indice n.109
Libia, il piano della conquista
COMUNICATO SUL 25° ANNIVERSARIO DELLA GUERRA DEL GOLFO
sugli ATTENTATI IN BURKINA FASO
riEsplode la rivolta in Tunisia
Calais (Francia): la sfida della giungla!
Un anno di lotte contro il sistema di controllo
Ancora manicomi: sulla REMS di Bologna
Lettera dal carcere di Terni
lettera dal 41bis del carcere di Viterbo
comunicato collettivo dal carcere di agrigento
lettera da un carcere del marocco
lettere dal carcere di opera (mi)
Lettera dal carcere di Velletri (rm)
lettera dal carcere di Ancona
lettera dal carcere di vicenza
Lettera dal carcere di Livorno
Spagna: botte, isolamento, Trasferimenti e scioperi della fame
sul processo di appello per lucio, francesco e graziano
roma: resoconto udienza per il corteo del 15 ottobre 2011
Cremona: un anno dopo
milano: Tredici anni di carcere per cinque compagni
Da due lettere dal carcere di san vittore (mi)
Novelle da Trento
Firenze: resistenza contro il distacco della luce
fidenza (pr): bormioli in lotta
A fianco dei lavoratori Saeco.
La svendita della città del Commissario Tronca
Confindustria detta le linee in materia di Pubblico impiego
Libia, il piano della conquista
«Il 2016 si annuncia molto complicato a livello internazionale, con tensioni diffuse anche vicino a casa nostra. L'Italia c'è e farà la sua parte, con la professionalità delle proprie donne e dei propri uomini e insieme all'impegno degli alleati»: così Matteo Renzi ha comunicato agli iscritti del Pd la prossima guerra a cui parteciperà l'Italia, quella in Libia, cinque anni dopo la prima.
Il piano è in atto: forze speciali Sas - riporta «The Daily Mirror» - sono già in Libia per preparare l'arrivo di circa 1.000 soldati britannici. L'operazione - «concordata da Stati uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia» - coinvolgerà circa 6.000 soldati e marine statunitensi ed europei con l'obiettivo di «bloccare circa 5.000 estremisti islamici, che si sono impadroniti di una dozzina dei maggiori campi petroliferi e, dal caposaldo Isis di Sirte, si preparano ad avanzare fino alla raffineria di Marsa al Brega, la maggiore del Nordafrica».
La gestione del campo di battaglia, su cui le forze Sas stanno istruendo non meglio identificati «comandanti militari libici», prevede l'impiego di «truppe, carrarmati, aerei e navi da guerra». Per bombardare in Libia la Gran Bretagna sta inviando altri aerei a Cipro, dove sono già schierati 10 Tornado e 6 Typhoon per gli attacchi in Siria e Iraq, mentre un cacciatorpediniere si sta dirigendo verso la Libia. Sono già in Libia - conferma «Difesa Online» - anche alcuni team di Navy Seal Usa.
L'intera operazione sarà formalmente «a guida italiana». Nel senso che l'Italia si addosserà il compito più gravoso e costoso, mettendo a disposizione basi e forze per la nuova guerra in Libia. Non per questo avrà il comando effettivo dell'operazione. Esso sarà in realtà esercitato dagli Stati uniti attraverso la propria catena di comando e quella della Nato, sempre sotto comando Usa. Un ruolo chiave avrà lo «U.S. Africa Command», il Comando Africa degli Stati uniti: esso ha appena annunciato, l'8 gennaio, il «piano quinquennale» di una campagna militare per «fronteggiare le crescenti minacce provenienti dal continente africano».
Tra i suoi principali obiettivi, «concentrare gli sforzi sullo Stato fallito della Libia, contenendo l'instabilità nel paese».
Fu il Comando Africa degli Stati uniti, nel 2011, a dirigere la prima fase della guerra, poi diretta dalla Nato sempre sotto comando Usa, che con forze infiltrate e 10mila attacchi aerei demolì la Libia trasformandola in uno «Stato fallito». Ora il Comando Africa è pronto a intervenire di nuovo per «contenere l'instabilità nel paese», e lo è anche la Nato che, ha dichiarato il segretario generale Stoltenberg, è «pronta a intervenire in Libia».
E di nuovo l'Italia sarà la principale base di lancio dell'operazione. Due dei comandi subordinati dello «U.S. Africa Command» si trovano in Italia: a Vicenza quello dello «U.S. Army Africa» (Esercito Usa per l'Africa), a Napoli quello delle «U.S. Naval Forces Africa» (Forze navali Usa per l'Africa). Quest'ultimo è agli ordini di un ammiraglio Usa, che è anche a capo delle Forze navali Usa in Europa, del Jfc Naples (Comando Nato con quartier generale a Lago Patria) e, ogni due anni, della Forza di risposta Nato. L'ammiraglio è a sua volta agli ordini del Comandante supremo alleato in Europa, un generale Usa nominato dal Presidente, che allo stesso tempo è a capo del Comando europeo degli Stati uniti.
In tale quadro si svolgerà la «guida italiana» della nuova guerra in Libia, il cui scopo reale è l'occupazione delle zone costiere economicamente e strategicamente più importanti.
Guerra che, come quella del 2011, sarà presentata quale «operazione di peacekeeping e umanitaria».
12 gennaio 2016, da resistenze.org
COMUNICATO SUL 25° ANNIVERSARIO DELLA GUERRA DEL GOLFO
Segue un comunicato uscito a supporto delle manifestazioni contro la guerra imperialista a Roma e Milano del 16 gennaio 2016.
Venticinque anni fa, nelle prime ore del 17 gennaio 1991, iniziava nel Golfo Persico l’operazione «Tempesta del deserto», la guerra contro l’Iraq che apriva la fase storica che stiamo vivendo.
Questa guerra, preparata e provocata da Washington con la politica del «divide et impera», veniva lanciata nel momento in cui, dopo il crollo del Muro di Berlino, stavano per dissolversi il Patto di Varsavia e la stessa Unione Sovietica. Approfittando della crisi del campo avversario, gli Stati Uniti rafforzavano con la guerra la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo.
La coalizione internazionale, formata da Washington, inviava nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi, agli ordini di un generale Usa. Per 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuava, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciavano oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipavano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciavano l’offensiva terrestre. Essa terminava il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.
La guerra del Golfo fu la prima guerra a cui partecipava sotto comando Usa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della propria Costituzione. I caccia Tornado dell’aeronautica italiana effettuarono 226 sortite, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense.
Nessuno sa con esattezza quanti furono i morti iracheni nella guerra del 1991: sicuramente centinaia di migliaia, per circa la metà civili. Ufficiali statunitensi confermavano che migliaia di soldati iracheni erano stati sepolti vivi nelle trincee con carri armati trasformati in bulldozer. Alla guerra seguiva l’embargo, che provocava nella popolazione più vittime della guerra: oltre un milione, tra cui circa la metà bambini.
Subito dopo la guerra del Golfo, gli Stati Uniti lanciavano ad avversari e alleati un inequivocabile messaggio: «Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana» (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, agosto 1991).
La Nato, pur non partecipando ufficialmente in quanto tale alla guerra del Golfo, metteva a disposizione sue forze e strutture per le operazioni militari. Pochi mesi dopo, nel novembre 1991, il Consiglio Atlantico varava, sulla base della guerra del Golfo, il «nuovo concetto strategico dell'Alleanza». Nello stesso anno in Italia veniva varato il «nuovo modello di difesa» che, stravolgendo la Costituzione, indicava quale missione delle forze armate «la tutela degli interessi nazionali ovunque sia necessario».
Nasceva così con la guerra del Golfo la strategia che ha guidato le successive guerre sotto comando Usa – contro la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011, la Siria dal 2013 – accompagnate nello stesso quadro strategico dalle guerre di Israele contro il Libano e Gaza, della Turchia contro i curdi del Pkk, dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla strategia Usa/Nato, dall’uso di forze neonaziste per il colpo di stato in Ucraina funzionale alla nuova guerra fredda e al rilancio della corsa agli armamenti nucleari.
Su tale sfondo il Comitato No Guerra No Nato ricorda la guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli.
Comitato No Guerra No Nato
19 dicembre 2915, da change.org
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La situazione in Afghanistan secondo la NATO
L’anno scorso annunciava con toni festosi il “ritiro delle truppe” dall’Afghanistan; si deve intendere “truppe straniere”: in totale 16mila soldati, dei quali 13mila sotto l’Alto Comando della “Missione Resolute Support” – di cui 3mila appartengono alle Unità Speciali USA.
Il ritiro definitivo reale era stato fissato per il dicembre 2016; Obama il 15 ottobre scorso però ha corretto questa decisione, precisando che in Afghanistan resteranno 5.500 soldati USA fino al cambio presidenziale, cioè fino al gennaio 2017. Ciò vuol dire, fra le altre, che numerose basi militari ora yankee – fra le quali Bagram, Kandahar e Dschalalabad – continueranno ad essere nelle mani della NATO. La Germania e altri importanti alleati USA sono compresi in questo prolungamento militare occidentale in Afghanistan. Anzi, per quel che riguarda la Germania, è previsto addirittura un rafforzamento del suo contingente.
Quanto sta accadendo era prevedibile, primo perché: l’“accordo sulla partecipazione strategica di lunga durata” fra governo afghano e statunitense sottoscritto nel maggio 2012, garantisce agli USA l’impiego in Afghanistan di numerose basi militari fino al 2024; secondo perché: la fragilità delle forze armate afghane è conosciuta da anni, la supposizione che loro riuscissero a sostenere la guerra contro il talebani era sin dall’inizio manifestamente falsa, tanto da non essere mai stata presa sul serio.
L’esercito afghano, su disposizione del Pentagono negli ultimi sei anni si è gonfiato, passando da 40mila a 350mila soldati. Escluse poche unità speciali, il grosso di quell’esercito è molto lontano dal possedere standard professionali. Tanti soldati non sanno leggere, né scrivere e calcolare. La loro motivazione è un’ombra e oggi ancora più debole di due anni fa, dopo che gli afghani – e non più le truppe straniere – portano sulle loro spalle il carico principale della guerra – compresa la morte in battaglia. Una realtà che ha accresciuto il tasso della diserzione e dell’infiltrazione talibana.
Si parla di “truppe fantasma”, i soldati vengono registrati, ma nella realtà non ci sono, fuggono dopo aver incassato il soldo. La diserzione danneggia i comandi. Ci sono battaglioni che nel momento contano la metà, a volte appena un terzo delle forze scritte. Altro problema fondamentale è rappresentato dal fatto che l’esercito afghano ancora non riesce ad utilizzare le tecniche riguardanti rifornimento, comunicazione, esplorazione, sostegno all’artiglieria pesante e ai bombardieri aerei… tutte capacità presupposte alla realizzazione di operazioni autonome. Il sospetto è che gli USA abbiano volutamente impedito la conoscenza di quelle tecniche allo scopo di tenere dipendenti, da loro, le forze armate afghane.
La debolezza di quell’esercito è divenuta tema dei media occidentali successivamente alle ultime battaglie vinte dai talebani, rispettivamente: nell’occupazione della città di Kundus durata due settimane (fine di settembre 2015) e nell’avanzata, tuttora in corso, nella provincia di Helmand. Sui media occidentali quelle notizie, se e quando vengono riportate, in ogni caso non informano sull’andamento politico. Non viene scritto che gli USA dopo le elezioni presidenziali 2014 hanno imposto la formazione di un “governo di unità nazionale”, che nella realtà si dimostra incapace. Ancora oggi non è chiaro di quale poteri disponga il presidente Ghani. Cos’è successo?
Nel primo turno Ashraf Ghani arrivò solo secondo con il 31,5% dei voti, mentre lo sfidante Abdullah Abdullah si assicurò il 45% dei voti. I due hanno continuato a contestare il ballottaggio che si è tenuto il 14 giugno 2014. Il 21 settembre dello stesso anno Ghani venne riconosciuto dal Comitato Elettorale Indipendente legittimo vincitore, diventando così Presidente della Repubblica Islamica dell'Afghanistan. Abdullah continua a non darsi per vinto… Si è così determinata una situazione caotica al punto che numerose funzioni del governo centrale ancor oggi sono vacanti, paralizzate. Inoltre: il tempo legale del parlamento scade ufficialmente il prossimo 22 giugno. Il presidente Ghani l’ha prolungato, con un decreto di dubbia legalità “fino alla prossima tornata elettorale” di cui è sconosciuta la data. USA e UE tacciono per non danneggiare ulteriormente la stupida ma utile finzione dell’esistenza di una democrazia afghana.
2 gennaio 2016, da jungewelt.de
sugli ATTENTATI IN BURKINA FASO
Segue un comunicato della CCVC di Ouagadougou ("Coordinamento nazionale di lotta contro il carovita").
Dallo scorso 15 gennaio 2016, il nostro paese deve affrontare degli attacchi terroristici mortali. Il primo si è verificato a metà giornata a Tin-Akoff e ha preso di mira un convoglio di polizia facendo due morti secondo un comunicato delle forze armate nazionali. Il secondo, si è verificato intorno alle 19, e si è trattato di una serie di attacchi che hanno colpito l’hotel Splendide e il ristorante Le Cappuccino. Questa mattina alle prime ore, mentre si pensava che queste aggressioni fossero terminate, si è appreso di altri attacchi ad un secondo hotel nella città di Ouagadougou. Il bilancio provvisorio di questi attacchi è stimato essere di almeno una ventina di morti e molti feriti.
Questi attentati che, secondo alcuni media sarebbero stati rivendicati dal ramo Al Mourabitoun dell’AQMI, costituiscono i più gravi attacchi terroristici che il nostro paese abbia mai subito. Essi si verificano in un contesto caratterizzato, sul piano sub-regionale, dallo sviluppo del terrorismo nella regione dell’Africa occidentale. A livello nazionale, questi attacchi fanno seguito ad una serie di eventi tra cui gli attentati terroristici di Tambao, di Oursi e di Samorogouan nel 2015 e il colpo di Stato difensivo di stampo fascista perpretato da Gilbert Diendéré nel settembre 2015. Nell’ambito del procedimento giudiziario contro gli autori di questo colpo di Stato, si apprende che un mandato d’arresto internazionale è stato emesso dalla giustizia del Burkina Faso contro Guillaume Soro, presidente dell’Assemblea nazionale ivoriana sospettato di connivenza con le forze terroristiche.
Per il Coordinamento della CCVC della Città di Ouagadougou, questi attacchi derivano da un piano per destabilizzare il nostro paese al fine di:
- far rimpiangere la partenza di Blaise Compaoré cacciato dall’insurrezione popolare dell’ottobre 2014 e presentato come l’uomo indispensabile per contrastare le invasioni jihadiste nel nostro paese;
- legittimare e rinforzare la presenza delle forze straniere soprattutto americane e francesi sul nostro territorio con il pretesto della lotta contro il terrorismo qui, anche se essi non hanno ancora vinto il terrorismo, che affligge mortalmente, nei loro paesi;
- soffocare la lotta del nostro popolo per la sua vera indipendenza, e annientare le conquiste preziose dell’insurrezione popolare dell’ottobre 2014 e della resistenza al putsch del settembre 2015.
In questo momento cruciale per il nostro popolo, il coordinamento della CCVC della Città di Ouagadougou: presenta le sue condoglianze alle famiglie delle vittime e augura una pronta guarigione ai feriti; condanna fermamente questi attacchi terroristici che sconvolgono tutta la vita sociale, economica e politica; denuncia ed esige la partenza delle forze straniere specialmente statunitensi e francesi presenti sul nostro territorio, fonte di insicurezza ed aggressione contro il nostro Popolo; sostiene ed incoraggia gli elementi delle FDS (Forze di difesa e di Sicurezza) mobilitate per affrontare questa barbarie; chiama il popolo della città di Ouagadougou a rimanere mobilitato e vigilante e di continuare ad organizzarsi in Comitati di vigilanza e di difesa delle conquiste della insurrezione popolare dell’ottobre 2014 e della resistenza al putsch del settembre 2015.
Ouagadougou, 16 gennaio 2016
da piattaformacomunista.org
riEsplode la rivolta in Tunisia
La scorso domenica Ridha Yahtaoui muore suicida su un traliccio della corrente elettrica. Era salito fin lassù per protestare, insieme ad altri, della pubblicazione delle liste di impiego nella funzione pubblica da cui erano stati esclusi numerosi aventi diritto, lui compreso.
Siamo a Kasserine, a pochi giorni dal quinto anniversario della cacciata del dittatore tunisino Ben Ali avvenuta il 14 gennaio 2011, nella città che versò una quantità eccezionale di sangue e conta un numero impressionante di martiri della rivoluzione.
Migliaia di giovani e meno giovani si riversano per le strade, incendiano pneumatici, allestiscono barricate e ingaggiano un faccia a faccia con la celere armata di tutto punto. Vengono incendiati numerosi edifici dell’amministrazione e i posti di polizia evacuati.
Il governo balbetta di prossime misure economiche da promuovere nella regione, rimuove il governatore e impone il coprifuoco. Ma le iniziative governative non placano la piazza che anzi viene sostenuta dagli scontri e dalle barricate nelle altre città: a Sfax pneumatici in fiamme per le strade principali e immolazione mortale di un giovane disoccupato, a Kairouan occupata la sede del governatorato, a Jendouba scontri davanti alla sede del governatorato, scontri a Testour e Sidi Bouzid dove nella notte viene data alle fiamme la sede della delegazione della regione e la dogana del Regueb, strade in fiamme a Kram (estrema periferia di Tunisi), scontri con la celere e sede del Partito Nidha Tunis incendiato a Rdeheyef e incidenti tra manifestanti e polizia a Tahla e Gafsa. L’elenco potrebbe durare citando numerose località più piccole dell’entroterra del paese magrebino che all’unisono si sono sollevate sull’onda dei fatti di Kasserine, ma aggiungiamo che altre manifestazioni hanno interessato anche la capitale Tunisi, con una marcia che ha raggiunto il centro città e l’Avenue Bourguiba, e Sousa dove gli studenti stanno manifestando da giorni. E’ di questa mattina la notizia che un poliziotto è stato linciato a morte dai manifestanti che a Kesserine hanno violato il coprifuoco scontrandosi per tutta la notte con la polizia.
Questa cronaca è il miglior commento sui cinque anni di “transizione democratica” nel paese madre dei processi rivoluzionari esplosi in tutto il mondo nel 2011.
