indice n.108
Si acutizza la guerra contro la popolazione kurda
La strage di Parigi rende più urgente la lotta contro la guerra
Lettera dal carcere di Ferrara
La "Guerra al terrorismo" e lo "Stato d'Emergenza"
lettera dal carcere di bancali (ss)
L’UE finanzia i centri di detenzione per i profughi in Turchia
confini di classe
lecce: impoverimento, emigrazione, repressione...
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
lettera dal carcere di Bergamo
lettera dal carcere di massama (or)
lettera dal 41bis del carcere de l’aquila
Lettere sulla situazione nel carcere di Opera
Lettera dal carcere di Rebibbia (rm)
buon natale...
lettera dal carcere di Vicenza
Lettere dal carcere di San Vittore (Mi)
lettera aperta dal carcere di rebibbia (rm)
No Tav fra continuazione della lotta e processi
Le vere cause della crisi delle banche popolari
Si acutizza la guerra contro la popolazione kurda
Nel quartiere Sur di Diyarbakir, città del sud della Turchia, nel volgere di due mesi è stato proclamato il sesto coprifuoco. Secondo l’agenzia stampa kurda ANF, ieri, quattro giorni dopo la proclamazione del coprifuoco, nei quartieri interni della città si potevano udire colpi d’arma da fuoco e detonazioni, si poteva vedere un crescente dispiegamento di militari.
Nei giorni scorsi la Fondazione dei diritti umani turca (TIHV) in un resoconto ha informato che fra il 16 agosto e il 12 dicembre di quest’anno, nell’intera Turchia, sono stati proclamati 52 coprifuoco illimitati e circa altrettanti a orario. Nei sei mesi indicati, precisa TIHV, in totale i giorni di coprifuoco attuato sono stati 163 (su 184), cioè quasi sempre; in quel semestre l’esercito turco nei quartieri dove era in vigore il coprifuoco ha ucciso 140 civili. I coprifuoco sono stati proclamati nei 17 circondari territoriali della Turchia sud-ovest, dove si trovano sette province kurde. Nella provincia di Diyarbakir sono stati imposti 94 giorni di coprifuoco: in totale fino ad ora i coprifuoco hanno colpito-coinvolto 1,3 mln di persone.
Il blocco della repressione non è all’orizzonte. Nei giorni scorsi nel villaggio kurdo di Dargecit (provincia di Mardin) l’esercito turco ha sparato e ucciso, Takyedin Oral, un giovane kurdo e ferito numerosi manifestanti. Nelle ultime settimane, inoltre, sono ricomparsi gli attacchi da terra e aerei, anche con elicotteri, sui quartieri delle città sottoposte a coprifuoco. Le devastazioni causate sono molto simili a quelle conosciute dalle città della vicina Siria, in cui ha imperversa la guerra civile.
In un proprio resoconto l’agenzia di stampa delle donne kurde JINHA scrive che a Sur per affrontare il coprifuoco, è stata messa in piedi una nuova organizzazione delle donne, collegata alle unità militari delle donne (YPJ). Effetto di queste scelte di difesa comune è stata l’apertura delle porte di casa, la realizzazione di cucine collettive e consumo in comune dei pasti.
In parallelo negli stessi giorni, nel circondario di Sirnak, informa ANF, sono stati messi fuori uso oltre 150 camion, camionette dell’esercito e della polizia turca. Il governatore ha disposto la chiusura, per tre giorni, di tutte le scuole di Cizre e Sirnak, invitando tutti gli insegnanti a uscire dal circondario. I servizi pubblici, inclusi gli ospedali, nelle ore e nei giorni del coprifuoco, non conoscono nessuna sicurezza particolare.
A Istanbul, Izmir e Diyarbakir nei giorni scorsi la polizia ha aggredito con gli idranti dell’acqua e gas lacrimogeni, una manifestazione di protesta contro il coprifuoco.
Nel fine settimana l’esercito turco ha esteso i suoi attacchi sulla popolazione kurda abitante nei territori della Turchia sud-ovest. Le città di Diyarbakir, Silopi, Cizre sono state pattugliate da oltre 10mila militari e poliziotti dotati di carri armati e artiglieria. La gente si è rifugiata nelle cantine dove acqua, cibo, corrente elettrica sono ormai esauriti; è impossibile trasportare morti e feriti negli ospedali e nei cimiteri.
Ferhat Encü, parlamentare kurdo del partito HDP sull’attacco delle forze armate turche nei territori abitati a gran maggioranza da popolazione kurda, dice: “Contro il nostro popolo è stata avviata una ‘pulizia etnica’. E’ in corso un massacro. Lo stato turco attacca i civili con armi pesanti, come se si trovasse ad affrontare un esercito di un altro stato. Mira chiaramente ad imporsi. E’ altrettanto chiaro che le forze armate dello stato nei territori autonomi non potranno avanzare, soprattutto permanere. Le bande dello stato turco verranno cacciate dall’intero territorio kurdo allo stesso modo in cui è stato cacciato da Kobane.”
La realtà infatti è che nei territori kurdi e della Turchia dell’ovest un numero crescente di persone continua a scendere in strada contro l’occupazione militare dello stato centrale.
In ogni caso, anche a Istanbul ed in altre città fuori dal territorio kurdo, sono ormai quotidianità battaglie di strada con la polizia. L’agenzia kurda ANF in questi giorni informava che carri armati ed altri mezzi pesanti hanno superato il confine siriano per disperdere manifestazioni di solidarietà attivate anche lì dalla popolazione kurda. Anche in oltre 50 città d’Europa (Berlino, Parigi, Londra e Vienna, anche a Milano…) migliaia di persone hanno manifestato affinché venga messo fine agli attacchi dell’esercito turco nei territori abitati da popolazione kurda.
Murat Karayilan dell’esecutivo del PKK in un’intervista a Radio Dengé Kurdistan ha detto: “La resistenza del popolo kurdo contro il fascismo del governo turco è anche una lotta per la democrazia in Turchia. Temo che, il capo dello stato Erdogan e i responsabili militari, giochino con il fuoco. Se gli attacchi non cessano, anche la guerriglia è pronta a sacrificarsi e il filo ancora oggi esistente che corre fra il popolo kurdo e la repubblica turca verrà tagliato. Se loro vogliono annientare la nostra popolazione con i carri armati. A noi non lasceranno più nessuna possibilità di vivere insieme a loro.”
tradotto da jungewelt.de, 15 e 21 dicembre 2015
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Turchia, cresce la repressione contro ogni voce di dissenso
28 novembre 2015: è stato ucciso TAHIR ELCI, avvocato per i diritti umani di Diyarbakir e presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati;
26 novembre 2015: arrestati due giornalisti del giornale Cuhmuriyet, accusati di alto tradimento: CAN DUNDAR e il caporedattore ERDEM GUL;
22 novembre 2015: attentato alla vita di Selahattin Demirtas, copresidente dell’Hdp, partito democratico dei popoli.
Siamo stati in Turchia, nei giorni a cavallo delle elezioni politiche dell’1 novembre scorso, come parti di una delegazione di osservatori internazionali insieme ad altri colleghi giornalisti e avvocati dell’Associazione Giuristi Democratici e del Legalteam Italia, per monitorare lo svolgimento pacifico e regolare del voto. Ci siamo andati in risposta all’appello dell’Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia (Uiki) in seguito alle gravi violenze sui civili perpetrate dalle forze armate turche con l’avallo del Governo nazionale dopo la sconfitta del partito di maggioranza, l’Akp alle precedenti elezioni del 7 giugno.
I media di tutto il mondo hanno documentato centinaia di morti nelle strade, da Ankara a Suruc, a Diyarbakir. In particolare nelle regioni curde, nel sud est della Turchia sono state usate violenze spropositate nei confronti dei civili, così nelle città di Bitils, Cizre, Mardin, Nusaubin, Lice, Hakkari, Dersim, e altre, segnate da lunghi coprifuochi e bombardamenti indiscriminati che hanno stremato la popolazione e distrutto case, negozi, luoghi di culto, cimiteri.
Durante le operazioni di voto, abbiamo constatato numerose violazioni delle regole elettorali, in particolare mezzi blindati e agenti della polizia e dell’esercito, armati, sostavano presso i seggi in spregio al divieto di sostare nel raggio di 25 metri, con chiaro intento intimidatorio. Alcuni seggi sono stati trasferiti in quartieri e villaggi laddove sarebbe stato più facile il controllo delle forze di polizia.
Abusi e violenze sono stati perpetrati sotto gli occhi di numerosi osservatori internazionali, la nostra non era certo l’unica delegazione presente in quei giorni in Turchia. Gli organi di informazione internazionale, almeno durante i giorni a cavallo delle elezioni erano lì a documentare i fatti.
Spente le telecamere, riposti i taccuini, dal 2 novembre 2015 in Turchia continua la repressione governativa contro ogni voce d’opposizione. E si fa anzi selettiva e spietata puntando ad abbattere i simboli del dissenso che danno voce alle minoranze.
Tahir Elci, presidente dell’associazione degli avvocati di Diyarbakir, nel sud est a maggioranza curda della Turchia, da sempre in prima fila nella difesa dei diritti umani, è stato ucciso durante un incontro pubblico vicino ad una moschea nello storico distretto di Sur, il 28 novembre 2015, mentre denunciava i danni ad alcuni luoghi simbolo di Sur durante gli scontri degli ultimi giorni tra manifestanti filocurdi e la polizia turca.
I video diffusi dalla rete mostrano la scena, si sente il colpo di un’arma da fuoco per le strade della città, l’avvocato per i diritti umani, impaurito, che si guarda intorno, altri colpi, incrociati, anche a difesa di Elci che, pochi secondi dopo, giace per terra morto.
Durante la conferenza stampa Elci aveva detto: “Chiediamo che le armi, gli scontri, le operazioni militari restino fuori da quest’area”.
Tahir Elci era fondatore e membro di diverse organizzazioni umanitarie (Human Righs Foundation, Human Rights Association, Human Rights Agenda Association). Il 20 ottobre scorso era stato arrestato dalla polizia turca con l’imputazione di propaganda terroristica per aver affermato nel corso di una trasmissione sulla Cnn turca, che il Pkk, il partito dei lavoratori del kurdistan, non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento politico armato che porta avanti importanti istanze politiche e gode di un ampio sostegno. Arrestato per aver espresso un’opinione. Elci aveva immediatamente ricevuto la solidarietà di organizzazioni umanitarie e di associazioni di giuristi internazionali. Rilasciato, era in attesa di giudizio. Dopo l’assassinio, il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan ha detto: “Questo incidente mostra quanto sia nel giusto la Turchia nella sua lotta determinata contro il terrorismo”.
Appena due giorni prima, giovedì 26 novembre, Can Dundar, direttore del quotidiano Cuhmuriyet, e con lui, il capo della redazione di Ankara, Erdem Gul, erano stati arrestati dalla polizia turca con l’accusa di alto tradimento per aver rivelato un passaggio di armi dall’intelligence turca ai ribelli dell’Is in Siria, sulla base di documentazione foto e video proveniente dall’esercito turco. Era stato proprio Erdogan, all’indomani della pubblicazione dell’inchiesta nel giugno scorso, a chiedere alla magistratura l’arresto dei due giornalisti e la loro condanna all’ergastolo aggravato, cioè l’ergastolo più ulteriori 42 anni, per alto tradimento, affermando peraltro in diretta televisiva “Chi ha scritto questa notizia dovrà pagare pesantemente”.
Questo è l’ultimo degli atti di intimidazione del governo e della magistratura turchi contro gli organi d’informazione non omologati.
Solo nel 2014 in Turchia sono stati arrestati oltre 20 giornalisti accusati di associazione terroristica. Le intimidazioni governative contro redazioni e giornalisti si sono inasprite dopo le elezioni del 7 giugno scorso, quando l’Akp, il partito governativo, ha perso la maggioranza assoluta. Fra le aggressioni: gli attacchi alla sede del quotidiano liberale turco «Hurriyet» in uno degli attacchi ha preso parte anche un parlamentare in carica; l’editorialista dello stesso quotidiano, Ahmet Hakan Coskun, è stato aggredito e picchiato davanti alla sua abitazione di Istanbul, dopo ripetute minacce sugli organi di informazione filogovernativi; pietre e bottiglie sono state lanciate contro la sede del giornale Sabah e della televisione privata ATV; il gruppo Ipek Media che conta 21 testate è stato preso d’assalto dalla polizia, chiusi i canali Bugun Tv e Cnalturk, sospesa la pubblicazione dei quotidiani Bugun e Millet; tre giornalisti di Vice News sono stati arrestati a Diyarbakir mentre riprendevano scontri tra forze dell’ordine e Pkk; la giornalista olandese Frederike Geerdink, residente da tempo a Diyarbakiri, è stata arrestata due volte nel corso dell’anno e infine espulsa dalla Turchia con l’accusa di fiancheggiare il Pkk; la giornalista britannica Jacky Sutton, che indagava sulle donne dell’Is, è stato trovata morta nei bagni dell’aeroporto di Istanbul.
L’Associazione dei giornalisti turchi ha più volte condannato i ripetuti attacchi alla libertà di stampa che non si sono placati dopo l’esito delle elezioni dell’1 novembre quando l’Akp ha riconquistato la maggioranza assoluta, anzi si sono fatti più spregiudicati.
“Il nostro arresto, il processo che ne seguirà - ha detto Can Dundar dell’Cuhmuriyet - avranno l’effetto di far parlare dell’accaduto anziché farlo dimenticare”.
Pochi giorni prima dell’arresto dei due giornalisti del Cuhmuriyet, il 22 novembre scorso, Selahattin Demirtas, copresidente dell’Hdp, il partito democratico dei popoli, che nonostante la dura repressione è riuscito a confermare la presenza in Parlamento, ha subito un attentato, mentre era a bordo della vettura ufficiale, blindata, per le strade di Diyarbakir. La crepa causata dalla pallottola sul lunotto posteriore, rinvenuta dalle guardie del corpo, era all’altezza della testa.
I fatti degli ultimi giorni dimostrano come e quanto sia intenzionale la repressione in Turchia e quanto sia necessaria una continua, costante, opera d’informazione dei media internazionali, anche a supporto della censura di fatto imposta ai media locali, oltre che una presa di posizione forte e una condanna a tutti i livelli.
Delegazione giornalisti freelance
28 novembre 2015, da uikionlus.com
La strage di Parigi rende più urgente la lotta contro la guerra
Con gli attentati di Parigi la guerra ha fatto un altro decisivo passo avanti.
La vera novità è che la guerra che i paesi occidentali, e la Francia in primis, hanno esportato in giro per il mondo, rimanendone sostanzialmente immuni finora sul proprio territorio, arriva anche in casa propria, facendo toccare con mano cosa voglia dire vivere in una situazione di conflitto armato.
Per questo motivo, per quanto colpiti dalla morte di tante vittime civili a Parigi, non ci associamo al coro unanime che il circo mediatico e le istituzioni stanno mettendo in campo. Si tratta infatti di lacrime ipocrite e colpevoli, che servono a nascondere le responsabilità di chi da circa 30 anni non sta facendo altro che portare saccheggio, morte e distruzione nella maggior parte dei paesi del Medio Oriente e dell’Africa. Quegli stessi giornalisti non hanno espresso il minimo di commozione e di condanna per i recenti attentati a Beirut, all’aereo russo fatto cadere nel Sinai o alle bombe contro la manifestazione di Ankara. Evidentemente i morti occidentali sono speciali, mentre gli altri sono di una razza inferiore e non meritano compassione e rabbia. Quando gli eserciti delle potenze occidentali hanno bombardato ed invaso interi paesi, con la scusa di difendere i diritti umani, di esportare la democrazia e tante altre fandonie che ci hanno raccontato, solo per mascherare una politica neocoloniale tesa a ristabilire su di essi la supremazia delle grandi potenze occidentali e dei loro capitali, quegli stessi giornalisti ne hanno esaltato le presunte ragioni umanitarie.
Le migliaia di morti civili, la distruzione di intere città, provocati dai nostri aerei da 10 km di altezza, oppure con i droni guidati da qualche asettica stanza di comando in una delle tante basi militari disseminate in giro per il mondo, i missili lanciati da centinaia di km di distanza da navi militari, non fanno testo: sono considerati effetti collaterali delle nostre bombe intelligenti, e soprattutto non sporcano le mani dei nostri eserciti del sangue di quelle vittime innocenti, colpevoli solo di essere nati nel paese sbagliato.
I piromani che hanno attizzato in tutti i modi possibili l’incendio del Medio Oriente vengono presentati con il volto rassicurante dei pompieri, come le vittime incolpevoli di una violenza immotivata. L’aggressione a freddo della Libia, proprio da parte di Francia e Inghilterra, per ristabilire il proprio controllo su di essa con il supporto attivo anche dell’Italia, scompaiono dalla memoria dei nostri gazzettieri quando si tratta di capire il perché del caos attuale. Il sostegno fornito alla destabilizzazione della Siria, coprendo e finanziando proprio quelle formazioni del radicalismo islamico che poi sono confluite nell’ISIS, pensando di poter combattere dietro le quinte una guerra per interposta persona contro Assad ed i suoi alleati, sono completamente rimossi da qualsiasi serio bilancio di come siamo arrivati a questo punto. E non diverso è l’atteggiamento quando si tratta di valutare l’inferno che sono diventati i diversi paesi dell’Africa Sub sahariana, dove proprio la Francia, che li considera il proprio giardino di casa, rafforza la sua presenza. Dove non arriva la corruzione delle classi dirigenti locali, o i colpi di Stato fomentati direttamente, si interviene con il proprio esercito e con le proprie armi di distruzione di massa per ribadire la subordinazione di questi paesi alle esigenze imperiali della Francia. Come è avvenuto recentemente proprio in Mali.
Ora l’ISIS, la cui nascita ed il cui rafforzamento sono stati favoriti dalle politiche attivamente seguite in Iraq ,in Libia e in Siria dalle potenze occidentali allo scopo di destabilizzare quei paesi in concorso con le potenze dell’area mediorientale come la Turchia e le petromonarchie, viene indicato come il nemico principale. Ma questo accade solo perché la creatura da essi stessi alimentata è sfuggita loro di mano e pretende di avere interessi propri ed un proprio progetto che contrastano con quelli di chi l’ha tenuto in incubazione e ne ha favorito l’espansione. Ma anche la favola del male assoluto dedito solo al crimine efferato e alla negazione di ogni umanità non regge più a fronte di una indagine minimamente seria sulle capacità di proselitismo dimostrate da quest’organizzazione.
Se si vuole comprendere da dove trae la sua forza di attrazione l’ISIS che, come abbiamo visto con gli ultimi attentati e con quelli di gennaio, raccoglie adesioni anche tra diversi nativi francesi, forse sarebbe il caso di riconsiderare il saccheggio, le distruzioni e le morti, provocati dalla ultrasecolare politica dei paesi occidentali e dalla Francia in prima fila. La stessa conformazione attuale del vicino oriente è il frutto della spartizione a tavolino decisa da Francia ed Inghilterra agli inizi del secolo scorso, per spartirsi la zona in rispettivi protettorati ed impedire la creazione di una nazione araba in grado di contrastare le loro mire espansionistiche.
