indice n.99
Che sta succedendo in Egitto?
KURDISTAN, NELL’OCCHIO DEL CICLONE (Seconda parte)
francia: Dover e Calais, una giornata di lotta contro i fascisti
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
IL RIARMO CONTROINSURREZIONALE DELL’EU
LETTERa DAL CARCERE DI PADOVA
da una Lettera dal carcere di Rossano Scalo (CS)
Lettera dal carcere di Monza
Lettera dai domiciliari
Lettera dal carcere di Velletri (RM)
LETTERA DAL CARCERE DI REBIBBIA (RM)
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
spagna: SOLIDARIETA’ CON LA LOTTA DI JOSE’ ANTUNEZ BECERRA
Lettera dal carcere di Pavia
Dal carcere di venezia: si scrive suicidio si legge omicidio
milano-OPERA: UN CARCERE SICURO DA MORIRE
lettere dal carcere di ferrara
lettera dal carcere di agrigento
proteste contro i rincari alle vallette di torino
lettera dal carcere psichiatrico di Lippstadt (Germania)
RILANCIAMO LA LOTTA ALLE NOCIVITÀ
Dal processone contro i notav
dal processo per i fatti di Roma del 15 ottobre 2011 a Roma
Milano, processo Ex-Cuem
Nuove edizioni, nuovo libro
Che sta succedendo in Egitto?
Il 12 gennaio circa 10 mila operai tessili di Mahalla erano scesi per l’ennesima volta in sciopero, per ottenere il pagamento del bonus annuale cui hanno diritto. Il bonus è da sempre parte integrante del salario operaio e la mancata concessione decurta pesantemente i redditi. Gli scioperanti sottolineavano che i mancati investimenti da parte del governo hanno reso inoperativi per il 25% gli impianti e, sommandosi con la recente decisione del governo di interrompere i finanziamenti alla produzione di cotone, fanno temere una riduzione della produzione tessile e un’ondata di licenziamenti. (Masr Indipendent 15 genn.’15). Dopo quattro giorni di sciopero gli operai hanno ottenuto alcune garanzie sia per il bonus che per l’occupazione.
Gli scioperi a Mahalla hanno spesso acceso la scintilla per agitazioni più ampie, nel 2008 come nel 2011. Gli operai hanno visto peggiorare le loro condizioni a partire dalle liberalizzazioni del 2003, perché da quel momento i licenziamenti risultarono molto più facili. Nel 2011 lo Scaf [1] ha introdotto forti limitazioni al diritto di sciopero, ma gli scioperi sono continuati. Le leggi recenti riducono il diritto di assemblea e di parola. In questo c’è una perfetta continuità fra Al Sisi e Morsi.
Gli scioperi di Mahalla di gennaio, come quello della mega acciaieria di Helwan in dicembre, sono la spia di una estesa situazione di regresso sociale. Un terzo dei giovani, che sono il 60% della popolazione, è disoccupato. Il 26% degli egiziani vive sotto la linea della povertà e il 40% ha un reddito di 2 $ al giorno. Il 31% dei bambini fra i 6 mesi e i 5 anni soffre di malnutrizione. Gli egiziani poveri seguono una dieta carente di proteine e vitamine e ricca di carboidrati, fra cui primeggia il kushari, piatto di maccheroni, riso, ceci e lenticchie, sugo di pomodoro e a volte cipolle fritte), per cui sono obesi e mal nutriti. Più ci si allontana dallacapitale e si procede verso Sud, più aumenta la povertà, aggravata dalla mancanza di assistenza sanitaria, strade e acqua potabile. I contadini non si possono permettere pesticidi e fertilizzanti, ma anche sementi selezionate. Alcuni lamentano che la fertile terra del Delta sia utilizzata per uno sviluppo incontrollato delle aree urbanizzate e non per l’agricoltura. Nell’antichità l’Egitto era il granaio del Mediterraneo, oggi importa il 60% del cibo, in particolare grano, zucchero, carne e olio alimentare.
Tra il 2012-2013 la produzione di cotone è calata dell’11% (Washington Times, 6 ott.’14). Molti giovani tentano di trovare lavoro in Libia, dove svolgono i lavori più umili e sottopagati; spesso vengono sequestrati dai contrapposti gruppi islamismi per ottenere un riscatto.
Il 25 gennaio nell’anniversario di piazza Tahrir 20 persone sono state uccise, 35 ferite: la foto dell’attivista socialista Shaimaa al-Sabbagh freddata dai cecchini ha fatto il giro del mondo, illustrando più di ogni discorso il livello di repressione attuale in Egitto, e confermando le accuse delle associazioni per i diritti civili.
A fine gennaio una serie di attentati simultanei nel Sinai uccide 27 fra soldati e poliziotti, 62 i feriti. In ottobre erano stati uccisi 30 poliziotti; il governo aveva deciso di creare da al-Arich a Rafah una zona cuscinetto, larga da 1,5 a 3 chilometri, che isolasse il Sinai dal confine con Gaza e neutralizzasse le uscite dei tunnel. Per ottenere questa “buffer zone” sono state distrutte centinaia di case. Gli attentati, compiuti con autobomba e artiglieria pesante, sono stati rivendicati dai guerriglieri di Ansar Beit al Maqdi, che in passato si definivano vendicatori dei Fratelli Mussulmani e che oggi dichiarano di appartenere allo “Stato Islamico”.
Gli abitanti del Sinai sono presi fra due fuochi, fra esercito e guerriglieri, ma la loro estrema povertà (uno su due vive con un reddito inferiore ai 2 $, li rende inevitabilmente sensibili ai richiami dei gruppi islamici. I beduini del Sinai non sono mai stati realmente integrati nello Stato egiziano, di cui conoscono solo la faccia repressiva. Ufficialmente lo Stato ha investito nel Sinai 20 miliardi di $, ma non se ne vede traccia. La stampa egiziana ha adottato una censura totale sugli avvenimenti in Sinai ed è impossibile conoscere l’evolversi degli avvenimenti, tranne le poche notizie che filtrano a Gaza. Del resto oltre ai giornalisti di Al Jazeera in Egitto sono detenuti molti giornalisti, fra cui uno che aveva osato ricordare in un suo programma la disfatta subita dall’Egitto della guerra del 1967. Molti osservatori si chiedono se questa strategia adottata dal governo sia adatta ad accrescere la sua popolarità fra la popolazione o invece non provochi la radicalizzazione di gruppi più o meno consistenti. Diciassette giornali, statali o privati, hanno firmato l’impegno di non dare notizie di nessuna manifestazione, perché si tratta di “incitazione alla violenza” (Al Jazeera, 30 genn.’15).
Migliaia di militanti che hanno contribuito alla caduta di Mubarak sono in prigione.
29 mila sono accusati di far parte dei Fratelli Mussulmani, ma in realtà sono spesso semplicemente oppositori sindacali o politici. E’ infatti utile al governo accusare indistintamente gli oppositori di “terrorismo” o di congiura islamica. Altri 12 mila sono accusati di scioperi o manifestazioni antigovernative. La semplice partecipazione a manifestazioni comporta condanne a molti anni di carcere. AFP del 12 gennaio informa che uno studente è stato condannato a 3 anni di carcere per ateismo (aveva dichiarato su Facebook le sue convinzioni).
Il colpo più grave il nuovo regime lo ha sferrato il 4 febbraio al Cairo. Ahmed Douma e 229 altri militanti del Movimento 6 aprile sono stati condannati all’ergastolo per sedizione; 39 minatori a 10 anni di carcere per “assembramento illegale” e “turbativa dell’ordine” per fatti avvenuti nel 2011.
