di retaggio fascista) situato al numero 419 del codice penale, meglio conosciuto come “devastazione e saccheggio” che comporta pene altissime, dagli 8 ai 15 anni di reclusione.
Dopo alcuni incontri e discussioni avvenuti nelle città direttamente interessante dalle giornate di rivolta, anche a Bologna vogliamo riportare l’attenzione su questo strumento con il quale la macchina repressiva sta continuando ad infliggere pene pesantissime nelle varie aule dei Tribunali.
Tante sono state le campagne e le iniziative organizzate contro il reato di devastazione e saccheggio, apparentemente dunque, dovremmo essere molto ferrati e al tempo stesso aver tratto degli insegnamenti o degli strumenti; invece ogni volta che viene utilizzato questo reato, sembra sempre di ripartire daccapo.
Invitiamo tutti e tutte a partecipare all’incontro e discussione e ai successivi concerti che si terranno a Bologna il 17 Giugno 2016 presso lo Spazio Sociale Autogestito XM24-ExMercato Ortoflorofrutticolo Via Aristotile Fioravanti 24, Bolognina.
Presto verrà stilato un programma più dettagliato e preciso.
Ricordiamo anche che tre giorni prima, il 14 giugno, il Tribunale di Milano si esprimerà riguardo i 4 arrestati per la rivolta del Primo Maggio a Milano e il 7 Luglio quello di Cremona riguardo la “seconda tranche” di arresti per la rivolta antifascista del 24 gennaio 2015.
COMPLICI E SOLIDALI CON RIBELLI E RIVOLTOSI!
le pene alternative non sono così poi alternative
Gli “arresti domiciliari” insieme alle diverse “misure preventive”, approfondite in questi ultimi anni, sono parte del sistema di controllo, spionaggio e intimidazione. La realtà dice che oggi in Italia nelle carceri ci sono poco più di 50mila persone, mentre nelle cosiddette forme alternative ve ne sono oltre 30mila.
Al di là delle espressioni-considerazioni sulla violenza, una critica diretta di queste forme di carcerazione è presente nell’appello lanciato da le madri e i padri, e i famigliari e i tanti amici dei 28 ragazzi e ragazze che a Torino sono stati sottoposti a misure cautelari molto dure e che, in occasione del 25 aprile, hanno chiamato a una fiaccolata per la loro liberazione.
Così come nell’appello di Beppe, un compagno chiuso dal 9 aprile scorso ai “domiciliari” a Giaglione (Val di Susa) con l’accusa di resistenza, ha annunciato di mettersi in sciopero della fame contro la carcerazione, comunque mascherata, per la liberazione.
Beppe non viene accusato di aver esercitato violenza contro un funzionario di polizia, bensì di aver leso il prestigio e l’interesse della Pubblica Amministrazione: “…poichè l’oggetto giuridico protetto è la tutela del corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione nonché il prestigio della stessa e non occorre che la violenza ponga in pericolo l’integrità fisica del soggetto passivo essendo sufficiente il mero impedimento dell’atto da parte del pubblico ufficio proprio in quanto il delitto va a ledere gli interessi della Pubblica Amministrazione e non la persona fisica del funzionario.”
La forma dei “domiciliari” è aggressione, controllo, tentativo di emarginazione della ribellione, della sua socializzazione, in forme nascoste ma non per questo meno pericolose nei confronti della dignità, delle capacità critiche delle persone prese di mira.
La realtà ci dice che il carcere si estende non più e soltanto con l’innalzamento di mura di cemento-ferro che inglobano celle ma piuttosto anche adoperando le abitazioni delle persone come luoghi di oppressione dei suoi rapporti.
L’appello lanciato da Torino, la protesta di Beppe e il comunicato scritto dai compagni di Torino dopo l'applicazione del divieto di dimora richiamano a comprendere e portare avanti la lotta contro l’apparato penale di cui carcere e tribunale non sono più i soli pilastri fisicamente visibili; altri ne sono sorti, apparentemente meno visibili, di sicuro però non meno aggressivi.