Forse sarebbe il caso di interrogarsi sulla marginalizzazione e la razzizzazione imposta a quote crescenti di popolazione delle disumane periferie delle grandi città. Alla frustrazione provocata tra tanti giovani più che disposti ad integrarsi nel paese in cui sono nati, e continuamente umiliati facendo sentire su di loro il peso delle proprie origini familiari, della esclusione scientificamente programmata da quel modello di vita propagandato quotidianamente da quegli stessi mass media come il migliore dei mondi possibile.
Il fatto che tanti giovani si facciano affascinare da un progetto reazionario come quello dell’ISIS e siano disposti a sacrificare la propria vita per esso, non è indice della natura perversa dell’Islam, o della inferiorità razziale degli arabi e dei musulmani, come si continua a propagandare in maniera più o meno esplicita da parte della grande stampa, ma segnala a chi ha occhi per vedere, quanto sia crescente ed intollerabile il senso di frustrazione, di emarginazione e di insofferenza di una massa di giovani per un futuro da cui si sentono totalmente esclusi e prevaricati. Ma segnala anche l’assenza di qualsivoglia prospettiva alternativa credibile tanto nelle metropoli occidentali quanto nelle aree del Medio Oriente disposta a battersi per il superamento di questo sistema sociale fondato sulla logica del profitto che dietro le sue luccicanti vetrine nasconde solo sfruttamento bestiale, oppressione e degrado delle relazioni umane.
Le emozioni e lo sbigottimento da parte della maggioranza della popolazione, provocati dagli attentati di Parigi, vengono utilizzate per fomentare un clima sciovinistico e xenofobo, per chiamare a stringersi intorno al proprio governo e per giustificare un rafforzamento delle politiche di guerra, ma anche per creare consenso verso una svolta autoritaria all’interno utilizzando l’alibi del terrorismo allo scopo di limitare le libertà politiche di quegli stessi cittadini. Senza contare le politiche ancora più repressive che saranno attuate contro gli immigrati, criminalizzati in massa in quanto potenziali terroristi.
Noi antimilitaristi che da sempre denunciamo le politiche di guerra seguite dai nostri governanti e ci battiamo contro di esse, spesso siamo guardati con aria di sufficienza, ma forse avvenimenti come quelli di Parigi, dietro l’onda della comprensibile commozione, possono far intendere a tante persone, come la guerra mondiale sia effettivamente già in corso e che a cominciarla sono state le nostre classi dominanti ed i loro rappresentanti politici e istituzionali. Il fatto che sino ad ora sia stata a senso unico o sia avvenuta per interposta persona ci dice solo che siamo ancora agli inizi di una tendenza destinata a diventare ben più drammatica e orribile di quanto ci sta capitando di vedere se non riusciremo a fermarla. Ci dice che non potremo continuare a seguirla distrattamente dai notiziari della sera, come fosse un fatto che non ci riguarda, salvo svegliarci dal sonno quando qualche schizzo di questa immensa mattanza arriva sotto casa nostra, per domandarci sorpresi come mai possa accadere proprio a noi una cosa simile.
Infatti, al di là della momentanea apparente unità di intenti contro il nemico comune, prosegue la corsa agli armamenti, e proseguono le lotte tra le grandi potenze per appropriarsi di risorse e territori ritenuti strategici a discapito dei propri concorrenti.
Il materiale incendiario per un nuovo conflitto militare generalizzato si va sempre di più accumulando ed in una simile condizione la scintilla per l’innesco più o meno casuale o intenzionale è solo questione di tempo. Non sarà la diplomazia che lo potrà fermare, non saranno le momentanee intese tra le grandi potenze, ma solo il protagonismo di coloro che non sono più disposti a farsi intruppare dietro le campagne nazionaliste che mirano solo a creare il consenso della popolazione verso quel conflitto cui si vanno concretamente preparando.
Chi, scosso dagli avvenimenti francesi ritiene di non poter restare più passivo spettatore di quanto sta avvenendo, si attivizzi e si unisca a noi nella lotta contro il militarismo e la guerra, per indirizzare tutta la propria indignazione contro i principali responsabili di questo quotidiano macello. Contro chi per pura sete di profitto continua a produrre e a vendere armi anche a coloro contro cui sostiene di combattere, contro chi in nome della sicurezza e degli interessi nazionali, militarizza sempre di più i nostri territori ed emana leggi sempre più autoritarie per difendersi non da un supposto nemico esterno, ma da possibili reazioni dei suoi stessi cittadini colpiti dalle conseguenze di una politica che li impoverisce quotidianamente per difendere i privilegi delle classi dominanti.
Comitati No Trident - Napoli
Per info: assembleanowar.na@gmail.com
Lettera dal carcere di Ferrara
Carissimi miei, vi voglio dire che, come sapete, ultimamente il mondo è molto agitato. Guerra e terrorismo e molto altro. Visto che io sono arabo musulmano e la nostra presenza non è così molto gradita in occidente, siamo tutti possibili sospetti per lo stato italiano.
Sono certo che tutti noi esseri umani sappiamo e capiamo bene ciò che accade nel mondo e possiamo dar ragione a chi ha veramente ragione e possiamo anche condannare chi ha torto. Ma questo non lo facciamo perché se lo facciamo sarà una grandissima perdita di denaro per tanti grandi paesi. Quindi la questione è soltanto di soldi. Quanto è assurdo il mondo!!!
Prima, voglio dire anni fa, il ministero della Difesa si chiamava “ministero della Guerra”. Hanno cambiato nome perché era più carino dire difesa e non guerra, ma non hanno mai smesso di fabbricare armi e di metterle sul mercato per arricchirsi e comandare i più deboli e farli sentire come cani legati e obbedienti ai lor padroni.
Per me chi finanzia la guerra deve essere punito e chi fabbrica armi deve essere punito.
Chi tortura un essere vivente deve essere punito, chi toglie la vita deve essere punito. “Dio solo dà e toglie”. Chi sbaglia paga, come sto pagando io, che non sono nessuno.
C’è chi si nasconde dietro un ruolo politico, c’è chi si nasconde dietro il potere dei soldi e c’è chi si nasconde dietro una divisa. Bene, questi signori qui non saranno mai puniti in questa vita. Ringrazio Dio che sto pagando da vivo e non da morto, perché un conto è essere puniti da un essere umano come noi, un conto è essere puniti da Dio, sarà scritto anche nella Bibbia come nel Corano e in tutti i sacri libri di Allah.
Ribadisco: io sto con quelli contrari alla guerra, alla violenza e all’ingiustizia.
Con questo vi saluto e vi abbraccio forte, Bernawi.
4 dicembre 2015
Bernawi Akram, via Arginone, 327 – 44122 Ferrara
La "Guerra al terrorismo" e lo "Stato d'Emergenza"
[...] Dopo le ipocrite parole nel suo discorso alla nazione, il Presidente della Repubblica Francese, François Hollande, chiamando all'"unità nazionale", si è affrettato ad indossare l'elmetto, con il consenso leggittimatore degli altri governi imperialisti e delle forze politiche reazionarie ed opportuniste, dichiarando che la Francia, così come l'Europa è in "guerra" contro il terrorismo dell'ISIS, a cui è seguito il rafforzamento dell'azione militare francese in Siria e Mali (e in Africa in generale) e l'attivazione dell'articolo 42, comma 7 del Trattato di Maastricht da parte del consiglio dei ministri della Difesa dell'UE, che prevede la fornitura di assistenza militare nel quadro della NATO, proclamando negli stessi momenti anche lo "Stato d'Emergenza" prolungato almeno fino a febbraio con il consenso di tutte le forze politiche del parlamento francese, che prevede una serie di misure che sospendono i più basilari diritti democratici del popolo francese, le convenzioni sui diritti umani, così come modifiche agli articoli 16 e 36 della Costituzione, rispettivamente sui pieni poteri al Presidente e sul trasferimento dei poteri all'Esercito, per rendere possibile la loro attuazione in forma permanente. Verranno da subito creati 5.000 nuovi posti di polizia e doganieri, nuovi poteri "speciali" vengono concessi ai prefetti e alle forze di polizie che possono dichiarare il coprifuoco, proibire "associazioni o gruppi che incitano ad azioni di turbamento dell'ordine pubblico", vietare ogni forma di manifestazione pubblica, come già avvenuto vietando tutte le manifestazioni in programma (tra cui quella contro la Conferenza Mondiale sul clima – COP21 – del 29 novembre con l'esecuzione di 298 fermi da parte della polizia francese) e consente la possibilità di arresto e detenzione anche sulla base di sospetti o futili motivi, perquisizioni a domicilio in ogni momento e il controllo indiscriminato da parte dell'intelligence di ogni canale di comunicazione, come già avvenuto durante la rivolta anti-coloniale in Algeria nel 1955 e la rivolta delle banlieue del 2005.
Le forze politiche delle potenze imperialiste europee si sono affrettate a rispolverare e adeguare i loro repertori utilizzando espressioni come "siamo in guerra", "attacco alla nostra civiltà" o al cosiddetto "mondo libero", così come "l'Europa è sotto attacco", per promuovere un nuovo clima ideale agli obiettivi interventisti, in un'atmosfera di "panico, sgomento e paura", facendo leva sui sentimenti suscitati nella popolazione dalle immagini di Parigi, sapientemente alimentati ed incanalati dal circo mediatico. [...]
Sfruttando il clima post-attentato in Francia si modifica la costituzione sul modello del "Patriot Act" di Bush, entrato in vigore immediatamente dopo i fatti dell'11 Settembre e che ha rappresentato una delle pagine più nere nelle violazioni dei diritti civili, con migliaia di cittadini imprigionati arbitrariamente e la soppressione delle libertà basilari in nome della sicurezza. L'applicazione dello "Stato d'Emergenza" prolungato in Francia, così come il vero e proprio coprifuoco applicato per diversi giorni nel cuore dell'Europa, a Bruxelles, aprono definitivamente una strada senza ritorno nella gestione e militarizzazione dell'"ordine" del capitale, e quindi la criminalizzazione e repressione delle masse popolari in lotta, che colpirà particolarmente l'attività delle organizzazioni politiche e sindacali di classe, ossia di tutti coloro che non si subalternano allo Stato (borghese), la riproduzione del sistema e la difesa degli interessi e profitti della classe dominante. [...]
A poco più di un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, si ripropone il pericoloso ruolo politico dell'opportunismo, nell'ingannare le masse e la classe lavoratrice al servizio della borghesia. L'esempio più recente proviene proprio dalla Francia, dove il Front de Gauche (membro francese del Partito della Sinistra Europea, di cui fa parte per l'Italia, Rifondazione Comunista) si è accodato alla propria borghesia imperialista votando a favore dello "Stato d'Emergenza" insieme al Front National (FN) e gli altri partiti parlamentari. Nel suo intervento in Parlamento, la senatrice del PCF, Éliane Assassi, ha affermato che "le misure d'urgenza sono pienamente giustificate, gli obiettivi dello stato d'emergenza sono ben definite" mentre il segretario del Parti de Gauche, Mélenchon ha rafforzato il voto chiamando "all'unità della Francia e dei francesi, al di sopra delle classi e delle parti politiche" creando in questo modo il clima ideale per la tolleranza o identificazione dei settori popolari nei confronti dei piani imperialisti portando a termine un percorso opportunista avviato già da diversi decenni. Come ci ricorda Lenin "il contenuto ideologico e politico dell'opportunismo e del socialsciovinismo è identico: la collaborazione delle classi invece della lotta di classe, la rinuncia ai mezzi rivoluzionari di lotta, l'aiuto al ‘proprio’ governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell'interesse della rivoluzione". Allo stesso tempo, l'opportunismo al governo in Grecia, SYRIZA, si allinea alle manovre del blocco imperialistico dell'UE e della NATO e incrementa la repressione interna contro il movimento operaio e popolare, quando per decenni si è fatta portavoce nel paese di un generico e astratto "pacifismo" mentre oggi al governo lavora al servizio del miglioramento delle condizioni della "propria" borghesia nel sistema imperialista.
3 dicembre 2015, estratti da senzatregua.it, in resistenze.org
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sullo stato di emergenza in francia
Lo stato d’emergenza è stato dichiarato in Francia poche ore dopo gli attentati di venerdì 13 novembre. Dopo aver permesso più di 1.800 perquisizioni e più di 300 arresti arbitrari, le leggi d'eccezione vengono oggi utilizzate contro i movimenti, i compagni e particolarmente contro chi si stava organizzando (secondo la polizia) in vista delle proteste contro la Conferenza Mondiale sul clima che ha avuto luogo a Parigi tra il 29 novembre e il 12 dicembre (la famosa Cop21).
Questa ultima novità non costituisce una sorpresa. La stragrande maggioranza delle perquisizioni contro i cosiddetti "islamici radicali" non ha portato a nessuna scoperta di armi o esplosivi, e non era quello l'obiettivo. Ha permesso di fare regnare un clima di terrore nelle banlieues francesi, attaccandosi in priorità ai giovani di origine nordafricana. Ha permesso soprattutto di dare un'impressione di efficienza del governo e di risposta immediata a "un atto di guerra", per riprendere le parole del presidente Hollande. Come confessava un poliziotto in un'intervista, si tratta innanzitutto di "un'operazione di comunicazione". Ora tocca a chi è attivo nei movimenti sociali essere trattato come un "terrorista", perquisito di notte, confinato nella sua casa e inquadrato nella stessa categoria degli assassini del 13 novembre.
A Parigi, Rennes, Rouen et Lyon, delle perquisizioni hanno avuto luogo, eseguite in modo particolarmente duro nel caso di Rennes (porte distrutte, fucili a pompa puntati in faccia, compagni lasciati a terra ammanettati durante tutta la perquisizione, etc.).
Vari divieti di andare a Parigi e almeno 24 "assignations à résidence" (obbligo di dimopra) fino al 12 dicembre sono stati comunicati a dei militanti descritti dalla polizia politica come "appartenenti all'ambiente ecologista radicale".
L'assignation à résidence comporta:
- l'obbligo di stare a casa 12 ore al giorno, dalle 19 alle 7;
- l'obbligo di firmare 3 volte al giorno in questura;
- il divieto di lasciare la propria città.
Ricordiamo che nessuna autorità giudiziaria interviene in questi casi. L'arbitrio della polizia politica (DGSI, Direction générale de la sécurité intérieure et SDAT, Sous-direction antiterroriste) è totale. Una grande parte delle pseudo "informazioni" che giustificano queste misure si rivelano pura invenzione (partecipazione a dei cortei a cui le persone non hanno partecipato, precedenti inventati, etc.)
Ricordiamo anche che tutti i tentativi di contestare in tribunale questo tipo di misure sono state per ora respinte, e che una persona che non ha potuto firmare una volta al commissariato (il commissariato essendo chiuso per lavori quel giorno) è già stata condannata a 6 mesi di carcere.
Di fronte a questa situazione più che preoccupante, alcuni voci iniziano a farsi sentire. Domenica scorsa, un corteo in sostegno ai migranti si è svolto a Parigi nonostante il divieto. L'appello "Bravons l'Etat d'urgence" (sfidiamo lo stato d’emergenza), apparso il 24 novembre sul sito di “Liberation” e firmato da numerosi "intellettuali" aveva chiamatoa apertamente a partecipare al corteo vietato del 29 novembre contro la Cop21.
lettera dal carcere di bancali (ss)
Ciao, un caro saluto a te e a tutte/i i/le compagne/i, sono in contatto con compagne/i di Sassari e loro mi aiutano tanto, mi documentano sulle “esercitazioni della NATO”. Lo sai che cosa penso per “NATO”, penso agli americani, a chi gli lecca i piedi…
Di me posso dirti che sono in forma fisica, ma sono molto nervoso. Ma è naturale: sono da 13 anni di fila in galera! Ti scrivo che oltre all’isolamento la direzione del carcere mi ha anche denunciato. Ma che vadano a quel paese, li conosco. Io rimango sempre me stesso e non cambio mai. Non sono disposto a diventare la loro mummia; e protesto sempre quando mi fanno ingiustizia.
Come sai questo paese è governato da imbecilli buoni a nulla, che si salvano tra loro, rubano tutto. Ma credi che tante volte auguro una guerra nucleare così che andiamo tutti al diavolo. Se tu solo potessi vedere le situazioni nelle carceri italiane.
Il 95% delle persone arrestate sono povere, non hanno i soldi per comprare neanche sale, batterie; poveracci si tagliano, si impiccano e nessuno fa niente.
Per quel che mi riguarda non ho notizie per l’estradizione né per il trasferimento, pazienza. Qui sono solo in cella, ma ho pagato per questo un caro prezzo. Parlo con poche persone, leggo e faccio la galera. I tempi sono brutti.
Approfitto di questa lettera per fare auguri a tutt* per le feste natalizie e l’anno nuovo, auguro ogni bene con tutto il cuore, Jasmir.
15 dicembre 2015
Sabanovi Jasmir, SP 56, via Abbaccurrente, 4 - 07100 Bancali (Sassari)
L’UE finanzia i centri di detenzione per i profughi in Turchia
I leader europei hanno appena promesso 3 miliardi di euro alla Turchia perché mantenga sul suo territorio i 2,3 milioni di profughi siriani che vi si sono rifugiati dopo aver lasciato il loro paese. Ma come sono trattate queste persone, in particolare quelle che vorrebbero proseguire il tragitto verso l’Europa (secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni i tentativi di transito sarebbero in calo)? Il rapporto pubblicato mercoledì 16 dicembre da Amnesty international ne fornisce una descrizione drammatica.
La Turchia è stata uno dei primi paesi confinanti con la Siria ad accogliere masse di profughi. Gli immensi campi di accoglienza (una ventina circa) allestiti lungo il confine tra i due paesi ospitano circa 217mila persone.
Dall’inizio della guerra, nel 2011, è entrato in vigore un regime di protezione temporanea che garantisce ai profughi di non essere scacciati e di ricevere assistenza. In totale, le autorità stimano di aver accolto più di un milione di siriani, molti dei quali hanno trovato una sistemazione nelle grandi città, presso parenti già emigrati in Turchia.
Nel corso degli ultimi due anni sono arrivati anche numerosi afgani, iracheni e iraniani. Non sempre è autorizzato il lavoro, ma le autorità chiudono gli occhi sul lavoro nero.
Secondo il rapporto di Amnesty international intitolato Europe’s gatekeeper (Il guardiano dell’Europa), la politica sta cambiando. Diverse centinaia di profughi vivono un vero e proprio inferno, arrestati e detenuti “illegalmente” in centri isolati in cui vengono portati, a più di mille chilometri dal luogo in cui sono stati fermati.
Alcuni hanno raccontato di essere stati ammanettati per giorni, di aver subìto percosse e di essere stati riportati con la forza nel paese da cui erano fuggiti.