In Tunisia successivamente alle grandi giornate della Prima e Seconda Casbah la reazione prese il volto dell’ipotesi demoislamista con la salita al potere del partito Ennnahdha e poi con l’affermazione di Nidha Tunis, in larga parte composto da figure proveniente dall’Rcd vecchio partito del regime di Ben Ali, affermando un lungo termidoro caratterizzato dal più completo disconoscimento delle istanze della rivoluzione tunisina e da possenti iniziative repressive contro le organizzazioni progressiste (con gli assassini politici di due grandi esponenti della sinistra di classe del paese) e il ritorno dello strapotere della polizia nelle città e nei quartieri, in questo caso orientata dalla morale islamista. Non a caso in queste ore di rivolta gli slogan sono gli stessi di cinque anni fa: si grida per il diritto al lavoro, alla dignità e alla giustizia sociale; e i protagonisti delle iniziative di piazza sono sempre i giovani e giovanissimi tunisini delle città più massacrate dalla povertà e dall’ingiustizia che già nel 2011 avevano dato prova di grande coraggio e forza scatenando in strada tutta la rabbia di intere generazioni umiliate dal regime di Ben Ali prima, e dal regime della “transizione democratica” tanto cara a UE, USA ed alleati.
La maggior parte delle persone che stanno scendendo in piazza in questi giorni ripetono “che niente è cambiato” da quel fatale 2011, eppure ci viene da aggiungere che neanche la determinazione e la forza della piazza è da meno.
Non è un caso che proprio a Kasserine si sia aperta questa nuova ondata di rivolta, in quella regione infatti si concentrano le più grandi contraddizioni della Tunisia morsa tra corruzione, povertà e ora alle prese anche con i simpatizzanti dell’esercito del Califfo.
A pochi chilometri dalla città da mesi si sono asserragliati su un monte alcune bande filo-Isis che spesso hanno seminato terrore nei villaggi circostanti provocando contro di loro una decisa collera popolare scatenata anche per l’incapacità o la poca volontà dell’esercito di intervenire.
Questa è in sintesi la miscela che ha provocato l’incendio ancora in corso e in evoluzione a partire da un territorio dove il tasso di disoccupazione è da record e dove una famiglia di quattro membri è costretta a vivere con massimo cento euro al mese. Impossibile dire oggi se i recenti eventi tunisini preludono ad una radicale messa in discussione del regime ma è certo che stiamo assistendo alla più grande rivolta dal 2011 che in questa occasione ha già segnato il corso della “transizione democratica”.
21 gennaio 2016, da infoaut.org
Calais (francia): la sfida della giungla!
La Prefettura aveva annunciato che inizierà a sgomberare l'area della giungla che rientra nel raggio di 100 metri di distanza dall'autostrada. La zona è stata delimitata con vernice spray dai funzionari della Prefettura alcuni dei quali erano stati coinvolti nei precedenti sgomberi degli ultimi anni – e in molte zone l'area delimitata è chiaramente superiore ai 100 metri. Qual è la strategia?
Innanzi tutto, le persone vengono sfrattate dalla città di Calais e messe in un ghetto in una zona inquinata – lì il governo francese “ha aperto la giungla”, attraverso la violenza.
Una zona della giungla viene evacuata attraverso uno sgombero col supporto dell'associazione La Vie Active, che dicono alle persone che devono spostarsi e promettono una soluzione migliore. Alcune delle case già spostate, con l'aiuto dei collaboratori francesi, devono essere nuovamente spostate in una zona di costruzione più grande.
La OFII (l'Ufficio immigrazione francese) cerca di spostare, con gli autobus, molte persone fuori dalla giungla, nei centri di accoglienza in tutta la Francia.
E’ chiaro: i governi francese e inglese lavorano insieme e non vogliono che la gente attraversi la Manica da Calais. Anche adesso, con tutte le recinzioni e violenze, piccoli gruppi di persone stanno sfidando il regime e attraversano la frontiera.
Di seguito una raccolta di articoli di gennaio tradotti e ripresi su hurriya.noblogs che fanno luce sulle dinamiche e il retroterra che ha portato ai giorni di scontro e ferocia xenofoba del 5-6-7 gennaio a Calais per lo sgombero della zona di accoglienza e solidarietà per rifugiati e non, nota come "giungla".
Messaggio degli abitanti della giungla
“Noi, abitanti della giungla di Calais, decliniamo le richieste del governo francese per quanto riguarda la riduzione delle dimensioni della giungla. Abbiamo deciso di rimanere dove siamo e di resistere pacificamente al governo che progetta di distruggere le nostre case. Chiediamo alle autorità francesi e alla comunità internazionale di comprendere la nostra situazione e rispettare i nostri diritti umani fondamentali.”
Notti e giorni di battaglia
Intorno alla mezzanotte del 5 gennaio un gruppo di migranti ha lasciato la giungla e si è incamminata verso la città. Mentre passavano vicino la casa dei simpatizzanti neonazisti che collaborano col gruppo "Les Calasiens en Colere" ("Gli abitanti di Calais arrabbiati"), sono stati attaccati da un gruppo di fascisti che hanno provato ad inseguirli fino alla giungla.
Quando questo è accaduto, la comunità curda, che vive con donne e bambini in quell’area si è mobilitata e ha spinto i fascisti fuori dalla giungla. La polizia ha poi proceduto ad avanzare nello steso terreno, sparando enormi quantità di gas lacrimogeni.
Il giorno dopo gli immigrati hanno posizionato tronchi e pali di metallo sulla strada per bloccare il traffico e rendere possibile l'accesso al retro dei camion che vanno verso il Regno Unito. La polizia ha rapidamente ridotto il traffico sull'autostrada, chiudendo temporaneamente l'intero tratto. Col continuare degli scontri la polizia ha schierato due cannoni ad acqua e ha usato anche la "forza letale" dei proiettili di gomma, ferendo due minorenni. A mezzanotte del 7 gennaio circa 30 poliziotti antisommossa erano all'ingresso principale della giungla, per impedire alle persone di uscire.
Sabato 23 gennaio, migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione che ha percorso le strade di Calais, rispondendo all'appello dei migranti che da mesi sono lì accampati aspettando di poter raggiungere il Regno Unito. Nelle ultime settimane la polizia (assieme ai fascisti) sta cercando di sgomberare gli accampamenti di rifugiati, intensificare i controlli e costruire muri di filo spinato intorno agli accessi al Tunnel della Manica. Tutte barriere che vengono regolarmente violate dai migranti che cercano di passare nascondendosi sui camion o organizzandosi per attraversare la frontiera in gruppi a piedi. Barriere che hanno già portato a decine di morti.
Il corteo si è diretto verso il porto di Calais dove in diverse centinaia sono riusciti a scavalcare le griglie che lo proteggono ed a salire su uno dei traghetti ormeggiati. La polizia ha reagito con lacrimogeni e cariche violente. Durante la giornata decine ci sono stati i fermi di polizia per migranti e solidali. Tra di loro anche quelli di Martina, Ornella e Valentina, tre ragazze italiane che vivono in Francia per motivi di studio.
Di norma il fermo dura un giorno ma, allo scadere delle 24 ore, sono stati convalidati sei arresti e le tre ragazze, in quanto non cittadine francesi, sono state trasferite al CRA di Lille (Centro di Detenzione Amministrativa), dove si trovano tuttora in stato di fermo con l'accusa di disturbo dell'ordine pubblico. Per loro, nonostante siano cittadine comunitarie, si profila il rischio di un'espulsione dalla Francia. Questo è stato possibile grazie alle leggi e ai poteri speciali introdotti da Hollande dopo gli attentati di Parigi.
Nella giornata, inoltre, a 6 migranti fermati durante il corteo, che erano ancora trattenuti in stato di fermo, è stato confermato l'arresto fino al processo.
Il decreto dello stato di emergenza, presente su tutto il territorio francese ormai da mesi, comporta la restrizione di libertà pubbliche e di circolazione che sempre più evidentemente si profilano anche come un modo per schiacciare i movimenti sociali. Pensiamo che quello che sta capitando in queste ore a Martina, Ornella e Valentina, così come agli altri arrestati dopo la manifestazione di Calais, ne sia un esempio lampante. L'utilizzo dello stato di emergenza come strumento repressivo è diventata l'arma in più del governo francese che da mesi porta avanti una politica xenofoba e razzista sui propri confini. La Francia oggi è il simbolo di quella Fortezza Europa che da sempre combattiamo; la Francia, oggi, utilizzando lo stato di emergenza attacca non solo i migranti ma anche chi gli è solidale.
Il fatto che con lo stato d'emergenza le porte dei Centri di Detenzione oggi si aprano anche per i cittadini comunitari che si ribellano insieme ai migranti è un precedente grave che profila pericolose restrizioni della libertà per tutti e tutte noi. Ma quello che deve scandalizzarci non è tanto che tre ragazze italiane si trovino adesso in un luogo di solito riservato unicamente ai migranti in attesa di espulsione, come se la loro situazione fosse più grave di quella che quotidianamente si trovano ad affrontare centinaia e centinaia di persone a Calais, a Lampedusa o negli altri angoli d'Europa in cui ogni giorno il loro viaggio viene bloccato o ostacolato con controlli, muri e reclusioni. Nel reclamare la libertà immediata per Martina, Valentina e Ornella - respingendo con forza la minaccia di una loro espulsione dal suolo francese - non possiamo che unirci alla rivendicazione urgente a cui sabato queste tre ragazze stavano dando voce assieme a migliaia di persone: l'apertura immediata delle frontiere e la libertà di circolazione per tutti e tutte.
MARTINA VALENTINA ORNELLA LIBERE SUBITO! LIBERI/E TUTTI/E!
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CONTRO LA MAXI PRIGIONE DI BRUXELLES
Lo Stato belga ha in programma di costruire una decina di nuove prigioni sul suo territorio, la più grande a Bruxelles. Questo maxi carcere, di 1.200 posti, ospiterà un tribunale, un complesso psichiatrico, un reparto per minori, uno per donne con i loro figli, varie sezioni maschili differenziate tra lunghe e brevi condanne.
Negli ultimi tre anni è nata una lotta contro questo progetto, in diversi quartieri della città. Una lotta che, attraverso l’autorganizzazione e l’azione diretta, tenta di mettere i bastoni tra le ruote a tutto ciò che partecipa alla costruzione di questo carcere e di infrangere la rassegnazione quotidiana.
Recentemente è stato pubblicato un opuscolo di approfondimento sulla lotta contro questo maxi carcere, scriveteci se volete averne una copia.
Un anno di lotte contro il sistema di controllo
tra accoglienza e detenzione
E’ appena terminato un anno che ha visto centinaia di proteste e lotte portate avanti da migliaia di migranti nelle varie strutture presenti in Italia.
I diversi acronimi ufficiali (CPSA – Centri di primo soccorso e Accoglienza, CDA – Centri di accoglienza, SPRAR – Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, CARA – Centri di accoglienza per Richiedenti Asilo, CIE centri di identificazione ed espulsione, Hotspot) di queste strutture istituzionali non nascondono, per chi ci vive e per chi vuole vedere, un sistema integrato di isolamento, segregazione, controllo e selezione tra le persone arrivate in Italia.
Nei vari centri erano presenti, all’Ottobre 2015, 100.000 persone migranti, il 70% delle quali nelle strutture temporanee.
Alle varie categorie nelle quali le persone vengono arbitrariamente fatte rientrare (migranti economici, rifugiati, richiedenti asilo, profughi, minori non accompagnati, donne vittime di tratta, diniegati, in via di espulsione, transitanti, con o senza permesso di soggiorno, ecc.) corrisponde un iter burocratico, una struttura, una serie di regole e leggi e prescrizioni tra loro diverse ma che hanno in comune l’annullamento dell’autonomia e della libertà delle persone, loro malgrado, coinvolte.
Categorie giuridiche, anche nel cosiddetto “circuito dell’accoglienza”, attraverso le quali s’intende rafforzare il sistema di controllo: è proprio grazie alla frammentazione che si garantirebbe la gestione “senza intoppi” ad enti quali cooperative, associazioni, consorzi e multinazionali.
Un sistema di differenziazione che utilizza in maniera pretestuosa la “protezione nei confronti dei soggetti vulnerabili”: la divisione in quote permetterebbe l’integrazione dei soggetti migranti nei territori ospitanti, seppur si tratti di persone di passaggio e con nessuna intenzione di rimanere a lungo in luoghi mai scelti per vivere, i piccoli centri consentirebbero una suddivisione in base alle necessità, poco importa se, ad esempio, questo comporti la separazione di interi nuclei familiari in base al genere e all’età.
Ciò che appare chiara è la necessità di dividere per gestire, in strutture semi aperte che in base all’esigenza possano cambiare forma giuridica e divenire detentive.
Sono più di 230 le proteste avvenute nei vari centri nel 2015 (quelle che hanno avuto spazio sui mezzi di comunicazione, senza contare le numerosissime proteste individuali e di piccoli gruppi e quelle soffocate nella repressione senza alcun cenno dei media) vorremmo evidenziare invece il protagonismo di chi lotta ogni giorno contro questo sistema di gestione delle persone migranti.
Attraverso queste proteste viene fatta luce sulla realtà del funzionamento di queste strutture. All’interno dei centri anche le più piccole lamentele e reclami, quando non bastano le promesse o le minacce dei gestori, vedono sempre l’immediato arrivo delle forze dell’ordine per intimidire e “calmare gli animi”.
La lotta rappresenta perciò l’unico e necessario modo per far sentire la propria voce. I blocchi stradali e le barricate improvvisate sulle principali strade dove è presente la struttura, il danneggiamento dei centri, l’occupazione degli stessi, la fuga in massa, i presidii davanti a sedi istituzionali (Prefetture, Sedi Comunali, Questure, caserme), il rifiuto di svolgere lavoro non pagato spacciato come lavoro “volontario”, sono le forme con le quali si prende parola contro il silenzio e l’invisibilità imposta e ci si ribella alle autorità.
Ad ogni protesta segue, sui media locali e nazionali, il ricorso alle consuete tecniche di delegittimazione e criminalizzazione: la rabbia e determinazione dei partecipanti viene sempre definita “irrazionale”, il non accontentarsi di sopravvivere per anni in un limbo, ingratitudine; vengono banalizzati i motivi delle proteste, la resistenza attiva viene considerata sempre come un sintomo di follia e bestialità.
Nei giorni successivi alle iniziative di lotta dei e delle migranti le autorità procedono alla loro vendetta: centinaia sono stati gli allontanamenti dai centri e le denunce contro i partecipanti, decine e decine gli arresti.
I democratici e le associazioni umanitarie spiegano le proteste nei “centri di accoglienza” esclusivamente come reazione ad alcune storture degli stessi, in particolare quelli gestiti da persone poco raccomandabili, come nel caso di Mafia Capitale. Esisterebbe invece per costoro, “un’accoglienza che funziona ed integra”, una vera ospitalità da prendere ad esempio e replicare come quella del modello toscano, da “estendere nell’Italia intera” e , perchè no, in Europa. Basta leggere le crude statistiche riguardanti i risultati delle richieste d’asilo esaminate dalla Prefettura di Firenze per valutare questo idilliaco “modello toscano”: 1.857 domande, 248 accolte e 1.609 respinte (l’86,6%). Dietro le fredde cifre, il destino di migliaia di persone che verranno espulse.
Quanto detto non vale solo per l’Italia: dalla Germania alla Svezia, dalla Svizzera alla Francia sono moltissime le proteste di chi è incastrato nel circuito dei vari tipi di centri per migranti. Rinnoviamo a tutt* l’invito a sostenere queste lotte, ad estendere la circolazione delle notizie e delle iniziative, ad organizzare forme di solidarietà attiva e a segnalare atti repressivi.
gennaio 2016, da hurriya.noblogs.org
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23 gennaio: presidi sotto i cie di roma e torino
I Centri di identificazione ed espulsione di Torino e Roma sono tuttora fortemente compromessi nel loro funzionamento grazie alle rivolte dei detenuti: i danni strutturali hanno portato una notevole diminuzione dei posti in corso Brunelleschi e la chiusura di tutta la sezione maschile a Ponte Galeria. I lavori di ristrutturazione delle aree danneggiate sono iniziati ma l’insofferenza verso la reclusione non è terminata, è il pane quotidiano di tutti coloro che ancora si trovano costretti dentro.
Il 23 gennaio si sono tenuti due presidi sotto i Cie di Torino e di Roma, segue il resoconto di quello tenutosi a Roma.
Sabato 23 Gennaio si è svolto il presidio davanti le mura della sezione femminile del CIE di Ponte Galeria a Roma, in contemporanea con quello davanti il CIE di Corso Brunelleschi a Torino. Verso le quattro del pomeriggio circa quaranta persone sono tornate, come ogni mese, a portare solidarietà alle recluse con musica e grida. Dal microfono aperto si sono susseguiti interventi in diverse lingue non solo per far sentire la complicità con le recluse, ma anche per informarle su ciò che sta accadendo fuori, visto l’isolamento in cui sono costrette e per ripetere il numero di telefono con il quale si tiene viva la comunicazione con l’interno. Il presidio è durato poco più di un’ora e si è svolto sotto la sezione femminile perché quella maschile è ancora chiusa in seguito alla rivolta di inizio dicembre, che vi abbiamo raccontato.
Nella sezione femminile del CIE di Roma si respira la solita aria. Sono circa cinquanta le detenute, che passano le giornate provando a sopportare le pessime condizioni di vita, fatte di cibo indecente, freddo e soprusi. Proprio ieri mattina, ci dicono da dentro, è avvenuto l’ennesimo pestaggio ai danni di una donna che ha opposto resistenza alla deportazione. A lei tutta la nostra solidarietà.
Gli ingressi e le uscite dal centro, sempre in base ai racconti delle donne recluse, sono quasi all’ordine del giorno, con donne che vengono da Lampedusa e soprattutto dalle retate in strada, che a Roma sono frequenti e sempre più organizzate. È necessario opporsi alle retate nei quartieri con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, perchè la macchina del CIE e delle espulsioni spesso inizia proprio nelle strade e nei quartieri che viviamo. Così come è necessario mantenere alta l’attenzione rispetto a ciò che avverrà nella sezione maschile. Una sezione distrutta dalle rivolte e che non dovrebbe mai più riaprire.
In conclusione solo due parole sull’atteggiamento delle guardie. Arrivati al CIE abbiamo notato un certo nervosismo da parte di celere e DIGOS, arrivati numerosissimi all’appuntamento. Un dispiegamento imponente, non solo numeroso, anche munito di autoblindo e idrante, una vera e propria scenata. Inoltre alla fine del presidio, alcuni solidali sono stati seguiti in macchina dalla DIGOS per poi essere fermati e identificati in mezzo alla strada da una volante della polizia sopraggiunta all’improvviso. Da parte nostra evidenziamo solo il ridicolo inseguimento da film di spionaggio, che ci ha fatto veramente sorridere. Per il resto, non trattandosi del primo e probabilmente neanche dell’ultimo gesto intimidatorio, non commentiamo oltre.