Lettera aperta a chi crede nel 25 aprile ...e riconosce come fondante della nostra società il valore e la pratica dell'antifascismo
Siamo le madri e i padri, i familiari e i tanti amici dei 28 ragazzi e ragazze che, nella nostra città - medaglia d’oro per la Resistenza - sono stati sottoposti a misure cautelari molto dure. Non per aver rubato soldi pubblici nè per aver avvelenato l’aria con la polvere di amianto ma per aver lottato contro il treno ad alta velocità Torino-Lione, oppure per aver difeso le aule universitarie dai tentativi sempre più frequenti di infiltrazione da parte dei fascisti torinesi, o ancora per aver manifestato in corteo contro la presenza e i comizi di un partito xenofobo e razzista che ben conosciamo.
Ebbene questi ragazzi sono stati “incarcerati in casa”, in stretto isolamento, costretti quindi alla perdita del loro lavoro, allontanati dalla frequentazione dei loro corsi universitari (per cui hanno pagato tasse sempre più alte) e dei loro amici, o di tutte queste cose insieme. Tutti, privati dei loro affetti.
E tutti noi familiari, privati dei nostri figli, o sottoposti con loro a restrizioni personali molto forti; obbligati a tener fuori da casa nostra l’idraulico o il nonno o il postino; svegliati durante la notte dai frequenti, pretestuosi, controlli di solerti forze dell’ordine. Con l’angoscia e la consapevolezza che, per i nostri figli, si sta creando un chirurgico isolamento sociale.
Questi ragazzi, che sono tutti in attesa di processo, quindi non ancora giudicati da sentenza, vivono questa repressione per aver fatto quello che NOI gli abbiamo insegnato: valori antifascisti e di solidarietà; quello che NOI, forse per stanchezza, o per il troppo impegno che oggi è indispensabile per mantenere a galla noi stessi le nostre famiglie e le nostre case, non facciamo più. Magari pensiamo, e giudichiamo. Ma non agiamo
Loro invece sì, agiscono quotidianamente. Con coraggio, con intelligenza del presente, con generosità e simbiosi con gli ultimi.
Non con la violenza, agiscono, ma con una cosa semplice dal nome antico che tutti conosciamo: la libertà di dissenso, il coraggio della partecipazione. NOI glielo abbiamo insegnato, e allora: signori Procuratori della Procura di Torino, davvero ritenete di poterci sostituire, di poter far meglio di noi, nell’educazione politica e sociale dei nostri figli, comminando isolamento e punizione e impoverimento prima del processo?
Tutti questi ragazzi sono nostri figli ed è giunto il momento, per noi, di agire per loro.
I nostri ragazzi non sono solo "nostri", perché lottano ogni giorno per migliorare il futuro di tutti/e, senza anteporre interessi personali.
Oggi come genitori e parenti prendiamo temporaneamente il loro posto perché dei giudici poco imparziali continuano a privarli della libertà punendoli senza che ancora ci sia una sentenza. Si dice che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, in queste e altre vicende non vi è nemmeno un processo.
Testimoniamo la loro assenza con i nostri corpi e con le loro idee, per la costruzione di un presente migliore e per un futuro di diritti uguali per tutti e tutte.
Siamo qua, pronti a prendere il loro posto, almeno per un poco, almeno fino a che ce la faremo. Con i nostri corpi. Invitiamo tutti coloro che, come noi e i nostri figli, credono nei valori e nelle pratiche dell'antifascismo a partecipare alla fiaccolata del 25 aprile. Ore 20 piazza Arbarello - Torino.
20 aprile 2016, da infoaut.org
la mia richiesta di libertà
Egregia Dottoressa Bianco, non sono qui a chiedere la grazia ma allo stesso tempo non ci sto a fare il carceriere di me stesso.