“Abbiamo constato che alcune tra le persone più vulnerabili sul territorio turco sono state vittime di detenzione arbitraria. Fare pressione sui profughi e i richiedenti asilo affinché tornino in paesi come Siria o Iraq è una cosa insensata e rappresenta una violazione diretta del diritto internazionale”, afferma John Dalhuisen, direttore del programma Europa e Asia centrale di Amnesty international. Queste detenzioni segrete si sarebbero verificate al di fuori di qualsiasi contesto di legalità.
Secondo diverse testimonianze raccolte presso il centro di detenzione di Erzurum, nell’Anatolia orientale (al confine orientale del paese), l’Ue finanzierebbe direttamente questi luoghi di detenzione. Alcuni profughi hanno perfino mostrato delle etichette attaccate ai letti e alle tazze che indicavano come quel centro ricevesse aiuti europei nell’ambito di un programma di preadesione all’Ue.
Alcuni rappresentanti di Bruxelles ad Ankara hanno peraltro confermato ad Amnesty international che i sei centri di accoglienza, che in teoria dovrebbero essere aperti (con libertà di entrata e di uscita), finanziati dall’Ue e presentati nel progetto del Piano d’azione dello scorso 6 ottobre, in realtà sarebbero dei centri di detenzione, ossia senza libertà di movimento.
Questa situazione è ancora più vergognosa se si pensa che i leader europei, nell’accordare tre miliardi di euro a questo paese, hanno specificato che questi fondi dovranno servire a migliorare le condizioni di vita dei profughi e dei richiedenti asilo presenti sul territorio turco.
Le persone che subiscono questa marginalizzazione non sembrano scelte a caso. La maggioranza dei profughi interessati ha dichiarato di essere stata arrestata dopo aver cercato di entrare clandestinamente in Europa.
Fermati nelle province di frontiera occidentali, in particolare a Edirne e Muğla, sono stati trasferiti a sud o a est. Alcuni dichiarano di essere stati collocati anche per due mesi senza spiegazioni né motivazioni legali in un campo a Düziçi, nella provincia di Osmaniye, o nel centro di Erzurum, in attesa di essere espulsi e rimpatriati nel loro paese d’origine. Lamentano il fatto di essere stati tagliati fuori dal mondo esterno, di non aver potuto contattare nessuno, neanche i familiari o un avvocato. Solo usando il cellulare di nascosto hanno potuto comunicare con l’esterno.
L’ong ha raccolto testimonianze di casi di violenze fisiche e numerose denunce di maltrattamenti. Un siriano di 40 anni ha raccontato di essere stato rinchiuso per sette giorni da solo in una stanza nel centro di Erzurum, con le mani e i piedi legati. “Quando ti mettono delle catene alle mani e ai piedi ti senti come uno schiavo, è come se non fossi più un essere umano”, ha dichiarato ai ricercatori di Amnesty international, secondo i quali negli ultimi mesi si sarebbero verificati più di cento i rimpatri forzati in Siria e in Iraq, e forse in Afghanistan. Molti dicono di essere stati costretti a firmare documenti in turco, una lingua che non capiscono, in cui davano l’autorizzazione a essere espulsi. Alcuni affermano di essersi sentiti dire che l’unico modo per lasciare quella prigione era ritornare nel loro paese d’origine.
“Bisogna constatare la totale assenza di trasparenza attorno a queste vicende. Non si conosce il numero reale di detenzioni arbitrarie e di espulsioni illegali imputabili alle autorità turche. Questa nuova pratica deve essere immediatamente sottoposta a un’inchiesta, al fine di proteggere tutti i profughi e i richiedenti asilo in Turchia”, dichiara John Dalhuisen.
È necessario puntare il dito contro le responsabilità dell’Unione europea e sulla sua propensione a delegare l’accoglienza dei migranti a paesi terzi. “Assegnando alla Turchia il ruolo di guardiano d’Europa nell’ambito della crisi dei profughi, l’Ue rischia di chiudere gli occhi di fronte a gravi violazioni dei diritti umani, se non addirittura a favorirli. La cooperazione tra l’Ue e la Turchia in materia di migrazione deve essere sospesa finché queste violazioni non saranno opportunamente indagate e non saranno cessate del tutto”.
21 dicembre 2015, liberamente tratto da internazionale.it
confini di classe
Calais, la frontiera del terrore
Segue un’intervista a Lilly Boillet, dell’associazione “Terre d’Errance”, durante il No Border Camp di Calais.
Perché un No Border Camp a Calais, qual è la situazione di questo luogo di frontiera interna dell’Unione Europea?
Obiettivo del No Border Camp è dare visibilità alle condizioni dei migranti in Europa in conseguenza alle politiche comunitarie in materia di immigrazione e asilo. Da questo punto di vista Calais rappresenta un buon esempio delle “disfunzioni” europee rispetto all’immigrazione, al diritto di asilo e alla gestione delle frontiere dato che Calais è, per l’appunto, una frontiera interna. I migranti che non hanno trovato una condizione di vita decente nei paesi europei attraversati nel loro percorso sono spinti verso l’Inghilterra ma di fatto sono bloccati nei pressi di Calais, in una zona che ha circa un raggio di 100 km da Calais e dove stazionano ogni anno circa 1.000 persone distribuite in una quindicina di accampamenti informali, ignorati dalle istituzioni, che attuano una politica disincentivante (nessun servizio, nessuna assistenza) e la violenza poliziesca.
Chi arriva a Calais per cercare di attraversare lo Stretto della Manica?
La maggioranza di loro sono migranti afghani, iracheni, iraniani, somali, eritrei e sudanesi, provengono quindi da zone di conflitto o da paesi con dittature. Donne e uomini, ma spesso anche bambini, che se riuscissero ad accedere ad una procedura corretta di asilo otterrebbero la protezione internazionale.
In particolare afghani, iracheni e iraniani sono entrati in Europa dalla Grecia, dove sono stati segnalati e, come sapete, la Grecia ha un tasso pressoché nullo di riconoscimenti di asilo politico, quindi sono costretti a mettersi in viaggio per raggiungere l’Italia, da lì la Francia, dove cercano di chiedere asilo ma in base alla convenzione di Dublino non possono farlo; infine tentano anche in Inghilterra, un po’ per sbaglio, un po’ per sfida, forse sperando che in Inghilterra sia anche più semplice vivere in condizione di irregolarità, ma questo non è più troppo vero in realtà.
I migranti delle restanti nazionalità provengono invece dall’Italia, una buona parte di loro ha ottenuto i documenti in Italia, ciononostante lasciano il paese perché riferiscono di condizioni di vita pessime, anche per i rifugiati. Addirittura molti hanno scelto di non presentare domanda di asilo in Italia perché conoscevano già la condizione dei rifugiati in questo paese e una volta usciti dai campi di reclusione in Sicilia o a Lampedusa provano a presentare la richiesta di asilo in Francia o in Inghilterra. Riferiscono che in Italia non viene fornito né un alloggio, né un lavoro, né corsi di lingua italiana; raccontano che la maggioranza dei richiedenti asilo vive in grandi squat a Roma e Milano… che è impiegata in nero nei campi agricoli nel sud Italia anche se ha i documenti ed è pagata meno dei lavoratori italiani… che tante persone immigrate dormono in alloggi di fortuna o nelle chiese e dopo un paio di anni di questa vita decidono di partire verso un altro paese…
Arrivati nei pressi di Calais, come attraversano il tunnel?
La situazione può somigliare alla realtà di Patrasso. Le persone cercano di salire sui camion che attraversano l’eurotunnel, sia nascondendosi all’interno dei tir che attaccandosi all’esterno. I migranti in condizioni più difficili, come i bambini e le donne, cercano di fare questa operazione nei villaggi di campagna, magari mentre i tir sono fermi in aree di servizio o lungo le aree di sosta sull’autostrada. I controlli della polizia francese e inglesi sono strettissimi e particolarmente severi.
Quali sono i dispositivi di controllo e come si dispiegano i sistemi di repressione?
Per la sorveglianza del porto vengono spesi ogni anno circa 12 milioni di euro, investiti in agenzie di sicurezza private, in sistemi di sicurezza tecnologici quali radar, sistemi di rilevazione della temperatura corporea e della respirazione in grado di individuare esseri umani tra le merci, raggi infrarossi, cani e tutti i sistemi di videosorveglianza immaginabili. Ci sono poi i corpi di polizia francesi e inglesi, in Francia sono i CRS ad organizzare gli interventi per molestare i migranti al fine di scoraggiarli e terrorizzarli. La condotta della polizia verso i migranti è quella dell’umiliazione quotidiana, tra insulti e minacce, ma anche violenza fisica: rastrellamenti, manganellate, spedizioni poliziesche a qualsiasi ora di giorno e di notte con lancio di lacrimogeni dentro alle capanne, fermi quotidiani e trattenimento per diversi giorni in celle di polizie, dove ammanettati, tenuti in condizioni disumane, umiliati ed insultati, senza poter andare in bagno, senza cibo…
In Francia non esiste il reato di clandestinità, esiste però il delitto di favoreggiamento all’ingresso e al soggiorno irregolare. Le sanzioni sono pesanti, si può arrivare fino a 30 mila euro di multa e prevedono da 3 a 5 anni di reclusione. Ci sono persone che hanno ricevuto una condanna, ad esempio, perché hanno accettato di offrire il loro passaporto affinché dei richiedenti asilo – che non hanno nessun mezzo di sostentamento dal momento che è vietato che lavorino – potessero ricevere il denaro dai loro familiari attraverso la Western Union. Sono stati condannati con pena sospesa, i loro documenti di identità possono essere ritirati, possono essere assegnati ad una residenza fissa con divieto di allontanamento. Chi, francese, aiuta direttamente (“volontarie”) le persone immigrate di Calais, che sono quasi 1.100 e che non hanno neanche la possibilità di lavarsi, rischia di essere fermato dalla polizia e le cose possono andare molto male perché tra la polizia ci sono molte persone razziste e violente con i migranti e spesso anche con i volontari.
C’è un altra legge contro i volontari, la legge di oltraggio a pubblico ufficiale, che dovrebbe essere utilizzata quando la polizia viene insultata o aggredita, ma molti poliziotti a Calais la usano automaticamente quando incontrano un volontario che non è abbastanza “sottomesso”, e che si intromette per cercare di difendere i migranti, quindi si incorre in multe o alla prigione se la cosa si ripete, inoltre vengono usate le intercettazioni sulle telefonate dei volontari.
18 dicembre 2015, da meltingpot.org
Foggia: il confine è anche qui
L’autunno in Capitanata (territorio foggiano) inizia tragicamente, con la notizia del brutale omicidio di un bracciante africano e del ferimento di un altro, rei di aver sottratto da un campo qualche melone. Ma la stagione di raccolta appena terminata nel foggiano è stata caratterizzata non soltanto da soprusi, ingiustizie ed efferatezze che si ripetono tristemente da decenni.
A partire dal 4 settembre, centinaia di braccianti di diverse provenienze e decine di compagne e compagni hanno dato vita ad una settimana di mobilitazioni, dimostrando che al razzismo di istituzioni e padroni, principale arma dello sfruttamento feroce a cui i lavoratori sono costretti, non ci si può né ci si deve abituare. Confermando che la lotta paga: un corteo selvaggio e determinato ha strappato due incontri in Prefettura, conclusi nel segno dell’apertura su permessi di soggiorno e residenze, ma anche sul trasporto gratuito per chi lavora in campagna. […]
L’esperienza foggiana è anche occasione per una riflessione più ampia (la seguente): che il confine non è più soltanto una linea che divide gli stati sovrani ma un dispositivo che crea complesse gerarchie e differenze e che si applica ovunque, sui corpi di soggetti catalogati a seconda di criteri quali la provenienza geografica, limitandone la capacità di muoversi, agire, esercitare diritti e fruire di servizi.
E così, da questa prospettiva la provincia di Foggia non appare poi così diversa da una Lampedusa o da una Ventimiglia, da Calais (in Francia) o dal confine ungherese. Anzi, ne rappresenta lo sviluppo naturale, l’evoluzione logica, con i suoi ‘ghetti’ ed i suoi ‘centri di accoglienza’ (dove gli uni non sono che una versione degli altri), disseminati non a caso intorno ai suoi campi di pomodoro, su cui si spezzano la schiena decine di migliaia di persone ogni anno.
Che si fugga da una guerra conclamata, piuttosto che da quelle a bassa intensità che il capitale porta avanti per continuare nel suo progetto di rapina, poco importa – si finirà in tutti i casi ad ingrossare le fila di un esercito di braccia a poco prezzo, su un altro fronte di guerra: quello del lavoro ipersfruttato. E che si abbia o meno bisogno di un permesso di soggiorno per essere riconosciuti come titolari di diritti, si è comunque soggetti a meccanismi di confinamento che di quei diritti, già insufficienti, fanno carta straccia. Ecco perché una lotta per la libertà di movimento non può, a nostro avviso, prescindere dalla ricomposizione di un fronte di lotta contro lo sfruttamento, che contempli anche la lotta per la libertà di non partire.
Accanto ai braccianti africani, in molti casi da poco sbarcati sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, in piazza a Foggia stavano lavoratori europei che vivono in ghetti del tutto simili, e che percepiscono salari del tutto paragonabili a quelli dei loro colleghi. E che a Foggia come nel resto d’Italia, sono la maggioranza della forza-lavoro che le leggi di questo paese definiscono ‘straniera’. E’ il gioco al ribasso a cui il confine dà inizio, ma che sul confine non si ferma. Per questo la richiesta di una residenza anche per chi non vive in dimore riconosciute come tali – baraccopoli e case occupate, piuttosto che per strada – rappresenta un importante punto di convergenza su cui puntare per quell’allargamento del fronte di lotta di cui si diceva, a partire dalle importanti esperienze del movimento di lotta per la casa che si batte contro il cosiddetto ‘decreto Lupi’ [in particpolare l’art. 5 del decreto Renzi-Lupi del maggio 2014, poi convertito in legge, che impedisce di accedere alla residenza o alle forniture di acqua, luce e gas per chi abita in un alloggio in modo “abusivo”, ndr].
Ma i confini, dicevamo, creano differenze che invece importano eccome. Poiché sono anche strumenti per creare profitto ed estrarre valore, e non soltanto attraverso il lavoro salariato. Lo sanno bene gli ‘ospiti’ di strutture di accoglienza in tutto e per tutto carenti, che combattono quotidianamente per standard minimi di esistenza (*) oltre che per il riconoscimento di un permesso di soggiorno. Tra questi il CARA di Borgo Mezzanone, provincia di Foggia, è emblematico sia per la sua mala gestione (la stessa del suo corrispettivo siciliano a Mineo, finita sotto inchiesta all’interno di ‘Mafia Capitale’) fatta di sovraffollamento e scarsi servizi, e di tempi di attesa infiniti per le audizioni in commissione, ma anche per la determinazione di chi ci vive, suo malgrado, nel portare avanti la lotta.
Risale a poche settimane fa una nuova ondata di dinieghi alle richieste di protezione internazionale da parte della commissione di Borgo Mezzanone, del tutto in linea con le attuali tendenze a livello nazionale che vedono un calo nelle percentuali di riconoscimento di permessi ai richiedenti asilo, in barba alla retorica ufficiale sul dovere di accoglienza. Sono proprio i ‘diniegati’ la fetta più cospicua di chi popola baraccopoli e ghetti e che spesso, in virtù dell’irregolarità giuridica, si trova senza meta e senza prospettive.
In questo quadro, occuparsi di residenze e permessi di soggiorno ci appare come un passo necessario, insieme alle rivendicazioni che riguardano più propriamente le condizioni di lavoro, per iniziare a costruire un fronte ampio di contrasto all’inasprirsi dell’offensiva contro tutte le lavoratrici e i lavoratori. L’esperienza foggiana ci ha ri-confermato come tale inasprimento colpisca anche i ‘locali’: significativo è il caso di Princes, colosso multinazionale dell’agroalimentare che in provincia di Foggia è proprietario della più grande fabbrica di trasformazione del pomodoro in Europa. Il loro gioco speculativo, che ha mirato ad aumentare i tempi di attesa per lo scarico dei tir di ‘oro rosso’ in modo da ottenerne il deprezzamento, ha colpito non soltanto i produttori ma ancor più i trasportatori, pagati a viaggio e costretti ad attese superiori alle 24 ore. Nonostante il malcontento e la messa in atto di blocchi estemporanei da parte di questa categoria di lavoratori, però, è evidente come la sfiducia nelle potenzialità della lotta, nonché la diffidenza verso la componente immigrata, abbiano ostacolato la creazione di alleanze lungo la filiera, sulle quali bisognerà però continuare a lavorare per potenziare rivendicazioni sempre più urgenti.
In ogni caso, l’assenza dei sindacati, ed in alcuni casi la loro aperta ostilità nei confronti di percorsi di auto-organizzazione da parte di lavoratrici e lavoratori, non passa certo inosservata ma è anzi una spinta per la creazione di percorsi autonomi.
Insomma, la stagione della raccolta è finita, ma le lotte sono appena cominciate.
Note:
(*) Una legge del 1960, abrogata nel 2003 dall’entrata in vigore della “riforma Biagi”, impediva a qualsiasi azienda di vendere solo forza-lavoro, vietava l’appalto che avesse per oggetto la sola manodopera. Inoltre, “nel caso di appalti leciti interni ad un’azienda, la legge imponeva parità di trattamento economico fra i dipendenti dell’appaltatore e quelli dell’imprenditore”. Oggi non è più così. Le “riforme” del mercato del lavoro di questi ultimi anni hanno sancito la possibilità di disparità non solo in rapporto alla paga. Così, ormai da oltre 10 anni, sono sorte cooperative che prendono lavori in appalto dentro un’azienda, ma che riservano a chi assunto/a da loro condizioni contrattuali peggiori compresi salari più bassi di lavoratrici/lavoratori assunti direttamente dall’azienda “titolare”. Questa situazione: “E’ il frutto di una legislazione del lavoro che legalizzando i mercanti di esclusiva forza-lavoro (agenzie del “lavoro interinale”), via via hanno reso i nostri corpi sempre più merci al pari di tutte le altre. Il caporalato prospera fra di noi camuffato dietro i “moderni” dispositivi della legislazione del lavoro.”
tratto da “Campagne in lotta”, novembre 2015
Nelle campagne di Trapani
Per la raccolta di uva, olive meloni, pomodori, cipolle, capperi a Paceco, Partanna, Nubia… sono previsti tre mesi di lavoro in grado di attirare immigrati da tutta Italia. Nelle mattinate di settembre sul corso principale di Alcamo si siedono tutti sul marciapiedi in attesa del furgoncino con il caporale. Tanti attendono inutilmente fino a sole alto. La paga promessa dovrebbe essere 57 euro al giorno, quella reale, quando va bene, non supera 40 euro. In pratica la paga è circa 5 euro l’ora, di cui però una parte va al caporale.