Contro ogni gabbia e ogni frontiera.
24 gennaio 2015, da hurriya.noblogs.org
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In seguito ad un saluto davanti al Cie di Brindisi-Restinco, tre compagni di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di resistenza e manifestazione non autorizzata.
Il 13 gennaio il Gip non ha convalidato il loro arresto, ma ha imposto l'obbligo di dimora nel comune di residenza, aggravato dal rientro notturno.
«Dall’inizio di Ottobre 2015, nella contrada di Restinco a Brindisi, è di nuovo attivo un CIE (Centro di identificazione ed espulsione) dopo che diverse rivolte dei reclusi lo avevano reso inagibile. I CIE sono dei veri e propri lager in cui vengono rinchiusi gli immigrati senza documenti. La vita in un CIE è fatta di vessazioni da parte di militari e poliziotti e di lauti guadagni per gli enti gestori: nel caso di Restinco, la cooperativa Auxilium.
Dalla riapertura del centro, alcuni compagni si sono recati spesso sotto quelle mura per portare solidarietà ai reclusi. Dopo ripetuti fermi di polizia, sabato 9 gennaio, tre di loro sono stati arrestati con l’accusa di manifestazione non autorizzata e resistenza a pubblico ufficiale. Ci preme ribadire che l’obiettivo principale della repressione è fare in modo che questo lager resti un luogo di segregazione totalmente isolato e sconosciuto ai più.
Chi è indifferente è complice di questi lager.
CONTRO LE FRONTIERE, LIBERI TUTTI, FUOCO AI CIE!»
Ancora manicomi: sulla REMS di Bologna
Sulla R.E.M.S in via Terracini 31 – BOLOGNA
Nel 2011 la degradante situazione che vivevano gli internati dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G), è fuoriuscita da quelle mortificanti strutture “terapeutiche”, rompendo quell'agghiacciante silenzio imposto da gran parte della psichiatria e della magistratura, complice una società”civile” per lo più indifferente e ancora pronta a legittimare le innumerevoli atrocità che tuttora compie professionalmente la pseudo-scienza psichiatrica all'interno dei propri servizi manicomiali gestiti autonomamente dai D.S.M (dipartimenti di salute mentale) o da compiacenti cooperative sociali (tra cui comunità, reparti ospedalieri, centri diurni e ambulatoriali).
L'impatto mediatico ottenuto dalle riprese effettuate all'interno dei vari O.P.G ha certamente favorito l'approvazione della legge 81, la quale sancisce in data 31.3.2015 la chiusura dei sei manicomi giudiziari (cinque tuttora funzionanti) e obbliga ogni Regione a predisporre sul proprio territorio nuove strutture,le R.E.M.S. (residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza).
Ma fin quando non si avrà la volontà di cancellare dal codice penale la cosiddetta “pericolosità sociale”, i giudici sulla base dell'”incapacità di intendere e volere” definita da un perito psichiatra all'interno di un processo penale, applicheranno una “misura di sicurezza detentiva”, ovverosia un internamento nelle R.E.M.S. o “non detentiva” (libertà vigilata) con la presa in carico troppo spesso vitalizia e asfissiante dei servizi psichiatrici territoriali.
Sostituire la targa esterna del manicomio (vedi“ex”-O.P.G di Castiglione delle Stiviere ora R.E.M.S.), rimbiancare le pareti o le mura di cinta, sostituire le inferiate con vetri antisfondamento e capillari sistemi di sorveglianza, sostituire le porte blindate con alte dosi di psicofarmaci e l'uso dei letti di contenzione, diminuire il numero delle persone internate, sostituire l'”ergoterapia” ovverosia il lavoro imposto nei vecchi manicomi con le “attività occupazionali terapeutiche” (solo efficaci nel sopportare il misero e lento trascorrere del tempo), sostituire le divise della polizia penitenziaria con le divise della sicurezza privata, con i camici bianchi dei “medici” e degli operatori sanitari (oltre a un numero insignificante di figure educative troppo spesso appartenenti alla ciurma dei sorveglianti), sono tutte misure utili a mistificare la conservazione dello status quo.
Cambiare tutto per non cambiare nulla...
Anche a Bologna AUSL, magistratura di sorveglianza e compiacenti giornalisti, hanno il coraggio e l'arroganza di presentare il neo-manicomio di via Terracini come un luogo nel quale si concretizza un reale percorso di “superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Le testimonianze e le regole imposte dai vari responsabili/carcerieri, presentano una situazione ben distinta dall'immagine che in questi mesi si è forzatamente costruita. Purtroppo per loro ci sono persone che non si sottomettono a questo stato di cose e denunciano l'esistenza di regole di natura esclusivamente carceraria e manicomiale.
Le visite dei parenti possono essere effettuate solo una ogni due settimane (mentre nell'O.P.G di Reggio Emilia sono concesse sei visite ogni mese), ogni internato può ricevere ed effettuare solo una telefonata alla settimana e solo a numeri autorizzati dai responsabili i quali non sono certamente propensi a richiedere, al magistrato di sorveglianza, “permessi di uscita” dal neo-manicomio (all'O.P.G di Castiglione delle Stiviere si concedono “permessi di uscita” con più frequenza e per più ore o giorni).
Altro che superamento degli O.P.G... Altro che reinserimento sociale...
In tale struttura l'approccio degli operatori non valorizza le diversità ma le patologizza secondo i loro ristretti parametri di giudizio. La loro misera e “indiscutibile” Normalità. L'autorità di chi si autoproclama “terapeuta”.
Le logiche manicomiali, in grado di creare stigma e isolamento dal mondo esterno sono ben radicate in questa struttura a loro dire “di cura e custodia”. Ma sappiamo bene che tutti i castelli di sabbia, presto o tardi crollano inesorabilmente.
Impediamo che i tentacoli asfissianti della psichiatria continuino ad allargarsi in ogni dove, violentando la sfera spirituale, umana, sociale, del disagio, della sofferenza, del proprio essere... della vita.
I Telefoni Viola con le realtà con cui collaborano, continueranno a porre impegno nel rendere sempre più agibili i percorsi di chi esprime la volontà di liberarsi una volta per tutte dalla morsa psichiatrica. Continueremo sempre con maggior tenacia ad offrire un concreto sostegno umano, medico e legale a chi lo riterrà opportuno in pieno rispetto della libertà e della dignità dell'individuo.
16 gennaio 2016, da informa-azione.info
Telefono Viola di Piacenza,Reggio Emilia e Bergamo, Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud - Pisa, Centro Relazioni umane - Bologna, Collettivo antipsichiatrico Camap - Brescia
Lettera dal carcere di Terni
Ciao a tutti, tutto ciò che fate e continuate a fare, con i vostri lavori, con le vostre iniziative e con i progetti futuri che sicuramente avrete, tutto ciò sono lacrime nella pioggia, ma beate queste lacrime, perché altrimenti in questo sistema chiamato “carcere”, veramente non ci sarebbe quella candela che mantiene uniti, fervidi e pronti ognuno a lottare contro questo stato nello stato comandato dai Magistrati, con tutta la sbirraglia a loro servizio.
Sono in media sicurezza, con tutti reati legati alle maledette sostanze, di cui fortunatamente da qualche anno ne sono fuori, grazie a percorsi in comunità; però mai come ora sento in me di dover fare qualcosa affinché tutto ciò possa magari prendere vie diverse da quelle attuali.
Qui in pratica non funziona nulla, a partire dall’Ufficio di Sorveglianza di Spoleto, ove presiede il supremo dott. Gianfilippi, artefice di vita o morte di ognuno di noi, per poi scendere all’interno di questo fantomatico istituto che dopo l’inserimento del padiglione AS3, molto più grande della media sicurezza, e con la presenza già da qualche anno del 41bis, è diventato in pratica di massima sicurezza, pur volendo mantenere l’aura di carcere modello. Ma modello di che? Qui vige senza esclusione (magari di qualcuno sì) il bastone e la carota. Se sei capace di ingraziarti qualche ispettore, te la vai a cantare ecc. schifezze varie, allora lavori, anche se con una paga di merda, ma lavori. Altrimenti rimani in sezione tutto il giorno, a parte il campo e l’aria.
Siamo a sezioni aperte, ma come dicevo, queste piccole concessioni hanno il loro prezzo, vista anche la tipologia dei detenuti che, non nego, per la metà è da OPG. Per non parlare dell’area Sanitaria. Ti chiamano a visita dopo una settimana, per poi prescriverti sempre le stesse pastiglie. Pensate, personalmente devo fare uno screening epatico e sono 11 mesi che aspetto. Ancora non si riesce ad avere un appuntamento in ospedale.
L’area trattamentale diciamo non esiste. Parlando sempre di me, anche potendo beneficiare della 199 non ne ho notizie dall’agosto 2015. Vedere un’educatrice, un assistente sociale è come un’apparizione della Madonna di Lourdes; e poi in 10 minuti di colloquio devi esporre tutta la tua vita, i tuoi problemi, così loro si possono fare un “preciso” quadro su chi veramente siamo e se c’è o no la possibilità di un reinserimento sociale – che è riservato alle categorie di cui ho parlato sopra.
Non voglio farla tanto lunga, altrimenti vi debbo inviare un’enciclopedia, comunque questa mia missiva vuol essere una goccia di quelle lacrime che all’inizio dicevo.
Un abbraccio a pugno chiuso, Sandro.
13 dicembre 2015
Sandro Malacchia, via delle Campore, 32 - 05100 Terni
lettera dal 41bis del carcere di Viterbo
Rinnovando i miei cordiali ringraziamenti per la seconda spedizione del libro (fotocopiato) e che avrei gradito sicuramente leggerlo.
Purtroppo anche con questo sistema non è stato possibile averlo, poiché trattasi ugualmente di libro che i giudici della cassazione con sentenza hanno stabilito che ai detenuti sottoposti al regime di 41bis non è possibile ricevere dall’esterno o inviare all’esterno libri, riviste e altro tipo di lettura.
Memore di quella sentenza la direzione sequestra tutto ciò che proviene dall’esterno. Tuttavia il sottoscritto ha apprezzato il nobile pensiero avuto nei miei confronti, ringrazio tutto lo staf interessato e in occasione porgo a tuti i migliori auguri e tanta prosperità. Buon Natale e buon anno nuovo a tutti, Giuseppe.
12 dicembre 2015 [con “Visto di Controllo”]
Giuseppe Rogoli, Strada S.S. Salvatore 14/B - 01100 Viterbo
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Anche nelle sezioni comuni il DAP vuole realizzare il suo proposito di censura, il compagno Davide Delogu ha ancora la censura sulla corrispondenza che significa continui trattenimenti e sparizione della posta. Il 5 gennaio ha così iniziato lo sciopero della sete in aggiunta a quello della fame, iniziato domenica 27 dicembre, anche perchè non gli è stato consegnato un libro spedito da fuori e arrivato nelle due settimane successive, libro che, dopo il consueto controllo (pur non essendoci motivi di restrizione) non gli è stato consegnato con un giudizio arbitrario e falso: "non rispetta i criteri della legge sull'editoria italiana".
Oltretutto Davide è in isolamento da più di un mese senza TV, niente da leggere e senza niente in generale. Per scrivergli la nostra vicinanza e solidarietà:
Davide Delogu, C.C. Contrada Petrusa, P.za di Lorenzo – 92100 Agrigento
Segue il testo collettivo delle ragioni della fermata all’aria dello scorso novembre nel carcere di Agrigento, pervenutoci ora, che illustra chiaramente le pessime condizioni generali di quel carcere.
comunicato collettivo dal carcere di agrigento
Alla direzione C.C. Agrigento, ai mezzi di informazione di tutti i tipi, alle associazioni pro-detenuti, al garante dei detenuti, al ministro della giustizia, al magistrato di sorveglianza.
Noi detenuti a partire da oggi, domenica 29 novembre, entriamo in sciopero che manifestiamo nel rimanere al passeggio a tempo indeterminato, perché si è già oltrepassato il limite della disumanità che il carcere di Agrigento produce. Ci sono dei principi di civiltà e dignità che devono separare la pena da scontare dalla tortura e questo non potete non saperlo e lo stato è nella piena violazione dei più elementari diritti dell'essere umano.
Il detenuto ha diritto a un trattamento giusto e umano e deve lottare per migliorare le proprie condizioni. Non sopportiamo più il trattamento bestiale, umiliante, degradante e di tortura che le condizioni detentive ci infliggono ogni giorno, sia a livello di struttura fatiscente e non a norma di legge, che di regolamento interno, che annulla tutti i nostri diritti, la nostra umanità, che ci farà uscire di prigione ammalati, disturbati, abbruttiti con una rivalsa vendicativa nei confronti della società perché è il carcere mera vendetta che non risponde al dettato costituzionale ed è perciò un'istigazione al suicidio, all'autolesionismo, alla castrazione chimica.
Vi ricordiamo i fatti: non esiste il diritto alla salute per carenza di farmaci e di cure adeguate, un esempio è il Sig. Angelo Castagna che da 20 giorni ha estrema difficoltà a camminare (si fa la doccia seduto) e ha perso già 35 kg di peso nel giro di 2 mesi.
Non c'é mai stata una disinfestazione. Pericolo di malattie infettive, con blatte, piattole e topi in libera circolazione.
Non esiste neanche un defribillatore in infermeria, uno strumento che pensiamo avrebbe salvato la vita a Mohamed, il ragazzo algerino morto in questo carcere due mesi fa. L'ennesima vittima che miete lo stato nelle sue patrie galere.
Sovraffollamento nelle celle insostenibile, dove non esistono riscaldamenti, senza acqua calda, neanche nelle uniche due docce, ridotte male, presenti in sezione; e quando capita per un breve lasso di tempo che esce acqua calda, è vietato riempire un secchio per portarselo in cella, pena rapporto disciplinare e soppressione del proprio turno doccia (3 volte a settimana).
Il freddo è pungente ma ci proibiscono di avere guanti di lana o cuffiette o un maglione in più per proteggerci dal gelo.
Nel carcere piove dentro dappertutto. Le tubature delle celle sono marce in quanto anche dall'acqua fredda che scorre dai rubinetti, esce odore di fogna e quindi non è potabile. I bagni minuscoli privi di finestra, hanno un aspiratore che non ha mai funzionato, costringendoci a respirare i maleodoranti bisogni fisiologici quotidiani dei propri compagni di cella, e non c'é areazione per consentire una rapida evacuazione. La situazione diventa sempre più nauseabonda! Ci chiudono il blindo e ci spengono i televisori in violazione della legge. Neanche il magistrato di sorveglianza è garante dei nostri diritti. Non possiamo neppure accenderci e spegnerci la luce autonomamente in quanto la cella è priva di interruttore.
Non c'é lavoro e il criterio con cui lo gestiscono è tutto sballato. Agli stranieri che non hanno niente non gli viene garantito un sussidio periodico (neppure uno) per un minimo di sopravvivenza dignitosa, rendendo la galera tripla!
L'area trattamentale non esiste. Ci sono detenuti che da anni non conoscono l'educatore, e quelli che sono definitivi da tanto tempo non hanno ancora lavorato.
Siamo nell'ozio forzato più assoluto, senza senso, sempre chiusi tra angoscia, stress, soprusi, ingiustizie che la fanno da padrona. Senza barbiere da tempo, non ci garantiscono nemmeno un minimo di decoro verso noi stessi e le persone con cui facciamo colloquio, per non parlare della frantumazione del rapporto affettivo per chi ha la famiglia lontana. La lista sarebbe ancora lunga delle nefande condizioni cui versala galera e ci sembra inutile proseguire.
Col nostro sciopero non chiediamo di risolvere tutti questi violenti “problemi”, perché siamo realisti e sappiamo già che niente cambierà! Quello che vogliamo invece è la libertà immediata fino a quando non ci sarà una prigione che rispetti i diritti.
“La dignità umana è inviolabile, essa deve essere tutelata e rispettata”.
novembre 2015
Seguono firme di un gruppo di detenuti.
lettera da un carcere del marocco
Segue una lettera che è arrivata al Circolo Cabana a Rovereto il 25 agosto da parte di un ragazzo italiano rinchiuso nel carcere di Tanger in Marocco in cui racconta la situazione all’interno del carcere.
Come potrei scrivere un articolo a proposito mi viene difficile non sono un grande scrittore, ma posso darvi dei dati su cui voi potreste scriverlo, delle storie su cui lavorarci sopra.
Ultimamente stanno cambiando un poco le cose ma non di molto, la gente prigioniera marocchina viene sempre malmenata, calci e pugni, se viene scoperta una droga (una canna), o una stagnola, chi si lamenta prende più dosi, poi i secondini ne approfittano aumentando le dosi di schiaffi.
Mohammed un mio compagno qui in carcere mi racconta che è stato messo in isolamento (qui si chiama checio) per molti giorni a pane e acqua, il primo giorno che è entrato era nudo e gli hanno tirato acqua fredda in tutto il corpo e poi menato, il tutto nel periodo invernale e quindi freddo.
Queste torture vengono fatte regolarmente qui da noi e in svariati modi però solo ai nativi, a noi stranieri non tocca, perché hanno paura delle denunce.
Nella mia abitazione di ventuno persone è difficile vivere e convivere, d'inverno è freddo perché le finestre hanno solo le sbarre e oltre al freddo entra anche l'acqua quando piove e la porta della stanza è un cancello per capirsi, d'inverno non c'è acqua calda per fare la doccia ci inventiamo delle resistenze o scaldiamo l'acqua nelle pentole.
Il mangiare che viene distribuito è scadente un pezzo di pollo o un cubo di carne, la zuppa annacquata, non danno frutta, l'acqua del rubinetto è piena di cloro per renderla bevibile e c'è gente che ha problemi di calcoli, come Ismail che un giorno lo vedo male sembra ammalato e allora chiedo come sta, lui di risposta mi mostra un sassolino e mi dice che lo ha pisciato la notte e che aveva molto male. Lui è otto anni che sta' qui e che beve quest'acqua io meno, solo tre, spero di non avere di questi problemi.