E’ passato più di un mese da che sono costretto ai domiciliari e le mie condizioni economiche non mi permettono più di fare fronte al pagamento delle bollette e fare materialmente la spesa per il cibo. Tenga conto che di tutti i miei precedenti penali non ho fatto più di dieci giorni di carcere ed in cinquant’ anni suonati non conosco altra maniera di vivere se non come uomo libero .
Inoltre dal 2009 ho iniziato una convivenza con la mia compagna Monica andando ad abitare a Giaglione, facendo la scelta di andare a vivere fuori città, in montagna, rinunciando alle comodità e sicurezze per la mia sensibilità alla tutela ambientale e salvaguardia del territorio montano .Infatti sono più di sei anni che faccio quelle che sono le attività tipiche dei montanari: la raccolta di piccoli frutti, di funghi, legna da ardere in cambio della pulizia dei boschi, sistemazione e manutenzione dei muretti a secco e canali irrigui ed in ultimo, non per importanza , ma per il fabbisogno alimentare conduco anche un orto e un frutteto affidatomi da un anziano del paese.
Considero questi arresti domiciliari ingiusti perché penso che la giustizia non dovrebbe essere utilizzata come strumento di controllo e repressione sociale. In questa situazione mi sento condannato per le mie idee politiche ancor prima di essere giudicato per i reati di cui sono accusato. Da Lei mi è stato anche negato di recarmi dal mio legale.
Delego il mio avvocato a concordare eventuali forme meno afflittive di controllo che mi permettano di svolgere le attività sopra descritte.
Questa è la mia richiesta di libertà.
Nella mia situazione non mi rimane altro mezzo per oppormi a quello che considero un sopruso e un’ingiustizia: nel mese di giugno entrerò in sciopero della fame.
Mi riservo inoltre di rendere pubblica la medesima per mettere a conoscenza della mia situazione l’opinione pubblica e la società civile. Distinti saluti.
Giuseppe Lizzari
Giaglione, 25 maggio 2016
notav.info
Puntare i piedi
La presenza sempre più invadente della polizia a far retate, controlli ad ogni angolo e nei bar salta agli occhi a tutti coloro che attraversano le strade di Torino nord. Le statistiche confermano ciò che si presagisce dalle percezioni in strada, sembra aumentare l’impegno a punire reati considerati lievi: il controllo diretto diventa maggiore, il numero di persone arrestate per piccole attività illegali cresce. E anche il tribunale di Torino sembra si stia organizzando a riguardo, dotandosi di strumenti in grado di far condannare più velocemente chi commette reati come furto, violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale, violazione di sigilli, risse, ricettazioni. E dove la repressione riesce a cacciare le persone indesiderate dalle strade, ripulite per il nuovo profitto urbano, rimangono telecamere a scrutare costantemente lo spazio e vigilanza privata a far la ronda. S’incuneano così i processi di riqualificazione dello spazio e di messa a profitto che nell’ultimo decennio procedono a spron battuto in certi quartieri ormai ex-popolari di Torino.
In un clima d’attenzione generalizzata all’estirpazione di comportamenti illegali diffusi la Procura torinese, e il Tribunale in genere, pare abbiano deciso di intraprendere una crociata fino all’ultimo respiro contro le persone e i gruppi che si oppongono in diversi modi a progetti di opere infrastrutturali, a cicli di sfruttamento, a dinamiche d’esclusione.
Così in Val di Susa, dove chi ha partecipato concretamente all’opposizione alla costruzione del treno veloce si è visto appioppare misure cautelari come arresti domiciliari, obblighi di dimora e firme quotidiane dai carabinieri.
In città poi la notifica di una misura cautelare in seguito a una denuncia per una contestazione in degli uffici pubblici, per la partecipazione a un picchetto contro uno sfratto o per una semplice contrapposizione alle forze dell’ordine è ormai un’abitudine.
L’ultima cattiva nuova è del 25 maggio quando la polizia ha bussato in diverse case di Barriera di Milano per notificare dodici divieti di dimora dalla città di Torino.