I raccoglitori immigrati, provengono da Milano… ma anche dalla Puglia. Fino ad un paio di anni fa dormivano in piazza, lo scorso anno il comune ha predisposto una “accoglienza” sicura per la notte. In molti però sono ancora richiedenti asilo, alcuni clandestini, dunque senza alcun permesso che li sostenga nella richiesta del letto come del cibo. Queste persone perciò sono costrette a star fuori, a dormire in piazza, in tendopoli improvvisate… Lo scorso anno la Prefettura ha messo a disposizione una struttura confiscata ad uno dei prestanome di Matteo Messina Denaro (in galera a causa del 416bis); probabilmente questa possibilità si ripete.
tratto da “Lotta Continua” nov. dic. 2015
lecce: impoverimento, emigrazione, repressione...
Il 10 novembre 2015 un centinaio di persone occupa i binari nella stazione ferroviaria di San Pietro Vernotico (Brindisi), in seguito ad una mobilitazione contro il piano di eradicazione degli ulivi predisposto sotto il pretesto dell’emergenza “xylella”. Emergenza forgiata sul presunto disseccamento di alberi di ulivo nelle province di Lecce e Brindisi e che nei piani del commissario Silletti va risolta con l’eradicazione forzata di un gran numero di piante. Nelle settimane precedenti c’erano stati due blocchi stradali sulla statale Brindisi-Lecce e il tentativo di fermare i tagli in alcuni uliveti del brindisino. Il blocco della stazione, che si protrae dalle 15.30 fino a tarda sera, provoca il caos ferroviario per oltre ventiquattro ore sulla tratta Lecce-Bari, ripercuotendosi anche sui convogli diretti al nord Italia, con trenta treni bloccati nella giornata del 10 novembre, e almeno una decina il giorno successivo. Fra i manifestanti, la polizia ritiene di aver identificato anche una decina di solidali leccesi che la settimana precedente erano stati fermati dopo un presidio al Cie di Brindisi-Restinco.
Nei giorni successivi, a più riprese, vengono definiti sui giornali locali come «infiltrati», che nulla avrebbero a che vedere con la «protesta pacifica e motivata degli agricoltori dei paesi brindisini, degli studenti, degli ambientalisti», ma interessati solo a «strumentalizzare» tanto le mobilitazioni contro il taglio degli ulivi, quanto la solidarietà verso i reclusi nei Cie. L’intento palese è dividerli e isolarli dal resto dei manifestanti e mistificare le motivazioni alla base delle loro scelte di lotta. Fra tutti si distingue repubblica-bari che arriva a parlare di «sospetti terroristi». In risposta viene diffuso, in alcuni dei paesi colpiti dal “piano Silletti”, il seguente manifesto.
da dove venga non si sa
e nemmeno si sa quale sia davvero la sua responsabilità nella questione del disseccamento degli ulivi. Xylella è il nome dato ad una nuova kinaccia che investe questo territorio e con questo pretesto si rischia di stravolgerlo completamente per fare posto a non si sa cos'altro. Una cosa però si sa: dove vada a parare questa faccenda della xylella.
Molto lontano da quell'immagine bucolica e folkloristica, buona da vendere ai turisti, l'agricoltura ai tempi della dittatura dei mercati globali è un'attività produttiva sempre più rapace e asservita alle regole del liberismo. Anche nel Salento globalizzazione, superproduttività, accentramento delle produzioni nelle mani delle multinazionali ci vengono spacciate come imprenscidibili necessità di sviluppo. Chi si oppone è un primitivo, chi si ostina è un pazzo, chi agisce sabotando la macchina è un terrorista.
Ma chi è davvero a svilupparsi? E a danno di chi?
Al fine di raggiungere precisi standard di produzione i grandi capitalisti non esitano in ogni parte del mondo (meglio lontano dalle porte di casa) a sradicare intere foreste, scacciare le popolazioni, stravolgere definitivamente gli ecosistemi. Qualche esempio? Il Delta del Niger - un luogo originariamente ricchissimo di biodiversità - è stato devastato dalle perforazioni ENI e Shell, che ne traggono petrolio da vendere sui mercati europei e statunitensi. Ugualmente accade in Azerbaigian da dove TAP conta di attingere e trasportare gas naturale.
Anche dietro le grandi produzioni agricole c'è devastazione ambientale e supersfruttamento del lavoro umano, fino ali limite della completa riduzione in miseria di intere popolazioni che sono costrette a partire in cerca di condizioni di vita migliori. La grittesca lingua del pogtere li ha battezzati "migranti economici": sono coloro che vengono schiavizzati come braccianti, oppure rinchiusi nei C.I.E.
Ecco che si crea un drammatico legame fra impoverimento del territorio, emigrazione e sistema di reclusione di coloro che, in questa parte di mondo sono nella condizione di "clandestini".
E' dunque perfettamente conseguente che chi si oppone all'eradicazione degli ulivi si possa anche opporre con consapevolezza e determinazione alla segregazione nei centri di identificazione ed espulsione, così come alla riduzione in schiavitù nei campi di pomodori o di angurie...
Ecco perché ci troverete ancora sui binari e fra glu ulivi, sotto il filo spinato dei C.I.E. e nelle strade a ribadire che gli unici e veri terroristi sono coloro che affamano e che depredano in nome del profitto. In una parola fli Stati.
dicembre 2015, fonte: sottosopra@autistici.org
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Dalla dalla stampa locale si apprende anche che la procura di Lecce ha aperto una inchiesta sostenendo che il batterio sia stato importato dall'Istituto agronomico del mediterraneo (Iam) nel corso di un famoso convegno del 2010 e non, come sostiene lo stesso Iam insieme all'Università, fosse presente già nel Salento una popolazione omogenea del batterio.
Dall'inchiesta emergerebbero anche gli interessi connessi alla diffusione del batterio da parte di chi, ad esempio, ha puntato su nuove tipologie di coltivazioni dell'olivo, come la Sinagri srl, dell'Università di Bari, che lavora con Iam e Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla xylella.
Negli atti è poi raccontato questo episodio: nel 2010-2011 in Salento si sono tenuti dei campi sperimentali di nuovi prodotti contro la “lebbra dell'olivo”, prima ancora del fenomeno del disseccamento rapido. Per questo motivo li ministero autorizzò l'uso di alcuni diserbanti particolari, per un periodo limitato di qualche mese, in zone specifiche del Salento. Alcuni proprietari dei terreni e altri testimoni raccontavano di aver visto in quel periodo persone che in abiti civili, con tute bianche modello usa e getta in dotazione alla polizia scientifica, si aggiravano fra gli olivi con in mano dei barattoli di colore blu e bianco, effettuando alcune manovre alla base degli alberi, gli alberi avevano dei cartelli. Durante il successivo sopralluogo della polizia giudiziaria, si è notato che la maggior parte degli alberi di olivo, sui quali erano stati appesi i cartelli, erano quasi completamente bruciati, alcuni mesi addietro si era sviluppato un incendio che stranamente ha colpito solo gli alberi legati alla sperimentazione. L'incendio è dunque di natura dolosa l'obiettivo di eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi, ovvero le prove sul campo del Roundpop Platinum della Monsanto.
Proprio la Monsanto, famigerata multinazionale leader nella realizzazione dei pesticidi, ha finanzato un convegno sulla xylella nel 2010, nel quale ha presentato un progetto di nome Gipp per la buona pratica di diserbo nell'oliveto di Puglia. La pratica prevede una serie di interventi compreso l'uso di un diserbante totale che serve per mantenere "pulito da erbacce l'oliveto", il Roundpop appunto, lo stesso che avrebbe potuto bruciare quegli ulivi. E' la stessa società che nel 2007 ha acquisito la società "Allelyx - scrive la Procura - parola specchio di xylella.
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma, rivolta al Cie di Ponte Galeria
Oggi 11 dicembre c’è stata una forte protesta nel Cie di Ponte Galeria. Un ragazzo, dopo aver ricevuto cure mediche in ospedale, rientrando al centro, è stato portato di nuovo in ospedale perché la macchina che lo trasportava ha fatto un incidente. Una volta rientrato al Cie è stato provocato da un agente della Guardia di Finanza, senza nessun motivo. Alla provocazione sono seguite percosse violente, testimoni diretti parlano di calci e pugni. Il ragazzo, che in quel momento si trovava solo, ha reagito tagliandosi le vene. Quando gli altri reclusi si sono accorti dell’accaduto, vedendo un loro compagno sanguinante a terra, hanno iniziato una protesta che ben presto si è allargata a tutta la sezione maschile. Sono stati bruciati materassi e distrutte quasi tutte le celle agibili. Le forze dell’ordine sono intervenute in massa per sedare la rivolta. Dopo qualche ora la situazione si è calmata.
In questo momento, ci dicono da dentro, sono state riaperte 4 celle chiuse anni fa dopo una rivolta, dove hanno stipato alcune persone. Tutti gli altri al momento si trovano nel corridoio perché le celle non sono utilizzabili. I detenuti si preparano ad affrontare la notte senza posti per dormire e al freddo.
Nel frattempo un gruppo di persone si è recato davanti le mura della sezione maschile per portare solidarietà ai rivoltosi con grida e petardi.
Molte cose si sono mosse nel Cie di Ponte Galeria in seguito alla rivolta di venerdì 11 dicembre. Sono stati liberati alcuni ragazzi fermati durante l’incursione al centro Baobab. Oggi apprendiamo che molte persone recluse nella sezione maschile sono state liberate con un foglio che invita a lasciare il paese entro sette giorni.
Da dentro ci dicono che verso le nove del mattino la polizia è entrata nelle celle, prima annunciando il trasferimento di 6 ragazzi richiedenti asilo nel Cie di Bari Palese e di altri 5 nel Cie di Brindisi, poi annunciando la liberazione di tutti gli altri.
La sezione maschile del Cie di Ponte Galeria sembrerebbe al momento chiusa.
Nei giorni passati abbiamo assistito a visite nel Cie romano da parte di esponenti di Sel, associazioni e campagne para istituzionali, con lo scopo di denunciare le condizioni di vita nel Cie e chiedere la liberazione delle persone internate durante la retata al centro Baobab. I fatti dimostrano che la liberazione si ottiene in tutt’altro modo.
Undici persone non hanno però ritrovato la libertà da quelle gabbie e sono state trasferite in altri Cie: erano “richiedenti asilo” ovvero una delle categorie di persone inventate dagli stati per rafforzare il controllo dei flussi migratori. La recente apertura degli Hotspot ne è la dimostrazione.
Nella sezione femminile ci sono ancora circa 50 ragazze recluse, la maggior parte delle quali sbarcate da poco a Lampedusa. Le condizioni di vita nel Centro, ci dicono da dentro, sono come sempre pessime, per mancanza di acqua e riscaldamento.
Se le persone recluse hanno chiuso una parte del Centro, spetta a tutte e tutti non farla mai più riaprire, osteggiando i collaborazionisti che vorranno ristrutturare e fortificare il Cie di Ponte Galeria, sostenendo le lotte delle persone recluse.
Torino, Cie di C.so Brunelleschi
Il fuoco appiccato dai reclusi del Cie cittadino alle camerate qualche settimana fa ha minato fortemente il funzionamento del principale dispositivo di controllo e deportazione dei senza-documenti. Abbiamo già parlato di come la struttura, che poteva contare su metà della sua capienza massima prima della rivolta del 14 novembre, abbia ricevuto uno smacco non irrilevante soprattutto per il forte ridimensionamento dei posti a disposizione.
Certo è che ad accompagnare questa che è una fausta notizia, ci sono dei fattori, di ben altra pasta, che non è certo nostra intenzione trascurare. Infatti è intrinseco alla gestione dei centri detentivi che dopo una fase particolarmente riottosa, i controlli diventino ancor più asfissianti e ai reclusi vengano sottratti persino i pochi suppellettili permessi solitamente. A questo si aggiunge il fatto che i lavori di ristrutturazione per riportare al pieno funzionamento il Cie, già previsti da mesi, seppur di soppiatto sono ripartiti.
Tuttavia i gestori e le ditte che si occupano di far tornare le cose a posto avranno molto da fare, proprio grazie alle azioni coraggiose dei ragazzi dentro. Anche per questo è necessario continuare organizzarsi contro il Cie e a sostegno di chi si ribella alla propria reclusione.
Presidio domenica 20 dicembre alle ore 17 davanti alle mura di Corso Brunelleschi all’angolo con Via Monginevro.
Milano, dicembre 2015
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ROMPERE IL RICATTO, LOTTARE UNITI, RIPRENDERSI LE NOSTRE VITE
Quando si parla di migranti non si tiene mai in considerazione il contesto e le motivazioni per cui decidiamo di partire e imbarcarci alla ricerca di un presente e futuro migliore. Che si scappi dalla guerra, dalle condizioni di povertà o che si decida di cercare fortuna c’è sempre il dolore per quelli che abbiamo lasciato e la paura per ciò che non si conosce. Allo stesso modo ogni racconto è sempre superficiale e non si dice niente di ciò che abbiamo dovuto fare per crearci un’identità, per farci degli amici, per riuscire a mangiare, per riuscire a dormire al caldo.
La sofferenza ci rende schiavi o ribelli, e dopo tanto subire ogni briciola può sembrare un segnale divino di qualche messia in mezzo all’inferno dell’indifferenza. Così tanti si abituano, decidono di tacere e subire in silenzio, sacrificando la vita nel presente per cercare di guadagnare la felicità domani, lontani da qui. Il problema è che nulla rimane fermo, le persone cambiano e a volte il sogno si trasforma in incubo, soprattutto quando ci rendiamo conto che il prezzo da pagare per raggiungere la felicità è l’infelicità permanente. Qui le cose cambiano. Si sceglie di dire basta, di ribellarsi, di andare incontro a questo destino ingrato, per non subire più, perché nessun altro uomo o donna possa essere discriminato o sfruttato semplicemente perché non è italiano.
Per avere un pezzo di carta bisogna dimostrare tutta la vita allo stato di essere bravi, di non aver perso il lavoro, e guarda caso siamo quelli che fanno i lavori che nessun altro vuole fare. Quelli che vengono pagati meno e che fanno arricchire i più furbi o i più ricchi. Paghiamo contributi per noi, per i nostri figli e per i figli degli altri, ma dobbiamo sempre essere grati, perché sembra che qualcun altro ci stia facendo un favore, e chi sono questi? Ovviamente i soliti politici che soffiano sul fuoco della povertà, arricchendosi anche col nostro lavoro e usandoci come capro espiatorio, uno spauracchio da agitare per distogliere l'attenzione e creare divisioni che servono ad alimentare la loro forza.
Vivendo nell'insicurezza più totale e soggetti a uno sfruttamento continuo le probabilità di ribellarsi sono tante. Per questo ci ricattano: o la vita o i soldi. E quando non diamo i soldi si prendono quel pezzo di carta che per noi vuol dire poter lavorare, poter studiare, poter avere assistenza sanitaria, semplicemente poter esistere e non essere un fantasma.
E questo pezzo di carta bisogna sudarlo nelle innumerevole file alle questure e negli appuntamenti umilianti con degli uomini in divisa, esposti alla loro prepotenza, in balìa di squallidi funzionari che sfogano la propria esistenza miserevole sulla nostra pelle e possono permettersi di giocare con le nostre vite.
Quando ci hanno truffato con la sanatoria, siamo scesi in strada, occupato gru e torri, abbiamo preso le manganellate, le denunce e anche l’espulsione, per aver osato.
Quando ci hanno rinchiuso nei CIE (i lager della democrazia) siamo stati noi a bruciare i materassi e le lenzuola , a distruggere e rendere inagibile tutto perché altri essere umani non possano più soffrire e non ci siano vite illegali, ci hanno incarcerato e ci hanno espulso. Quanti migranti sono morti alle frontiere o nel mediterraneo, quanti sogni infranti dagli stessi che bombardano o saccheggiano i nostri paesi e ci chiudono le porte in faccia.
I padroni tremano all’idea di vederci uniti, compatti, senza paura a combattere le loro porcherie, a ribellarci e prenderci quella dignità che ogni giorno viene calpestata perché veniamo considerati soggetti di serie B.
Infatti nelle fabbriche o nelle grandi industrie di logistica dove spesso lavoriamo in condizioni quasi di schiavitù nel silenzio generale tramite la solidarietà, l’unione e i picchetti siamo riusciti tante volte a fare sentire la nostra voce, a strappare miglioramenti, a vedere i nostri sfruttatori piegarsi alla forza che siamo riusciti ad esprimere.
Nella lotta per la casa, occupando le palazzine e le case lasciate vuote dagli speculatori o difendendo tutti assieme famiglie sotto sfratto abbiamo risolto un bisogno e ci siamo accorti di aver trovato degli amici, dei compagni. Abbiamo toccato con mano che la solidarietà di oggi è mille volte migliore della solitudine e dell’angoscia di ieri. E per tenere in piedi tutto questo lottiamo, rischiamo, ci esponiamo, senza paura.
E ancora una volta quando ci vedono uniti e determinati cercano di colpirci rendendoci difficile la vita. Così negli ultimi anni è stata approvata una legge (l'articolo 5 del Piano Casa) che impedisce a quelli che hanno scelto di occupare di avere la residenza lì dove vivono. Così diventa ancora più difficile ottenere i documenti, iscrivere i nostri figli a scuola. E' sempre il solito ricatto, che sia la minaccia arrogante di uno sbirro o le parole gelide di una legge la sostanza non cambia: "O righi dritto o ti togliamo il permesso"
Come tanti migranti, ho deciso di stare in prima fila, di lottare per me, la mia famiglia e per tutti quelli che subiscono l’arroganza del potere. Ho scelto di non cadere nel ricatto e ora lo Stato mi presenta il conto.
Per più di 6 anni ho vissuto senza documenti, perché questi documenti lo Stato non me li voleva dare. Ma la libertà non si baratta né ci viene regalata, questa come i diritti si conquistano a spinta o sono solo briciole che possono toglierci nuovamente in ogni momento. Perché la nostra libertà non vale più di quella degli altri, perché la lotta è vita e non cambierei mai la mia scelta di vivere in mezzo ai compagni, alla gente, di rischiare, osare.
Lo Stato mi attacca perché lottando contro le riforme che negli ultimi anni hanno distrutto l’istruzione pubblica ho rotto insieme ai mie compagni la pace sociale dentro la Statale di Milano, perchè ho preso parte alla lotta No Tav per difendere un territorio in ostaggio di imprenditori mafiosi e poliziotti armati fino ai denti, perchè ho occupato e resistito agli sgomberi al fianco di tanti migranti che hanno fatto la stessa scelta di non subire in silenzio. Questo per la Questura si traduce in una "pericolosità sociale". I migranti che non accettano di arrendersi al ricatto rappresentano un pericolo per la società che si arricchisce sul loro sfruttamento e sulla loro emarginazione.
Il 14 gennaio un tribunale sarà chiamato ad esprimersi rispetto al mio permesso di soggiorno. Questa lettera è l'inizio di una mobilitazione perché quel giorno saremo sotto il tribunale in tanti, per sostenere la sfida di essere più forti di ogni forma di repressione. Una giornata che possa essere attraversata da tutte le lotte e da tutti i compagni migranti e non che fianco a fianco lottano ogni giorno in questo paese.