In questa contesto va inserito l’episodio apparentemente diverso dei tifosi massacrati l’8 febbraio allo Stadio del Cairo, di proprietà del Ministero della Difesa. Le autorità hanno voluto presentarla come una normale operazione di polizia in cui si è cercato di mantenere l’ordine e, ahimè, 30 persone sono morte e un numero imprecisato è stato ferito. Secondo gli osservatori occidentali si è trattato invece di una resa dei conti con una società di tifosi, i White Knights, notoriamente politicizzati, che si erano spesi nel 2011 nelle manifestazioni di piazza Tahrir in difesa di studenti e lavoratori, perché più preparati allo scontro fisico con la polizia. Un’operazione analoga la polizia l’aveva condotta durante una partita nel 2012 a Port Said, che ha portato alla morte di 74 persone e al ferimento di 204, appartenenti a un altro gruppo di tifosi attivi nel 2011 in piazza Tahrir, cioè gli Al Ahly, anche loro del Cairo. Tutti i commentatori stranieri sottolineano che il livello di violenza della polizia fa misurare il grado di conflitto sociale potenziale presente nel paese. [...]
10 febbraio 2015, da combat-coc.org
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Il 25 gennaio, migliaia di persone sono scese in strada in memoria dell’inizio delle grandi manifestazioni del 2011 che fecero cadere il presidente Hosni Mubarak - al potere dal 1981 in seguito all'uccisione (compiuta da «radicali islamici») dell'allora presidente Anwar El-Sadat. (Mubarak, come i suoi predecessori Nasser e Sadat, proviene dalle fila delle forze armate).
La gran parte dei raggruppamenti dei gruppi islamici e della sinistra liberale scesi in strada in tutto il paese, sono stati attaccati in maniera brutale da esercito e polizia. Secondo informazioni ufficiali nella sola giornata di domenica sono state uccise negli scontri 23 persone e perlomeno 97 sono rimaste ferite. Le violenze più decise si sono verificate fra manifestanti islamici e forze di sicurezza in Matariya e Ain Shams quartieri-roccaforte della Fratellanza Musulmana situati rispettivamente a nord-est e a ovest della capitale - Il Cairo. Nel cuore di questi quartieri sono rimasti uccisi almeno 11 manifestanti e un poliziotto.
L’agenzia Reuter, riportando dall’interportale egiziano “Aswat Masriya” e riferendosi a queste morti, afferma che almeno cinque manifestanti sono stati uccisi da colpi di mitra sparati in testa. Sempre a Il Cairo, però sabato 24, è caduta a terra perché colpita mortalmente alla testa da pallini sparati da breve distanza, la 31enne Shaimaa Al-Sabbagh. Una decina di aderenti al Partito dell’Alleanza Popolare Socialista, che volevano deporre fiori nella vicina piazza Tharir (luogo simbolo dell’insurrezione che realizzò la caduta di Mubarak), sono stati allontanati con uguali spari. La morte di Al-Sabbagh ha suscitato un’ondata di indignazione e rafforzato la mobilitazione della sinistra liberale. La polizia ha sciolto con durezza una manifestazione dei gruppi della sinistra liberale organizzata davanti alla Casa dell’Associazione Giornalisti.
Uguali moti di strada erano esplosi nel tardo pomeriggio di sabato nelle città di Giza, Alessandria e Minya situata nell’Alto Egitto.
Mentre polizia ed esercito nell’aggredire i gruppi islamici hanno impiegato le munizioni vere e proprie, nei confronti delle manifestazioni dei movimenti secolari (laici) hanno adoperato i gas lacrimogeni, le pallottole di gomma e con i pallini.
Nel fare il bilancio delle giornate delle mobilitazioni in tutto il paese, il ministero dell’Interno parla, riferendosi alla sola area islamica, di 516 persone arrestate. Il “Movimento 6 Giugno” della sinistra liberale conferma l’arresto di cinque suoi membri. Intanto l’opposizione laica attende la scarcerazione di 550 prigionieri politici annunciata dal presidente Abdel Fattah Al-Sisi (anch'esso di carriera militare). La procura centrale la scorsa settimana ha a sua volta annunciato l’imminente scarcerazione di 100 studenti arrestati nell’autunno 2014 nel corso di manifestazioni organizzate nelle università di tutto il paese. Ma fino ad ora non è avvenuta e neppure è stata confermata alcuna di queste scarcerazioni.
L’indignazione tuttavia si è ulteriormente riscaldata a causa della scarcerazione, invece, dei due figli di Mubarak. A metà gennaio un tribunale de Il Cairo ha accolto la proposta d’appello dei figli, di riaprire il processo fondato sull’accusa di “sottrazione di denaro pubblico”. Gli avvocati in tal modo mirano dichiaratamente ad acquisire l’insufficienza di prove, in tal caso allora Mubarak e figli, giuridicamente, verrebbero completamente riabilitati.
da junglewelt.de, febbraio 2015
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libia: Uccisione di lavoratori egiziani di religione cristiana copta
I primi giorni di gennaio alcune fonti del governo libico riconosciuto internazionalmente, avevano confermato la notizia diffusa dall’agenzia di stampa egiziana Mena sul rapimento, attribuito agli islamisti di Ansar al-Sharia attivi a Bengasi, di un gruppo di 13 copti, che andavano a unirsi agli altri già in mano ai miliziani.
I sequestrati, saliti a 21,vennero definiti dagli jihadisti “crociati cristiani arrestati dai soldati dello Stato Islamico in diverse regioni della provincia di Tripoli”. I familiari dei rapiti e i rappresentanti della comunità copta del governatorato di Minya all’epoca confermarono l’autenticità delle foto.
I copti in Egitto costituiscono circa il 10% della popolazione, che in totale conta 80 milioni di persone. Nel mondo in tutto sono meno di 15 milioni di fedeli, e oltre all’Egitto si trovano in Etiopia ed Eritrea. La Chiesa copta è una chiesa cristiana facente parte di una della chiese uscite dal Concilio di Calcedonia del 451dc.
In risposta alle gole tagliate ai lavoratori copti sequestrati l’Egitto con il sostegno della Giordania ha bombardato con caccia F-16 alcuni luoghi di Tripoli, di Derna, città nel nord-oriente controllate ora direttamente da forze “islamiche”, dove sono anche atterrate truppe egiziane. Fra la popolazione le morti si contano a centinaia. Pur incon¬trando il favore di Rus¬sia e Fran¬cia, l’intervento egi¬ziano è stato accolto con fred¬dezza dagli stati NATO. Il governo italiano si barcamena per non allontanare la Libia intesa come paese confinante, consente all’Italia di instaurare rapporti, i più diversi.
da junglewelt.de, febbraio 2015
KURDISTAN, NELL’OCCHIO DEL CICLONE (Seconda parte)
Nella prima “puntata” di questo scritto (reperibile sul n. 95 dell’opuscolo), è stato affrontato il conflitto in atto nel Kurdistan attraverso una panoramica delle forze in campo: chi sono, cosa rappresentano, quali identità e progettualità incarnano.
In questa seconda parte, affronta quanto sta accadendo nella regione del Rojava (o Kurdistan occidentale, Siria del Nord) descrivendone i processi di autonomia popolare che malgrado tutto – malgrado la guerra, l’assedio dell’IS, l’embargo, l’isolamento – rappresenta una forza di rottura rilevante sia da un punto di vista militare che politico (in quanto radicale e concreta alternativa all’inferno fratricida a cui sembra essere condannato il Medio Oriente). Il testo è piuttosto lungo per l’opuscolo ma abbiamo preferito non spezzarlo ulteriormente in due puntate.
Rojava. La rivoluzione in marcia
Ciò che si sta realizzando nel Kurdistan occidentale non nasce dal nulla. L’autogoverno cantonale del Rojava si fonda, sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, sulla prospettiva politica elaborata dal PKK dalla fine degli anni Novanta a oggi: il «Confederalismo democratico».
Dal punto di vista filosofico, esso è il risultato del lungo percorso di riflessione teorica sostenuto principalmente dal presidente del PKK, Abdullah Ocalan (Apo). Dagli anni Novanta, il crollo dell’Unione sovietica e del mondo bipolare, il declino delle guerriglie anticoloniali e la globalizzazione neoliberista, conducono il PKK a un ripensamento radicale delle sue basi teoriche e a una profonda autocritica della propria organizzazione e dei suoi obiettivi. Non si tratta di una mera riformulazione tattica, ma di una critica radicale della «modernità capitalista» a partire dalle sue stesse fondamenta.