All’origine di queste misure cautelari c’è una piazzata con qualche secchio di letame presso gli uffici di Ladisa - ditta che si occupava di servire i pasti ai reclusi nei Cie – durante una giornata promozionale. E questi dodici sono solo gli ultimi di una lunga lista di compagni banditi da Torino negli ultimi anni. E divieto di dimora dopo divieto di dimora, con il minimo sforzo, l’utilizzo di una misura cautelare minore la cui notizia non fa fragore come quella di un arresto, si tolgono di mezzo dalla geografia cittadina molte braccia e teste impegnate nella ricerca quotidiana delle possibilità di lottare, organizzarsi insieme, immaginare e provare a sovvertire il presente. Una misura che non dura solo alcuni mesi, ma essendo considerata lieve può essere rinnovata per più di un anno, costringendo le persone toccate a far le valigie e inventarsi un motivo per vivere altrove.
Si abbassa così l’asticella delle possibilità di una lotta di avanzare: diminuiscono le forze e ad aumentare rischia di essere invece la consapevolezza che basta poco per essere cacciati dalla città.
Per poter continuare le lotte che quotidianamente portiamo avanti contro gli sfratti e contro il Cie ci sembra quindi necessario iniziare a puntare i piedi rispetto a queste misure. Vogliamo che i nostri compagni, amici, affetti rimangano qui accanto a noi a vivere e a LOTTARE!
27 maggio 2016, da autistici.org/macerie
La Francia e noi. 5 brevi riflessioni
Al momento in cui scriviamo quest'articolo, la Francia è bloccata: le manifestazioni e gli scioperi settoriali e generali contro il progetto di riforma del diritto del lavoro si contano a decine e non accennano a finire.
Lo sciopero delle raffinerie ha lasciato a secco la maggior parte dei distributori di carburante, e quello delle centrali nucleari rischia di lasciare senza corrente il paese. Nel frattempo il governo ricorre ad una sorta di fiducia per blindare il provvedimento, mostrando contemporaneamente deboli segni di apertura al solo scopo di smontare una protesta enorme, la cui grandezza però non riesce ad attraversare le Alpi: sui nostri giornali, infatti, nessuna traccia. Sui social, intanto, decine e decine di lavoratori si disperano: perché loro sì e noi no? Per evitare di cadere in spiegazioni di ordine antropologico su una presunta “incapacità” degli italiani a mobilitarsi, proviamo a condividere alcune riflessioni, allo scopo di capire tutti insieme una cosa semplice: solo chi non lotta perde, e solo chi si arrende in partenza è sconfitto.
1. i sindacati francesi e quelli italiani. L'OCSE riporta, per il 2013, una percentuale di lavoratori iscritti al sindacato pari al 7,7% in Francia, a oltre il 37% in Italia. La CGT, principale sindacato francese, paragonabile anche per storia politica alla nostra CGIL, nel lavoro privato conta l'1-2% di iscritti al massimo. Del resto anche i numeri italiani vanno ridimensionati, dal momento che degli oltre cinque milioni di tesserati dichiarati dalla CGIL per il 2015 quasi tre milioni sono pensionati, quindi non fanno parte della popolazione attiva. La copertura sindacale, invece, ovvero la quantità di lavoratori coperti da contrattazione collettiva, si aggira tra l'80% e il 90% in entrambi i paesi; sempre al di qua e al di là delle Alpi vigono norme simili sulla rappresentanza, quantificata sulla base del numero di iscritti e dei risultati elettorali delle diverse sigle. Insomma, la differenza fondamentale risiederebbe nella maggiore debolezza dei sindacati francesi rispetto a quelli italiani, dovuta al minor numero di iscritti. Ma è l'unica differenza?