Come ogni battaglia nei corridoi dell’università, fuori dai Cie, dentro le carceri, nei boschi della Val di Susa, nei quartieri popolari di Milano non c’è mai resa, si combatte metro per metro, fino all’ultimo respiro.
Invitiamo tutti a parlarne, a fare girare questo testo, a portare solidarietà in qualsiasi modo quel giorno e nei giorni prima, o venendo a Milano o nei propri territori. Questo può essere l’inizio per rompere finalmente il ricatto.
Il 14 gennaio non sarà un punto di arrivo, ma la tappa di un percorso più ampio, perché la storia di Marcelo è la storia di qualsiasi migrante che decide di mettersi in gioco. Perché la possibilità di avere dei migranti al nostro fianco nelle lotte dipende dal fatto che il nostro rapporto di forza non permetta che ci sia più schiavitù perpetua nei nostri confronti. Che lo stesso rapporto di forze che sa esserci nelle nostre lotte ci sia anche quando cercano di attaccarci individualmente là dove siamo più esposti. Così che mettersi in gioco possa essere sempre più qualcosa di desiderabile e sempre meno qualcosa da temere.
Marcelo
lettera dal carcere di Bergamo
Ciao compagni, sì, ho ricevuto i vostri opuscoli come tutti i mesi e dirvi grazie è poco…
Sapete qui è tutto apposto… ma non funziona un cazzo, non so se hanno paura o non hanno voglia di lavorare. Pensate un po’ sono 2 anni che dovrei essere operato al sedere, il 1° novembre dovevo andare, ma nessuna o nessuno mi ha portato e, visto che la situazione era questa, ho fatto una domandina con scritto che avrei fatto denuncia per negligenza medica, e, pum, mi hanno subito chiamato.
Dopo 3 giorni mi portano all’ospedale a fare una TAC alla mandibola, dove era cresciuto un ematoma provocato da un litigio a giugno. Dopo 2 giorni mi hanno riportato in ospedale per un’infiammazione alla prostata causata sempre a giugno per colpa dei bagni che fanno veramente schifo.
Ma dico, mi portano in ospedale per le cazzate ma per le cose serie devo aspettare e continuo a dirmi: mi sa tanto che, siccome mi sono rimasti 9 mesi da fare, mi sa che l’operazione me la faccio fuori da questo carcere di merda.
Comunque compagne/i è vero: se la giustizia lavora come sappiamo “molto di merda” immaginate la medicina come funziona (se avete bisogno di terapie quelle non mancano, anzi, te ne danno a volontà così per tenervi tranquilli, anche se si rovina la persona, ma l’importanza è che lo stato deve dimostrare che funziona la vendita per la speculazione che sanno loro).
Va beh, ora vi saluto con un grosso abbraccio e tanti auguri, anche se non si fanno!! A tutte/i compagni/e, Davide.
dicembre 2015
Davide Cortesi, v. Monte Gleno, 61 – 24125 Bergamo
lettera dal carcere di massama (or)
Cari compagni, ho ricevuto i libri e vi ringrazio. La foto sulla copertina dell’opuscolo [n. 107] è grandiosa, perché il 41bis è una tortura, sarebbero felici se potessero saperlo nel regime 41bis. Vi mando questo scritto che ho redatto a Secondigliano, purtroppo il tempo diventa lungo per mandarlo fuori a battere…
Con un forte abbraccio vi saluto augurandovi ogni felicità, ciao Pasquale.
Oristano, 8 dicembre 2015
Pasquale De Feo, Località Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)
Segue lo scritto di Pasquale sull’Alta Sorveglianza 1 (AS1) dell’agosto 2015.
Batterie di polli
Negli ultimi anni hanno chiuso varie sezioni AS-1, ogni volta distribuivano i reclusi nelle sezioni rimaste. Tra quelle chiuse quelle aperte il conto è alla pari, anche se si presume che chiuderanno anche qualche altra sezione.
Le sezioni rimaste aperte di AS-1 sono: Opera (Mi), Parma, Sulmona (Aq), Secondigliano (Na), Catanzaro, Voghera (Pv) e Oristano aperta il 15 maggio 2015. Nel tempo hanno chiuso: Trani, Ucciardone (Pa), Livorno, Biella, Carinola (Ce), Spoleto e Nuoro.
Chiudendo la metà delle sezioni, i posti si sono dimezzati ma i reclusi sono rimasti gli stessi. Per sopperire a ciò, il DAP in modo “machiavellico” chiede alle direzioni dei vari istituti di mettere i reclusi a due e anche tre per cella, violando le normative e il codice penale.
Predicano legalità e allo stesso tempo con le loro direttive chiedono illegalità, costringendo i reclusi a ribellarsi a questi soprusi, che alla fine pur avendo ragione ne pagano le conseguenze, perché dalla prepotenza istituzionale è difficile avere giustizia.
Con queste sezioni sovraffollate stanno creando una sorta di “batterie di polli”, se fosse un allevamento interverrebbero i NAS e costatando che non sono a norma li chiuderebbero. Gli animali hanno dei diritti e vengono fatti rispettare. I maiali, come una sentenza europea prescrive, hanno diritto a 9 metri quadrati. Il cane a 14: la gallina a 3.
I reclusi con una sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo, hanno diritto a un minimo di 3 metri quadrati – compresi 7 metri quadrati calpestabili; al di sotto di questa misura, che spesso non viene rispettata, è tortura.
La stragrande maggioranza dei reclusi in AS-1 sono ergastolani e, ai sensi dell’art. 22 del codice penale, i condannati all’ergastolo devono scontare la pena in isolamento notturno, pertanto cella singola.
Con artifizi vari, non esenti ricatti e pressioni, “convincono” tanti ergastolani a mettersi a due e anche tre per cella, violando il codice e anche il metraggio calpestabile.
Il regime AS-1 è nato nel 2009 in sostituzione dell’Elevato Indice di Sorveglianza (EIV), che a sua volta era una continuità storica dell’art. 90, che stabiliva che i reclusi sottoposti a questo regime dovevano stare assolutamente da soli in cella.
Il codice penitenziario europeo stabilisce che ogni detenuto deve stare da solo in cella. Abbiamo un codice penitenziario che sulla carta è alla pari con la Convenzione Europea e le civiltà del Nord Europa, ma nei fatti siamo alla mercede dei funzionari di turno, che non guardano troppo alla legalità dei loro atti.
Il Ministero della Giustizia ha un solo interesse, che le carceri siano tranquille e che non succeda niente, pertanto gli va bene il carcere aperto come Bollate (Mi) o quello chiuso come Parma, l’importante è contenere i reclusi e reprimerli se si ribellano alle loro prepotenze.
Chiudendo la metà delle sezioni AS-1 hanno liberato posti per metterci i reclusi comuni, raddoppiando i posti, così si presenteranno davanti all’Europa, annunciando in modo truffaldino che hanno risolto il problema del sovraffollamento, quando invece hanno fatto il gioco delle tre carte.
Il magistrato di sorveglianza di Catanzaro ha emanato alcune ordinanze, su reclamo proposto da reclusi, intimando alla direzione di allocare il detenuto da solo in cella. Essendo le celle del carcere tutte uguali, il discorso valeva per tutti i reclusi del carcere; invece applicano l’ordinanza solo ai reclusi che hanno fatto reclamo.
Ho citato Catanzaro come esempio, ma è così su tutto il territorio nazionale.
Qui a Secondigliano, dove sono appoggiato, ci sono celle così piccole che non c’è lo spazio dei 3 mq calpestabili, a parte la sezione AS-1 dove sono tutti da soli in cella, nel resto del carcere sono tutti in due per cella, raddoppiando la capienza del carcere. Da 600-700 posti a circa 1400. L’illegalità che viene trasmessa dal DAP come un virus si propaga in tutto il sistema penitenziario.
Sono in carcere per aver violato il codice penale, mi chiedo dov’è la differenza tra me e questi signori che violano non solo il codice penale ma anche i più elementari diritti umani, paradossalmente i funzionari del DAP sono quasi tutti magistrati.
La legalità prima di pretenderla bisogna attuarla nei comportamenti e nell’esercizio delle proprie funzioni.
Il diritto se non è applicato alla realtà diviene una parola vuota e priva di valore, e diviene uno strumento al servizio del potere per la repressione “legale” dello stato.
Secondigliano, agosto 2015
lettera dal 41bis del carcere de l’aquila
La lettera che state per leggere non è stata scritta e spedita da Guantanamo (Cuba) ma da una sezione 41bis (quella di L’Aquila). E’ accompagnata da due fogli allegati dell’Ufficio Censura del carcere. Eccoli in ordine cronologico:
il primo, data 7 agosto 2015, informa che “è stata trattenuta provvisoriamente la missiva (raccomandata) in arrivo con mittente Associazione Ampi Orizzonti e come destinatario Rizzo Salvatore… perché si ha il sospetto che per il suo tramite possano veicolarsi contenuti atti a determinare pericolo per l’ordine e la sicurezza. Tale missiva, verrà inviata per i provvedimenti del caso, al magistrato di sorveglianza di L’Aquila…”
Il secondo, 29 agosto 2015 “informa che il magistrato di sorveglianza ha disposto l’inoltro di una missiva trattenuta provvisoriamente in data 7 agosto 2015, con mittente Associazione Ampi Orizzonti e come destinatario Rizzo Salvatore.
Così Salvatore riesce a rispondere.
Carissimi amici e amiche di Ampi Orizzonti, la lettera raccomandata che mi avete mandato il 7 agosto mi era stata bloccata provvisoriamente dalla direzione, e inviata al magistrato di sorveglianza. Solo in data 29/08/2015 mi è stata consegnata. Vi mando gli allegati per segnalarvi ancora di più le restrizioni a cui siamo sottoposti.
La vostra iniziativa per sbloccare la recezione di libri è lodevole come tante altre iniziative a favore di noi detenuti che non abbiamo voce. Io mi trovo con il 41bis dopo 23 anni di carcere. Ne ho fatti già 10 sempre di 41, dal 1992 al 2002; poi sono stato altri 10 anni in EIV (Elevato indice di vigilanza), che ora si chiama AS1 (Alta sorveglianza). Nel febbraio 2011 sono stato declassificato dal carcere di Biella e messo nel circuito AS e così trasferito nel carcere di Saluzzo. Tutti questi trasferimenti sono avvenuti con il parere favorevole della Dia (Direzione investigativa antimafia) di Lecce. Poi, dopo due anni sono usciti due collaboratori, inventandosi un falso teorema, con il benevolo accordo della procura antimafia (che ormai è diventato un mestiere che crea ricchezza e carriera e pur di esistere vedono mafie dappertutto).
Mi hanno accusato di nuovo di un fantomatico 416bis, condannandomi a 9 anni, e mi hanno catapultato di uovo nella valle dei morti 41bis e con aria (passeggio) riservata, che è un’ulteriore restrizione: sei sempre con un solo compagno e quando uno di noi due sconta una sanzione disciplinare oppure va in video-conferenza, siamo soli, isolamento totale.
Vi ringrazio per la cartolina, mando un abbraccio forte a tutti quanti. Per la salute diciamo che sto bene, mi difendo con un po’ di attività fisica, tanta lettura e, quando capita, qualche lettera, se ti arriva sei fortunato.
Un abbraccio di nuovo e un grazie per quello che state facendo, ciao! Totò.
6 settembre 2015
Salvatore Rizzo, via Amiternina, 3 - 67100 L’Aquila
La lettera, con il timbro “Casa Circondariale – L’Aquila Visto per censura”, è stata spedita in data 15 dicembre 2015.
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CONTRO L’ISOLAMENTO
Davide Delogu è in isolamento dai primi di dicembre a seguito di una protesta, i detenuti non sono rientrati dall'aria e sono rimasti in cortile per 16 ore.
Tra l'altro a fine ottobre gli è stata prorogata la censura sulla posta, già in atto da maggio, con la motivazione di "soggetto che ha dimostrato nel recente passato costanti rapporti con ambienti anarchici e con aderenti a movimenti eversivi, già promotore di nunerose proteste, autore di un tentativo di di evasione dalla casa Circondariale di Cagliari, già sottoposto per analoghi motivi al regime particolare di sorveglianza di cui all' art.14 O.P.". In questo periodo la corrispondenza con Davide risulta molto difficile, le lettere in entrata e uscita non arrivano.
Rompiamo l'isolamento mandandogli cartoline, lettere ecc.
Davide Delogu, piazzale Pasquale di Lorenzo 4, Contrada Petrusa - 92100 Agrigento
Lettere sulla situazione nel carcere di Opera
Qui in positivo non c’è nulla, di negativo, non ti basterebbe questo Block Notes.
Immagina la scena, sala colloqui: un anziano famigliare di un detenuto, finito il colloquio, mentre usciva si è sentito male e, se non fossero intervenuti altri famigliari in suo soccorso, fino a chiamare l’autoambulanza, non si sa come sarebbe finita, dato che l’anziano ha avuto una crisi respiratoria. Gli agenti penitenziari non si sono mossi per niente, solo alla fine, quando erano arrivati i medici, si sono degnati di ringraziare i famigliari soccorritori.
Altra scena, sempre alla sala colloqui: c’è un ragazzo qui che ha un bambino, primi anni di scuola, particolarmente bisognoso di affetto. Gli è stata negata la sala colloqui Ludoteca, non sa per quale ragione; non ha saputo rispondere al bambino che gli diceva: “Papà non mi piace questo posto, perché gli altri bambini vanno in ludoteca e noi no?”. Non puoi immaginare come si è sentito, già ha sensi di colpa dovuti al fatto che il bambino sta male per la sua lunga assenza da casa.
Qui c’è un ragazzo che ha la mamma ricoverata in ospedale – in una situazione degenerativa. Dopo un mese è riuscito ad ottenere un “permesso 30 O.P.” e una telefonata. Fatti che hanno dato piacere alla madre. In seguito ha presentato analoghe istanze, quella del permesso è stata negata (non ci siamo meravigliati in quanto tale richiesta è a facoltà del magistrato di sorveglianza). Quello che ci ha lasciati a bocca aperta è il rigetto della telefonata sul cellulare della mamma, motivandolo con il fatto che aveva usufruito del permesso. Mi spiego: per poter telefonare su un numero di rete mobile non devi aver effettuato colloqui da almeno 15 giorni. Loro hanno calcolato un permesso per necessità alla stregua di un colloquio, così al ragazzo hanno negato la telefonata.
Potrei andare avanti molto ancora riguardo alle ingiustizie made Opera. Ci risentiamo
Che lascia perplessi è altresì la completa indifferenza da parte degli operatori, degli agenti. Ogni giorno molti di noi si segnano a visita medica, a udienza con l’educatore, lo psicologo, il capo reparto, l’ispettore, se ti va bene, dopo una settimana vieni chiamato, senza contare le varie richieste fatte sugli appositi moduli che spariscono magicamente. Tutte queste cose le vedo come abusi gratuiti.
Insomma, questo carcere e chi lo gestisce è una sorta di soggetti e situazioni impegnate a togliere ogni forma di dignità umana: qui fanno di tutto e di più per azzerare la persona con umiliazioni, provocazioni e negazioni dei nostri diritti. Purtroppo a queste qualcuno reagisce e ci rimette la liberazione anticipata, giornate di isolamento e il prolungamento della già lunga osservazione – utile per ottenere dei benefici di legge.
dicembre 2015
Lettera dal carcere di Rebibbia (rm)
Cari amici, purtroppo siamo ancora una volta qui a scrivervi della grande ingiustizia che ogni giorno nelle carceri italiane viene consumata contro di noi detenuti. Le notizie di questi ultimi giorni, il detenuto che ha registrato le botte ricevute dagli agenti non ha fatto accadere nulla, perché tutti sanno, ma il silenzio è la guarigione migliore.
Noi ci troviamo nel carcere della capitale, dove tutti pensano si stia bene, ma purtroppo non è proprio così. Nei nostri reparti da molto tempo stiamo combattendo per avere un minimo di acqua calda, gli scaldabagni sono vecchi e molti non riescono a soddisfare la doccia di tante persone, questo è assurdo, perché, soprattutto in questo periodo invernale, è molto facile ammalarsi, e dopo non ci sono i medicinali per curarsi. Insomma il solito pasticcio italiano, anzi la solita storia di un ministro che cerca sempre di nascondere la realtà, per farsi dare continuamente fondi europei che non sappiamo che fine fanno – visto lo stato di degrado degli istituti di pena.
Non c’è più lotta. Questo deriva da molti motivi, ma soprattutto dalla mancanza di una vera identità che ci sostiene. I radicali sono spariti, gli ideali sono spariti, sono rimasti pochi sognatori, dove non vedono nessuna alternativa.
Forse è il momento di curare un’identità che rappresenti i diritti dei detenuti, altrimenti non possiamo acquistare forza.
7 dicembre 2015
Marco Costantini via Majetti, 70 – 00156 Roma
buon natale...
Auguro buon Natale a tutti ma proprio a tutti. E lo dico col cuore.
Buon Natale anche al signor La Russa, che da Ministro della Difesa immediatamente dopo l'orribile morte di Stefano garantì a gran voce e ammonendo tutti che 'i Carabinieri non c'entravano assolutamente'.
Buon Natale al professor Arbarello, che ha eseguito l'autopsia in modo così brillante da meritarsi poi la nomina a consigliere di amministrazione di un grande gruppo assicurativo insieme al figlio del signor La Russa a processo in corso.
Buon Natale al nuovo perito professor Introna, appartenente al partito del signor La Russa già candidato capolista nelle elezioni del 2009 in Puglia.
Buon Natale a tutti coloro che sicuramente sosterranno che noi vogliamo sceglierci i periti e ai quali rispondo: 'c'è una legge che impone che tutti i periti e consulenti di parte pubblica nel processo Cucchi debbano per forza aver legami col signor La Russa?'
Buon Natale a tutti!
23 dicembre 2015, dalla pagina facebook di Ilaria Cucchi
lettera dal carcere di Vicenza
Innanzitutto: un cordiale saluto a tutti voi compagni/e, anche un enorme saluto a tutti detenuti che hanno trovato il coraggio di ribellarsi e protestare contro gli abusi e le menzogne che applicano ogni giorno nei carceri italiani, presidiati e comandati da esseri viventi marci e indegni con delle idee diaboliche e animalesche (senza offesa ai veri animali).
Sono Eddi Karim e penso che tutti quelli che hanno avuto a che fare con i carceri italiani mi conoscono bene, o ne hanno sentito parlare, ovviamente per la mia lotta continua, da 15 anni, contro i sistemi marci dei tutori dell’ordine di tutti i tipi.
Carceri di Venezia, Ascoli Piceno, magistratura di sorveglianza di Macerata, Ancona: tranelli, imboscate sanguinarie…
Ma la storia che ha toccato la cima è quella del marzo 2005 quando è stato ucciso un detenuto marocchino nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore. Ucciso da qualche ispettore con la complicità del commissario - che poi sono stati condannati nel 2013. Tutto grazie alla mie denunce e alla mia testimonianza. L’8 ottobre 2009 ho testimoniato nel tribunale di Venezia contro questi assassini.