Nato come tipico partito marxista-leninista rivolto alla presa del potere in un’ottica di “liberazione nazionale” e di costruzione di uno Stato curdo indipendente e socialista, il PKK giunge ad abbandonare tale prospettiva, individuando anzi nello Stato-nazione il principale ostacolo alla liberazione. «Non ha senso sostituire le vecchie catene con catene nuove o persino potenziare la repressione. Questo è quello che la fondazione di uno Stato nazione significherebbe nel contesto della modernità capitalista», scrive Ocalan. Nel quadro del sistema dominante, non esiste sovranità nazionale possibile: «lo Stato nazione (…) è il governatore nazionale del sistema capitalistico a livello mondiale, un vassallo della modernità capitalista». Non solo. A partire da uno studio dell’intera parabola della civiltà umana, di quelle separazioni all’interno delle “comunità naturali” – presso i Sumeri in Mesopotamia – che hanno portato alla nascita della gerarchia, della religione, della schiavitù, della proprietà, delle classi, lo Stato viene individuato, in quanto potere autonomizzato, come un cancro che infetta la “società naturale”, la addomestica, la espropria, la disarma rendendola succube e alienata.
L’orizzonte della liberazione dell’umanità – come ricomposizione di un rapporto egualitario tra i suoi membri e di un equilibrio organico con la natura – non passa più dunque per la costruzione di un nuovo Stato ma, al contrario, in un processo di riappropriazione da parte della società di quel potere che le è stato confiscato dallo Stato. È dalla società, dal basso e non dall’alto, che bisogna ripartire, per dare protagonismo alle comunità e agli individui, costruendo reti federative di assemblee territoriali, di villaggio, di quartiere, che scalzino il monopolio del potere statale, disgregandone le strutture ed erodendone la legittimità fino a svuotarlo di senso.
L’«Autonomia democratica» è l’istituzione di questo sistema di auto-amministrazione fondato sul decentramento e la federazione dei nuclei decisionali locali, assemblee aperte a tutti gli abitanti, uomini e donne, di ogni appartenenza etnica, religiosa e nazionale. È ciò che Ocalan ha definito «autogoverno democratico», «amministrazione politica non-statuale o democrazia senza Stato», specificando che «la democratizzazione non è un fenomeno che fa la sua comparsa con la modernità europea, ma è una tendenza che viene da lontano. Le tendenze democratiche ci sono sempre state nelle società», e che «i processi decisionali democratici non vanno confusi con i processi della pubblica amministrazione» sottolineandone la profonda differenza con il concetto di “democrazia” proprio delle civiltà capitaliste.
Tale strategia rientra anche nel tentativo, da parte del PKK, di superare la spirale di violenza senza uscita in cui era bloccato il trentennale conflitto militare con lo Stato turco. Oltre al riconoscimento dell’impossibilità di vincere sul piano strettamente militare uno degli eserciti più forti della NATO, l’autocritica di Ocalan verte sulle dinamiche militariste e autoritarie che un simile scontro frontale tra apparati inevitabilmente innesca, dinamiche che rischiano di portare i due eserciti, quello occupante e quello di liberazione, ad assomigliarsi sempre di più. L’obiettivo è quello di evitare che l’intero movimento di liberazione venga determinato e modellato sulle esigenze della dimensione militare, iniziando a costruire l’alternativa sfuggendo finché possibile lo scontro frontale con lo Stato, ma senza rinunciare all’autodifesa. Non si tratta quindi di un disarmo e di una pacificazione, ma di un ribaltamento delle priorità: l’apparato militare deve essere uno strumento della società, una garanzia per la sua autonomia, e non viceversa (una prospettiva che ricorda, pur nelle molte differenze, quella elaborata dagli zapatisti dell’EZLN).
Anche da un punto di vista materiale, l’esperimento “democratico” del Rojava affonda le proprie radici nei precedenti percorsi pratici dell’«Autonomia democratica». È stato infatti il lungo e pesante lavorio sotterraneo di migliaia di militanti e sostenitori del PKK, nei villaggi, nei quartieri, sulle montagne a cavallo degli artificiali confini di Turchia, Siria, Iraq e Iran, ad aver costruito quel retroterra – culturale, materiale, militare – che si è dimostrato decisivo nel momento in cui l’edificio coloniale degli Stati-nazione ha cominciato a sgretolarsi. In questo senso, quanto sta accadendo oggi costituisce un “banco di prova” della strategia teorizzata, e praticata, dal PKK negli ultimi anni: non solo rifiutare la costruzione di nuove frontiere nazionali, ma muoversi fin d’ora come se quelle esistenti non esistessero più, costruendo federazioni di realtà locali che le travalichino, come se gli Stati-nazione fossero già al tramonto.
Già dagli anni Novanta, nei villaggi del sud-est della Turchia con una forte presenza del PKK, si costruirono strutture di tipo “consigliare” volte a restituire alle comunità locali quel potere confiscato loro dallo Stato centrale. Allo stesso modo il KCK, il Raggruppamento delle Comunità del Kurdistan, dagli anni Duemila continua a promuovere tale prospettiva (anche oltre i confini turchi), creando strutture e reti locali nei campi dell’istruzione, dell’amministrazione, dei diritti delle donne, della sicurezza, ecc., anche conquistando, tramite le elezioni, le amministrazioni locali. La politica oppressiva dello Stato turco, oltre alla “normale” e quotidiana repressione militare, ha colpito in modo specifico il KCK, dal 2009 (con migliaia di arresti, anche di sindaci, amministratori locali, attivisti ecc.), costringendo questo percorso di “democratizzazione” in una dimensione di clandestinità.
Dal 2011, nel Kurdistan siriano, è accaduto che la sollevazione contro Bashar Al Assad e il collasso del governo centrale hanno rappresentato l’occasione per l’uscita allo scoperto di tali “reti clandestine”, che il PYD (il locale partito curdo alleato del PKK) aveva già cominciato a tessere in Rojava in maniera sotterranea, e che nel vuoto di potere creatosi hanno potuto crescere e affermarsi come vere e proprie basi per l’autogoverno della regione. Altrove nel Paese, infatti, non sono mancati tentativi da parte di altre comunità, comitati di quartiere, attivisti, di costruire forme di mutuo soccorso e autogestione per far fronte al collasso dell’ordine statale e capitalista; ma nel baratro di violenza e arbitrio in cui è sprofondata la Siria, tali esperienze non hanno potuto reggere il confronto (soprattutto sul piano militare) con le altre forze che si affrontano per la spartizione del territorio, siano esse le truppe dell’esercito lealista o le bande paramilitari dello Stato islamico, i racket criminali o le milizie “ribelli” dell’Esercito libero siriano. In Rojava, invece, il solo fatto che esistessero nuclei di autodifesa militare e di organizzazione politica (il PYD con le sue ali militari, YPG e YPJ) ha fatto la differenza, permettendo alla popolazione (non solo quella curda) di sopravvivere e finanche di autogestirsi, mentre tutto intorno sprofondava nel caos.
Così, le strutture di autogoverno cantonale, nonostante l’isolamento, gli attacchi continui, l’embargo su ogni lato, facendo fronte alle necessità della vita quotidiana e della sicurezza, hanno fatto del Rojava una zona tutto sommato più stabile e vivibile delle altre, tanto da diventare una meta per i profughi del resto del territorio (per farsi un’idea, la sua popolazione è praticamente raddoppiata dall’inizio della guerra, passando da circa 2 milioni a quasi 4 milioni!).