2. lotta e concertazione. I sindacati francesi, a differenza di quelli italiani, non “cogestiscono” insieme ai padroni il mondo del lavoro. Tra le cause non vi è solo la relativa debolezza, ma anche il fatto che in Francia la legge, storicamente, è più “forte” della contrattazione: i sindacati e le associazioni padronali, nei contratti di categoria, possono “deliberare” su molte meno cose rispetto all'Italia, e hanno quindi meno poteri. Inoltre in Italia i sindacati più grandi gestiscono direttamente fondi pensione, CAF, siedono nei cosiddetti organismi bilaterali, nel CNEL, hanno insomma un ruolo che va ben oltre la rivendicazione e il conflitto, un ruolo anzi che vede questi ultimi due aspetti minoritari. A cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80 sia in Italia che in Francia una buona parte del mondo sindacale – in Italia la CGIL, in Francia la CFDT, simile alla CISL – ha abbracciato la linea della “compatibilità” con gli interessi dei padroni; l'Italia, però, è andata molto oltre, e i sindacati più grandi hanno progressivamente rinunciato alla lotta in cambio di un maggior potere di cogestione nel mondo del lavoro. Risultato: benché in linea con tutti i paesi industrializzati, le ore di sciopero sono calate molto più in Italia che in Francia. Nel 2008, secondo l'ILO, in Francia si è scioperato quasi il doppio che in Italia, e anche nel 2010, confrontando diversi studi, in Italia abbiamo fatto circa un milione di ore in meno di sciopero. Perché? Lo abbiamo appena detto: così come dei sindacati coinvolti (complici) nella gestione del lavoro hanno interesse a scioperare il meno possibile, allo stesso modo dei sindacati più deboli, come quelli francesi, hanno interesse, per questione di sopravvivenza e di appeal, ad assumere posizioni più radicali e a portare avanti le rivendicazioni con maggior determinazione. Va aggiunto, inoltre, che proprio per assecondare le esigenze “soporifere” dei nostri sindacati, negli ultimi 25 anni circa le leggi sullo sciopero in Italia sono diventate molto meno permissive e più severe.
3. Non c'è più niente da fare? Per nulla, anzi: dopo aver elencato alcuni degli elementi che rendono oggettivamente più difficile la lotta in Italia, ricordiamoci quanto è stato difficile, per i padroni, portare a casa il risultato. 13 anni ci sono voluti per cancellare l'articolo 18; un quindicennio circa per riformare le pensioni; ancora oggi, in alcune grandi aziende, il Jobs Act è stato disapplicato grazie alla forza dei lavoratori, che hanno pressato i loro rappresentanti sindacali. Ancora oggi si strappano notevoli aumenti salariali e si fanno cancellare licenziamenti, come nella logistica; ancora oggi i lavoratori in lotta ottengono di essere assunti dal pubblico e non essere più precari. Non c'è da disperarsi, quindi, né da pensare che altrove si vince magari perché gli altri “hanno le palle” e noi no: queste sono frasi di merda che abbiamo sentito dire da diversi sindacalisti per giustificare il loro opportunismo o inettitudine. La verità è che molto spesso i lavoratori che vogliono lottare devono scontrarsi prima col sindacalista, poi col padrone: due nemici al posto di uno! Tutto sta, invece, nel rendersi conto di quali sono i nostri punti di forza, da valorizzare, e le nostre debolezze da superare: il resto verrà facile, tanto finché ci saranno schiavi ci saranno rivolte. Per capire queste cose, guardiamo di nuovo a quello che succede al di là delle Alpi.