Il giorno dopo sono partito da Venezia per Ascoli Piceno, accompagnato dalla raccomandazione, anche scritta, di uccidermi. Lì mi hanno messo in una sezione “protetta” (cioè dove ci tengono pedofili, infami) che si chiama anche “Zona Filtro”. Dopo qualche giorno mi fanno scendere all’aria assieme ai detenuti comuni che mi avevano visto nella sezione “protetta” (dove non dovevo nemmeno entrare, solo che non capivo cosa volesse dire “Zona Filtro”). All’aria i detenuti mi hanno massacrato di botte, rompendomi denti e due costole e la testa; e sono andato all’ospedale in coma per una settimana. Dopo il coma sono tornato al carcere e ho mandato i miei verbali d’arresto e le carte del tribunale ai detenuti della sezione comune. Volevo far loro sapere che ero in carcere per droga e non per reati infamanti.
A ‘sto punto mi rispondono che le guardie gli hanno detto che sono pedofilo; si scusano scrivendomi che molti di loro erano pronti a testimoniare davanti al giudice di sorveglianza su questo brutto fatto. Avviso il mio avvocato di Venezia, per avvisare la procura veneziana per essere ascoltato dal magistrato di Macerata (una donna, competente su Ascoli Piceno). Quando mi hanno portata da lei l’ho trovata che rideva assieme al commissario delle guardie. Ho dovuto aspettare che uscissero dall’ufficio i bastardi criminali. Quando sono entrato nell’ufficio con i mei denti in mano e con il corpo pieno di lividi e dopo averle raccontato che volevo fare denuncia, la sua risposta mi è stata fatale: mi ha detto che non potevo denunciare il commissario e la direttrice in quanto mi hanno menato dei detenuti; e che in più non c’era nessun referto medico nella mia cartella clinica che confermava i fatti che le dicevo. A ‘sto punto non mi era che rimasto di sperare nel tribunale di sorveglianza di Ancona (diretto superiore di quello di Macerata). Invece è andata peggio: addirittura, la mia querela l’hanno dichiarata “inammissibile”.
Nel frattempo (autunno 2010) aveva avuto buon esito la richiesta presso la procura di Venezia di essere trasferito in Veneto, a Verona. Dopo un anno mi mandano a Trieste dove ho continuato la mia battaglia. Una notte c’era un detenuto anziano che stava male, gridava a causa di dolori. Alle nostre chiamate la guardia rispondeva che il medico dormiva e che la visita c’era “domani”. Il giorno successivo l’anziano era morto. L’hanno portato via con un lenzuolo bianco sul corpo (così mi è stato detto dagli altri), perché i secondini mi hanno chiuso subito il blindato per non farmi assistere alla scena e così diventare testimone. Ma questo non mi ha impedito di lottare e di denunciare il fatto, ovvio, con una protesta pacifica. Ma purtroppo sono rimasto solo. A ‘sto punto ho cominciato con una protesta individuale, con lo sciopero della fame, bevendo solo mezzo litro di acqua al giorno. L’ho fatto per 35 giorni, ma nessun procuratore si è fatto vivo, cioè come non esistessi; anche se avevo perso 22 kili e se non riuscivo più ad alzarmi dalla branda. Il 13 novembre 2011 arriva in sezione il medico legale inviato dal tribunale di Trieste (dott. Costantini). Mi dà la scarcerazione immediata per motivi di salute. Così alla fine i colpevoli della morte dell’anziano sono rimasti impuniti e io sono diventato il nemico n° 1 dei tutori dell’ordine nelle carceri italiane.
Il 10 dicembre 2014 mi arrivano sbirri a casa con un “mandato di custodia cautelare in carcere” sostenuto da ascolti telefonici… per droga. Avevo appena finito 1 anno e mezzo di arresti domiciliari e adesso tornavo dentro per un complotto dei carabinieri che hanno voluto incastrarmi tramite due loro infami: un tunisino ospite nella mia casa e un algerino. Il pm dice che la registrazione non vale come prova. In ogni caso vengo condannato a 1 anno di carcere. Denuncio il comandante dei carabinieri di S. Marco (Ve) per “abuso di potere e minacce di morte” a me e alla mia compagna – che lui è andato a sputtanarla alla scuola dove lei insegna. Questa denuncia la procura di Venezia, il pm Terzo, l’ha archiviata.
Il giorno dell’arresto mi hanno portato nel carcere di Belluno (perché ho il divieto con il carcere di Venezia). Dopo due mesi mi hanno trasferito al carcere di Opera dove ho subito molti pestaggi e ho fatto varie denunce alla procura di Milano, finora senza esito.
Adesso mi trovo nel carcere di Vicenza in una sezione di punizione, solo perché ho sempre protestato pacificamente contro l’abuso di potere e i pestaggi dei detenuti. Vi racconto qualche episodio fra i tanti che sono successi qui. Due mesi fa un detenuto, Antonio, mentre faceva colloquio con sua moglie, hanno interrotto il colloquio, perquisito la moglie ordinandole di fare flessioni, calpestando la sua dignità, l’onore e i diritti. Assieme al suo compagno e ad altri detenuti abbiamo protestato contro questi comportamenti ingiusti. Dopo la protesta, il 28 settembre, mi hanno portato in isolamento e tutta la sezione ha protestato con battiture e grida in solidarietà con me. Mi hanno messo nel mirino per le proteste contro i loro abusi, contro i pestaggi, come quello che hanno fatto a Antonio: gli hanno rotto i denti, la mascella e le ossa e dopo l’hanno portato all’ospedale a Dolo – non so dove l’hanno trasferito. Con lo stesso trattamento hanno colpito Naggar, Dhouib e altri poi trasferiti a Trento e altrove. Nel carcere vicentino c’è una banda composta dal comandante, dall’ispettrice e da altri agenti. Ovviamente ho denunciato tutto al procuratore capo di Vicenza e sto aspettando ancora una risposta.
Spero che questa mia lettera arrivi a voi, saluto i compagni di Venezia, Vicenza “Barcollo ma non mollo”. Grazie di cuore a tutti i compagni dell’Italia, del resto del mondo e che la nostra battaglia continui per sempre.
Un cordiale saluto Karim.
Inizio dicembre 2015
Eddi Karim, via B. della Scola 150 – 36100 Vicenza
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Resoconto del presidio al carcere di Vicenza del 13 dicembre
C'è stata una buona partecipazione di compagni/e solidali e interesse da parte dei passanti che, incuriositi dal quel che si stava facendo, si son fermati a parlare.
Per un paio d'ore ci sono stati interventi e musica dal vivo. Si è cercato di comunicare con i detenuti, denunciando i recenti fatti che hanno visto il San Pio X al centro della cronaca locale tra cui spicca la chiusura della mensa dei secondini perché nelle pietanze servite erano stati ritrovati vermi e scarafaggi, esempio emblematico dello stato in cui si trova il carcere e che è stato strumentalizzato dai vari sindacati della penitenziaria facendo passare gli sbirri come povere vittime di questo sistema.
La realtà ovviamente è ben diversa dato che il vitto passato in sezione ai detenuti è da sempre scadente e i vermi sono più o meno all'ordine del giorno!
Ci si è poi allargati a quella che è la situazione che si vive oggi nelle carceri in Veneto e alle mobilitazioni che ci sono state in solidarietà ai detenuti e contro i fogli di via dispensati per spezzare ogni legame tra chi sta dentro e chi invece è fuori.
Si è riusciti a fare una rumorosa battitura sulle sbarre di ferro che delimitano l'ingresso al carcere e la cosa ha subito innervosito gli sbirri chiamati a sorvegliare il presidio.
Al termine della giornata c'è stato un saluto "caloroso" ai prigionieri, al quale loro stessi hanno risposto con una battitura all'interno. La cosa non è piaciuta agli sbirri, già incattiviti, che hanno messo in scena tutta una sequela di azioni da film poliziesco terminate con l'identificazione dei compagni solidali.
Di fatto, quello che è successo va in linea diretta con quanto accaduto in Veneto in questi ultimi mesi dove risulta chiaro che mobilitarsi contro il carcere è una cosa che spaventa moltissimo la controparte, costretta a usare la repressione per difendersi.
Lottare contro il carcere vuol dire toccare uno degli organi vitali che consente il funzionamento di questa società e per questo è un terreno molto scomodo. Ieri ne abbiamo avuto un'ulteriore prova concreta.
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Resoconto del corteo a venezia del 5 dicembre
“Contro i fogli di via in solidarietà con tutti i detenuti in lotta”
Come spiegato nei volantini diffusi: “Nei mesi scorsi la questura di Venezia ha emesso 15 fogli di via dalla città contro altrettante persone per aver dimostrato solidarietà alla lotta dei detenuti chiusi nel carcere della stessa città. Il foglio di via non è che un ennesimo confine eretto tra noi e il mondo che ci circonda. Eppure l’epoca ci mostra come ogni qualvolta si incontra un confine si può trovare la forza necessaria per schiantarlo. Partiremo in corteo per le calli della nostra città, senza chiedere il permesso, a fianco dei nostri banditi, per rendere inefficace di fatto questo infame provvedimento. Dove stare lo decidiamo noi!”
Così è andata. Il corteo iniziato con bella determinazione è riuscito, ha urlato, ha scritto, dipinto il senso della giornata, contro carcere, sfruttamento, guerra… esprimendosi con: “Fogli di via o no, noi siamo qui”, ”Nessuna repressione fermerà la lotta contro i fogli di via”, ma anche “I morti di Parigi l’hanno urlato Basta essere schiavi dei piani NATO”, “Aumentano le tasse dimezzano i salari, con i nostri euro paghiamo i militari”.
E’ stato ricordato Manuel, morto ucciso qualche giorno prima, proprio nel carcere di Venezia, a causa di un medicinale sbagliato…
Per oltre 2 ore in centinaia, provenienti da diverse città abbiamo camminato dentro vicoli, piazzette, ponti, dentro una città percorsa da passanti, pedoni senza auto, bici, dunque attenti, più che altrove, a quel che accade intorno.
Una giornata istruttiva che contribuisce a portare il movimento fuori dalle beghe che da tempo ne limitano la consistenza.
Milano, dicembre 2015
Lettere dal carcere di San Vittore (Mi)
Vi scrivo dal VI raggio terzo piano, la sezione, al dire degli altri detenuti, peggiore di questo carcere. Le condizioni delle celle sono a dir poco pessime, l’umidità trasuda dai muri scrostati, i materassi smangiati, alcune celle addirittura hanno le finestre rotte.
Il vitto viene servito dai lavoranti con le mani perché non forniti di mestoli o pinze. Vanno due docce su quattro e solo lì c’è acqua calda, la carta igienica e altri beni di prima necessità per vivere in maniera un po’ dignitosa è a discrezione dei secondini.
I pacchi che arrivano dai nostri cari sono aperti e deturpati senza nessun rispetto.
Le uniche cose che non mancano sono tv e psicofarmaci, distribuiti come noccioline, ovvero le loro armi per annullarci e tenerci buoni. Tutto questo crea un clima pessimo e toglie tutta la socialità che invece si dovrebbe creare tra chi naviga nella stessa merda. [...]
dicembre 2015
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Ci chiamano violenti… Blocco Nero… Brutti… Cattivi...
[Invece siamo] Prigionieri politici, capri espiatori di un processo mediatico voluto dai servi che come tali non sono in grado di giudicarci davvero anche perché se solo potessero capire sarebbero al nostro fianco sulle barricate a combattere il sistema…
Tutti dovremo fare un poco, perché pochi non debbano fare e dare tutto, libertà o la vita!
Partiamo dal punto che siamo nemici del “presente”, illogico, corrotto, marcio ma soprattutto autoritario. Siamo nemici del capitalismo, di chi ci governa in ogni sua forma – che sia “democrazia”, dittatura o religione di stato. Siamo nemici dei media, dei servi, dei padroni e dei religiosi.
Nemici del capitalismo che crea e nutre diseguaglianza ed ingiustizie sociali, che annulla la bellezza delle differenza e diversità socio/culturali, distrugge i valori umani, appiattisce il mondo rendendolo grigio, privo di sfumature e colori, sfruttando, distruggendo e corrompendo il pianeta e le umanità agendo come un virus globale.
Nemici delle religioni che illudono e convincono le genti a non assaporare e gustare a fondo la vita “terrena”, ma a sopravvivere accettando schiavitù, dolore e privazioni – tanto la vita “eterna”, il paradiso, quello vero, saranno dopo la morte.
Nemici dei media perché imbrogliano e manipolano la realtà al servizio e al soldo del padrone, costruendo elaborati “mondi di plastica” e arrivano là dove le religioni non riescono a colpire.
Tutti i giorni e tutte le notti, 24hsu24h siamo bombardati da radiazioni e onde elettromagnetiche; respiriamo aria avvelenata, mangiamo merda, cibo industriale, manipolato; beviamo acqua ricca di pesticidi e veleni.
Ci fanno credere di essere fortunati perché nati nella parte del mondo “civilizzato, ricco, evoluto”, ma non viviamo davvero, sopravviviamo sulle spalle di tre quarti dell’umanità che manteniamo in schiavitù, nella miseria, malattie, guerre e carestie che sono i veri punti di forza della “nostra industria”.
Il “primo mondo”, società neo-cannibale, che si nutre del sangue e delle carni del pianeta, bambin, donne, uomini del “resto del mondo”; inquina, sfrutta, stupra e bombarda.
Dentro di noi c’è solo voglia di lottare, distruggere, incendiare, di mandare in frantumi questo orribile, terribile, violento sistema.
Se magari in un corteo o di notte, qualcuno vestito di nero attacca una banca, una multinazionale, un’autoconcessionaria, la sede di qualche istituzione, ente, un lager per animali, un campo OGM, si difende attivamente o difende attivamente qualcun altro dalle “forze del DISordine” è solo per potersi ancora guardare allo specchio e dirsi che perlomeno non abbiamo subito passivamente.
L’adrenalina, la gioia, la liberazione, la “vita” di quei momenti è dentro di noi e per tutti voi!
Non tutti quelli al nostro fianco hanno un’idea politica, non c’è l’hanno ancora o magari non gli interessa neanche, a molti basta la gioia della “rivolta”.
Per molti di noi è giunto il momento di abbattere il sistema e tornare umani. Noi amiamo e questo amore ci spinge a distruggere questo sistema violento, neocannibale e virale.
Per la società “incivile” siamo soggetti violenti, pericolosi, ma vi rassicuriamo e assicuriamo; siamo persone tranquille, romantiche, sensibili; la nostra violenza è un miliardesimo di quella che subiamo, che subite, che subiscono miliardi di esseri viventi e non solo persone su questo pianeta.
Abbiamo accettato e goduto della nostra vera natura umana, comprendendo il significato di uguaglianza, libertà, fraternità umana; abbiamo smesso di subire passivamente.
Abbiamo accettato e capito che la vera ricchezza dell’uomo è la sua umanità in tutte le sue forme e diversità, in tutte le sue sfaccettature. La vera ricchezza del singolo è il suo “tempo libero”, quello da dedicare alle persone care, agli/alle ami*, ai/alle figli*, da dedicare alla cultura, ai viaggi, a se stessi, all’ozio, al divertimento.
Noi non deleghiamo, siamo pirat*, siamo uman*
“… Se è una pietra ad essere lanciata è un reato, ma se sono mille le pietre ad essere lanciate è un fatto politico. Se è un’auto ad essere incendiata è un reato, ma se sono mille le macchine incendiate è un fatto politico.” (Ulrike Meinhof)
Arrestati del 1° Maggio 2015 (di Francia, Spagna, Germania, Grecia, Italia) a fianco del Kurdistan… sino alla morte!
Un saluto ed un abbraccio forte a tutto il collettivo, Andrea.
12 dicembre 2015
Andrea Casieri, p.za Filangieri, 2 – 20123 Milano
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Resoconto del presidio sotto san vittore del 19 dicembre
Preceduto dal volantinaggio rivolto ai famigliari che si recavano ai colloqui, avvenuto anche il sabato precedente, si è svolta nel primo pomeriggio una manifestazione nelle strade e mercato adiacente il carcere di S. Vittore. Nel volantino riportato sotto sono espressi gli scopi della manifestazione.
Il corteo aperto dallo striscione “Il Primo maggio c’eravamo tutti – liberi tutti”, seguito da un altro titolato, “Il capitale saccheggia le nostre vite: devastiamolo”, è riuscito ad aprire una comunicazione diretta con la gente al punto che, una signora a far le compere al mercato, in seguito a un intervento sulla lotta per la casa, ha preso il microfono e ha urlato: “Sì, anche a Quinto Romano (quartiere di Milano-ovest) dove abito, ci sono 30 case tenute vuote da ‘questi delinquenti’ (indicando polizia e carabinieri), mio nipote con quattro figli ha occupato lì un appartamento, ‘questi delinquenti’ dopo qualche giorno hanno buttato fuori l’intera famiglia”…
Gli interventi hanno spaziato dalla lotta per la casa con riferimenti alla legge regionale lombarda, di prossima approvazione, che cancellerà l’edilizia popolare a favore del business privato; alla guerra condotta dai paesi NATO in primis; alla rivendicazione della giusta opposizione ad EXPO, al suo saccheggio di risorse e alle condizioni di lavoro capestro che ha imposto.
In alcuni interventi sono state riportate esperienze di lotta avvenute in altre carceri, in particolare a Venezia S. Maria Maggiore, con il sostegno e la solidarietà della mobilitazione esterna; in altri è stata sottolineata la gravità del divieto di ricevere libri, opuscoli, riviste per chi chiuso nelle sezioni del 41bis, soprattutto perché quanto sperimentato in quelle sezioni prima o poi diventa prassi nella gran parte delle carceri. Ad esempio, per avere accesso alla liberazione anticipata nel carcere di Opera (dove è presente una sezione 41bis composta da oltre 100 prigionieri), si è sottoposti a prepotenze e angherie provate e persino legalizzate da quella realtà.
Polizia, carabinieri, guardie carcerarie hanno cercato in più modi di sabotare la manifestazione, la più grave, secondo noi, è stata quella di impedire ai famigliari che avevano ultimato i colloqui di uscire per prendere parte al corteo. Uno di loro è riuscito comunque a raggiungere e a informare il corteo del “sequestro di persona” subito.
In ogni caso la comunicazione, fra interno-esterno, è stata reciproca, per esempio, dalle sbarre di una cella del 3° raggio è uscito un cartone con la scritta “Libertà”.
Sul finire sono stati incollati su un muro visibile dal 3° manifesti dipinti a mano con scritto “Scateniamoli”, “Liberi tutti”. Prima di sciogliersi sono stati accesi tanti e belli fuochi d’artificio. Segue il volantino diffuso prima e durante la giornata.