Questa relativa “stabilità” (a parte, ovviamente, le zone sotto attacco dello Stato islamico, come il cantone di Kobane) è garantita anche dalla sorta di “tregua armata” che al momento vige tra le forze curde e l’esercito di Assad. Tale situazione, che è all’origine di certa propaganda che accusa il PYD di essersi accordato col regime siriano, merita di essere chiarita in quanto è in realtà il frutto di una politica tutto sommato esplicita e più che comprensibile di entrambe le parti. Le milizie popolari del Rojava hanno un ruolo eminentemente difensivo, il loro obiettivo dichiarato è l’autogoverno della regione e la sua difesa da chiunque lo attacchi, non hanno perciò alcun interesse in questo momento a scatenare una guerra aperta in Rojava anche contro l’esercito siriano, almeno finché questo non interverrà per reprimerli. Anche il governo siriano, da parte sua, non ha interesse in questa fase ad aprire un altro fronte di guerra nel Kurdistan, perciò ha preferito lasciare in mano ai curdi i loro territori, da cui era stato costretto a ritirare l’esercito in seguito alla sollevazione (salvo mantenere qualche contingente in un paio di centri strategici) per poter concentrare le proprie forze in altre zone del Paese.
I curdi siriani, infatti, pur avendo partecipato alla sollevazione contro il regime, hanno praticato quella che loro stessi hanno definito una “terza via”, non schierandosi né con le forze del governo di Assad né con quelle dell’opposizione, islamista o laica che sia, ma organizzandosi per liberare, difendere e auto-governare i propri territori. Il prezzo di tale “indipendenza” è il loro totale isolamento, sia a livello locale che su scala regionale e mondiale: mentre tutte le forze in competizione sullo scenario siriano godono di appoggi regionali o internazionali (cosa che è anche all’origine del prolungarsi della guerra civile senza che nessuno schieramento riesca a prevalere in modo definitivo sugli altri), il Rojava non ha “padrini” su cui contare, e anzi rappresenta una alternativa radicale proprio a quel modello di gestione del Medio Oriente fondato sul divide et impera, sulle rivalità settarie, nazionali, confessionali. Promuovendo e praticando la convivenza e la collaborazione dal basso di tutte le comunità etniche e religiose dell’area, il Rojava incarna una anomalia dirompente, una minaccia per tutte le potenze che mirano a proseguire la balcanizzazione della regione per perpetuarne il saccheggio, la militarizzazione, la dipendenza da potenze straniere.
La difesa militare del territorio, per le ragioni fin qui delineate, è ovviamente la prima e predominante esigenza che si trova ad affrontare il movimento rivoluzionario in Rojava. Ma l’aspetto per certi versi sorprendente è proprio l’attenzione posta dal movimento a non sacrificare gli altri aspetti del progetto di trasformazione sociale alle esigenze militari, e anzi la capacità di impostare anche l’organizzazione della sicurezza sui princìpi del protagonismo popolare e dell’autodifesa. Un esempio, tra i vari, può essere chiarificatore: ad agosto 2014 in nord Iraq, nelle montagne di Shengal, teatro dell’aggressione e del tentativo di pulizia etnica da parte dell’IS contro le comunità Ezidi, in seguito alla fuga dell’esercito iracheno e dei peshmerga di Barzani, le forze di YPG/YPG e HPG/YJA-Star sono intervenute per mettere in salvo i civili, contrattaccare le bande di IS, ma anche e soprattutto per aiutare la popolazione degli Ezidi a costruire le proprie milizie di autodifesa popolare. Pur nell’emergenza dell’assedio e della guerra, l’intervento dei partigiani più esperti è stato finalizzato ad armare i civili, addestrarli e organizzarli affinché essi riuscissero a garantire da sé la propria sicurezza, senza bisogno di interventi esterni di chicchessia, in linea con l’obiettivo di diffondere e sostenere l’autonomia popolare, anche in campo militare. Così, oggi, nel territorio di Shengal il popolo ha le proprie milizie di autodifesa, YPS (Unità di difesa di Shengal), e rivendica la propria autonomia e la propria adesione al progetto del confederalismo democratico.
In Rojava, le YPG e YPJ, seppur già esistenti dalla metà degli anni Duemila, hanno mantenuto un “basso profilo” fino alla sollevazione del 2011, nella quale emergono come vera colonna portante della liberazione del territorio. Nate come milizie curde del PYD, nel processo di difesa dei territori liberati assumono il ruolo di vere e proprie unità di autodifesa del popolo, non più milizie di un partito o di un gruppo etnico, ma organizzazioni garanti del processo rivoluzionario in corso, formate da tutti i cittadini che prestano giuramento per la difesa della società democratica, ecologica ed egualitaria. Ciò ha consentito – almeno in parte – il superamento delle iniziali diffidenze dovute a storiche rivalità etniche, e nelle YPG (così come nelle forze di sicurezza “Asayis”) hanno iniziato ad arruolarsi anche arabi, assiriani, armeni, turcomanni… Allo stesso modo, è proprio attraverso la partecipazione nelle fila dell’autodifesa che le donne hanno accresciuto il proprio protagonismo. Anche in questo campo la diffidenza iniziale è stata forte, come prevedibile in una società in cui le donne sono generalmente relegate nella dimensione privata e casalinga, ma col tempo sono migliaia le ragazze entrate a far parte delle YPJ, innescando un processo di trasformazione e di assunzione di responsabilità che ha inevitabilmente investito anche tutti gli altri campi della vita sociale. Si sono inoltre formate alleanze con altre milizie tribali o di altri partiti, come il Syriac Union Party (il partito degli assiri, o siriaci, di religione cristiana, con le sue organizzazioni militari) o Jabhat al-Akrad (una formazione armata composta principalmente di arabi, disertori dell’esercito poi fuoriusciti dall’ESL - Esercito libero siriano), fino a costruire un fronte comune per l’autodifesa del territorio.
Le Asayis possono essere definite come “forze di sicurezza” sul territorio. Mancando un linguaggio adeguato, potremmo paragonare le YPG/YPJ alle forze armate e le Asayis alle forze di polizia, anche se gli stessi protagonisti tengono a sottolineare che: «Il concetto di polizia è piuttosto inappropriato perché noi ci consideriamo come forze di sicurezza per l’autodifesa della società, non dello Stato». Il principale compito delle Asayis è far fronte a quei conflitti e violenze che le assemblee e i comitati locali non riescono a risolvere, come aggressioni, violenze, traffici di droga, stupri, oltre al contrasto dei vari servizi segreti, ai posti di blocco per prevenire attentati e attacchi suicidi, e al supporto alle YPG/YPJ nelle emergenze militari. Le Asayis non sono un’istituzione separata dalla società, deputata a mantenere l’ordine tra i cittadini che lo Stato liberale ha individualizzato, espropriato e omologato, ma la forza autorganizzata delle comunità in quanto tali. Ad esempio, nel Cantone di Cizire, la minoranza siriaca/cristiana ha le sue proprie milizie, denominate “Sutoro”, per gestire la sicurezza nei propri quartieri e villaggi, in stretto rapporto di coordinamento con le altre Asayis, alle cui strutture di comando partecipa con propri delegati. Per le stesse ragioni, esistono unità delle Asayis esclusivamente femminili, le Asayis Jin, deputate soprattutto a contrastare la violenza patriarcale, in stretta collaborazione con i consigli delle donne, per consentire di superare le difficoltà e gli imbarazzi che una donna può avere nel raccontare il proprio dolore e le violenze subite di fronte ad assemblee miste o maschili.
La partecipazione alle Asayis avviene su base volontaria, ogni membro riceve solo il vitto, l’alloggio e tutt’al più un minimo rimborso; i giovani vi sperimentano periodi di vita comune, con percorsi quotidiani di formazione sulla democrazia popolare, l’ecologia, la liberazione delle donne…; le strutture di comando hanno un carattere il più possibile collegiale, non ci sono distintivi di grado e ogni livello elegge i propri rappresentanti in assemblee allargate in cui viene periodicamente scelto il nuovo stato maggiore.