Altra cosa, in tutti i moduli come nel mio c'è un sacco di gente insana di mente e quindi pericolosa che vive con noi, una volta al patio c'è stato un incidente, un matto ha dato una bracciata in piena faccia a un compagno che è caduto all'indietro e si è spaccato il cranio. Un compagno del Mali va per soccorrerlo e mette le mani dove il poveretto si era rotta la testa, praticamente usciva il cervello. É stato portato in infermeria e dopo in ospedale dove il dottore ha aspettato 24 ore il tempo che morisse.
Ci sono molti casi di gente che ha problemi di salute e vengono trascurati, si danno loro delle pastiglie e li rimandano in cella. Patrick un signore anziano francese è stato in infermeria un po' di mesi, perché era ammalato non so di cosa precisamente, un giorno mi è stato riferito che era morto dopo una settimana in ospedale. Ho saputo che gli sono state somministrate medicine sbagliate. La famiglia è venuta in Marocco a recuperare il suo corpo, Patrick ha passato metà della sua vita in varie prigioni in Europa e per finire è morto a Tanger.
Un'altra storia che ho sentito è quella di Aziz-Bedaouia una storia di tortura che ha vissuto di persona se volete saperne di più digitate Redaouia-tortura su google ho se volete domandare a lui direttamente cercatelo su facebook, mi ha detto che non c'è problema si parla di elettrodi alle palle per delle confessioni... dateci un occhiata.
A proposito di prigioni non riconosciute ho parlato con un ragazzo della mia stanza che è ora trasferito in un'altra prigione, un amico del suo villaggio è ritornato dopo 25 anni a casa raccontando quello che ha passato, la gente lo ha perso per matto, per le cose che ha detto, praticamente è stato in una prigione non identificata esattamente e li le ha passate di tutti i colori.
Non ho prove su google per queste informazioni. Lui dice che le condizioni sono estremamente difficili e il cibo non può essere chiamato cibo.
Benoit è un giornalista francese che è stato qui in prigione per traffico di droga, ora libero, ha fatto due anni qui, e non ha smesso di lavorare, mi ha detto che avrebbe scritto un libro e articoli sulle condizioni di vita nelle carceri marocchine.
lettere dal carcere di opera (mi)
Cari compagni/e, Sono il detenuto Nasri Jalel Ben Amor, nato l'8/11/1958 in Tunisia, condannato a tre anni e quattro mesi a Milano e la seconda condanna a Napoli è di tredici anni. Nel 2009 sono stato visitato dal chirurgo di Opera per emorroidi e a novembre 2012 sono stato visitato dal chirurgo dell'ospedale fuori dal carcere e mi è stata promessa un'operazione per gennaio. Fino ad oggi non ho avuto nessuna risposta.
La mia spalla destra da un anno deve fare la risonanza magnetica dopo essere stato visitato dall'ortopedico ma fino a oggi niente è stato fatto. Il mio rene soffre di una piccola pietra non posso né girarmi né cambiare posizione la notte e che questa mia sofferenza venga fatta conoscere alla gente che vive fuori da queste mura.
Vi saluto caramente, Nasri Jalel.
Opera, 6 gennaio 2016
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Buongiorno cari compagni, vi mando questo scritto per ringraziarvi di essere venuti qui fuori a sostenerci, purtroppo eravamo pochi a farci sentire e il motivo è che la maggior parte dei detenuti sono un po’ spaventati dagli abusi e dai rapporti disciplinari che fanno qua dentro. Qui non funziona niente; è assurdo quello che fanno alle persone. E fuori l’opinione pubblica pensa ancora che questi posti servano a riabilitare le persone, ma sono tutte facciate e menzogne.
Vi ringrazio con il cuore e faccio gli auguri a tutti da parte mia e del mio compagno di cella. Siamo tutti con voi. Un abbraccio solidale.
30 dicembre 2015
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Cari compagni/e, che questa mia venga a trovarvi in ottima forma e salute. Un GRAZIE di cuore per la vostra visita, anche da parte di altri. E' stato molto bello ascoltare i vostri suoni, ben si sentiva che erano trasmessi con passione e nel contempo ho sentito maggiori speranze. Quel giorno che vi raggiungerò, spero arrivi presto, farò sentire i miei suoni. […]
Opera, 6 gennaio 2016
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[...] ieri sera c’è stato un presidio qua fuori da parte dei compagni. Ringrazio tutti i compagni che hanno partecipato, noi da qui abbiamo urlato, fischiato e battuto sui cancelli; sapere che ci sono persone come voi che lottano così, per noi è stato un bel regalo di Natale e ci fa sperare in un 2016 migliore perché sappiamo di non essere soli. [...]
Qui veramente provano in tutti i modi a provocarti con l’intento di azzerare la tua persona, solo che in alcuni casi vanno a sbattere contro persone tipo X o Y, ma in altri casi trovano persone che si piegano; di questo gruppo di persone posso capire quelli deboli di carattere, quelli alla prima esperienza carceraria, quelli che vogliono stare tranquilli facendosi la propria galera, prendendo tutte le liberazioni anticipate... ok, a questo posso anche starci; quelli per cui non ci sto, sono la categoria dei finti boss, quelli che parlano-parlano, ma poi, da lupi diventano agnelli; quelli li odio e qui ce ne sono molti, io non sono nessuno, sono molto riservato e tranquillo, evito di creare problemi e di averne, ma nessuno mi deve venire a cercare, altrimenti mi trovano; in particolare se ti toccano la famiglia. Quando sono arrivato qui non mi aspettavo tutto questo disumano contesto. […]
Non so se ti hanno mai informato del vitto gentilmente offerto dall’amministrazione, il cosiddetto “carrello”, te ne parlo perché è ora di pranzo e sta passando il vitto. Dunque, in tutti i penitenziari di Italia il carrello passa tre volte: mattino con latte, the, caffè, pane e frutta; poi alle 12:00 (più o meno) con il pranzo composto da primo, secondo e contorno; infine la cena con primo, secondo e contorno. Le pietanze, di giorno, sono primi di pasta, secondi di carne o pesce; i contorni variano tra insalate e ortaggi. Mentre il menù della sera è minestrine/one, riso, scatolame, affettati, verdure e ortaggi. I giorni di festa o due domeniche al mese lasagne; in più, alla domenica, due crostatine ad ogni detenuto. Questo in tutte le carceri d’Italia.
Qui a Opera il menù è così composto: per la colazione mezzo litro di latte a detenuto; per il pranzo il primo riso al 70% delle volte, pasta al 30%, per il secondo wurstel, simmenthal, tonno, sofficini, crocchette di patate e cotolette (tutto rigorosamente freddo e fritto); per il contorno spinaci, carote, patate lesse ancora con la buccia, zucchine o melanzane; invece, per quanto riguarda la cena, stesso menù, la differenza è che i primi sono brodosi. La lasagna in cinque mesi l’ho vista due volte e mai nelle festività; di crostatine ne danno una a testa. Magari ti chiedi: “cosa c’entra tutto questo con gli abusi?” Immagina tutti i detenuti che non si possono permettere manco il caffè, qui tra di noi scherziamo sul fatto che con tutto questo riso diventiamo cinesi, ma per i più disagiati non è uno scherzo, anzi, mangiare sempre fritto o scatolame ti devasta il fegato…e poi la colazione: è assurdo che danno mezzo litro di latte a persona, in più lo passano con la cena… ti rendi conto che menefreghismo c’è da parte di questa direzione? Come questi piccoli ma grandi fatti ce ne sono altri, tutti legati all’abuso di potere e al menefreghismo. E chi si ribella, isolamento e ciao alla liberazione anticipata.
Un forte abbraccio per tutti/e i compagni/e!
Opera, 30 dicembre 2015
Lettera dal carcere di Velletri (rm)
Ciao carissimi amici e compagni, vi scrivo solo ora perché ho avuto dei disagi con la direzione della C.C. di Velletri. Purtroppo solo oggi posso scrivere e divulgare questa notizia e le cose che ho passato, ma mi trovo ancora qui, non altrove!
In data 20 dicembre 2015 ho avuto un colpo di testa. Senza dire niente al mio compagno di cella, che si fa chiamare “Giovanni”, siamo da poco insieme, ma ci conoscevamo già in sezione. Comunque, in quella data sono andato di colpo in bagno, avevo tantissima rabbia, e così mi sono tagliato il braccio sinistro, facendomi una brutta ferita, e ho preso anche una vena. Perdevo cosi tanto sangue che ho dovuto chiamare all’istante Giovanni, che mi ha aiutato a tamponare la ferita.
Abbiamo chiamato subito l’assistente che, vedendo quello che era successo, ha aperto subito la cancellata. E comunque voglio esprimere grazie sia al mio concellino e sia a tutta la sezione che ha gridato chiamando l’assistente e l’infermiere; e subito dopo mi trovavo in infermeria. Mi hanno messo 11 punti di sutura e uno interno. Mentre la dottoressa mi ricuciva sono venuti l’ispettore con quattro guardie. Giovanni, che mi ha aiutato e accompagnato giù in infermeria, stava fuori sul corridoio. Quando l’ispettore si è rivolto a me in modo arrogante e minaccioso dicendomi: “ma che ti tagli di domenica”… aggiungendo “perché l’hai fatto?”. Gli ho risposto: “fattelo dire dal magistrato” (un altro rigetto). Ha incominciato a gridare verso i suoi colleghi “servi”, dicendo, “la prossima volta che si taglia, a questo pezzo di merda, lo lasciate morire in cella”. Il mio concellino, che ha sentito, gli ha detto: “però mica puoi dire certe cose a una persona che sta male”.
L’ispettore è uscito fuori dalla stanza dicendogli: “chi sei tu, che cazzo vuoi, fatti i cazzi tuoi”… Giovanni gli ha risposto: “sono il suo piantone”. Ma poi l’ispettore è andato vicino a Giovanni, gli ha messo le mani addosso, precisamente al collo, Giovanni l’ha spinto dentro l’infermeria con tutta la sua forza. Sono intervenute le guardie presenti e lo hanno bloccato, ma ormai era troppo tardi. Per l’offesa e per prendermi le parti si è scrollato le guardie che lo tenevano, ha preso di mira l’ispettore e gli ha tirato un cazzotto in pieno volto. Ho visto l’ispettore che barcollava a causa della potenza di quel pugno; lui si è subito zittito e le guardie presenti si sono messe anche paura.
Poi hanno fatto salire Giovanni in sezione. Ma non ero sicuro e così mi sono rivolto agli assistenti, chiedendogli del mio compagno di cella: “lo avete portato in isolamento?” e loro mi dicevano di stare calmo che era in cella. Io non gli credevo e gli ho detto: “se non sta in cella do fuoco a tutto”. Sono salito e ho avuto tutta la solidarietà degli amici.
Torno per un momento indietro. Quando ancora la dottoressa mi stava mettendo i punti, si è presentato l’ispettore. Rivolgendosi alla dottoressa gli diceva che gli faceva male l’orecchio e dallo zigomo sinistro gli usciva un po’ di sangue. Lui mi guardava e gli ho detto: “hai visto cos’hai fatto succedere? Così la prossima volta ci pensi due volte prima di offendere un detenuto”.
La dottoressa l’ha mandato all’ospedale: codice rosso, frattura dello zigomo, timpano dell’orecchio scoppiato e così l’hanno subito portato in sala operatoria.
Il giorno dopo, 21 dicembre, la direttrice ha chiamato Giovanni, dicendogli quello che ha subito l’ispettore. Gli volevano dare subito la “custodia cautelare”, questo voleva l’ispettore, invece la direttrice gli ha fatto la denuncia a piede libero e ordinato subito 15 giorni di isolamento; lo hanno picchiato, è riuscito anche a rispondere, a difendersi. Gli faccio onore per quello che ha fatto. E’ una persona valida, anche lui lotta contro questo sistema, contro queste ingiustizie. Proprio oggi, 13 gennaio, ho saputo che ora si trova a Rebibbia, che presto mi scriverà, non vedo l’ora!!
Un saluto a tutti e tutte, libertà per tutti/e.
Oggi ho ricevuto l’opuscolo… Un saluto di solidarietà a Davide Delogu. Viva la lotta, viva l’anarchia… l’unica via… Claudio.
13 gennaio 2016
Claudio Perrone, via Campoleone, 97 - 00049 Velletri (Roma)
lettera dal carcere di Ancona
[...] Sono in carcere da 2 mesi proprio oggi, sono entrato venerdì 13/11 a causa di 7 definitivi per un totale di 4 anni, per violazione del Daspo, misura di divieto a competizioni sportive con relativa firma.
Fino a qualche anno fa ero anche un ultras dell’Ancona. Queste violazioni commesse dal 1999 al 2006. Dopo una settimana di detenzione un altro definitivo ha portato a 5 anni + 1 mese. Il totale della condanna, dopo l’applicazione del cumulo e del continuato è, ad oggi, 3 anni e 4 mesi, ma gli avvocati hanno fatto ulteriore ricorso.
Faccio parte da sempre dei centri sociali delle Marche, più precisamente del C.S.A. Asilo Politico di Ancona e della polisportiva antirazzista Assata Shakur Ancona 2001, una delle prime realtà palestre popolari in Ancona.
Oltre a vecchi reati da stadio che sto già pagando con la detenzione, ho diversi processi in corso per manifestazioni, occupazioni di case e edifici comunali per immigrati e senza-tetto e scontri con Forza Nuova.
In una città vero capoluogo di provincia, ma che conta poco più di 100.000 abitanti, le lotte che portiamo avanti al fianco dei No Tav, Trivelle Marche Zero, case occupate, No Expo… e via dicendo tutte le lotte che ci vedono protagonisti. E’ davvero troppo per una città piccola e provinciale.
Conscio del perché, di quello che sto pagando, ringrazio tutti e tutte i/le compas che mi stanno ogni giorno vicino.
E così di colpo scopro, anzi sto scoprendo, piano piano questa nuova lotta per me da intraprendere in carcere, da abolire perché tra l’altro così com’è pensato non serve a niente. Eppure a qualcosa e a qualcuno serve eccome. E così, grazie anche al vostro aiuto, capire per tentare di cambiare.
Approfondirò nella vostra corrispondenza per capire realmente cosa possiamo fare: regolamenti non rispettati; prezzi troppo alti; sanità? Tutta da verificare.
Sono 45 giorni che ho che ho chiesto una visita oculistica per un improvviso abbassamento della vista, non solo faccio difficoltà a leggere, ma ho spesso mal di testa e giramenti.
Cari compagni, non saranno di certo queste 4 mura a fermare la nostra voglia di cambiare questo mondo che non ci piace. A pugno chiuso.
Insieme a me in questo carcere c’è un altro ragazzo come me, qui per altri reati, insieme daremo il nostro piccolo contributo.
14 gennaio 2016
Abram Alessio, C.C. di Montacuto cp 34, piazza 24 Maggio – 60100 Ancona
lettera dal carcere di vicenza
Cari compagn*, sono Eddi Karim, innanzittutto vi auguro buone feste e felice anno nuovo, anche se è molto difficile per noi detenuti in lotta! Vi ringrazio per gli opuscoli e la corrispondenza e il supporto della vostra solidarietà nei nostri confronti.
Nonostante sia isolato riesco sempre ad essere aggiornato un po’ su tutto. Ringrazio soprattutto i compagni di Venezia che da anni mi stanno accanto in questa mia lotta contro il sistema marcio che tortura la nostra società e soprattutto le prigioni comandate da indegni.
Ormai sono 6 mesi, da quando sono stato trasferito da Opera qui a Vicenza, che mi trovo in isolamento solo perché ho protestato per mantenere la nostra dignità e onore calpestata dalle guardie. Mi hanno anche denunciato per ‘istigazione alla rivolta, interruzione di servizio pubblico, oltraggio e minacce’.
Ultimamente sono arrivati compagne e compagni a fare un presidio sotto il carcere, sono stat* minacciati con le pistole dalle guardie del carcere, circondati da carabinieri e polizia e infine identificati tutte e tutti. Il loro obiettivo è quello di continuare a torturare la gente e cancellare la parola anarchia dal vocabolario italiano, ma sanno bene che non possono cancellarla dalla nostra mente e dal nostro modo di vivere… non ci stancheremo mai di lottare.
Solo se la nostra continua possiamo proteggere la nostra dignità e il nostro onore.
Un abbraccio fraterno forte a tutt* i compagn* e al mio amico Maurizio Alfieri.
26 dicembre 2015
Eddi Karim, via della Scola, 150 - 36100 Vicenza
Lettera dal carcere di Livorno
Carissimi compagni/e, sono detenuto nel “merdoso” (scusate la parola) carcere di Livorno. Qui è tutto uno schifo, hanno piegato tutti i detenuti a “cantarsela” tranne pochi, tra i quali il sottoscritto. Qui gli sbirri si fanno la guerra tra loro, usando i detenuti, pensate voi…
Stanno sempre a inventarsi restrizioni per far sì che ogni detenuto si pieghi al loro schifoso, indegno sistema criminale e far sì che ogni detenuto perda la propria dignità!!
Sono disposto a iniziare tutti insieme una e vera rivolta permanente verso questo sistema-carcere. Iniziamo a rompergli i coglioni, iniziamo a combattere come facevamo prima, ma sò anche che andremo incontro ad altri anni di carcere. Sono disposto a far sì di aiutare gli altri compagni ristretti allo schifoso 41bis, all’AS, al 14 bis. Anche perché ci stanno torturando e questo non va bene in un paese dove si “dice” qui regna la democrazia. A me pare che regni la dittatura fascista!!
Bisogna tornare a lottare contro questi abusi che sudiamo. Venite qui sotto il carcere, perché davvero fanno cosa gli pare, usando le teste dei detenuti!!
Un grosso saluto a tutti/e i compagni detenuti, soprattutto ai compagni/e ristretti al 41bis, sezioni AS e 14bis, a loro va il mio più grande augurio: “NON MOLLATE MAI”, “NON UN PASSO INDIETRO”, Massimo.
16 dicembre 2015
Massimo Pracchia, via delle Macchie, 9 - 57124 Livorno
***
Seguono stralci di altre due lettere, da altre carceri d’Italia, rispettivamente, di inizio gennaio 2016 e di fine novembre dello scorso anno.
E’ giunto pochi giorni fa il plico e non appena hanno letto “Lotta Continua”, a proposito non sapevo venisse ancora stampato, subito hanno sequestrato il tutto e portato al controllo. Lavoro inutile, dato che non ho la censura, ma che ci fa capire quanto ancora facciano paura le nostro idee. […]
Qui la vita è la solita. Merda e, come detto, le sezioni sono totalmente cambiate. Zero regole carcerarie che un tempo tenevano lontano certi figuri dai carceri e sottoscrivo la lettera del compagno di Livorno, dove dice che il 70% dei reclusi è ormai infame. Almeno la percentuale qui è più o meno quella. Io mi sono quasi chiuso, e parlo solo con i detenuti stranieri, per lo più. Mi spiace dirlo, ma gli italiani si fanno ricattare per un non niente. Con il ricatto dei benefici hanno reso difficile organizzare e darsi da fare.