4. Notti in piedi, giorni in sciopero! Ha fatto tanto scalpore, e giustamente, il movimento di occupazione delle piazze che sta coinvolgendo centinaia di migliaia di cittadini francesi, un'ondata di partecipazione democratica che ha rotto il clima di isolamento e paura che era seguito agli attentati di Novembre. Nell'analizzare l'efficacia delle proteste, rendiamoci conto però che la loro principale forza sta nel gioco di sponda che sono riuscite a costruire con le mobilitazioni dei lavoratori. Ne hanno rilanciato e generalizzato i contenuti, sollevando la molteplicità di temi e problemi che si intrecciano a quelli dello sfruttamento nel luogo di lavoro. Sono così riusciti a dare risonanza e legittimazione alle forme di lotta più dure, dai cortei agli scioperi ai blocchi. Lotte spesso difficili da portare avanti, ma in grado di far paura realmente ai padroni e di toccare i gangli del potere. I lavoratori dei trasporti, dell'energia, della logistica, della meccanica, dei servizi pubblici, della grande distribuzione, per citare i principali settori essenziali della società contemporanea, quando decidono di astenersi dal lavoro, e di farlo in modo da creare un danno – quindi senza preavviso, il più a lungo possibile, etc etc – iniziano a fare una danno, crescente di minuto in minuto, alla sola cosa che interessa ai padroni dopo ma forse più della loro stessa vita: le loro tasche. Non solo: quando l'astensione dal lavoro rende un paese ingovernabile, chi governa quel paese è costretto ad intervenire perché il controllo gli può sfuggire rapidamente di mano. La risposta repressiva è sempre possibile, ma certamente non facile come quando una protesta non comporta nessun disagio; inoltre uno sciopero in un settore strategico – ad esempio i trasporti – è in grado di moltiplicare il danno: tutti i settori che sono infatti collegati ai trasporti vedranno i loro guadagni diminuiti a cascata! Il potere dei lavoratori è enorme, ed è necessario ricostruire la consapevolezza della nostra forza.
5. Il punto debole delle lotte in Francia (e in Spagna, Grecia, Portogallo…). Prima o poi questa lotta finirà, portando a casa un risultato proporzionato all'intensità del combattimento che, crediamo, sarà positivo, qui ed ora, per i lavoratori francesi. Possiamo dire però da ora che non risolverà il nodo centrale, quello contro il quale si sono scontrati, negli scorsi anni, anche i lavoratori di altri paesi, e anche noi. È evidente, infatti, guardando il succo delle riforme in atto in Europa, che la direzione dei padroni è unica: farci lavorare più tempo, pagarci di meno, licenziarci quando vogliono. Il Jobs Act andava in questa direzione, la legge El-Khomri va in questa direzione, la riforma in discussione proprio in questi giorni in Belgio va in questa direzione, l'unica possibile per i padroni oggi. L'attacco è lo stesso, ma la risposta è stata sempre separata: oggi, ad esempio, il punto debole dei francesi... siamo noi! Una nuova stagione di lotte in Italia, ad esempio contro il Jobs Act, significherebbe riaprire il conflitto in un paese che, ancora oggi, è uno dei giganti mondiali della produzione di merci, il secondo paese produttore in Europa dopo la Germania. Unire le lotte e le vertenze dei lavoratori in Italia significherebbe alzare enormemente il livello di conflitto in Europa. Il secondo paese produttore è, ovviamente, un sorvegliato speciale: non è un caso che da noi lottare è diventato così difficile, i sindacati così corrotti, la sfiducia così generalizzata. Ma niente, nella società, è incontrovertibile, soprattutto quando si parla di lavoro. Il meglio che possiamo fare, quindi, è generalizzare il conflitto; parlarci tra lavoratori; liberarci dei sindacalisti inutili, codardi e corrotti ricostruendo le nostre organizzazioni e dandoci nuovi rappresentanti; individuare dei temi generali – la cancellazione del jobs act, ad esempio – e concentrare le lotte su obiettivi unitari; guardare a chi lotta fuori dai nostri confini, o a chi lo fa qui da noi senza essere nato in Italia, come ad un fratello, non ad un nemico. La vittoria di un singolo lavoratore in un qualunque paese del mondo è una vittoria per tutti noi!
27 maggio 2016, da clashcityworkers.org
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Francia: la lotta contro il governo prosegue con il blocco delle raffinerie e dei depositi dei carburanti
Dopo oltre due mesi il movimento di lotta in Francia contro la Loi du Travail (Legge sul Lavoro), non si ferma. In questi giorni, su iniziativa dei sindacati CGT e Force Ouvrière, sono cominciati i blocchi alle raffinerie e ai depositi di carburante. L’intenzione è colpire dove gli fa male, fino ad oggi il vero motore della protesta erano stati gli studenti delle scuole superiori e i partecipanti a Nuit Debout, l’Acampada.