Insieme agli apparati di sicurezza, anche il sistema giuridico preesistente è decaduto in seguito al processo rivoluzionario in Rojava; per far fronte al vuoto e al disordine che ciò avrebbe potuto determinare, la popolazione e il movimento politico hanno da subito creato i “Comitati per la pace e il consenso”, sul modello degli analoghi comitati istituiti negli anni Novanta dal PKK, con il compito di garantire la concordia sociale e contrastare le ingiustizie e i racket criminali. Ogni comitato si occupa di un quartiere o di una comunità di villaggi (dai sette ai dieci), ed è composto dalle persone scelte dal “Consiglio del popolo” perché ritenute più adatte a risolvere i conflitti e favorire percorsi di riconciliazione. Per le questioni di livello più elevato, per gravità o competenza territoriale, sono stati istituiti, sulla base di un processo assembleare diffuso sul territorio, i “Consigli per la giustizia”, cui prendono parte, insieme ai delegati dei “Comitati per la pace e il consenso”, avvocati, magistrati e altri operatori della giustizia che avevano preso le distanze dal vecchio regime. L’obiettivo delle sentenze non è mai la condanna e la punizione del colpevole, quanto il trovare il consenso e il riavvicinamento tra le parti, favorire i legami di solidarietà, in un’ottica molto diversa da quella dei sistemi giuridici statali.
Il territorio del Rojava è diviso in tre cantoni, Cizire, Kobane, Afrin, ciascuno con un’autonomia amministrativa, una propria Costituzione e una diversa rappresentanza che ne rispecchia la composizione etnica e confessionale. Tra i tre cantoni non c’è una continuità geografica, poiché intorno a Kobane ci sono fasce di territorio siriano – che il governo baath aveva “arabizzato” – ora sotto il controllo di IS. Le lingue ufficiali sono tre: curdo, arabo e siriaco, e tutte le minoranze sono riconosciute, tutelate, e ammesse a partecipare al sistema confederale. La spina dorsale dell’autogoverno si fonda sul Movimento della società democratica (il TEV-DEM), espressione della società civile nato su spinta di PYD e PKK ma che ha in breve riunito le diverse componenti politiche, etniche, confessionali (anche se ovviamente non tutte) del Rojava. Il Movimento ha elaborato un “Contratto sociale”, una Carta del Rojava, che definisce la natura e il funzionamento del sistema politico della confederazione: nella premessa vi si afferma: «Le aree di democrazia autogestita non accettano il concetto di nazionalismo di Stato, militare o religioso, né una gestione centralizzata o le regole provenienti da un’autorità centrale; sono, al contrario, aperte a forme compatibili con le tradizioni di democrazia e di pluralismo e sono disponibili nei confronti di tutti i gruppi sociali e le identità culturali…». Tra i molti decreti emanati dal Contratto sociale, per limitarsi ad alcuni esempi indicativi, ci sono: la fine dell’ingerenza della religione nell’amministrazione della vita civile; l’abolizione del matrimonio al di sotto dei 18 anni, della infibulazione e della poligamia; il riconoscimento di tutte le lingue parlate sul territorio; l’uguaglianza tra uomini e donne; il riconoscimento del diritto d’asilo per tutti i rifugiati; ecc.
Su spinta del TEV-DEM, si è costruito il “sistema di autogestione democratica”, la rete di gruppi, comitati, comuni, case del popolo, il cui ruolo è far fronte collettivamente alle più svariate problematiche della società. Il “nucleo di base” di tale organizzazione è la “Comune”, assemblea territoriale in cui gli abitanti dell’isolato, o gruppo di case o borgata (con un numero di partecipanti non superiore ai venti-trenta), discutono i problemi che li riguardano, individuano le soluzioni ed eleggono i delegati (sempre un uomo e una donna, secondo il sistema della “co-rappresentanza” valido per tutti i ruoli nella confederazione) che porteranno le decisioni prese dall’assemblea al comitato più ampio (di quartiere, villaggio, città, provincia…) deputato a implementarlo. La spiegazione del loro funzionamento è definita nel manifesto del TEV-DEM: «Le Comuni sono la più piccola e la più attiva cellula della società. Sono l’espressione pratica di una società fondata sulla libertà delle donne, l’ecologia e la democrazia diretta». «Le Comuni si formano sul principio di partecipazione diretta del popolo nei villaggi, nelle strade, nei quartieri e nelle città. Sono i luoghi in cui il popolo si organizza volontariamente, realizza le sue libere decisioni e dà inizio alle sue attività nel territorio, favorendo il dibattito sui vari temi e sulle possibili soluzioni». «Le Comuni lavorano sviluppando e promuovendo commissioni; si discute e si cercano le soluzioni alle questioni sociali, politiche, educative, di sicurezza, auto-difesa e auto-protezione dal loro stesso potere, e non dallo Stato. Le Comuni concretizzano il proprio potere attraverso la creazione di organismi quali le comuni agricole nei villaggi, ma anche comuni, cooperative e associazioni nei quartieri».
L’economia di Rojava è fondata essenzialmente sull’agricoltura (e in misura minore sulla pastorizia), anche se la situazione è oggi gravemente danneggiata dalla guerra e dall’embargo cui il Rojava è sottoposto da tutti i poteri confinanti (Siria, Turchia e Kurdistan federale). A parte ciò che riesce a passare per le rotte del contrabbando e della solidarietà, nessun prodotto può entrare né uscire dai cantoni, e tutta la vita economica si sta riorganizzando in una prospettiva di autoproduzione locale, nell’ottica di garantirsi il più possibile di autonomia e di scalzare il saccheggio delle risorse. Per riassumere le linee guida di tale riorganizzazione economica, riportiamo alcuni stralci da una testimonianza di due delegati del “Comitato dello sviluppo economico” del TEV-DEM: «Vogliamo promuovere un’economia comunale e sociale, che va realizzata principalmente con la nascita delle cooperative. L’obiettivo è sviluppare un sistema economico comunitario, equo ed ecologico… e superare il sistema dell’economia diretta dallo Stato. È importante per questo obiettivo dare alla gente tutte le informazioni possibili, ed è in quest’ottica che si stanno istituendo accademie per l’economia». «La terra, che prima della rivoluzione era gestita dallo Stato, è stata redistribuita tra le persone più povere, uomini e donne rappresentati in modo paritario. In alcuni casi è stata data solamente alle donne [organizzate in cooperative]. Sinora sono stati distribuiti centinaia di ettari di terra. Tutto quello che era necessario per fondare le cooperative è stato fornito a titolo gratuito dal TEV-DEM; in seguito le cooperative cederanno il 30% dei profitti al neonato governo cantonale mentre il 70% rimarrà in possesso dei contadini». «Il nostro approccio è quello di non inquinare l’ambiente e questo anche nell’agricoltura. Attualmente alcuni tecnici agrari stanno studiando la possibilità di impiantare coltivazioni di frutta e verdura, in modo che si facciano passi in avanti nell’autoproduzione. Già a partire dal prossimo inverno vogliamo iniziare con le serre. L’agricoltura, a lungo termine, deve essere ripensata e strutturata in senso ecologico [anche per uscire dalla precedente monocoltura del grano]».
L’altra grande risorsa del Rojava è rappresentata dal petrolio, presente soprattutto nel cantone di Cizire. La sua abbondanza lo rende una risorsa a buon mercato, che non viene però utilizzata per il commercio con l’estero, ma di cui viene raffinata soltanto la quantità necessaria ai bisogni degli abitanti locali. Viste le enormi difficoltà nell’approvvigionamento di acqua, nella fornitura di corrente elettrica, nel riscaldamento delle abitazioni, il petrolio viene oggi utilizzato per tutte queste esigenze primarie, e viene distri-buito alla popolazione gratuitamente o a un prezzo irrisorio (inferiore a quello dell’acqua).