Non voglio deprimervi, magari forse è così solo qua, visto che con gioia ho letto di Venezia e altre carceri dove ci sono state proteste, però la vedo dura la lotta anti-carceraria futura.
Ho notato che l’umore di fuori influisce dentro e l’augurio è che presto le condizioni di ribellione cambino e che si torni ad organizzare il conflitto. Perdonate la mia negatività, però sono abituato a dire quello che penso ed è innegabile che il periodo storico che stiamo vivendo è uno dei più tristi di sempre.
E’ necessario fare un’autocritica costruttiva, pianificare una strategia seria e porsi obiettivi per ribaltare la situazione in favore di una prospettiva rivoluzionaria.
Se continuiamo a coltivare questi piccoli orticelli i nemici del popolo ci schiacceranno e a pagare il prezzo più grande saranno le classi più deboli e ahinoi i compagni reclusi.
Vi mando un abbraccio di resistenza e un saluto a pugno chiuso.
***
[...] La pazienza si apprende, si costruisce con ferreo esercizio della volontà, ripetendo pazientemente centinaia di volte lo stesso gesto per perfezionarlo.
Molta gente confonde la pazienza con la pigrizia, il disinteresse, l’apatia. Stati psichici caratterizzati dalla mancanza di energia vitale. Invece la pazienza è la capacità di controllare una grande energia vitale senza farsene travolgere, ma indirizzandola a un fine.
Nei momenti difficili della vita noi dobbiamo essere capaci di perseguire tenacemente una meta, di viverla con tutta la forza del nostro animo, eppure dobbiamo anche saper aspettare. Com’è più facile dare in escandescenze, sbattere una porta! Difficile è sopportare la prima, la seconda, la terza sconfitta e, ogni volta, ricominciare, ritessere le fila, cercando nuove strade, nuove soluzioni.
Tutte le volte che dobbiamo affrontare una grave prova, come una lunga detenzione, un affare, una malattia, ma anche un amore, la vera difficoltà è saper resistere giorni e giorni, mesi e mesi, anni e anni, alla più atroce incertezza.
La pazienza, in questi casi, è il nome che diamo al coraggio. Il coraggio è la virtù del cominciamento. La pazienza è la virtù del ricominciamento. Perché deve rinascere ogni mattina, ogni ora, ogni minuto. Per (tener duro) bisogna ricominciare a farlo infinite volte. E da quel momento, ogni progresso professionale dipende dalla nostra capacità di osservare gli altri, di studiarli, di capirli.
E anche quando viene il momento di parlare, di dire le proprie ragioni, devono sapersi controllare, agire con prudenza e pazienza. L’impazienza crea sempre panico e disagio attorno a sé, si finisce per farsi tutti nemici. Pazienza significa usare l’intelligenza come capacità di vedere i problemi, di affrontarli, di risolverli. L’individuo per riuscire, deve accettare questa sfida, anzi alimentarla dentro sé stesso. Porsi traguardi più elevati e perseguirli con pazienza.
E in questi 36 anni di carcere ne avuta di pazienza, anche se ho preso una marea di rapporti per i miei diritti, che ogni giorno vengono calpestati, come ora.
Ma si va avanti lo stesso. Aspettando il bel tempo…
Buona giornata, un caro abbraccio a tutti voi, ciao amici miei, Antonio.
23 novembre 2015
Spagna: botte, isolamento, Trasferimenti e scioperi della fame
Denuncia per l'isolamento perpetuo imposto alla prigioniera politica Noelia Cotelo
Attualmente nel C.P. Topas, Sezione d'isolamento.
Con questo scritto formulo denuncia per l'isolamento perpetuo nascosto con l'applicazione del 1º grado / 91.3 R.P, in base alle seguenti motivazioni.
PRIMO: In primo grado da 8 anni con continui trasferimenti, maltrattamenti, torture psicologiche, botte e abusi di potere e sessuali da parte dell'amministrazione penitenziarie e con sanzioni nascoste, senza avere la possibilità di avere un PIT (Programma Individuale di Trattamento) che si compone di un equipe tecnica incaricata dello studio dei detenuti (psicologo, educatore, ecc.) come stabilito dall'art. 103.3 y 20 del R.P.; come ugualmente non ha un trattamento fondamentale per il conseguimento della finalità di risocializzazione della pena privativa della libertà, art. 110 R.P., art.112.2 R.P. e inltre gli artt. 59.1, 60.1 e 61.1 della LOGP, art. 25 dell'Unione Europea:- "Le pene privative saranno orientate alla rieducazione del recluso".
SECONDO: Ci troviamo davanti al fatto che a Noelia le vengono negati tutti i diritti in quanto al trattamento stabilito dalla legge penitenziaria e internazionale. Otto anni d'isolamento è al limite della sopravvivenza, ed è impossibile che possa riunire i requisiti per una progressione di grado, essendo totalmente abbandonata dalle istituzioni penitenziarie e dalle leggi, fino al punto di dover fare dei scioperi della fame per poter completare i suoi studi, ce l'ha fatta con la protesta e ha fatto l'esame il 2/6/2015 alla UNED. Sorprende che la reclusa voglia proseguire gli studi e l'amministrazione glielo impedisce, per poi considerarla "inadattata" in una relazione manipolata.
Per rivendicare i suoi diritti e tanti abusi da poter includere anche quelli sessuali nel carcere di Avila da parte di funzionari del carcere, che sono sotto procedimento giudiziario. La rappresaglia per denunciare questi abusi è l'isolamento perpetuo. Cosa non possibile secondo l'art. 6 LOGP (Legge organica gen. pen.) e art 3 UE del Convegno europeo per la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali: "nessun potrà essere sottoposto a torture, pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, nè a un rigore necessario nelle applicazioni delle norme"
TERZO: Mancato rispetto del "non bis idem" punendola per via amministrativa e per via penale (anni d'isolamento e pene carcerarie) in contravvenzione con l'art. 14.7 del Covegno europeo contro la tortura.
Per tutto quanto esposto si chiede la progressione al 2º di regime penitenziario con il fine di recuperare la sua liberazione nei tempi stabiliti.
***
Dal Comitato pro-presos della CNT-AIT ci arriva la seguente informazione sulla compagna, aggiornata al 30 novembre.
Noelia Cotelo Riveiro ha interrotto lo sciopero della fame iniziato il 10 Novembre.
Noelia ha dovuto interrompere lo sciopero della fame che aveva intrapreso due settimane prima per poter riavere le sue cose disperse in un altro carcere (le chiedono 300 euro per farle trasferire a Topas), perchè ha subito un pestaggio, l'ennesimo, con la scusa che non si è fatta vedere alla conta nelle celle (era in bagno) sono entrati e l'hanno picchiata. Si ritrova ancora adesso con gravi problemi all'orecchio destro.
Pro-Presos CNT-AIT fa sapere che le sono nuovamente entrati in cella portandole via i materiali per disinfettare e tenere pulita la ferita. Ha fatto denuncia di quanto avvenuto, chiede l'intervento di un medico specialista ma finora le è stato negato. Dice che non riceve posta, è uscito solo poco tempo fa l'indirizzo preciso del carcere, con l'indicazione della sezione di apparteneza (Isolamento).
Noelia Cotelo Riveiro
C.P. Topas (Salamanca) - Modulo Aislamiento 3° Galeria - 37799 Salamanca (Spagna)
***
Sulla situazione del compagno Gabriel Pombo da Silva
Dopo 18 mesi trascorsi nel carcere di Topas, dove veniva spostato continuamente da un modulo all'altro, il compagno Gabriel Pombo Da Silva è stato nuovamente trasferito, questa volta nel carcere di Dueñas (Palencia).
Il trasferimento è avvenuto la notte tra il 12 e il 13 gennaio, non sappiamo esattamente per quale motivo, ma di certo si inserisce all'interno della miserevole e ben nota strategia penitenziaria portata avanti contro Gabriel - come contro i vari prigionieri che non accettano i trucchi sporchi della burocrazia penitenziaria – da quando è stato estradato dalla Germania e portato nelle prigioni spagnole, e che consiste, fra le altre cose, nel tentativo di tagliare tutti i suoi legami con chi sta dentro e fuori le mura del carcere, nell'applicazione del regime Fies e nel controllo di tutte le sue comunicazioni e corrispondenze, nei continui trasferimenti appena si instaurano legami di sostegno reciproco e solidarietà.
Ha iniziato uno sciopero della fame richiedendo che gli venga assegnata una cella singola dato che lo hanno messo in una condivisa con un altro prigioniero col quale non vuole convivere. Juankar Santana Martín, che è nello stesso carcere, ha espresso la propria intenzione di assecondare il compagno, mettendosi anche lui in sciopero della fame.
Lo scopero è durato un giorno perchè è riuscito a ottenere il trasferimento in cella singola. Conseguentemente anche Juankar ha interrotto la protesta. I due compagni stanno bene. È possibile comunque scrivergli a questo indirizzo:
Gabriel Pombo Da Silva, Centro Penitenciario La Moraleja, Dueñas (Palencia), Ctra. Local P-120 - 34210 Dueñas (Palencia)
18 gennaio 2015, liberamente estratto da informa-azione.info
sul processo di appello per lucio, francesco e graziano
Il 9 febbraio si terrà a Torino il processo d'appello relativo al secondo filone della vicenda compressore per i fatti del 14 maggio 2013.
Lucio, Graziano e Lucio, che saranno presenti a Torino alla (probabilmente) unica udienza di cui si comporrà questo appello, lanciano il seguente appello invitando solidali, compagni e compagne ad essere presenti a questa data.
L’udienza si terrà appunto il 9 febbraio, alle ore 9, nell’aula 49° del Tribunale di Torino in C.so Vittorio Emanuele, 130.
Difficilmente in un processo la magistratura ha giocato così a carte scoperte come ha fatto in quello che ha coinvolto i 7 No Tav accusati di terrorismo. È stato chiaro fin dal suo principio con le dichiarazioni fatte dall’allora procuratore della Repubblica Caselli all’indomani degli arresti del 9 dicembre 2013, nelle quali invitava la politica a non lasciare da sola la magistratura, ma ancora più cristallino è stato il procuratore generale Maddalena chiamando in causa direttamente nelle aule di tribunale Renzi, e più in generale tutta la classe politica che avrebbe dovuto fare quadrato non solo sulla decisione di portare a compimento il Tav, ma anche (per ovvia conseguenza) attorno alla qualificazione giuridica che l’ardita procura torinese ha cercato di contestare agli arrestati. Le invocazioni della magistratura alla classe politica sottintendono una volontà di affermazione dello Stato all’interno della società attraverso una sua maggiore coesione d’intenti e di azione.
Cerchiamo di spiegarci meglio: l’azione della magistratura non è stata solamente dettata dalle “normali” finalità conservatrici proprie della repressione; conservatrici nel senso proprio della parola in quanto è funzione costitutiva della repressione ristabilire e riaffermare l’ordine sociale di fronte alle offese che esso subisce. In questa vicenda i magistrati hanno voluto giocare un ruolo più attivo, portando la loro azione su un piano offensivo, cioè volto ad allargare i confini legali dell’azione dello Stato, limitando dunque quelli delle altre forze presenti nella società. È stato lo stesso Maddalena nella sua requisitoria a ricordare come non sia possibile creare una discrasia tra ciò che è legittimo e ciò che è legale, e nemmeno tra ciò che è legale e ciò che è giusto. Mettere in dubbio queste equivalenze significa porsi oltre i margini della società dato che essa viene fatta coincidere con lo Stato, in una parola: essere eretici.
Non sembra inappropriato l’utilizzo di tale terminologia dal sapore religioso visto che le posizioni portate avanti dai magistrati ricordavano la massima di quel santo che sosteneva che non poteva esserci salvezza al di fuori della chiesa. Questa è la posta in gioco che una parte degli uomini e delle donne dello Stato ha cercato di vincere, un allargamento spropositato del potere dell’ordine costituito e la riduzione a mera testimonianza di tutte quelle idee ed opinioni ad esso contrarie.
Insomma, non una posizione vagamente conservatrice, ma una vera e propria impostazione reazionaria fatta da chi ha sufficienti strumenti tra le mani per promuoverla e vederla consolidata. Non dubitiamo infatti che gli articoli figli della legislatura d’eccezione (il 270 sexies è solo uno di una famiglia in continua espansione) continueranno a proliferare e perfezionarsi se non controbilanciati da un’adeguata risposta delle lotte sociali.
La situazione di crisi e paura, in cui non di poco conto è il ruolo giocato dai media, è un ottimo terreno su cui lo Stato tende a coltivare i propri frutti più velenosi, da ultimi potremmo citare l’introduzione del pacchetto antiterrorismo in Italia e quello ancora più pervasivo che si è visto all’opera in Francia e in Belgio. Senza dimenticare che lo stesso clima è utile non solo a sperimentare nuovi innesti, ma anche a togliere dalla polvere strumenti repressivi “d’annata” quali la sorveglianza speciale e il reato di devastazione e saccheggio, tirati fuori dal nucleo più arcaico del codice Rocco, ma utilissimi nel fronteggiare anche le lotte odierne.
Il movimento di solidarietà generato dall’arresto dei 7 sembra aver ben compreso questo tentativo di messa al bando del conflitto sociale, e ha messo in atto iniziative che hanno certamente contribuito alla sconfitta, seppur parziale, delle tesi della procura di Torino, e quindi di quel tentativo di avanzamento da parte del dominio.
Un recente testo pubblicato in rete [1] cerca di fare il punto sulle criticità e sulle potenzialità emerse dalla solidarietà espressa a chi ha subito e subisce la repressione, solidarietà che vede in prima fila il movimento No Tav, anche se esso non è stato la unica componente.
Fra le potenzialità è da evidenziare il supporto e la vicinanza a chi era in carcere che ha permesso la costruzione di situazioni di lotta che hanno riempito di significato quell'atto di sabotaggio per il quale 7 persone sono state accusate e condannate.
La solidarietà è riuscita a tenere colpo anche al di là dell’emotività generata dal momento dei primi arresti (dov’è stata comunque, e comprensibilmente, più alta), e ha seguito gli arrestati anche nel corso di un lungo processo e di un altrettanto lunga carcerazione. Sebbene con tutti i limiti e i cali di tensione fisiologici di cui si è detto, non è stata cosa da poco vedere solidali affollare le aule di tribunale anche a distanza di quasi 3 anni dai fatti contestati. Altre situazioni di lotta portate a processo non possono, purtroppo, registrare una tale tenuta; primo fra tutti il processo per i fatti del 15 ottobre 2011 che, nonostante la massiva partecipazione alla giornata, hanno visto ben poche e generose persone muoversi in supporto degli arrestati. Anche i processi relativi al movimento dell’Onda hanno seguito la medesima sorte, anche se, ovviamente, l’elenco non si esaurisce qui.
Diversamente è stato per la solidarietà sviluppata e dispiegata per il processo per terrorismo, complice forse anche l’enormità e la sproporzione delle accuse.
La repressione ha trovato di fronte a sé un amalgama di individui, gruppi e movimenti sufficientemente organizzati, motivati, consapevoli e connessi da tenere in piedi un movimento di solidarietà anche al di là della fiammata emotiva che l’arresto di una o più persone tende a generare. È un punto di forza che va valorizzato ed espanso perché è grazie a questa organizzazione, questo esserci dentro le situazioni, questo essere presenti nei momenti cruciali della lotta e anche in quelli della repressione che è stato possibile incontrarsi, discutere, allargare il proprio orizzonte di lotta e sperimentare nuove forme di resistenza e socialità, in definitiva di aumentare le potenzialità.
E con questo spirito e per queste ragioni che invitiamo tutti e tutte alla partecipazione all’udienza d’appello a carico di Francesco, Graziano e Lucio, a processo nel secondo spezzone repressivo del sabotaggio al cantiere del 14 maggio 2013.
Per dimostrare una volta in più che la forza di un movimento in lotta sta nell’ affrontare la repressione e non lasciare indietro chi viene colpito.
Note:
[1] Si tratta del testo “Tornanti”, pubblicato sul sito “macerie e altre storie di Torino” il 23 dicembre dello scorso anno (autistici.org/macerie/?p=31752). Chi ne volesse una copia può richiederla alla casella postale di “Ampi Orizzonti”.
roma: resoconto udienza per il corteo del 15 ottobre 2011
Il 23 novembre si è tenuta un’udienza del processo per i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma. In particolare si è tenuta l’arringa dell’avvocato Novaro, difensore di Francesco, che abita a Genova. Ricordiamo che per Francesco, come per un altro imputato, il PM ha chiesto le condanne più pesanti di questo giro: 9 anni.
L’udienza si apre con le parole di Claudio Novaro che contesta l’acquisizione di tutto il materiale non strettamente fotografico riguardante il compagno (e sì, su di lui sono agli atti cosette tipo appunti della digos di Genova, che nulla hanno a che vedere con il processo) e sottolinea come “inspiegabilmente” il PM abbia avanzato richieste di pena difformi per i vari imputati (non sarà per caso anche a causa di quegli appunti?).
Il legale, in seguito, smonta puntualmente l’impianto accusatorio sottolineando che in piazza S. Giovanni non si sono verificati episodi di devastazione e saccheggio, ma si è trattato piuttosto di una rivolta generalizzata dei manifestanti contro le forze dell’ordine che caricavano con gli idranti ed i blindati in carosello.
Quest’ultimo è un appunto importante ed era già stato ampiamente trattato dalla difesa, perché l’accusa tende a rimarcare, invece, come sia proprio attraverso i fatti di S. Giovanni che si possa applicare la pena prevista per devastazione e saccheggio.
Novaro ribatte come sia logica e prevedibile una reazione ad una carica, perchè non molti sono disposti a farsi ammazzare senza ribellarsi e resistere, e questo indipendentemente dalla volontà di danneggiare le varie articolazioni del potere.
In seguito viene sottolineato ancora una volta come l’accusa sia in contraddizione con se stessa quando cerca di estendere il reato anche a fatti precedenti a S. Giovanni oppure lo rivolge a persone che nel frattempo si erano allontanate dal corteo.