Milano, dicembre 2015
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IL PRIMO MAGGIO C’ERAVAMO TUTTI
Sabato 19 dicembre dalle ore 12 presidio itinerante attorno alle mura di San Vittore,
in solidarietà con i compagni arrestati per la manifestazione No Expo del primo maggio a Milano e con tutti i detenuti/e che lottano nel carcere di San Vittore (appuntamento in via Olivetani angolo v. le Papiniano).
Siamo con gli arrestati per la manifestazione no expo del 1° maggio a milano
Giovedì 12 novembre vengono arrestati 4 compagni italiani e 5 compagni greci per aver partecipato alla manifestazione no Expo del primo maggio a Milano, due di loro sono ancora in carcere a San Vittore, gli altri da giovedì 10 dicembre sono agli arresti domiciliari e per i cinque studenti greci, ora con l’obbligo di firma, è stata chiesta l’estradizione in Italia che, se dovesse essere accettata, li consegnerebbe al carcere preventivo in Italia.
L’accusa per tutti è di “devastazione e saccheggio”, reato che negli ultimi anni è stato più volte utilizzato per reprimere manifestazioni di piazza, il quale prevede dagli 8 ai 15 anni di carcere.
Solidarietà a chi è colpito dall’accusa di “devastazione e saccheggio”
Per aver preso parte alla manifestazione antifascista a Cremona il 24 gennaio scorso a seguito del grave ferimento di un compagno di Cremona per mano fascista, alla manifestazione contro le politiche “anticrisi” dell’UE del 15 ottobre 2011 a Roma, senza dimenticare chi è ancora in galera o latitante per le giornate di Genova 2001 contro il vertice G8.
Contro leggi speciali e stato di emergenza
Con il pretesto del “terrorismo islamico” (conseguenza diretta delle guerre di aggressione della NATO in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia…) vengono disposte leggi speciali dai governi di tutta Europa, dirette a impedire ogni manifestazione che possa intralciare le loro ricette “anticrisi” condite da precarietà e sfruttamento.
Emergenza significa militarizzazione delle città, applicazione di “misure preventive” nei confronti di chi scende in piazza (fogli di via, sorveglianza speciale, obbligo di dimora…), criminalizzazione delle lotte, aggravamento delle condanne e carcere preventivo. Tutto ciò col passare del tempo diventa normalità, come la realtà conferma.
Siamo con chi in carcere lotta
Contro i sempre più frequenti casi di morte che avvengono all’interno delle carceri, causate dai pestaggi delle guardie, dalla privazione delle cure sanitarie e dall’isolamento.
Contro il sistema punitivo-premiale fondato su ricatti e rappresaglie che, sia dentro come fuori, cerca di rompere i legami di solidarietà necessari per resistere e lottare. Un meccanismo che, tanto noto quanto purtroppo taciuto, grava anche sui familiari delle persone detenute.
Per la lotta comune contro lo stato di emergenza in ogni ambito della società, carcere compreso. Libertà per tutti e tutte!
Dicembre 2015
Complici e solidali con gli arrestati del primo maggio
lettera aperta dal carcere di rebibbia (rm)
Ciao a tutti, sono Francesco Puglisi detto Gimmy. Mi trovo in carcere dal 4 giugno 2013 dopo quasi un anno di latitanza perchè fuggito assieme alla mia compagna, Paola Ferla. Sono stato arrestato in Spagna, precisamente a Barcellona. Ora posso dirlo pubblicamente che sono andato via dall'Italia con la mia compagna anziché andarci con i miei piedi in galera. Perchè vi scrivo il tutto in quanto il 24 ottobre scorso la mia amata e libertaria Paola Ferla è morta... (lei non è morta... vive e lotta accanto a me!!). Proprio a Genova. Assurdo!!
Sono stato condannato in via definitiva a 14 anni dopo più di 10 anni di agonia di udienze su udienze. Ho preferito non andare per via rito abbreviato o patteggiamento ma con rito normale. Sicuramente avrei preso molto di meno perchè reoconfesso (sempre su di me!). Immaginate che la procura di Genova mi contestava 7 attentati. Io me ne sono accollati ben 14! Perchè per natura minchiate io non ne sparo. Dico sempre la verità, ovviamente a mio sfavore. E' giusto? E' sbagliato? Sono così... L'importante è non accusare gli altri! Io la vedo così!
Vi scrivo non per parlare di Genova G8 perchè a mio parere ormai per noi in galera non ci sta più niente da fare almeno parlo su di me... la galera mi devo fare e me la faccio. No Problem!! Ma vi scrivo perchè ad oggi i familiari Ferla non hanno ricevuto neppure 1 euro per coprire le spese del funerale. Che sono di 6 mila euro. Trasporto della Paola da Genova a Canicattini bagni (provincia di Siracusa). Capisco che li fuori è difficile ed ognuno tiene anche i suoi problemi, ognuno purtroppo ha le sue... però chiedo uno sforzo a tutti i compagni e compagne anarchici, antifascisti, libertari, simpatizzanti e gente qualunque, insomma tutti possono contribuire alla causa e fanno un azione rivoluzionaria perchè anche sostenere un funerale di una compagna di un compagno in galera per fatti collettivi che riguardano a tutti è un'azione rivoluzionaria.
Perchè a quanto pare per qualcuno sostenere i famigliari dei detenuti politici o un funerale è da crocerossini... non è così! Se si parla di internazionalismo per la liberazione dei popoli in lotta e poi non si riesce o non si vuole stare accanto a una persona distante a un pelo da noi. Questa allora è sola ipocrisia se è davvero così!
Ma vi parlo 2 righe precise per come ci siamo conosciuti con Paola. Ci siamo conosciuti il 24/25 aprile 2006 durante una festa antifascista organizzata dai totally anark sound system presso lo storico centro sociale occupato “Guernica Fabrik”. Da quella data non ci siamo più separati. A fianco a fianco 24h/24h con occupazioni, taz, party presso centri sociali anche con benefit, processi per i fatti del G8 di Genova... sempre assieme! Soprattutto l'eroica latitanza a fianco a me e non è una cosa da poco! Mi ha finanziato con i suoi soldi di invalidità la libertà assoluta. Onore a lei sempre e comunque!
In realtà sapevamo benissimo che prima o poi mi beccavano ma è stato il principio del non separarci mai! Fino alla fine! Non ho rancori di averlo fatto perchè sono stato 1 anno in più con la mia amata Paola. Per me è stata una perdita inquantificabile che ancora ad oggi non ci credo ma ci devo credere perchè questa è la realtà e non si può cambiare... però si possono fare delle opere rivoluzionarie per attenuare e alleggerire sia il mio dolore che quello dei famigliari Ferla perchè veri proletari! E' vero!!
Le spese da coprire sono di 6mila euro! Io mi ritengo una persona umile e rispettosa verso i compagni che ad oggi mi hanno sostenuto incondizionatamente e infatti li ringrazio di cuore prendo infatti l'occasione per poterlo fare, con i loro benefit con concerti, aperitivi cene ed altro!
Non c'è bisogno di fare nome e cognome ognuno sa se ha fatto opere rivoluzionarie oppure se ha fatto i propri cazzi. Ma non voglio dilungarmi più di tanto su quest'ultimo discorso. Chi mi vuole capire capisce come si dice nel mio paese “a mezza parola”! Da più di un mese che faccio economia più di prima (perchè rispetto i soldi dei compa!) questo anche grazie che sono in cella singola. E ho potuto inviare lo scorso venerdì dal mio conto 300 euro a mia madre (vedova del marito e di un figlio e di quasi una figlia Paola solo per una questione di sangue) da dividere coi famigliari proletari Ferla. Non me ne vergogno, sto facendo risparmi, mangio dal carrello perchè almeno io posso ma mia madre neppure quello perchè la spesa non può quasi farla. Io qua affitto e luce non ne pago lei sì! Perchè è in affitto! Non me ne vergogno, la povertà non è una vergogna. Vergognose sono altre cose! Ne vado fiero di essere, nonostante tutto, sempre io!
Questo comunicato è rivolto a tutti, tutti tutti, a dj set, gruppi musicali, artisti, tutti tutti, anche ai 99 posse, a Luca Zulù che è una persona di cuore che in passato mi è stato solidale. Vi prego di non fare i vaghi e farvi i cazzi propri con moralismi non mi sembra più il caso! Ognuno può contribuire se vuole per davvero e non caricare di spese ai compagni o associazioni che già si sbattono per noi detenuti. Io di cuore ve lo dico mi accollo tutto, 14 anni per un corteo, carcere per altri, 1 colloquio forse ogni 6 mesi, che il magistrato non mi manda né al funerlae né al cimitero perchè sono del G8! Ok! Che mia madre viene sostenuta ogni morte di papa, per dire va da qualche compagna o compagno infatti non ho parole per loro! Meritano il mio rispetto! Ma non mi accollo che non vengano sostenute le spese per Paola. Questa cosa non esiste! Capisco che è anche difficile li fuori ma non giustifico.
Non c'è una scadenza per cui ci sta tutto il tempo di organizzarsi e fare cose giuste e anche ogni singola persona può contribuire anche con pochi euro. Se sostenete le spese di Paola, aiutate mia madre, fate un azione rivoluzionaria, fidatevi di me! Avrete rispetto della mia persona e starete bene dentro di voi!
Io sono nato e cresciuto nel quartiere San Cristoforo di Catania (e i compagni catanesi lo sanno benissimo) tra l'altro mia madre ci abita tutt'oggi... oltre che considerarmi un libertario i mafiosi mi fanno schifo perchè sono peggio dei fascisti in molte cose e lo dico per esperienze passate sulla propria pelle! Stop. Però su una cosa li ammiro oltre nel sostenere i detenuti dei loro clan sostengono i familiari e a maggio ragione quando si parla di un funerale! Perchè? Io dico non dobbiamo essere così? Perchè? Perchè? Forse per qualcuno non è rivoluzionario farlo? E poi parliamo di libertà ed uguaglinza! Però a questo punto a convenienza! Io eventualmente se a qualcuno non piace quello che sto scrivendo accetto eventuali critiche senza rancori.
Io dopo la morte della Paola... non ho più obiettivi facevo tutto in prospettiva per lei e i nostro futuro perchè la latitanza mi ha legato da morire! Ma ho delle missioni da fare oltre quello che ho scritto perchè quando uscirò e finirò i 3 anni di sorveglianza speciale... avendo un'arma nelle mani è quella della musica perchè oltre ad avere ancora conservato il sound system dei totally anark con tutto l'occorrente per fare feste.
Userò la mia arma musicale per i familiari Ferla perchè gli farò un grande telone da mettere dietro le casse del suo viso proprio carino! Queste sono le mie missioni finchè vivrò in questo mondo e poi raggiungerò la Paola nella sua stravita dove ora si trova!
Il 12 gennaio 2016 sarò al tribunale di Genova per una camera di consiglio per continuazione di die arresti politici per esplosivo nel 2000 e i fatti di Genova nel 2001. Spero che mi calano qualcosa. Questo anche grazie al lavoro dei miei avvocati, su tutti l'avvocatessa Caterina Calia del foro di Roma che ancora non gli ho potuto dare 1 euro!
Perciò ho deciso di mettere solo un indirizzo per spedizione soldi:
Pace Giuditta, Via Zurria 37 - 95100 catania.
E' l'indirizzo di mia madre, lei poi provvederà nel dividere i soldi in primis per i familiari Ferla, per lei e avvocatessa Calia.
Più avanti farò avere un numero di PostePay. Io stesso aggiornerò con la mia penna i soldi ricevuti. Allego una letterina ricevuta dalla madre di Paola. Spero che almeno questa lettera (non la mia) colpisca molte teste!
Finisco così perchè voglio ringraziare pubblicamente per nome e cognome, si chiama Sabrina Rapisarda di Catania che è stata l'unica assieme a mia madre ad andare al funerale. L'ho apprezzato tantissimo!
Ringrazio tutti i compagni/e sinceri che ad oggi mi hanno sostenuto. E mio fratello non di sangue che si sbatte pure lui per i colloqui. Scusate ho messo quest'ultimo perchè conosco così bene che come leggerà si gasa tutto! Stop. Non mi piace fare nomi!
Un abbraccio a tutti.
Nel cuore, Maurizio Bassetti e Marco Ferruzzi uccisi dalla vendetta di Stato!
Paola Ferla vive!!! Tu non sei morta...
Sei viva sei presente sempre accanto a me per l'eternità unico amore!!
Black love fino alla fine Paoletta!! Gimmy
9 dicembre 2015
Francesco Puglisi, via R. Majetti, 70 - 00156 Roma
No Tav fra continuazione della lotta e processi
Il 2 dicembre sono state rese pubbliche le motivazioni con cui la Corte di Cassazione, lo scorso 16 luglio, aveva giudicato che Lucio, Francesco e Graziano non dovessero essere rinchiusi in carcere per gli artt. 280 e 280bis, rispettivamente «attentato per finalità terroristiche o di eversione» e «atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi».
I giudici della prima sezione penale hanno valutato che quanto emerso finora, durante i due processi di primo grado relativi all’azione contro il cantiere del Tav di Chiomonte del maggio 2013, faccia escludere che gli autori di questo sabotaggio volessero attentare alla vita o anche solo all’integrità di chi in quel momento si trovava all’interno del cantiere, e questo rende per loro priva di ogni fondamento la contestazione dell’articolo 280. A rendere inconsistente il 280bis è invece la non idoneità di quel sabotaggio di arrecare un grave danno al Paese e costringere le istituzioni a rinunciare alla Torino-Lione, come richiede l’art. 270sexies affinché una determinata condotta possa essere giudicata terroristica. Non basta che gli autori perseguano quest’obiettivo, ma è necessario che le loro intenzioni si concretizzino in un’azione adeguata a conseguirlo.
Lo scorso 15 ottobre, il processo d’Appello contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò era stato rinviato proprio per consentire che fosse depositata questa sentenza.
5 dicembre, Giaglione. Inizia con un aperitivo ai cancelli di Chiomonte e una passeggiata notturna verso la Clarea la cinque giorni di lotta e iniziative per il decimo anniversario della presa da parte dei NoTav del cantiere di Venaus. Da Giaglione sono quasi duecento le persone che si avviano sul sentiero per raggiungere le reti del cantiere bene difeso dalla polizia che per l’occasione è anche fuori dai cancelli, sui sentieri alti rispetto a quello del corteo. Lungo il percorso diversi new jersey bloccano la via e le persone in corteo si concentrano in tre diversi presidi. Per ore la polizia lancia lacrimogeni e mostra i muscoli per allontanare i manifestanti, poi la situazione si tranquillizza fino alle quattro di notte quando vengono azionati gli idranti per scoraggiare i NoTav rimasti. Il presidio si prolungherà comunque fino al mattino seguente.
8 dicembre, Susa. Migliaia e migliaia di persone percorrono la strada che da Susa porta a Venaus nel decimo anniversario della ripresa dei territori in cui si sarebbe dovuto installare il cantiere del Tav. Lungo il percorso vengono calati diversi striscioni in solidarietà ai tanti NoTav inquisiti con un saluto caloroso ai sette indagati per terrorismo.
In testa al corteo lo striscione: “8 DICEMBRE - 8 DICEMBRE ORA COME ALLORA LA RESISTENZA CONTINUA ORA E SEMPRE NOTAV”
11 dicembre, aula bunker del carcere Le Vallette. Non doveva essere un’udienza con particolari colpi di scena, quella che ha aperto il processo d’Appello contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò per il sabotaggio contro la Torino-Lione del maggio 2013.
In discussione c’era principalmente la richiesta avanzata dalla Procura di riaprire il dibattimento e poter quindi introdurre una serie di testimoni e documenti. Ma nell’elencarli il procuratore generale Maddalena ha chiesto alla corte di far acquisire agli atti uno scambio di comunicazioni tra Questura e Prefettura relativo all’8 dicembre 2005. Non abbiamo sbagliato a scrivere la data, la Procura si riferiva proprio alla “battaglia di Venaus”, di cui da pochi giorni c’è stato il decennale, e che è stata ricordata in Valsusa con varie iniziative. Il motivo di questa richiesta è presto detto: quel giorno migliaia di NoTav riuscirono ad invadere l’area dove sorgeva l’allora cantiere, danneggiando le recinzioni e altri mezzi da lavoro presenti. Questo spinse le istituzioni ad abbandonare per alcuni anni i lavori e a cercare di intavolare alcune trattative nella speranza di far calmare un po’ le acque. La “battaglia di Venaus” è quindi un esempio preciso di una condotta violenta che ha costretto le istituzioni a non rispettare gli impegni presi in sede internazionale, un esempio preciso di un’iniziativa di lotta che ha costretto le istituzioni ad astenersi dal compiere un determinato atto, come recita l’ormai noto 270sexies. Sarebbe quindi da ricercare in quella giornata l’origine del male che ha portato al processo in corso.
Con la sua richiesta, il procuratore Maddalena abbandona il pudore e l’ipocrisia mostrati finora dai suoi colleghi Caselli, Rinaudo e Padalino e dichiara apertamente che ad essere accusati di terrorismo in questa inchiesta non è qualche anarchico che ha realizzato un sabotaggio, ma una lotta che si oppone alla costruzione di una ferrovia. E allargando un po’ lo sguardo, ogni lotta che si sforza di dare concretezza al proprio No. Niente di particolarmente nuovo, visto che questa posta in gioco è stata chiara sin da subito a chi si è schierato al fianco dei compagni arrestati, ma certo fa il suo effetto sentirlo affermare tanto candidamente da un procuratore in un’aula di tribunale.
Da segnalare poi che tra i documenti presentati da Maddalena c’era uno studio realizzato dall’Università Bocconi che illustra l’importanza strategica della Torino-Lione per l’Italia. Uno studio che già in altre occasioni la Procura aveva invano tentato di inserire nel processo e su cui non è indicato chi l’ha realizzato. Incuriositi da questo particolare, gli avvocati hanno appurato che a realizzarlo è stato un dipartimento dell’università milanese presieduto da una persona che non lavora più alla Bocconi ma che oggi siede nel consiglio d’amministrazione della Telt, la società che ha sostituito Ltf nella direzione dei lavori della “Torino-Lione”.
L’udienza è terminata nel pomeriggio quando la corte ha respinto tutte le richieste della Procura. Tutte le udienze si terranno nell’Aula Bunker del carcere delle Vallette visto che la corte non ha accettato la richiesta di uno degli avvocati di ritrasferire il processo al Palazzo di Giustizia di Torino.
14 dicembre, aula bunker del carcere Le Vallette. Un’altra lezione di educazione civica è stata impartita dal procuratore generale Marcello Maddalena. Questa volta, nella sua requisitoria, Maddalena ci illustra qual è il grave danno che questo sabotaggio poteva arrecare al Paese. Cosa, insomma, rende questo sabotaggio un atto terroristico. Non sono solo, o meglio, non sono tanto i danni economici prodotti in quella notte o le spese che lo Stato ha dovuto sostenere per tentar di garantire la sicurezza del cantiere, e non è neanche il danno che, a livello strategico, economico e d’immagine, l’Italia subirebbe dalla non realizzazione dell’opera. Il grave danno va ricercato più a monte, nell’impossibilità per lo Stato di fare il proprio lavoro.