I sindacati hanno organizzato decine di blocchi di raffinerie, porti e depositi di carburante. 6 delle 8 raffinerie francesi sono bloccate in questo momento da scioperi o picchetti con effetti che iniziano a farsi sentire direttamente sulle pompe di benzina; hanno già messo in difficoltà migliaia di stazioni di servizio e alcune prefetture del nord della Francia hanno cominciato a razionare l’accesso al carburante.
Centinaia di agenti in assetto antisommossa sono stati inviati a sgomberare i blocchi. A Lorient, dove centinaia di portuali bloccavano un importante deposito di carburante, la polizia è intervenuta in forze nella giornata di venerdì per smantellare le barricate montate dai lavoratori facendo uso di lacrimogeni e manganelli. I manifestanti hanno risposto lanciando pietre e oggetti contro i poliziotti. Così a Dunkerque, a Rouen. Nella notte tra domenica e lunedì un nuovo importante deposito è stato bloccato a Fos sur Mer da 500 manifestanti.
La determinazione dei manifestanti sta già portando i primi frutti. Il governo ha fatto marcia indietro sulle misure della Loi du Travail che toccavano la categoria degli auto-trasportatori dopo il blocco di numerosi caselli autostradali: Questo primo importante risultato deve incoraggiare tutti i lavoratori, andremo fino in fondo, ha dichiarato Catherine Perret, segretario confederale della CGT.
Martedì ci sarà un nuovo sciopero dei ferrovieri, mentre giovedì è stato dichiarato l’ottavo sciopero generale per tutte le categorie e nei prossimi giorni sono previste nuovi picchetti per bloccare completamente gli snodi marittimi francesi.
1 giugno 2016, liberamente tratto da infoaut.org
Modena, contro fascismo, razzismo, per la casa
Il 17 gennaio la prefettura autorizza un presidio neo fascista, adducendo le solite, inconcepibili motivazioni, quali la salvaguardia della forma istituzional-democratica. La risposta dei sindacati confederati è di raccogliersi nel solito, scontato e ininfluente “teatrino” sotto al sacrario dei partigiani caduti per mano della ferocia nazifascista.
Il blocco sociale meticcio che invece fa dell'antifascismo e dell'antirazzismo una pratica politica quotidiana, non crede che possano bastare manifestazioni di posa o di facciata a fronte di iniziative esplicitamente fasciste. Il corteo del blocco meticcio, composto da studenti, lavoratori precari, migranti e occupanti… persone che hanno trovato nella giornata di oggi un momento di ricomposizione sotto lo striscione “Fuori i razzisti e i fascisti dalle città”.
La volontà della manifestazione di esprimere per le strade di un centro cittadino blindato, si è scontrata con le manganellate, che non hanno comunque fermato il corteo, che riesce a raggiungere piazza Garibaldi. Qui diverse persone prendono parola per sottolineare come solo proseguendo lotte ricompositive il fascismo e il razzismo potranno essere eliminati dai quartieri e dalle città.
La mattina del 23 gennaio viene messo in piedi un presidio in seguito a un’irruzione della polizia municipale all'interno degli appartamenti della casa occupata di via Bonacorsa 20, in pieno centro storico. La polizia (stavolta municipale) tentato di identificare forzatamente le famiglie presenti, operazione che è culminata con l'arresto di DB intervenuto con altri compagni per bloccare l'intimidazione.
Questo non ha fermato la determinazione della comunità resistente che si organizza quotidianamente insieme allo sportello sociale LaRage per ottenere il blocco degli sfratti per morosità, fine degli sgomberi delle occupazioni e ripresa di una seria politica abitativa nel territorio.