Conseguente, a questo punto, concludere che il PM si dimostra smaccatamente in accordo con il disegno repressivo preventivo, che aveva pianificato a tavolino le cariche per poi “giustificarle” come risposta alle precedenti azioni del corteo. Fra queste i due danneggiamenti contestati a Francesco.
Contesta inoltre il fatto che precedenti sentenze riguardati il 15 ottobre costituiscano elemento probatorio acquisito perché, giuridicamente, la difesa è sempre ammessa a provare il contrario (art. 238bis CPP) poi sottolinea come proprio il principale testimone dell’accusa (Giannini) abbia abbondantemente ricordato che gli interventi della polizia sul corteo avevano innescato gli scontri e spezzato il corteo.
Che “per devastazione e saccheggio non può intendersi qualsiasi danneggiamento, per quanto grave, ma un fenomeno di primaria grandezza, di diffusa e grave distruzione, tale da arrecare turbamento non a persone o gruppi ma alla condizione stessa di sicurezza della vita associata, e dunque in modo indiscriminato e su scala estesa, in modo che l’ambito di applicazione della fattispecie deve essere riservata solo a quei fatti il cui disvalore appare meritevole di una sanzione con un calibro così pesante”.
Si entra nel merito dei caroselli - negati da chi li ha eseguiti - effettuati dai blindati in piazza S. Giovanni. Guarda caso a guidare uno di quei mezzi è un vice questore promosso dopo essere stato sul campo durante il G8 di Genova.
Subito dopo la disanima dell’intensità, vastità e sviluppo temporale degli scontri che non possono far annoverare il 15 ottobre romano fra i “momenti unici ed irripetibili atti a prevedere speciali articoli del codice penale”.
Più avanti emergono anche le contraddizioni di Tartaglione sul blindato bruciato.
Per quanto riguarda la vile pecunia richiesta a vario titolo di risarcimento si nota l’indeterminatezza dei conteggi, la nullità di alcune richieste (come la banca che vuole i soldi per mettere le telecamere), la ridicola pretesa dei danni di immagine a Roma capitale (non si è abbastanza danneggiata da sola con le sue amministrazioni locali?), la sproporzione delle tariffe forensi per gli avvocati di parte civile e per la provvisionale (100.000 euro) ed il danno materiale complessivo (500.000) di ATAC 100.000.
Ringraziamo infine l’avvocato per aver ricordato che nelle “vicende del 15 ottobre 2011 non ci stanno soltanto episodi che vanno letti con le lenti dell’ordine pubblico, ma ci stanno evidentemente passioni, sentimenti, sofferenze che fanno parte di una società profondamente iniqua e disuguale, come quella in cui viviamo, e che ogni tanto emergono attraverso meccanismi che sono anche quelli della violenza. Questo per dire che non siamo di fronte ad un normale come dire scontro tra tifoserie o devastazione di uno stadio, ma qualcosa che coinvolge più pesantemente le regole, ma anche le modalità di vita, di convivenza sociale della nostra società, dentro la quale le iniquità e le rabbie covano a volte per molto tempo e poi emergono ad un certo punto”.
Dopo una breve pausa è la volta dell’avvocato Romeo, che preannuncia la dichiarazione spontanea di un imputata, accusata anche di saccheggio di un supermercato, cioè indicata come parte attiva di un servizio d’ordine schierato a lato di un supermercato mentre da questo sparivano alcune cose e venivano spaccate le vetrine.
Lei si presenta raccontando la sua vita di donna e madre di due figli, fatta oggetto di violenze da parte dell’ex compagno e rimasta senza una casa. Costretta a rivolgersi ad un centro antiviolenza, non ha comunque avuto nessun aiuto in questo senso.
Nel coordinamento di lotta per la casa trova amici, sostegno e la possibilità per avere un tetto. Ne diventa effettivamente parte attiva. Anche il 15 ottobre scende in piazza con loro, nel servizio d’ordine, con il casco. Viene accusata di essersi cambiata i vestiti con quelli presi nel supermercato. In realtà si era portata un cambio, vista la possibilità di restare la notte a S. Giovanni. Bagnata di birra dai suoi compagni che saltavano e ballavano, si è cambiata.
Ma il suo ruolo, ed a quanto pare non solo il suo, è stato quello di tenere compatto e chiuso il suo spezzone, quello di San Precario, per non farlo contaminare dalle altre istanze della piazza. Istanze che sembrano brutte e cattive visto che dichiara: “Io non ho né devastato, né saccheggiato, né ‘coperto’ nessuno, eppure mi ritrovo con un’accusa infamante”. Accusa infamante? Già si parla a vanvera. Sul termine infamia si fa confusione, a quanto pare. Per non parlare della rivendicazione di non voler “coprire” i compagni. E tutto ciò dopo aver ascoltato, se ancora qualcuno non l’avesse saputo, come e perché Francesco sia stato arrestato: il viso gli è stato scoperto da altri manifestanti, ed è stato fotografato!
Ma il bello deve ancora avvenire. L’avvocato Romeo, dopo la dichiarazione spontanea, si inoltra nell’illustrazione di come lo spezzone di San Precario fosse composto da pluralità di soggetti, organizzatori riconosciuti della manifestazione, arrabbiati per quanto stava avvenendo durante il corteo. Sono altri, dice, quelli fisicamente vicini all’esproprio nel supermercato (forse dietro ad uno striscione arancione) e qui Romeo si indigna di fronte al fatto che ci sia un “passaggio relativo ad una affermazione del tutto inaccettabile, riveniente anche stavolta dal difensore della Parte Civile Avvocatura dello Stato quando propone una identificazione, una equiparazione tra lo spezzone di San Precario ed il cosiddetto blocco nero, che io non mi sentirei nemmeno di evocare in questa occasione [...] Di fatto questa equiparazione non esiste, non esiste. E’ un’affermazione gratuita destituita di ogni fondamento probatorio. San Precario è un’organizzazione di questa manifestazione, per come risulta dall’ordinanza e per le risultanze probatorie in termini testimoniali che noi abbiamo portato. Non è ipotizzabile nessuna equiparazione fra questi due segmenti, peraltro abbiamo appena documentato anche la distanza e la separazione fisica, ecco, anche la distanza e la separazione fisica abbiamo documentato tra quello striscione arancione e lo spezzone di San Precario, qualora l’intento era da parte del difensore della Parte Civile Avvocatura dello Stato di equiparare il blocco nero alle persone che si trovavano dietro lo striscione arancione”.
Tutto ciò nella più totale non curanza delle parole di Novaro che aveva stigmatizzato il tentativo di argomentare la “presenza di un presunto blocco nero all’interno della manifestazione come responsabile, almeno nella prma parte, di tutti gli incidenti e i danneggiamenti che sono stati compiuti. Ed addirittura si è cercato in qualche modo di sostenere che questo blocco nero fosse una forma di gruppo organizzato, e quindi che vi fosse una sorta di premeditazione collettiva di quello che sarebbe poi stato lo sviluppo concreto della vicenda sul territorio e sul campo. C’é un’ampia letteratura sul punto. [...]
Allora mi sembra che il tentativo che almeno due testimoni hanno fatto, i testimoni sono Messina e Giannini, all’udienza del 3 dicembre 2013 e 14 ottobre 2014, di ragionare invece in termini di organizzazione collettiva siano, se ci confrontiamo con questa dicevo ampia letteratura, sicuramente poco congrui se ci confrontiamo con le modalità concrete con cui si è sviluppata la manifestazione del 15 ottobre”.
Romeo invece ‘argomenta’ la sua arringa con proiezione di frames di filmati. Noi andiamo via.
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Seguono alcune considerazioni scritte da un gruppo di compagni condannati per un presidio in solidarietà a Francesco, compagno inquisito per la manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma. Insieme al resoconto precedente, dal quale si evince molto sull'andamento del processo, emerge con chiarezza l'urgenza del manifestarsi di una solidarietà attiva.
Il 19 novembre 2015 il tribunale di Genova, pm Patrizia Ceccarese ha condannato in primo grado 55 persone per aver partecipato ad un presidio, divenuto poi corteo, che voleva esprimere complicità con i compagni sotto processo per la manifestazione svoltasi a Roma il 15 Ottobre 2011, ed in particolare con un nostro compagno, Francesco, che era stato riportato in carcere – per altro in modo del tutto arbitrario – durante gli arresti domiciliari. Le condanne vanno da 6 mesi ad un anno.
Il 10 ottobre 2013 un presidio molto partecipato, messo su in meno di 24 ore, ci aveva visti percorrere un bel tratto del centro cittadino e ci aveva fatto sperare, per la sua composizione variegata, in una volontà ferma di rivendicare collettivamente una giornata di lotta particolare, il 15 ottobre appunto, dove varie istanze di classe – organizzate o del tutto spontanee – si erano ricomposte ed avevano stretto all’angolo non solo gli uomini degli apparati repressivi, ma anche quei becchini del movimento che volevano imporre, ancora, la divisione fra buoni e cattivi in un triste contesto di rappresentazione dello scontro.
Fatto il presidio, arrivate denunce e processo. Niente di speciale. Unica particolarità non da poco è che una serie di circostanze, che non è il caso di elencare qui, ha impedito a più della metà dei compagni inquisiti di venire a conoscenza della data dell’udienza e quindi di decidere il proprio atteggiamento. Un brutto episodio che non dovrebbe mai accadere, ma tanto meno in un’occasione come questa con di mezzo una vicenda processuale (15 ottobre) che sta risentendo, da una parte, di immobilismo/rassegnazione e, dall’altra, della modalità dissociatoria da parte di sedicenti componenti del movimento forse spaventate dall’entità delle pene richieste dal PM. La sentenza era attesa per il mese di gennaio (solo alcuni giorni dopo il tribunale di Roma ha rinviato le udienze di due mesi): quale miglior circostanza avremmo avuto per esprimerci?
Ma a Genova, da troppo tempo, un certo atteggiamento passivo, una mancanza concreta di risposte e di informazione sul terreno della repressione hanno fatto sì che si raggiungesse il culmine proprio in quest’ultima occasione.
Certo, è il caso di sottolineare come il tribunale abbia comminato il massimo (e si sia dato anche da fare per non rendere possibile il commutare la pena detentiva in firme per un gruppo di imputati e negare la condizionale a molti) per interruzione di pubblico servizio, ma sappiamo che i giudici si esprimono al meglio di fronte alla manifestazione di debolezza, al venir meno della tensione della lotta e soprattutto alla desolidarizzazione. Inoltre non ci stupisce che si sia voluta qui riflettere una più estesa volontà, che parte da Roma, di zittire ogni riferimento a quella giornata.
Non sarà più possibile pensare di utilizzare il nostro processo anche per scompaginare i piani del potere sul processo del 15 ottobre, se non nei gradi successivi. Ma nulla ci tratterrà dal fare del nostro meglio, consci che la solidarietà si esprima meglio con le azioni piuttosto che a parole.
Un gruppo di imputati/e
Cremona: un anno dopo
Il 24 gennaio dello scorso anno a Cremona migliaia di compas provenienti da tante città si unirono in una manifestazione calorosa soprattutto in nome della solidarietà antifascista. Nei giorni precedenti infatti un gruppo di fascisti aveva aggredito con mazze di legno alcuni compagni fra i quali Emilio, colpito duramente alla testa, portato in ospedale, dove è rimasto tante, troppe settimane.
Nel corso dell’anno sono stati compiuti arresti di manifestanti, a tappe preordinate, anche con il fine di ritardare, spezzare comunque confondere la solidarietà, tanto più la sua continuità sulle strade, nei tribunali. Il 14 gennaio 2016 al tribunale di Cremona è stato aperto il primo processo (“rito abbreviato”) a quattro manifestanti (Tide, Matteo, Mauro e… Sbob compreso, caduto però nella “delazione”) arrestati nella primavera scorsa, che dopo alcuni mesi di carcere ora sono ai domiciliari. Nella sentenza emessa la settimana successiva tutti sono stati condannati a 4 anni e alcuni mesi e per tutti anche il risarcimento al Comune di Cremona, costituitosi parte civile, di 200.000 euro.
Sabato 23 gennaio in risposta a quel processo e a quelli successivi, in solidarietà con Emilio, in continuità con la manifestazione dello scorso anno, una settantina di manifestanti arrivat* da diverse città siamo scesi in strada a Cremona. Ci siamo incontrat* anche per rispondere alla “trovata” dei fascisti di Caspound di organizzare in quel giorno il “tesseramento” nella loro sede - particolarmente protetta dalle forze dello stato.
Si è riusciti comunque a percorrere in corteo diverse centinaia di metri in direzione del centro, nonostante gli ostacoli, con alla testa uno striscione con su scritto appunto “Per Emilio e per la rivolta del 24: Resistiamo contro ogni fascismo”, per la solidarietà con i tre compagni condannati. Una donna anziana dalla finestra di casa si è sentita di urlare alla polizia di lasciarci passare – noi l’abbiamo accolta con urla di festa.
Dal corteo sono partiti interventi e parole d’ordine contro fascisti che agiscono assieme allo stato nelle guerre, nel razzismo, nella repressione delle lotte; si è anche urlato contro l’impiego del “reato” di “devastazione e saccheggio” (prevede 9 anni di carcere) che pesa come un macigno sulle scelte processuali e l’aggravamento delle condizioni carcerarie. Si capisce che ci si trova di fronte alla vendetta dello stato contro la quale dobbiamo trovare chiarezza e forza.
Ricordiamo che per il 24 gennaio i processi non sono finiti, dato che il 20 ottobre scorso ci sono stati altri arresti. Anche a loro va la nostra solidarietà.
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CONTRO DELATORI E INFAMI
“Il T. (Kuljit, arrestato per devastazione e saccheggio il 20 ottobre 2015) viene riconosciuto da B.A. (Sbob, arrestato per devastazione e saccheggio il 30 marzo 2015) nell’album di fotografie (…). Il B.A. affermava che il T. indossava nel corso della manifestazione lo stesso giubbotto multicolore rappresentato nelle fotografie, dicendo che il soggetto con me è T., era vestito così durante la manifestazione. Era con me quando ha raccolto il cartello e poi non l’ho più visto (…). Si deve osservare come il riconoscimento effettuato da B.A. sia inserito nel contesto delle dichiarazioni ammissive dei fatti a lui contestati, che tali dichiarazioni risultano nel complesso coerenti tra loro e con i fatti rappresentati nelle immagini in atti, nonché con quanto descritto dallo stesso B.A. nel corso del precedente interrogatorio reso davanti al GIP in data 4 giugno 2015 (Sbob è uscito dal carcere di Cremona per andare agli arresti domiciliari il 6 giugno 2015).”
Dagli atti degli arresti del 20 ottobre 2015, riguardo i fatti della rivolta del 24 gennaio a Cremona, fra parentesi situazione degli arrestati interessati.
Rendiamo pubblici questi stralci che riguardano uno degli arrestati per la manifestazione antifascista in solidarietà con Emilio del 24 gennaio per rendere noto una banalità di base: per noi i delatori e gli infami, collaborando con l’autorità e facendo arrestare un altro ragazzo, sono nemici come la polizia, i fascisti e chi comanda questo mondo.
C’è un proverbio che recita: “un bel tacer non fu mai scritto”. Semplificando lo possiamo tradurre così: quando non hai niente di intelligente da dire, è meglio se stai zitto e che, in questo caso specifico, con la polizia e i suoi organi repressivi non si parla mai.
Questi fatti, oltretutto, rendono più difficile il percorso di lotta e di solidarietà riguardante la repressione dopo la rivolta e la solidarietà espressa ad Emilio il 24 gennaio.
Rilanciamo la solidarietà a tutti gli altri arrestati e denunciati per la manifestazione del 24 gennaio e per gli antifascisti colpiti dalla repressione per i fatti del 18 gennaio quando Emilio cadde a terra, finendo in coma, per mano dei fascisti di Casa Pound, anche se alcune dichiarazioni come chiedere scusa o risarcire i danni sono lontani dal nostro modo di pensare e affrontare la repressione.
Chi devasta i territori e saccheggia le vite è l’esistente in tutte le sue forme.
Semplice, conciso e, per noi, eticamente corretto.
alcune/i anarchiche e anarchici di Cremona
17 gennaio 2016, da csakavarna.org
milano: Tredici anni di carcere per cinque compagni
accusati di resistenza per un corteo studentesco del 2010
E’ arrivata una pesantissima sentenza politica emessa dal tribunale di Milano. Ieri pomeriggio cinque compagni, allora studenti dell’università statale hanno atteso attoniti assieme ai loro legali e a numerosi solidali la lettura della sentenza: 4 anni per due compagni, 3 per uno, 1 anno e 6 mesi per un altro e infine un anno per il quinto. I fatti dovrebbero ricordarli in molti in questa città, si tratta del corteo studentesco del 8 ottobre del 2010, data studentesca lanciata a livello nazionale per protestare contro la riforma Gelmini. Cortei in oltre 60 città italiane con la partecipazione di più di 300 mila tra studenti, professori, lavoratori tecnici e solidali.
A Milano più di dieci mila manifestanti hanno invaso le vie del centro per manifestare la propria opposizione all’ennesima riforma di trasformazione della scuola e delle università pubbliche. Il corteo, partito da piazza Cairoli giunge in piazza Missori dove si divide in due parti: la testa prosegue verso il provveditorato di via Ripamonti mentre la coda, composta per la maggior parte da studenti universitari ma anche da molti medi decide di deviare dal percorso autorizzato per occupare l’università statale e svolgere al suo interno una grande assemblea di confronto su come proseguire la mobilitazione. Il chiostro del filerete viene letteralmente invaso da migliaia di giovani, un’immagine che a molti ricordava quella vista sui libri di storia di quarant’anni prima. Mentre dal camion stavano iniziando i preparativi per l’assemblea un gruppo di agenti della Digos si affaccia all’interno dell’università, con fare arrogante facendo pensare alla volontà di sgombero. Immediata è stata la reazione di centinaia di studenti che al grido di fuori gli sbirri dall’università si sono diretti davanti agli agenti obbligandoli a retrocedere ed uscire dall’ateneo. Alcuni di questi erano gli studenti oggi sotto processo che per aver semplicemente intimato agli agenti di allontanarsi dall’ateneo in quanto non erano autorizzati dal rettore ad entrare e inoltre c’era la paura che la polizia volesse intervenire per sgomberare.