Per illustrare il suo pensiero, Maddalena fa riferimento a Matteo Renzi, che da segretario del Pd aveva più volte definito inutile la “Torino-Lione” senza però rinunciare alla sua realizzazione una volta diventato presidente del consiglio. E sarebbe sbagliato, avverte il procuratore, pensare che Renzi abbia cambiato valutazione sull’opera. Molto più probabile che si sia invece reso conto che abbandonare il progetto della “Torino-Lione” avrebbe significato dar ragione a chi lotta.
In ballo non ci sono quindi più i pro e i contro di questo tratto dell’Alta Velocità.
L’oggetto del contendere non è più un treno. La posta in gioco è la facoltà, riservata allo Stato, di imporre le proprie decisioni. Il fondamento su cui si basa la democrazia. Ed è la messa in discussione di questo presupposto che rende terroristica l’azione del maggio 2013. Questo il nocciolo della lezione tenuta da Maddalena, al termine della quale ha chiesto che i quattro compagni siano condannati a 9 anni e 6 mesi.
La stessa richiesta di pena avanzata dall’accusa in primo grado.
21 dicembre, aula bunker del carcere Le Vallette. E’ il giorno di sentenza per il processo d’appello di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, dopo le udienze a ritmo incalzante delle ultime settimane. Un folto gruppo di solidali si è trovato anche stamane per un saluto caloroso ai quattro e per aspettare insieme l’esito del secondo grado di giudizio fuori dall’aula bunker: qualche banchetto informativo, musica e un bicchiere di vin brulé per scaldarsi in mezzo alla caligine.
Non sono tardate ad arrivare notizie da dentro sulla linea accusatoria tenuta anche in quest’ultima giornata: il procuratore generale Maddalena ha voluto deliziare tutti collegando in maniera eufemisticamente balzana alcuni episodi storici inerenti al suo concetto di terrorismo. E così con un accenno all’episodio fatale del traliccio di Feltrinelli, uno alle bombe dei NAR sui treni, uno al cerchio e uno alla botte, ha reso palesi le sue ispirazioni derivanti dai fratelli Grimm più che da una puntualità storiografica.
Lasciando da parte l’argomentazione sui generis, il succo della questione è stato quello di cui vi avevamo già parlato e che è stato il filo conduttore di queste ultime udienze: ancor prima che sulla base del giudizio su un atto specifico, per il procuratore, il terrorismo dovrebbe essere giustificato in base agli effetti che una determinata azione ha sulle decisioni dello Stato. In soldoni, se una lotta diventa efficace tanto da far retrocedere i governanti rispetto a una decisione presa, si dovrebbe entrare a piè pari nel campo del terrorismo.
Le parole di Maddalena non hanno scalfito il morale e sia dentro che fuori è stato buono, soprattutto quando, ritirata la corte per deliberare, i quattro compagni sono potuti uscir fuori. Qualche ora con amici e solidali a godersi un po’ di sole pomeridiano seppur immersi nell’ostilità di quel luogo.
La sentenza prevista per le 15 ha tardato di circa mezz’ora e quando è arrivata ha confermato quella del primo grado: tre anni e sei mesi e nuovamente il rigetto dell’accusa di terrorismo. Per maggiori chiarimenti sarà necessario aspettare le motivazioni ma ci vorrà un po’ di tempo. Intanto ci stringiamo ancora una volta attorno a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, non traendo nessuna spinta motivazionale nelle sentenze di tribunale.
dicembre 2015, liberamente tratti da autistici.org/macerie
Le vere cause della crisi delle banche popolari
La tragica vicenda del pensionato suicida di Civitavecchia e la disperazione di centinaia di obbligazionisti delle quattro banche (Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Cassa di Risparmio di Chieti) che, a seguito del Decreto "Salva Banche" del Governo Renzi, hanno visto azzerati i loro risparmi costituiti da obbligazioni subordinate, hanno suscitato un forte dibattito politico ed economico. In assenza di una analisi più approfondita tale dibattito rischia di rimanere schiacciato nella cronaca mediatica e nella polemica funzionale alla Lega di Salvini, che, non a caso, ha immediatamente organizzato una manifestazione ad Arezzo, sede della Banca Etruria, a difesa dei risparmiatori danneggiati.
Questa vicenda, a nostro avviso, non parla solo di speculazione finanziaria o di comportamenti perseguibili penalmente, ma soprattutto dei profondi cambiamenti che interessano ed interesseranno il sistema bancario italiano ed europeo da qui al 2019, data di nascita di quella Capital Market Union che è un altro pilastro della integrazione valutaria, economica e finanziaria dell'area Euro.
A maggio del 2015, nelle sue Considerazioni finali, il Governatore di Banca d'Italia elencava chiaramente i cambiamenti epocali a cui sarebbe andato incontro il sistema bancario e finanziario italiano: dall'accelerazione delle aggregazioni delle banche popolari e di credito cooperativo, alla nascita di una o più bad bank per la gestione dei crediti deteriorati o in sofferenza, stimati in circa 350mld di euro; dalla velocizzazione delle procedure di recupero dei crediti, alla nuova funzione finanziaria di Cassa Depositi e Prestiti (che ricordiamo utilizza il risparmio postale) e infine al meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto Bail-in, appunto. Tale istituto normativo, opposto al Bail-out, ossia al ricorso di fondi pubblici per sanare le crisi delle banche e che ha visto negli scorsi anni destinare alle banche europee in difficoltà circa 800mld di euro, nasce sulla base di direttive comunitarie che sanciscono il principio che ad una crisi di una banca devono esserne chiamati a rispondere azionisti e obbligazionisti subordinati e non garantiti, escludendo i depositi fino a 100mila euro.
Quello che si è verificato in Italia in queste settimane, in cui gli obbligazionisti delle quattro banche hanno perso i loro risparmi stimati in circa 800 milioni di euro, è quindi la prima applicazione pratica di una norma europea che entrerà in vigore nel 2016 e che segue un percorso di trasformazione che va avanti dagli anni ‘90, da quando cioè si è aperta in Italia, parallelamente al processo di costruzione dell'UE, la stagione delle privatizzazioni delle banche e la loro aggregazione in pochi grandi gruppi, con la conseguente riallocazione del risparmio privato e non solo (ad esempio quote di salario differito con la nascita dei fondi pensione privati nel 1995 ad opera del governo Dini), a sostegno dei mercati finanziari.
Il Governo Renzi, colpito nelle regioni di storico consenso per il PD oltre che nella stessa compagine governativa nella figura del ministro Boschi, sta rispondendo a questa situazione da una parte aprendo una vertenza con l'UE per il rimborso di una quota minima delle perdite dei risparmiatori, dall'altro provando a scaricare la responsabilità su qualche funzionario truffatore di banca. Sicuramente c'è da riconoscere che non hanno funzionato adeguatamente i meccanismi di vigilanza degli organi di controllo sia esterni che interni alle banche coinvolte, nonostante esistano le norme per prevenire abusi in sede di collocamento di prodotti finanziari. Ma, come denunciano da anni i sindacati dei bancari, nella pratica lavorativa quotidiana sussistono pressioni commerciali inaudite, anche con vessazioni, ricatti e violazioni degli istituti contrattuali. Tali politiche commerciali impongono risultati immediati nella vendita di prodotti finanziari, ad alto ritorno economico per il bilancio di una banca, ma molto spesso complessi, rischiosi e collocati disattendendo leggi e normative previste. I rapporti di classe sfavorevoli si esplicitano anche in questo aspetto, ossia nella ricattabilità dei lavoratori di banca in una fase di perdurante crisi economica che, nel caso specifico, ha fatto sì che lavoratori e pensionati vedessero andare in fumo i risparmi di una vita.
Ma un altro aspetto a cui sta pensando il governo è velocizzare quanto ricordato dal Governatore Ignazio Visco: ovvero il processo di riforma del settore per imporre una aggregazione fortissima delle banche popolari e di credito cooperativo, storicamente funzionali alla riallocazione di risorse finanziarie verso le comunità territoriali e le imprese locali.
Per Visco infatti "la forma cooperativa ha limitato il vaglio da parte degli investitori e ha ostacolato la capacità di accedere con tempestività al mercato dei capitali, in alcuni momenti cruciali per far fronte a shock esterni. La riforma faciliterà lo svolgimento efficiente dell'attività di intermediazione creditizia in un mercato reso più competitivo dall'Unione bancaria". Inoltre "vanno perseguite forme di integrazione basate sull'appartenenza a gruppi bancari" [1].
In sintesi si apre una riforma del settore bancario funzionale ad una ristrutturazione dei poteri. Si chiude la fase del bancocentrismo per arrivare all'unione dei mercati dei capitali, spostando quindi il baricentro della allocazione dei capitali dalle banche a mercati finanziari sempre più integrati ed evoluti.
Quanto sta accadendo sul piano bancario e finanziario è strettamente collegato ai processi di trasformazione dell'accumulazione capitalistica, che comporta la ristrutturazione del sistema di produzione e circolazione delle merci. Il capitalismo attuale, nei Paesi cosiddetti sviluppati, è sempre meno legato all'economia domestica dei singoli Paesi e sempre di più all'economia globale. Di conseguenza, le imprese si sono internazionalizzate, spostando il proprio baricentro dai Paesi di origine al mercato mondiale. In concreto ciò significa che la realizzazione del profitto avviene in misura maggiore grazie alla esportazione di merci e agli investimenti di capitale all'estero. Tale tendenza ha subito una accelerazione con la crisi scoppiata nel 2007 e con le misure europee di austerity.
In presenza di una domanda interna ormai strutturalmente debole, a causa di un mercato e di un Pil domestici stagnanti, le imprese che sopravvivono sono quelle orientate all'export e che delocalizzano la produzione dove i costi sono inferiori. In questo contesto rientrano anche le massicce campagne di fusione e acquisizione di imprese all'estero, che permettono alle imprese di collocarsi nei mercati più ricchi e soprattutto di realizzare economie di scala maggiori, riducendo i costi fissi. La Fiat, che si è trasformata in Fca dopo la fusione con Chrysler e che ha spostato la sua sede legale e fiscale rispettivamente in Olanda e Gran Bretagna, rappresenta un esempio emblematico di quanto questo processo sia in stato avanzato anche in Italia. Ma è tutta la struttura industriale italiana che si sta trasformando, comprese le medie imprese manifatturiere, che ne rappresentano l'ossatura. Anche tali imprese, per potersi adeguare al capitalismo globalizzato, devono aumentare le loro dimensioni e investire all'estero. Tutto ciò richiede stabilità finanziaria e disponibilità di capitali che possono essere reperiti sul mercato finanziario nazionale e internazionale attraverso la quotazione in borsa.
Lo Stato e segnatamente il governo Renzi stanno operando per assecondare e facilitare l'internazionalizzazione delle imprese mediante la modificazione della struttura finanziaria e quindi bancaria del nostro Paese. In questo senso sono significative le parole di Claudio Costamagna, presidente della Cassa depositi e prestiti che è il maggiore investitore nazionale a controllo statale: "Ma quelle aziende che hanno le capacità e soprattutto l'ambizione di voler crescere hanno bisogno di capitale di equity e non di debito. Noi siamo disponibili a mettere capitale azionario […] e poi a portarle più velocemente possibile sul mercato. Non è possibile che nella Borsa italiana l'80% sia in mano a servizi finanziari e utilities, l'industria sia il 25% sulla capitalizzazione del mercato italiano e siamo il secondo Paese manifatturiero dell'Europa" [2].
Ciò significa che le imprese si devono fondare soprattutto sul capitale azionario proprio, di equity, e non sul capitale preso a prestito cioè proveniente dalle banche. A questo riguardo quali sono gli assi dell'intervento dello Stato? Uno di essi è senza dubbio rappresentato dalla riforma della borsa e del sistema bancario, a partire dalla trasformazione del credito cooperativo tradizionale, le banche popolari, in Spa e dalla loro aggregazione in pochi e più grandi gruppi. È tale trasformazione che ha fatto venire a galla la situazione di difficoltà in cui versano alcune di queste banche.
[...] pochi hanno ricordato che la legge bancaria del 1936 risalente alla Grande Depressione, imponeva la separazione tra banche retail e banche d'affari, impedendo alle banche di riunire in sé l'attività di raccolta del risparmio al dettaglio e il finanziamento alle imprese. Ebbene, tale legge è stata abolita nel corso del processo di liberalizzazione dei mercati finanziari partito negli anni ‘90, insieme alla privatizzazione del sistema bancario italiano, un tempo in gran parte sotto il controllo pubblico.
Le vicende legate allo scandalo Parmalat rimandano a questa trasformazione, mentre quelle legate alle banche popolari ne sono solo l'esempio più recente. Infatti, la Banca dell'Etruria e le altre popolari sono di fatto collassate sotto il peso di una serie di operazioni di prestito a imprese in fallimento, che hanno cercato di compensare con l'emissione di obbligazioni ai piccoli clienti della banca.
Gli effetti negativi della abolizione della legislazione degli anni Trenta sono stati accentuati dalla crisi scoppiata nel 2007. Questa, da una parte, ha messo in difficoltà il tessuto economico – composto specialmente da piccole e medie imprese (Pmi) – cui facevano riferimento le banche popolari e, dall'altra parte, ha generato, nel tentativo di tamponare la crisi, l'immissione nel sistema bancario da parte della Bce di una massa di liquidità che è andata a incentivare le attività speculative delle banche in difficoltà, come è sempre il caso di Banca Etruria, che si è riempita di titoli di stato nel tentativo di compensare i crediti in sofferenza.
I governi e le istituzioni europee sono consapevoli della massa di crediti inesigibili detenuti dal sistema bancario, ed è per questo che stanno favorendo un processo di eliminazione dei rami secchi. Il problema è che il costo di tale razionalizzazione adesso si scarica sui lavoratori bancari e sui lavoratori in generale nella veste di piccoli risparmiatori. Infatti, la riforma si è accompagnata alla accettazione da parte dei governi italiani delle normative europee che vietano qualsiasi intervento dello Stato a sostegno dei correntisti e obbligazionisti. In particolare, il governo Renzi, recependo le normative europee, ha introdotto una normativa che scarica i costi di questa razionalizzazione del sistema bancario su chi sottoscrive le obbligazioni e sui correntisti. Dunque, la polemica di Renzi contro la Merkel sulla questione bancaria appare del tutto strumentale nel tentativo di lavarsi le mani dalle proprie responsabilità.
Comunque, il nodo attorno a cui ruota tutto il processo di trasformazione della struttura finanziaria del nostro Paese è la costruzione dell'unione finanziaria europea, ultimo tassello del processo di integrazione economica europea. L'unione finanziaria e la costruzione di un mercato unico europeo dei capitali mira allo spostamento del risparmio dal debito pubblico, cioè dal finanziamento allo Stato, attraverso l'acquisto di titoli del tesoro, ai mercati finanziari cioè al finanziamento alle imprese cioè al capitale privato attraverso l'acquisto di azioni e obbligazioni.
L'intima essenza di questo processo è profondamente reazionaria e ha implicazioni pesantemente negative. In primo luogo la volontà di drenare quote maggiori di risparmio nazionale verso il capitale e verso i mercati finanziari (attraverso fondi di investimento e operatori finanziari di vario tipo) ha fortemente contribuito a far sì che le istituzioni europee, dalla Commissione europea alla Bce, imponessero ai governi la riduzione dei debiti pubblici e di conseguenza la pratica di politiche di austerità e di draconiani tagli alla spesa sociale.
In secondo luogo, il processo di sviluppo dei mercati finanziari ha incentivato la privatizzazione delle imprese pubbliche e la loro quotazione in borsa, che ha determinato anche lo spostamento all'estero del controllo di parte del patrimonio di imprese e infrastrutture con conseguenze pesanti su occupazione e sviluppo economico.
In terzo luogo, precedentemente il risparmio dei lavoratori andando allo Stato non solo finanziava i programmi sociali e gli investimenti produttivi che creavano occupazione, ma fruttava anche interessi consistenti e sicuri ai piccoli risparmiatori. Se molte famiglie di salariati sono riuscite ad acquistare una abitazione e a garantirsi dei risparmi è stato anche grazie agli interessi sul debito pubblico. Infatti, il debito pubblico rappresentava uno dei collanti principali che tenevano insieme il blocco sociale keynesiano, su cui si basava il patto sociale della Prima repubblica, anche grazie alla remunerazione offerta dagli interessi sui titoli di stato.
Oggi, invece, l'investimento nei mercati finanziari non solo comporta, rispetto al debito pubblico, interessi a volte inferiori (come nel caso proprio delle obbligazioni subordinate di Banca Etruria e di altre banche nel 2011) e rischi sempre maggiori, come prova anche il dimezzamento dell'indice della borsa italiana dal 2001 ad oggi, ma soprattutto permette al capitale di legare politicamente e ideologicamente ai propri interessi generali una parte del lavoro salariato. In questo modo, il lavoratore viene contrapposto a sé stesso. Infatti, i lavoratori salariati, sotto la veste di risparmiatori, sono incentivati a condividere gli interessi del capitale, andando contro i loro interessi più generali, allargando così la base di consenso alle politiche di riduzione del debito pubblico e alla eliminazione del finanziamento ai programmi sociali e agli investimento pubblici.
Ciononostante, i mercati finanziari rappresentano una base certo reale ma più debole di convergenza tra il capitale e alcuni settori del lavoro salariato e del piccolo risparmio rispetto a quella su cui si basava la Prima repubblica attraverso il debito pubblico. Tale debolezza è dimostrata proprio dalla vicenda delle Popolari ed è connaturata ai meccanismi comunque rischiosi del risparmio gestito. Fra l'altro la natura delle obbligazioni di tipo subordinato, a causa delle quali i clienti di Banca Etruria hanno perso i loro risparmi, sono assimilabili più a capitale proprio azionario che a veri e propri prestiti [3]. Ad ogni modo, la massa del risparmio gestito a ottobre è arrivata alla cifra record di 1.816 miliardi di euro, che proviene in parte dalla fuga dai titoli di Stato, il cui rendimento si è abbassato grazie alle politiche europee, e che non è certo per intero nelle mani di famiglie ricche e benestanti. [...]
Note:
[1] Banca d'Italia, Considerazioni finali. Assemblea ordinaria dei partecipanti, Roma, 26 maggio 2015.
[2] “Venture Capital, export, equity e garanzie: così la Cdp promuoverà le imprese subito una leva da 1 miliardo”, Il Sole24ore, 19 dicembre 2015.
[3] Le obbligazioni subordinate, altrimenti dette junior per distinguerle dalle altre obbligazioni senior, sono emesse dalle aziende in quanto alternative alla più costosa emissione di azioni. In caso di fallimento il creditore viene soddisfatto dopo gli altri investitori senior. Il rischio di questo tipo di investimento è paragonabile a quello degli investimenti azionari.
22 dicembre 2015, estratti da resistenze.org