In una città curiosa di capire cosa succedeva, sono intervenuti occupanti, studenti medi e universitari, precari e lavoratori. Tutte/i arrivat* per difendere la libertà del compagno, l cui ‘colpa’ è quella di credere nella possibilità di vedere rispettate le esigenze di chi sta subendo i rintocchi della campana della crisi. […]
Tre mesi dopo, l’11 maggio di primo mattino arriva la polizia il cui obiettivo immediato è cacciare le famiglie dagli stabili occupati a scopo abitativo nel centro storico di Modena e chiudere lo Sportello La Rage-spazio Guernica. Gli stabili sono occupati da circa 60 persone tra donne, uomini e bambini. Dopo le proteste verbali e i tentativi di fare cordone per impedire lo sgombero, intorno alle 11.30 ci sono state cariche e incidenti con alcuni contusi in piazzale Redecocca dove sono ospitati alcuni uffici comunali. Una bambina viene ferita durante lo sfondamento di una porta. Contro le persone accorse, alla richiesta di effettuare insieme i colloqui con gli assistenti sociali, la polizia ha caricato violentemente, causando diversi feriti. Nasce un corteo spontaneo, che riesce ad avvicinarsi al Comune di Modena…
gennaio-maggio 2016, liberamente tratto da infoaut.org
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Non si ferma l’emergenza abitativa a Torino
Una mamma con sua figlia sono state sfrattate dalla forza pubblica. I padroni saranno anche tigri di carta, ma i muri popolari sembrano fatti di carta pesta.
Stamattina abbiamo dovuto affrontare una situazione inaudita verso una delle famiglie che da tempo seguono il nostro percorso. Paulina e sua figlia di circa 7 anni, sono state sbattute in mezzo alla strada con violenza ed infamia da parte di chi dovrebbe gestire uno dei maggiori problemi nella nostra città, quello dell'emergenza abitativa.
Prima che si costituisse il muro popolare sono entrati in casa sua la proprietà e l’ufficiale giudiziario scortati da digos e carabinieri. A Paulina é stato immediatamente sequestrato il cellulare perchè fosse impossibilitata nel contattare amici e solidali. Arrivati sul posto, in Via Ceresole 19, la digos ha chiamato la celere, giunta in tutta fretta con due blindati, impedendoci di avere qualsiasi contatto con Paulina e senza darci la possibilità di darle supporto fisico e psicologico in questo momento drammatico.
Paulina è stata scortata fino ai servizi sociali dalla digos stessa, i quali hanno allontanato chiunque volesse starle vicino per poterla meglio intimidire e terrorizzare. Ora le è stata fornita la possibilità di chiedere dei preventivi per farsi ospitare in albergo, il cui conto potrebbe essere pagato dall’assistenza sociale. Forse.
Ci chiediamo che razza di soluzione sia andare in un albergo, che deve cercarsi lei, per un mese? E poi? Queste sono le soluzioni che la città di Torino offre a chi non ha neanche il reddito per potersi pagare un affitto? E’ come problema di ordine pubblico che la “politica abitativa” della nostra città tratta un’emergenza sociale? Ci chiediamo inoltre come mai l’immobiliare Elga 2000, proprietaria di tutto l’immobile e di chissà quanti altri appartamenti a Torino, abbia il privilegio di un intervento del genere.
Non ci stupisce come l'ufficiale Unep, Casaretta, ormai più che noto per le sue posizioni poco concilianti e responsabile della maggior parte degli sfratti a sorpresa che sono stati notificati, sia stato scortato fino alla macchina e si sia rifiutato di dare risposte alle nostre legittime domande!
Noi non molliamo e faremo in modo che questi soprusi non passino sotto silenzio, ci organizzeremo di conseguenza per dare a Paulina la vita dignitosa che si merita, insieme a chi lotta tutti i giorni per un tetto sopra alla testa.
Ufficiali giudiziari, polizia e istituzioni sono i complici che creano questa crisi che conserva i privilegi dei soliti noti, degli speculatori e dei palazzinari!
Siamo tanti, saremo di più! Casa per tutt*, sfratti per nessun*!
Le famiglie dello Spazio Popolare Neruda
21 aprile 2016