Inoltre, la costituzione di piccole unità produttive fondate sul lavoro e la fruizione in comune (ad esempio cooperative tessili per la lavorazione del cotone e la produzione di abbigliamento per gli abitanti), la diffusione di cooperative di soggetti collettivi come le famiglie dei Martiri, comitati di donne, gruppi giovanili, il livellamento dei prezzi e degli stipendi, la gratuità dei beni di prima necessità (affitti, istruzione, cure mediche…), tutto ciò delinea la natura degli obiettivi del movimento rivoluzionario: «Tutte le istituzioni che abbiamo creato hanno lo scopo di aiutare la popolazione e di promuoverne l’auto-organizzazione. L’organizzazione delle strutture di autogestione va avanti da tre anni, ora però il sistema incomincia a funzionare…».
Il particolare ruolo assunto dalle donne nell’esperimento fin qui delineato richiederebbe una trattazione a sé, in quanto rappresenta la colonna portante del cambiamento della vita sociale – al punto che si può definire come una “rivoluzione delle donne”. Contemporaneamente è l’aspetto più sorprendente, innovativo e rivoluzionario, in una società di tradizione fortemente patriarcale, in cui le donne, oltre ad essere presenti in ogni ufficio, in ogni casa del popolo, nei comitati, gruppi e quartieri, ai vertici dell’amministrazione e dell’esercito, hanno costituito le loro proprie forze organizzate, sia civili che miltari. Le immagini riportate dai media occidentali sono però esclusivamente quelle delle donne in armi: una rappresentazione esotica, quasi fashion, che gioca sul fascino che le donne combattenti suscitano nell’immaginario occidentale (chiaramente fino a quando sono ben distanti, meglio se virtuali). È una narrazione che ben si guarda dall’affrontare la radicalità delle questioni universali che la lotta delle donne curde pone, anche e soprattutto perché a essere messa in discussione non è soltanto la loro discriminazione nelle “arretrate” società islamiche mediorientali, ma – almeno altrettanto – la loro mercificazione nelle “avanzate” società capitaliste occidentali.
È proprio il carattere universale delle questioni poste dal processo in corso in Rojava a farne un laboratorio della rivoluzione estremamente interessante, anche in quanto dimostrazione pratica di quel che accade, o può accadere, sulle macerie di un sistema statale. Il crollo del controllo governativo sul territorio siriano ha consentito che si sprigionassero le energie in esso represse, e le diverse dinamiche innescatesi nelle altre zone della Siria dimostrano l’importanza del precedente lavoro svolto nella zona dalle forze curde rivoluzionarie. La costruzione di legami di solidarietà, di embrioni di autogestione e autoproduzione, di organi di autodifesa, di una prospettiva politica chiara, per quanto sotterranee e costrette nella clandestinità, e nonostante gli invitabili limiti e contraddizioni, sono ciò che ha fatto la differenza tra la barbarie fratricida e la rivoluzione in marcia.
Kobane. Tra assedio e resistenza
Il Rojava è sotto attacco. Se fin dalla loro nascita i cantoni autogovernati hanno dovuto affrontare aggressioni continue, dalla metà di settembre 2014 è in atto un attacco frontale da parte delle bande dello Stato islamico (IS) e dei suoi più o meno occulti sostenitori, che hanno concentrato le loro forze contro il cantone centrale di Kobane. Per diverse ragioni questo cantone è un luogo strategico, oltre che simbolico, e la sua caduta renderebbe più vicino il crollo del resto della Confederazione di Rojava.
Il PKK, l’intero movimento di liberazione curdo, lo stesso Ocalan dal carcere, hanno lanciato un appello alla mobilitazione generale dei curdi per difendere Kobane. In Europa e nel mondo intero si moltiplicano manifestazioni e iniziative. In Turchia dilagano gli scontri tra il popolo curdo e l’esercito, la polizia, le bande islamiste e nazionaliste: è una vera e propria sollevazione, che i media europei hanno restituito solo parzialmente, con scontri armati nelle strade, decine di morti da entrambe le parti, assalti ai commissariati, saccheggi di armerie…
La tregua tra governo turco e PKK è ormai in bilico, l’atteggiamento della Turchia nell’assedio di Kobane l’ha resa di fatto impraticabile, e negli ultimi giorni sono iniziati bombardamenti turchi su basi del PKK in provincia di Hakkari, seguiti a una ripresa degli attacchi della guerriglia contro forze militari turche. Come può, infatti, il governo di Erdogan mantenere con una mano promesse di pace con i curdi in Turchia, mentre con l’altra sostiene i tagliagole dello Stato islamico nel massacro dei curdi siriani e ostacola in ogni modo l’arrivo di aiuti alla resistenza? Del resto la politica di Erdogan è evidente, come quella delle varie potenze regionali e mondiali: utilizzare le bande di IS per i propri interessi, per ridisegnare gli equilibri politici, etnici, confessionali, per poi usarle come spauracchio contro cui ergersi a difensori della “pace” e della “lotta al terrorismo” nell’area. Lo dimostrano i carri armati e i soldati turchi, schierati a un chilometro da Kobane, che osservano il massacro aspettando che i terroristi finiscano il lavoro sporco, per poi – magari – occupare militarmente il Rojava ponendo fine a tale “anomalia”.
Il destino del Rojava, insomma, sarebbe comunque segnato, con il beneplacito di tutte le potenze statali della regione. Del resto, è dall’inizio dell’avanzata di IS sulla città di Kobane che tutti i media, i politici, le fonti militari, danno la città per spacciata, la sua caduta sembra essere, giorno dopo giorno, una questione di ore. Eppure, son passati più di due mesi e Kobane è ancora in piedi. È accaduto qualcosa di inatteso e sorprendente: contro la meschinità degli interessi capitalistici alleati col più bieco odio settario, il cuore del Kurdistan ribelle si è stretto intorno ai fratelli e alle sorelle di Kobane, una resistenza di popolo ha alzato la testa a difesa della rivoluzione sociale del Rojava. È così che, nonostante le catastrofiche previsioni, la disparità di armamento, l’isolamento internazionale, nonostante tutto stia tramando per la sua caduta… Kobane resta in piedi.
Le milizie di autodifesa del Rojava (YPG – Unità di difesa del popolo, e YPJ – Unità di difesa delle donne), dopo aver evacuato i villaggi circostanti di molti, ma non tutti, i civili non in grado di combattere, hanno anch’esse concentrato le proprie forze nella difesa a oltranza di quella che hanno definito la loro “Stalingrado”. Migliaia di guerriglieri/e del PKK, dai monti Qandil in Iraq e dal sud-est della Turchia, sono accorsi a dar manforte alla resistenza; migliaia di civili dalla Turchia hanno sfondato le mura e i reticolati della frontiera turco-siriana, scontrandosi con l’esercito di Ankara, per entrare in Rojava e unirsi alla battaglia. Ogni giorno si contano morti e feriti sulla frontiera, negli scontri con i soldati che vogliono soffocare questo “corridoio di resistenza popolare”, indispensabile retrovia per la resistenza a nord di Kobane assediata.
«Se necessario, li affogheremo nel nostro sangue», ha dichiarato il copresidente del cantone di Kobane, Enver Muslim. Non indietreggeranno, i partigiani curdi, combatteranno fino all’ultimo uomo e all’ultima donna, chi ne conosce la storia sa che simili promesse non sono slogan ad effetto (basti pensare alle centinaia di militanti che negli anni si sono auto-immolati dandosi fuoco, facendosi esplodere o lasciandosi morire di fame nelle carceri).
Mentre scriviamo, infatti, è in corso una furibonda battaglia strada per strada, casa per casa, e sono già molti i combattenti curdi (e soprattutto le combattenti) che si sono fatti esplodere in attacchi kamikaze contro postazioni islamiste, sacrifici che hanno avuto un peso determinante per la ripresa di alcuni quartieri. Il coraggio dei resistenti di Kobane ha trasformato una preannunciata tragedia in un luminoso simbolo di resistenza e di riscossa per tutti.
Non è più sola Kobane, questa battaglia l’ha già vinta, qualsiasi cosa succederà.
E grazie al suo coraggio, oggi, ci sentiamo meno soli anche noi.