I reati di cui sono accusati i compagni sono di resistenza aggravata o concorso in resistenza per degli episodi di massa, questo dell’allontanamento della digos e un altro per delle cariche davanti alla torre Velasca dove il corteo provava a passare per continuare la giornata. In entrambi i casi erano presenti centinaia se non migliaia di giovani e i compagni erano semplicemente a fianco di tutti questi per la riuscita della manifestazione. E’ chiaro che l’accanimento del giudice è stato pesantemente condizionato dalla pressione della questura che ha consegnato dei veri e propri rapporti personalizzati sulle storie dei compagni, sulla loro determinazione nel continuare le lotte su svariati fronti e le conseguenti altre denuncie accumulate. Due compagni sono attualmente sotto pesanti restrizioni personali, uno è Andrea in carcere da novembre per aver partecipato al corteo del primo maggio a Milano, accusato della pesante e fascista accusa di devastazione e saccheggio. L’altro è Francesco ai domiciliari dopo un anno di carcere per il sabotaggio al cantiere del tav del maggio 2013 per cui era stato accusato di terrorismo poi decaduto.
Davanti a tanta sproporzione, all’accanimento giuridico, alla volontà di annientamento della questura c’è solo una risposta possibile. Quell’8 ottobre c’eravamo in tanti, in migliaia abbiamo violato i divieti della questura, i percorsi prestabiliti e normalizzanti del corteo, l’apatia dell’università trasformandola per alcune ore in un luogo nuovo, pieno dei sogni di migliaia di giovani che vogliono riprendersi in mano il proprio futuro, le proprie vite.
In tanti oggi dobbiamo prendere parola davanti a questa ingiustizia, per dire con forza che c’eravamo tutti, che i compagni non resteranno soli a subire così pesanti condanne, per smontare l’impianto accusatorio e far cadere tutte le accuse in appello.
Milano, 16 gennaio 2016
Da due lettere dal carcere di san vittore (mi)
[…] Arriva la prima guardia, sono il primo, prendo il sacco che ho preparato e vado, si cammina lungo il muro di cinta, si scende in un seminterrato e poi si sale all'accoglienza che è l'atrio del IV raggio, ormai chiuso, dismesso, davanti alla piazzetta, la rotonda. Dalla rotonda arriva un'altra guardia, che bisogna chiamare assistente o appuntato, mai guardia o peggio secondino, sennò si offendono. L'appuntato mi porta al mio raggio, il III e poi alla mia sezione, il III piano… Dimenticavo, ci finisco perché dalle urine risulto positivo ad hashish e cocaina, il III è il reparto di chi ha problemi con alcool o droga (mai avuto problemi, mi sono sempre trovato bene con la droga). Vengo accolto molto bene, in molti mi conoscono, sono già le 14:00 ed i telegiornali hanno già fatto il loro processo mediatico… Pacche sulle spalle, "avete fatto bene!", "bravi!". Finisco in una cella con due ragazzi in gamba e la prima cosa che mi dicono è: "Ora stai tranquillo, sei tra amici, sappiamo chi sei, per i primi tre giorni non fare niente, facciamo tutto noi, prendi pure tutto ciò che ti serve, ciò che è nostro è tuo… scegli pure il letto e gli armadietti che vuoi, se vuoi ci spostiamo…" e tante altre robe… mi presentano un sacco di gente, questo buono, questo male, quello è infame… le regole non scritte… questo porta bene, questo porta male… etc, etc… Sono distrutto non ho ancora dormito… mi preparano una splendida cena con dei ragazzi di un'altra cella… poi doccia e crollo! […]
Noi siamo prigionieri politici, capri espiatori di un processo mediatico voluto dai servi e dal potere. Noi pirati in particolare li terrorizziamo davvero in quanto la cultura e l'arte che siamo in grado di poter esprimere a livello mondiale sono il nemico peggiore che il padrone possa temere. Noi pirati avevamo occupato un luogo, 80.000 metri quadrati, sgomberato e rioccupato più volte, luogo che avrebbe dovuto ospitare un "Exploit" artistico che vedeva la partecipazione di più di 180 artisti a livello internazionale come Pistoletto, De Angelis, Andrea Kunkl, Carrasco, Geologika, Tenia… e molti altri artisti, poeti, scrittori, tutti uniti nella lotta e pronti a dimostrare la mostruosità dell'Expo 2015 di Milano… Sarebbero dovuti essere 7 giorni, dal 1 al 7 maggio, di festa d'apertura, concerti, spettacoli, mostre e tanto altro e 6 mesi di mostra d'arte moderna… Non ci lasciarono spazi, l'ultimo sgombero iniziato il 27 aprile mattina si concluse il 28 sera con la violenza, guidata dall'allora vice questore D'Urso… tant'è che parte della nostra mostra venne trasferita e rimase per 6 mesi alla galleria Meravigli, vicino Cordusio, zona Duomo e noi per strada! Il catalogo di questa mostra ora è diventato un libro/mostra con raccolti oltre che le foto, anche poesie, scritti ed impressioni di vari artisti da tutto il mondo. Questo libro, che si chiama appunto Exploit, è composto da più di 1.000 pagine d'arte e cultura… ciò gli ha fatto davvero male, colpendoli sul serio, scatenando davvero l'ira dei padroni, politici, editori, artisti e tanti altri servi e servetti terrorizzati che la vera "verità" e "cultura" filtrasse dal basso ad affogarli nelle loro stesse vuote parole e cagate su cosa sia stato davvero l'Expo!!
Bisogna anche dire che il vice questore D'Urso fu l'unico poliziotto ferito in piazza il 1° maggio e promosso sul campo a questore! Ora mi trovo qui, in carcere e ricevo la solidarietà di molti da fuori e da dentro le mura. Tengo la corrispondenza con mezza europa e so che in tanti si stanno battendo per noi. Noi, da buoni "pirati" teniamo duro e affrontiamo la burrasca a testa alta, solo la morte potrà fermarci nella consapevolezza che le nostre idee, l'arte e la cultura che rappresentiamo non potranno mai essere fermate!!
I pirati, l'Ox crew, crescono, aumentano di numero e un giorno saremo di nuovo coi nostri/e compagn*! Un abbraccio solidale e complice! Hold on. Casper il Pirata.
18 gennaio 2016, San Vittore - III Raggio
Andrea Casieri, piazza Filangieri, 2 - 20123 Milano
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[...] mi trovo in custodia cautelare nel carcere di San Vittore con l’accusa di “devastazione e saccheggio” per i fatti accaduti a Milano al corteo del Primo Maggio.
Con la premessa che il reato che mi viene contestato è supportato da prove video e fotografiche interpretate in modo a dir poco fantasioso e che il reato in sé stesso è stato creato appositamente per questo tipo di occasioni, comunque io mi trovo qui e ben poco posso fare per difendermi in quanto qua dentro non mi è neanche permesso di visionare il materiale video che è stato depositato come prova a mio carico, per questo abbiamo nominato un consulente tecnico che assieme al mio avvocato stanno cercando di ricostruire la mia posizione e i miei spostamenti durante quei concitati momenti prima, dopo e durante gli scontri in Largo D’Ancona (cosa che se mi fosse permesso riuscirebbe certo meglio al sottoscritto). [...] La richiesta dei domiciliari mi è stata negata [...]
17 gennaio 2016
Alessio Dall’Acqua, piazza Filangieri, 2 - 20123 Milano
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Comunicato dei cinque compagni greci che rischiano l’estradizione in Italia per i fatti del Primo Maggio No Expo a Milano
Riportiamo il comunicato scritto dai cinque compagni greci per i quali lo stato italiano ha chiesto l'estradizione, poi negata, in seguito al mandato di cattura emesso il 12 novembre 2015; i cinque compagni sono accusati di devastazione e saccheggio, per aver partecipato al corteo del 1° maggio a Milano. La solidarietà concreta dimostrata dai compagni degli arrestati ha permesso di evitare l'estradizione e rafforzare la lotta contro Expo così come contro ogni altra grande opera o grande evento imposti dagli stati e da chi li governa.
1. Il 1º maggio 2015, a Milano, una grande manifestazione ha avuto luogo nel contesto della May Day. Non è stato solo un giorno in cui in tutt’Italia non si è lavorato, ma un giorno d’incontro tra i movimenti di tutta la Penisola (sindacati di base, centri sociali, gruppi studenteschi, comitati di lotta per la casa, comunità di migranti, No Tav, ecc.) contro le misure d’austerità che sono state votate e applicate dal governo Renzi. È stato inoltre il culmine del movimento No Expo contro l’Esposizione universale, il tutto con la
partecipazione di persone provenienti da molti paesi d’Europa contro la roboante inaugurazione dell’Expo prevista per lo stesso giorno. La partecipazione di massa e le dinamiche di protesta sono state il culmine di un movimento che da sette anni si batte contro Expo e la relativa propaganda, mettendo in crisi le carriere politiche di ministri e autorità locali.
Sette anni fa la città di Milano vinse il bando per ospitare l’Esposizione universale. A questo scopo oltre un milione di metri quadri sono stati ricoperti da una coltre di cemento, le popolazioni locali sono state scacciate e le loro case espropriate, in ossequio ai piani di sviluppo e alla rendita. Gli amministratori scommisero sul fatto che Milano sarebbe diventata una città attraente per il capitale e cercarono di farla diventare il paese di Bengodi della finanza, presentando il tutto come l’ottava meraviglia del mondo per la classe lavoratrice locale alla quale promisero lavoro e sviluppo. L’intera città è stata adornata da grattacieli sfavillanti, nuove superstrade e vari progetti spettacolari. Dietro la vetrina dello sviluppo le promesse sono cadute una dietro l’altra, le banche hanno prestato, gestito e riciclato denaro, le aziende impegnate nella costruzione dell’area espositiva si sono premurate di ritardare i lavori per alzare i costi e, ovviamente, fra queste aziende c’era la mafia coi suoi affari.
Questo ciclo di profitti per i padroni, iniziato nel 2008, è stato coronato dal brutale sfruttamento di giovani sottopagati e di lavoratori volontari, a ulteriore beneficio delle tasche dei capitalisti. Expo è stato accompagnato da un’azione di “ripulitura” nei confronti di chiunque potesse risultare potenzialmente pericoloso per l’imbellettamento di Milano. Vaste operazioni poliziesche hanno avuto luogo in città, con sgomberi di case occupate e centri sociali, mentre si vietavano gli scioperi, come quello dei lavoratori della metropolitana, pochi giorni prima dell’inaugurazione.
2. Dopo sei mesi è calato il sipario su Expo, ma le sue conseguenze e i suoi effetti rimangono. Expo finisce lasciando dietro di sé un deficit di un miliardo e mezzo di euro da ripianare con l’aumento delle tasse.
I proletari saranno obbligati a pagare il conto all’insegna della “responsabilità aziendale” del debito e forse anche a dire grazie per l’orgia di spettacolo cui hanno potuto assistere. L’Expo lascia dietro di sé terre saccheggiate, rapporti di lavoro flessibili, un esercito di volontari e una montagna di repressione. Sei mesi dopo il nostro fermo ingiustificato in cui ci fu prelevato il Dna, le autorità italiane hanno iniziato una nuova caccia alle streghe fabbricando indizi e spiccando 5 mandati d’arresto per i compagni italiani e 5 mandati d’arresto europeo per noi. Abbiamo più di un motivo per ritenere che dietro i capi d’accusa stia un espediente politico, un trucco che serve non solo a criminalizzare la partecipazione a una manifestazione di protesta, sulla scorta di un articolo fascista del codice penale che nacque sotto Mussolini ed è ancora applicato ai nostri giorni, ma a favorire un’operazione di “copertura” da parte delle autorità italiane: l’opinione pubblica deve “dimenticarsi” della “terra bruciata” che Expo lascia dietro di sé. Basta parlare di scandali e corruzione, parliamo dei manifestanti, affinché le carriere politiche sian fatte salve! I nostri arresti sono l’opportunità ideale per le autorità italiane per giungere a punizioni esemplari per noi e per chiunque altro fosse in strada in quei giorni. È l’opportunità ideale per mostrare quale futuro aspetta chi voglia lottare e organizzarsi con altri movimenti su scala nazionale o europea.
L’utilizzo del mandato d’arresto europeo, gli indizi ridicoli, la criminalizzazione per aver partecipato a un corteo, i processi politici con pene di 15 anni per i compagni, mandano un chiaro messaggio: se gli sfruttati uniscono le proprie voci, la repressione s’intensifica.
3. Per la prima volta il mandato europeo è stato utilizzato per degli scontri di piazza (finora era stato utilizzato solo per reati pesanti quali il traffico di stupefacenti e di esseri umani o il riciclaggio di denaro). È un chiaro tentativo di internazionalizzare la repressione, di criminalizzare la lotta sociale e l’incontro fra i movimenti su scala europea. Allo stesso tempo è una scommessa per il movimento antagonista europeo: bloccare questo approccio repressivo, impedendo l’estradizione.
Nel 2008-2010 con l’esplodere della recessione nelle economie europee dovuta alla crisi globale capitalista, gli Stati membri dell’Unione hanno fatta a gara per prendere provvedimenti che nazionalizzassero i danni e le perdite per salvare il sistema creditizio internazionale. Lo Stato greco in testa con al seguito tutti gli altri dell’Unione.
Certamente tutto ciò non bastava a risolvere il problema, poiché la crisi finanziaria è solo una mera espressione della crisi nel processo di produzione e riproduzione del capitale. Il problema dovrebbe essere affrontato alla radice: svalutazione del potere dei lavoratori e abbassamento degli standard di vita dei proletari per uscire dalla crisi a condizioni tali affinché i capitalisti ci guadagnino.
Così i capitalisti nazionali e internazionali e i loro governi cominciano ad applicare le misure di austerity o varano programmi di aggiustamento strutturale. Tali misure e programmi in Grecia li conosciamo come Memoranda: tagli a salari, pensioni e stipendi, riduzione della spesa pubblica, incrementi di tasse sul cibo e su altri generi di prima necessità, privatizzazioni, licenziamento, innalzamento dell’età pensionabile, ecc., tutto ciò che che la coalizione di governo Syriza-Anel continua a votare e ad applicare.
4. Tutto ciò può essere imposto solo sulla base di un permanente “stato d’emergenza” che, oltre a una politica del “debito pubblico” utilizzata come leva di applicazione e per incutere terrore, si afferma con la revoca dello “Stato sociale” e l’emergere dello “Stato di sicurezza”. Tutti questi sono solo differenti aspetti della stessa strategia di governo della crisi da parte del capitale, per l’imposizione di nuove norme di disciplina e sfruttamento delle classi più povere.
Un generalizzato “regime di stato d’emergenza” viene imposto passo dopo passo in tutta Europa, in occasione della minaccia del “terrorismo islamico”, con una diffusa militarizzazione delle metropoli occidentali. È in atto su larga scala una campagna di paura e controllo totale, con retate nelle case degli attivisti, divieti di manifestare, introduzione di nuove leggi antiterrorismo, militari che pattugliano le strade. Ed è ben noto che questo clima di guerra non è solo diretto contro gli immigrati che riescono ad arrivare in Europa dalle zone di guerra in Africa e Asia, ma anche verso tutti quelli che scelgono oggi e domani di prendersi le strade e protestare contro le politiche di austerità e svalutazione, contro la Fortezza Europa e il silenzio di tomba che stanno provando a imporci.
5. Il 7, 8 e 11 gennaio, siamo chiamati a batterci contro queste richieste di estradizione. La lotta per bloccarle è parte di un mosaico più ampio di azioni con cui cerchiamo di arginare il continuo declassamento delle nostre vite. È parte della lotta studentesca contro l’aumento delle tasse universitarie, delle lotte quotidiane e degli scioperi dei lavoratori contro i padroni, dei movimenti delle assemblee di quartiere per il rifiuto di pagare per i propri bisogni primari, delle richieste dei lavoratori precari contro la schiavitù moderna dei programmi di workfare, delle rivolte degli immigrati alle frontiere e nei moderni campi di concentramento. È parte di ogni comunità in lotta che scoppia nella sfera pubblica contro gli imperativi capitalisti e la repressione di Stato.
Chiamiamo tutti i nostri compagni di lavoro, i nostri compagni di classe, i compagni di lotta e tutte le persone che si battono affinché facciano proprio il caso della nostra accusa penale, affinché prendano posizione nella battaglia.
Bloccare le estradizioni! “Attaccare uno è attaccare tutti”
I cinque attivisti che le autorità italiane si vogliono portare via
Novelle da Trento
Angelino. Nella serata di giovedì 14 gennaio, a nord di Trento, vanno a fuoco due ripetitori della telefonia mobile. Forza Italia chiede l'intervento del ministro degli Interni contro gli anarchici trentini, a cui i giornali attribuiscono l'incendio dei due ripetitori.
Manganelli. Sabato 16 gennaio, a Trento, la Celere e il battaglione dei carabinieri di Laives caricano per due volte in centro una sessantina di compagni che stavano contestando un corteo-fiaccolata della Lega Nord "contro il degrado".
Trecento. Il numero degli agenti impiegati il 19 gennaio per lo sgombero di Nave Assillo occupata, durato dalle 6,45 alle 21,00, con via S. Pio X blindata (vedi sotto il manifesto affisso in città nei giorni successivi).
Antifona. Venerdì 22 gennaio, un nutrito gruppo di lavoratori e di solidali entra negli uffici della Mak costruzioni di Lavis (Trento) per spiegare molto tranquillamente al titolare - arrivato dopo circa un'ora - che non intendono accettare il licenziamento di un muratore e le continue vessazioni a cui lui e altri tre colleghi sono costantemente sottoposti da quando si sono rifiutati di firmare un accordo che peggiorava le loro condizioni di lavoro. Sotto gli uffici, si materializzano prima alcune volanti di polizia e carabinieri e poi addiritttura un plotone di Celere.
Segue testo del manifesto sullo sgombero di Nave Assillo Occupata.
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Salpa, nave, salpa
Martedì 19 gennaio, verso l'una del pomeriggio, via S. Pio X sembrava lo scorcio di un Paese sotto occupazione militare: qualcosa come venticinque mezzi di polizia e carabinieri su meno di duecento metri di strada.
Sul tetto di un edificio di cinque piani – da tre mesi “Nave Assillo occupata” – nove compagni cantano e ballano con lo sguardo rivolto al nutrito presidio di solidali formatosi dal primo mattino all'entrata di quella via blindata dagli sbirri.
L'operazione di sgombero della Nave, cominciata alle ore 6,45 del mattino, si concluderà dopo le 21,00, quando l'ultimo degli occupanti sarà sceso dal tetto. Nel frattempo, un piccolo corteo attraversa la città da Sociologia a S. Pio, con interventi al megafono e scritte, per unirsi al presidio in quartiere.