Tocca a noi, ora, ai movimenti e ai resistenti di tutto il mondo, contribuire in ogni modo alla difesa di Kobane, del Rojava e di ciò che rappresentano; perché la sua sconfitta, come la sua vittoria, è qualcosa che non possiamo più fingere che non ci riguardi.
Daniele Pepino, 1 dicembre 2014
da «Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna», n. 36, autunno 2014
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Kobanê è libera!
Dopo 134 giorni di eroica resistenza agli attacchi di ISIS, oggi finalmente le forze di difesa del popolo YPG/YPJ hanno annunciato che la città di Kobanê nel Kurdistan occidentale, Rojava, è stata completamente liberata dalle bande del cosiddetto Stato Islamico. La popolazione di Kobanê ha iniziato a festeggiare, così come in altre città curde.
Questo è il risultato dell’eroica resistenza che ha visto la partecipazione di tutta la popolazione curda, donne, giovani, vecchi, bambini, e di volontari giunti a dare il loro contributo da tutte le parti del mondo. Le YPG/YPJ, in collaborazione con Burkan Al Firat e un contingente di peshmerga, non ha arretrato di un passo nonostante la grande disparità di armi e rifornimenti che vedevano l’ISIS in vantaggio: questo dimostra che quando un popolo si difende per la propria vita e per quello in cui crede, non è possibile sconfiggerlo. [...]
26 gennaio 2015, Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia
francia: Dover e Calais, una giornata di lotta contro i fascisti
Il progetto fascista di ‘bloccare il porto’ era stato promosso da alcuni gruppuscoli sui loro siti di Facebook, in concomitanza con l’appuntamento di “Sauvons Calais” (l’evento anti-immigrazione organizzato al di là della Manica). L’English Volunteer Force, il Fronte Nazionale, e le bandiere di White Power sono stati avvistati alla demo di Dover. I fasci riuniti in un parcheggio sotto un cielo grigio, una volta avvistati gli antifascisti si sono rifugiati all’interno del giardino di un pub locale, che era chiuso. Sono stati così confinati nel giardino per un’ora fino a quando non hanno raggiunto i numeri necessari per muoversi. Scortati dalla polizia di Kent, la Race Master si è trascinata nella sua marcia verso il mare, mentre gli antifa schivavano camion cercando di bloccare loro la strada ad ogni incrocio. Compagn* ben organizzati, che si muovevano rapidamente guardandosi le spalle l’un l’altro in ogni momento. I fascisti sono stati poi scortati al loro parcheggio e se ne sono andati. Un minibus di cervelloni ha pensato che sarebbe stata una buona idea passare davanti e schernire la folla antifa, ma è stato bloccato al semaforo rosso. L’autista, in preda al panico, ha cercato di farsi strada tra i membri della folla, ma il furgone è stato fermato in mezzo alla strada. L’autista è stato arrestato (presumibilmente per guida pericolosa) e ha finito per fare la passeggiata della vergogna sulla macchina della polizia, prima che il minibus venisse confiscato.
Due dei nostri compagni sono stati arrestati, stiamo ancora aspettando notizie sui reati loro contestati. Dall’altra parte del canale, la manifestazione “Sauvons Calais” è stata vietata dalle autorità locali, e compagni ci hanno detto che è una giornata tranquilla, senza gravi incidenti. La tragica situazione a Calais è stata recentemente nelle cronache a causa della morte di 15 migranti nel tentativo di raggiungere la Gran Bretagna.
La maggior parte delle persone che vivono nella cosiddetta “giungla” a Calais, fuggono da zone del mondo colpite dai conflitti. Appoggiamo l’immigrazione ed ogni azione che attacca il fascismo che vediamo crescere ovunque intorno a noi. A Calais vediamo ancora raduni fascisti, ancora minacce, mentre continua l’occupazione della vita da parte dello stato. Sempre di più la polizia impone il proprio controllo nelle strade, nelle “jungles”, nelle case e negli edifici dove viviamo, nei nostri movimenti, nei porti, nelle autostrade, nei parcheggi e nelle stazioni di servizio. Ancora morti causate dal sistema delle frontiere. La legge europea. Le voci fasciste hanno ancora più spazio nelle timide aule parlamentari. Il vento ci ha mostrato la strada a dicembre, buttando giù la nuova “barriera di sicurezza” appena costruita al porto dal governo britannico, nell’ambito di un accordo da 15 milioni di euro con le autorità francesi per sigillare il confine. Ogni cosa può essere buttata giù. Sogniamo il momento in cui non solo non ci saranno più raduni fascisti nelle strade, ma in cui anche gli sbirri e i politici responsabili del sistema delle frontiere non avranno più l’opportunità di comandare sulle nostre vite e sui nostri movimenti. Nessuna nazione, nessuno stato, né poliziotti, né frontiere. No al sistema d’asilo che impedisce ad alcuni/e di scegliere dove vivere. No Eurodac.
Anti-Fascist Network e Calais Migrant Solidarity
25 gennaio 2015, hurriya.noblogs.org
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
CIE di Bari, morto un ragazzo
7 febbraio. Un ragazzo di 25 anni egiziano è morto all’interno del CIE. Si parla di “decesso per cause naturali”, il solito arresto cardiovascolare irreversibile. La vicenda presenterebbe diversi lati oscuri.
Dopo la segnalazione dall’interno del CIE, il 118 manda un ambulanza con solo l’autista ed un soccorritore. All’interno affermano che il ragazzo respira, ma quando l’operatore prepara il defibrillatore constata che il ragazzo è già rigido e livido, probabilmente morto da almeno un’ora. Un paio di minuti dopo, da un’altra postazione sopraggiunge l’ambulanza con a bordo il medico, che dà subito l’ordine di interrompere il massaggio cardiaco. A quel punto si procede col tracciato per venti minuti prima di constatare il decesso.
In molti sono convinti dell’arrivo del medico legale per accertare le reali cause del decesso, ma non arriverà. Se realmente il paziente era in rigor mortis quando sono arrivati i soccorsi, perché si è aspettato tutto quel tempo prima di allertare il 118? Non poteva essere rianimato prima che ci provasse il personale del 118? La struttura è dotata di un defibrillatore? Le domande ancora senza risposta sono troppe.
Nell’agosto 2013 a Crotone scoppiò una rivolta dopo la morte di uno dei reclusi (un trentunenne marocchino). Il CIE venne chiuso poco dopo, a seguito dei danni subiti. A Ponte Galeria un altro recluso di 24 anni algerino è morto nel 2009, per arresto cardiaco. Secondo i reclusi i poliziotti in un primo momento avevano pensato stesse solo simulando un malore.
Torino, CIE di C.so Brunnelleschi
15 gennaio. GEPSA, colosso francese specializzato nella gestione delle carceri in Francia, e l’Associazione culturale Acuarinto hanno sostituito la Croce Rossa nella gestione del CIE. Attualmente all’interno del CIE ci sono circa 20 reclusi, ma con i lavori di ristrutturazione messi in atto dalla nuova gestione, sembrerebbe che a breve aumentino gli internati.
27 gennaio. Con i lavori in corso nel CIE, alcuni solidali hanno pensato di ostacolare la ristrutturazione, prendendosela con IL.MA, la ditta di Carignano che si occupa dell’impianto d’illuminazione del CIE e della ristrutturazione delle gabbie per uomini. Armati di striscione e volantini hanno bloccato il cancello della ditta per un’ora abbondante impedendo ai mezzi e operai di uscire. Parlando con gli operai si viene a sapere che IL.MA lavora anche per il carcere di Asti. Dopo un’ora si presentano i carabinieri che tentano invano di identificare uno dei manifestanti, così i solidali improvvisano un altro blocco in strada e poco dopo se ne vanno. Nella stessa giornata i reclusi del CIE hanno rifiutato i pasti. Con la nuova gestione GEPSA e Acuarinto la qualità del vitto e le condizione di reclusione sono peggiorate ulteriormente.