Per tre mesi il nuovo Assillo è stato frequentato – durante i dibattiti, le cene, i concerti – da centinaia di persone. In molti sono presenti al presidio solidale contro lo sgombero. Fra loro anche i lavoratori e le lavoratrici dell'Orvea in lotta.
Alcuni abitanti del quartiere si avvicinano curiosi. Qualcuno porta del cibo. Qualcun altro tira dritto imprecando. Dai poggioli delle case a lato e di fronte alla Nave compaiono due striscioni scritti al volo con i pennarelli: “Solidali con voi” e “Le case vuote puzzano di marcio e di sconfitta”. Parole che volano preziose sopra una strada piena di anfibi, scudi e uniformi.
Trecento agenti mobilitati per sgomberare una decina di compagni, con il questore D'Ambrosio che delira, come aveva fatto per Villa Assillo, di pretendere dagli occupanti di risarcire i circa 50 mila euro spesi per... il loro sgombero.
Su due cose, invece, ha ragione il povero questore. La prima è che è stato saggio da parte della Questura aspettare la fine dei mercatini di Natale per evitare cortei in centro... La seconda è che gli assillanti torneranno a occupare. Solo gli appartamenti dell'ITEA vuoti, in balìa della speculazione, sono più di milletrecento.
Rispondere alle occupazioni militarizzando quartieri, demolendo tetti o murando porte e finestre non basterà.
Siamo di quelli che l'importante è ciò che è giusto, non ciò che è legale.
Siamo di quelli che “la nostra passione per la libertà è più forte di ogni autorità”.
Siamo di quelli che anche sui tetti si può ballare.
Al prossimo arrembaggio!
alcuni pirati di Nave Assillo
22 gennaio 2016, da informa-azione.info
fidenza (pr): bormioli in lotta
Pubblichiamo di seguito il comunicato del sindacato Intercategoriale Cobas in merito alle ragioni che hanno portato allo sciopero e ai blocchi alla Bormioli di Fidenza (Parma), giunti particolarmente alla ribalta delle cronache negli ultimi giorni, con i ripetuti e accaniti interventi dei carabinieri in assetto antisommossa contro i lavoratori.
A un mese dal suo inizio facciamo chiarezza su contenuti e prospettive. Lo sciopero dei facchini del SI.Cobas, iniziato il 23 dicembre, prende le mosse dall'ennesimo cambio appalto, un meccanismo legalizzato dalle politiche attuali e che flagella il settore della logistica e dei trasporti. Un settore in cui imperversano consorzi di cooperative intermediarie, rispondenti all'esigenza di controllo della forza lavoro, flessibilità e di riduzione sistematica del suo costo.
Un cambio appalto, quello in Bormioli, segnato da un accordo sindacale siglato dal CAL (consorzio entrante) con la CGIL (sindacato largamente minoritario nel magazzino prima del cambio: 4 iscritti), che cancella in un sol colpo diritti acquisiti nel tempo quali scatti di anzianità e livelli di inquadramento.
Il tutto nella prospettiva esplicita di una successiva riduzione di organico (alla scadenza dei 9 tempi determinati) benché si lavorasse con moltissime ore di straordinari.
Vogliamo quindi smontare la tesi sostenute dalla CGIL, anche a mezzo stampa, per screditare le ragioni degli operai e del SI.Cobas, che sono in sciopero dal 23 dicembre 2015:
1) Sui livelli di inquadramento e sugli scatti di anzianità l'accordo consente all'azienda di monetizzare la differenza economica fra il diritto acquisito e la nuova situazione imposta dal CAL nel cambio appalto. Basterebbe un semplice ulteriore cambio appalto per assorbire tale indennizzo e riportare i lavoratori a... quattro anni fa.
2) Risulta assolutamente falso e ipocrita affermare che l'accordo prevede l'assorbimento di tutta la forza-lavoro precedentemente impiegata presso il magazzino. Cancellando formalmente l'anzianità di servizio maturata nel magazzino, si introduce nei fatti la cancellazione delle tutele previste dall'art. 18, tracciando la strada per portare a compimento l'obiettivo dichiarato di ridurre a 30 il numero degli operai stabili, a fronte dei 59 attuali.
3) I sei mesi di transizione, accordati dalla CGIL al consorzio come periodo di verifica per "sistemare le questioni irrisolte" (vedi i 30 quarti livelli che hanno abbassato al quinto livello) ben lungi dall'essere un atto di magnanima responsabilità aziendale verso i lavoratori, altro non è che una trappola in piena sintonia con le logiche imprenditoriali che imperversano nel settore della logistica e non solo.
Di fronte a tutto questo si è liberi solo di scegliere da che parte stare. Ma distorcere la realtà, e mistificare i contenuti dell'azione dei lavoratori, come fanno i dirigenti CGIL, significa aver già scelto da che parte stare passando dai 4 iscritti ai circa trenta attuali in seguito agli "inviti" padronali. E non è quella degli operai che hanno smesso di ragionare solo a partire dal proprio "netto in busta", mese dopo mese e anno dopo anno...
La lotta continua.
SI.Cobas nazionale
19 gennaio 2016, da infoaut.org
A fianco dei lavoratori Saeco. NO ai licenziamenti per i profitti!
Le lavoratrici e i lavoratori SAECO (Philips) di Gaggio Montano (Bologna) sono da più di 40 giorni in lotta per la difesa del posto di lavoro.
Scioperano contro i 243 licenziamenti annunciati dall’azienda, su un totale di 558 operai. I tagli annunciati da Philips colpiranno soprattutto le giovani donne, vista la tipologia dei proletari occupati.
Gli operai hanno passato il natale non facendo shopping, ma in lotta con il presidio permanente dello stabilimento e bloccando i camion ai cancelli. Non si rassegnano e intendono continuare anche nel 2016 con la volontà di “resistere un minuto in più del padrone”.
La SAECO (storica produttrice di macchinette da caffè) rischia di aggiungersi a quanto successo ad altre fabbriche metalmeccaniche della zona, quali Demm, Kemet, Metalcastello, Stampi Group. Tutti sono convinti che è in gioco la vita economica dell’intera vallata. Per questo, l’intero paese e il territorio si sono schierati e mobilitati a fianco del presidio degli operai, con lo slogan “la SAECO non si tocca!”.
Dalle RSU delle fabbriche bolognesi agli studenti, dai sindaci democratici alle associazioni del territorio progressiste, dai piccoli commercianti che boicottano i prodotti Philips e per solidarietà abbassano le serrande durante i cortei, ai cittadini che offrono viveri e coperte e partecipando al presidio, tutti gli strati popolari sono a fianco degli operai.
Si organizzano proteste, iniziative di sostegno.
Il 2 dicembre si è tenuto un corteo di 16 chilometri raccogliendo una solidarietà totale.
Ma quali sono le “ragioni” della multinazionale?
Dietro le solite parole come “competizione”, “crisi del settore”, “ristrutturazione”, c’è in realtà la necessità di incamerare il massimo profitto monopolista.
Questo è il vero motivo dei licenziamenti e della delocalizzazione della produzione in Romania, dove Philips può contare su forza-lavoro a minor costo. Questa è la strategia comune a tutti i padroni. Una strategia che dobbiamo combattere fino in fondo!
La multinazionale ha dapprima ingannato gli operai, dichiarando che gli obiettivi aziendali erano stati tutti raggiunti e che tutto andava bene. E poi è passato all’attacco. Ora mantiene le sue posizioni, rispondendo picche alle richieste ed ai solleciti che giungono da parte sindacale e da altre parti per ritirare i licenziamenti. Ad oggi, gli incontri per aprire un negoziato non hanno dato alcun esito positivo.
Ma dobbiamo dire che non sarà certo un tavolo fra le parti a salvare il posto di lavoro. E nemmeno possiamo illuderci che sarà il governo Renzi, un governo del grande capitale, a imporre marcia indietro alla Philips.
Saranno come sempre i rapporti di forza prodotti dalla resistenza operaia portata avanti senza sosta, dall’intensificazione delle forme di lotta unitaria dal basso, decise con tutte le lavoratrici e i lavoratori.
La vicenda SAECO dimostra che nel nostro paese, in una situazione di pesante offensiva padronale, le sacrosante battaglie del proletariato continuano senza sosta e si induriscono, a dispetto dei capi e capetti sindacali che fiancheggiano i padroni, boicottano e isolano le lotte, cercando di fregare gli operai con le illusioni parlamentari e istituzionali.
Noi marxisti-leninisti sosteniamo pienamente la lotta della Saeco, fino al ritiro dei licenziamento e la garanzia di tutti i posti di lavoro, senza contropartita.
Gridiamo a gran voce “basta licenziamenti per i profitti!”.
Ribadiamo ancora una volta che le lotte possono avere una soluzione veramente positiva solo se vengono unificate e poste fuori dall’orizzonte e dalle compatibilità borghesi, solo se esse si danno una impostazione e un orizzonte rivoluzionario, se si uniscono in un’unica lotta contro il sistema capitalistico nel suo complesso.
da Scintilla, n. 65 – gennaio 2016, Organo di Piattaforma Comunista
La svendita della città nelle linee guida del Commissario Tronca
Da qualche giorno è possibile consultare l’interessante documento redatto dal Commissario Tronca (il Dup – Documento Unico di Programmazione). Un faldone monstre, quasi ottocento pagine di dati e indicazioni puntigliose, che delineano il percorso politico che dovrà affrontare il Comune di Roma a prescindere da chi vincerà le elezioni di giugno. Il documento programma infatti l’attività del Comune per il triennio 2016-2018.
La vicenda riassume egregiamente il significato del commissariamento della politica in atto da diversi anni a questa parte, i rapporti di forza in campo, i ruoli dirigenti, nonché definisce una “visione del mondo”, quella imposta dall’Unione europea e a cascata da tutte le istituzioni preposte alla sua esecuzione. Un capolavoro: in anni di riflessioni e analisi contro le politiche neoliberiste della Ue non avevamo mai raggiunto tale capacità di smascheramento.
Il documento si presenta come concretizzazione particolare e cittadina del Fiscal compact europeo, cioè dell’accordo che stabilisce le “regole d’oro” deliberate in sede Ue e vincolanti ogni governo nazionale. A prescindere da chi sarà chiamato a governare (in questo caso la città di Roma), vige un programma politico-economico già definito.
Non a caso, il Dup in questione si presenta come “allegato n.4 del D.LGS. del 23/06/2011”, cioè rimanda ad una legge nazionale che a sua volta costituisce il rimando ad una normativa europea, e tutta la catena risulta vincolante e non emendabile dalle forze politiche vincitrici le elezioni.
Il documento sviscera le modalità con cui fare fronte all’obiettivo principale per cui è stato redatto: riportare il bilancio comunale in parità adeguandosi alle normative sul pareggio di bilancio recepite in Costituzione con l’articolo 81 (a cui si fa riferimento a pagina 73). In particolare, afferma che nel triennio 2016-2018 il Comune dovrà recuperare strutturalmente 440 milioni di euro (pag.18). Come avverrà questo rientro? Le ottocento pagine del documento impongono modalità precise e non derogabili. Oltre a procedere alla dismissione del patrimonio immobiliare (pag. 15), il programma prevede un vasto piano di privatizzazione dell’economia ancora controllata dal Comune di Roma. Riguardo al trasporto locale, si impone la cancellazione delle linee Atac scarsamente frequentate, che poi consistono in quelle linee di trasporto pubblico presenti in periferia ancora gestite da Atac e ancora non privatizzate come è avvenuto con la dismissione a favore della Tpl per intere zone di Roma (pag. 56 e anche 151 e seguenti). Per quanto riguarda la raccolta rifiuti e la pulizia di strade e aree verdi, si consiglia la progressiva privatizzazione e liberalizzazione dei servizi Ama, in particolare procedendo all’esternalizzazione del 20% dei dipendenti ancora legati all’azienda pubblica Ama. Si passa poi alla gestione degli asili nido, questione questa che ha acceso la mobilitazione del sindacalismo confederale e addirittura di pezzi del Pd, in quanto impone la privatizzazione degli asili comunali (pag. 59 e seguenti) per fare fronte alla perenne richiesta inevasa di posti in asilo (privatizzazione che avverrebbe dopo che nel precedente biennio i costi delle rette sono aumentati di circa il 50% a seguito del nuovo modello Isee).
In riferimento alla gestione e conservazione del patrimonio artistico cittadino, si ipotizza la concessione ai privati di diversi monumenti storici (peraltro scrupolosamente indicati nel testo). Rispetto all’emergenza abitativa, si prevede la chiusura dei Centri per l’assistenza alloggiativa sostituiti dal cd “buono casa”, cioè dall’erogazione una tantum di un contributo all’affitto per le famiglie sfrattate, che saranno costrette a riaffidarsi al mercato privato degli affitti nonostante una volta prese in consegna dal Comune, che ne ha certificato lo stato di debolezza sociale, avevano garantito per delibera comunale il passaggio ad alloggio Erp, cioè alla casa popolare.
Nel documento paradossalmente si certifica anche la perenne carenza d’organico comunale a tutti i livelli, che rappresenta il vero motivo della mala gestione dei servizi pubblici comunali: i dipendenti pubblici del Comune di Roma, specularmente ai dipendenti della Pubblica Amministrazione del suo complesso, sono inferiori alle esigenze, e gli enti pubblici sono strutturalmente sotto organico. Dai posti dirigenziali agli impiegati, il Commissario Tronca traccia un bilancio degli organici comunali da cui mancherebbero strutturalmente almeno 8.000 dipendenti (pag. 184-185). Nonostante ciò, ricordando il vincolo alla stabilità sopra descritto, ricordando anche l’articolo 81 della Costituzione nonché la mission dell’opera di Tronca di cui tale documento rappresenta la sublimazione, poco più avanti si impongono tagli di spesa al personale per 57 milioni l’anno (pag. 188). Un vero e proprio passaggio non sense, in cui nel giro di tre pagine viene descritto il Comune come permanentemente sotto organico procedendo perciò ad ulteriori tagli al personale. Un capolavoro, vi avevamo avvertiti.
Un documento di tale fatta dovrebbe incutere paura. Perché prevede un piano privatizzante che farebbe impallidire gli anni ruggenti del tatcherismo; perché delinea un programma triennale nonostante a giugno, formalmente, il Commissario Tronca decadrà dalla sua carica; perché tale piano è predisposto da un Commissario non votato da nessuno, senza alcun appoggio politico che non sia la nomina per decreto da parte del governo, senza averlo mediato o articolato con alcuna parte politica o sociale; infine, perché non si redige in due mesi di attività un piano dettagliato di ottocento pagine: il piano era già in preparazione da tempo e si è attesi la rimozione di Marino per pubblicarlo. Eppure, nonostante l’eccezionalità della vicenda, è l’assuefazione a farla da padrona, come se, in fondo, ormai questo prevede la scena della politica, quella di un commissariamento permanente da cui sembra impossibile liberarsi. Di certo certifica il livello raggiunto nei rapporti di forza politici, completamente smantellati, e in cui le forze economiche del capitale gestiscono direttamente il governo dei territori e delle popolazioni.
9 gennaio 2016, da militant-blog.org
Confindustria detta le linee al Governo
in materia di Pubblico impiego
Lo scrive il Sole 24 Ore di Lunedì 18 Gennaio, è il programma di Confindustria e del Governo e presto sarà recepito e normalizzato da decreti legislativi, circolari della funzione pubblica e pareri Aran.
- Contratti integrativi al ribasso a partire dai fondi della produttività (ridimensionamento della parte variabile e mancata erogazione di alcune voci fino ad oggi sempre garantite con una produttività alleggerita di centinaia di euro);
- unificazione dei comparti e loro riduzione a 4 equiparando al ribasso i salari del personale pubblico;
- rinnovo dei contratti nazionali con aumenti irrisori, inferiori perfino della indennità di vacanza contrattuale che considerano addirittura troppo onerosa;
- riscrittura del testo unico del pubblico impiego;
- un nuovo modello contrattuale, magari per legare i futuri e ridicoli aumenti ad una distribuzione diseguale, insomma mettere in competizione tra loro lavoratori\trici anche per pochi euro con l'intento di dividerli e vincolare ogni incremento salariale alla valutazione e supina accettazione dei dettami aziendali.
Per raggiungere questi scopi spingeranno la magistratura contabile a dettare linee guida per la gestione dei contratti decentrati, la minaccia di sanzione e di danno erariale poi sarà sufficiente per ridurre al minimo la parte variabile e rivedere, complici pareri e circolari, la stessa parte fissa del fondo. Fino ad oggi il recupero delle somme era possibile anche con alcuni piani senza toccare un euro della produttività. L'obiettivo di oggi è un altro: allungare, magari con il Mille proroghe, i tempi di recupero delle somme "indebitamente erogate" nei decentrati decurtando la produttività del personale e\o in alternativa ottenere un parziale blocco del turn over.
Province e città metropolitane, molte delle quali hanno violato i Patti di stabilità nel passato, non possono più replicare la parte variabile dei fondi e ciò determina una cospicua perdita salariale per i\le dipendenti. Queste sono le prime conseguenze della Legge Del Rio che Cgil Cisl Uil non hanno mai contrastato.
Ridurre i comparti significa eliminare alcuni trattamenti economici di miglior favore ma anche circoscrivere il numero dei sindacati rappresentativi, quindi si regala il monopolio della rappresentanza a Cgil Cisl Uil e autonomi in cambio del loro silenzio assenso sull'attacco complessivo al potere di acquisto e al potere di contrattazione nei settori pubblici.
Con il prossimo rinnovo contrattuale, i cui tempi sembrerebbero allungarsi, sarà introdotta la famigerata Brunetta che ricordiamo prevede di imperio la esclusione del 25% del personale da ogni incremento economico.
Mentre si annuncia un decreto legge per i licenziamenti immediati di chi timbra o si fa timbrare i cartellini, il vero obiettivo è recepire tutte le normative del Jobs act nella riscrittura del testo unico della pubblica amministrazione
In questo scenario, non sono sufficienti scioperi farsa o di immagine, bisogna capire innanzitutto quale sia la posta in gioco e la natura complessiva di un attacco al pubblico impiego, anche se una delle chiavi di lettura più realistiche è che il capitale vuole svincolarsi da ogni laccio e lacciuolo.
E’ la fine del patto sociale. E’ la fine di ciò che è pubblico.
Per questo è necessario riprendere una iniziativa di denuncia e di informazione che faccia intravedere alle persone la possibilità di un altro stato di cose. Solo così si possiamo opporci alle manovre governative e alla sua filosofia confindustriale
gennaio 2016, da cobaspisa.it