8 febbraio. Presidio davanti al CIE in solidarietà ai reclusi. È grazie alla rabbia e alla determinazione dei reclusi che i CIE italiani sono stati parzialmente distrutti. È importante dunque continuare a sostenere le proteste e le rivolte che ancora esplodono all’interno dei pochi CIE rimasti attraverso una presenza solidale fuori delle loro mura. Lo è altrettanto ostacolare il funzionamento della macchina delle espulsioni colpendone ogni ingranaggio: GEPSA è uno di questi ma non è certo l’unico…
Roma, CIE di Ponte Galeria
27 gennaio. Come a Torino anche qui con la nuova gestione GEPSA c’è un peggioramento delle condizioni di reclusione. Il riscaldamento non funziona da almeno 3 mesi, il cibo è immangiabile e i reclusi rifiutano a intermittenza i pasti. Inoltre c’è sovraffollamento, 100 uomini e più di 30 donne internati e in costante aumento. Alcuni reclusi non si sono fatti intimorire dalla celere, che voleva mettere quattro nuove persone in una camera già piena facendoli dormire a terra, ma si sono rifiutati di accettare e hanno costretto la direzione ad aprire un’altra camerata. Nell’ultimo mese le espulsioni avvengono a ritmo incessante e ci sono stati episodi di resistenza individuale alla deportazione.
29 gennaio. Tre stranieri che avevano partecipato all’occupazione dell’anagrafe di via Petroselli a Roma, son stati portati al CIE con rischio di espulsione. Il locale era stato occupato per chiedere l’abolizione dell’articolo 5 del Piano Casa del Governo Renzi, che prevede l’impossibilità di ottenere residenza, acqua e luce per chi occupa abusivamente un alloggio. “Condizione questa che solo a Roma interessa decine di migliaia di persone”.
7 febbraio. Presidio e protesta infuocata. Alle 18 era in programma un presidio fuori dalle mura del CIE, indetto in solidarietà con tutti i reclusi, ma in particolare con tre ragazzi catturati dalla polizia durante lo sgombero dell’anagrafe occupata di Via Pietroselli a Roma. La tensione nel CIE era alta già dall’ora di pranzo, quando molti reclusi avevano deciso di rifiutare il pasto per protestare contro gli atteggiamenti intimidatori della polizia e del personale di GEPSA e Acuarinto.
Nel pomeriggio un recluso inizia a tagliarsi tutto il corpo con delle lamette, esasperato per l’ennesimo ritardo nella consegna di una ricarica telefonica. In breve tempo la protesta si è allargata coinvolgendo molti altri reclusi che hanno bruciato diversi materassi. La polizia è intervenuta prima con gli idranti per spegnere le fiamme, e successivamente è entrata in alcune stanze per effettuare sommarie perquisizioni. Intanto fuori il presidio si è ancor più riscaldato. Le comunicazioni tra dentro e fuori sono state costanti, tra richieste di musica e informazioni su quanto stava accadendo all’interno.
La mancanza di riscaldamento e il cibo pessimo sono tra i problemi più sentiti. Il tentativo di rifilare farmaci e tranquillanti è una costante della vita all’interno del CIE. In tante e tanti raccontano di avere una strana sensazione di sonno dopo aver mangiato. Tentativi subdoli di sedare il coraggio di tanti uomini e donne che lottano ogni giorno contro le violenze, le ingiustizie e l’isolamento in questi luoghi di reclusione forzata.
Il presidio è andato avanti fino alle 20.30 circa, e dopo molti interventi al microfono, musica e slogan cantati, è terminato con un saluto rumoroso e con fuochi d’artificio, ma soprattutto con la promessa di tornare, con rabbia e determinazione, sotto le mura di questi “moderni campi di concentramento”. Hurriya
Roma, rimpatri verso la Nigeria
6 febbraio. L’agenzia europea Frontex ha ripreso i rimpatri verso la Nigeria. I voli per riportare i senza documenti nel paese africano erano stati sospesi ad agosto 2014, a causa dell’epidemia ebola. Dall’aeroporto di Fiumicino il 29 gennaio è partito un volo charter, operato da Frontex, che dopo aver fatto vari scali in altri paesi europei, ha preso 19 cittadini nigeriani, internati nel CIE di Ponte Galeria, per riportarli nel loro paese.
Si tratta di rimpatri di massa, basati su “riconoscimenti sommari” e “mera attribuzione della nazionalità”. In quanto tali non sarebbero comunque consentiti dalle norme europee. Tra i rimpatriati ce n’era uno che aveva lo status di richiedente asilo, era ancora in attesa della risposta alla richiesta presentata alla commissione territoriale di Roma. Naturalmente è stato rimpatriato lo stesso.
23 febbraio. Le associazioni, nell’ambito di un progetto denominato “Centro Operativo per il Diritto di Asilo”, hanno avuto accesso al CIE di Ponte Galeria, imbattendosi in tre minorenni di tre nazionalità diverse, che in teoria non avrebbero dovuto trovarsi lì, e in vari profughi che erano stati portati lì direttamente dalla Sicilia, dopo essere stati soccorsi in mare nell’ambito dell’operazione Mare Nostrum.
Proteste nei diversi “centri” per migranti
Diversi centri di controllo per migranti sono presenti sul territorio italiano: Centri di primo soccorso e “accoglienza” (CPSA), Centri di “accoglienza” (CDA), Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), Centri di “accoglienza” per richiedenti asilo (CARA).
A Caltanissetta, Cara di Pian del Lago, vi sono stati blocchi stradali e proteste, attuati dai migranti confinati nei diversi tipi di centri si susseguono praticamente ogni giorno.
Nella mattinata del 13 gennaio una cinquantina di migranti hanno creato una barricata sulla strada provinciale 5, davanti all’ingresso del CARA, dove sono confinati, bloccando l’ingresso e l’uscita della struttura per protestare contro i ritardi nell’audizione della commissione che dovrà valutare il loro “status” di rifugiati. Il centro è gestito dalla cooperativa Auxilium, che gestisce anche l’adiacente CIE, dove le rivolte e i tentativi di fuga sono all’ordine del giorno. Un’analoga e coordinata protesta si è tenuta nelle vicinanze, nell’IPAB (Istituto di beneficenza e assistenza) di San Cataldo (LE).
Al CDA Auxilium di Genova un ventottenne maliano viene espulso dal centro e con altri solidali ha protestato contro questo provvedimento e il tutto si è risolto con l’arrivo della polizia, l’arresto di 4 persone e la denuncia per altre sette.
A Castellamare di Stabia (NA) circa 100 richiedenti asilo, presenti da quasi un anno nell’ex albergo Villa Angelina, a causa della mancanza di assistenza sanitaria, hanno protestato bloccando il traffico veicolare. L’edificio è stato “blindato” da polizia e digos.
Un altro centro l’Asharam, un po’ di tempo fa, aveva subito un attacco incendiario di “matrice xenofoba o camorrista”.
Per chi prova a fuggire da questi centri ci sono continui controlli ormai dovunque come a Foligno, dove 4 minori son stati fermati dalla Polfer.
Firenze, “Ronde democratiche”
19 gennaio. Anche a Bagno a Ripoli, zona sud di Firenze, hanno fatto la loro comparsa le ronde “democratiche”. Si tratta di volontari dell’Associazione Nazionale Carabinieri impegnati nel controllo del territorio attraverso identificazioni, sequestri di merci, accompagnamenti forzati in caserma...
Tutto questo non è passato inosservato e alcuni hanno iniziato a chiedere spiegazioni, così è emerso che ci sarebbe un accordo tra il sindaco del PD Francesco Casini e il responsabile del distaccamento di Grassina del nucleo di volontariato 181° Pegaso dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Firenze. Un accordo, tra l’altro, di cui sarebbe stato all’oscuro anche il Consiglio Comunale.
Un primo risultato, comunque, la mobilitazione dei contrari alle ronde l’ha ottenuto. Da quando sono stati fatti i primi volantinaggi e comunicati stampa le ronde sono all’improvviso sparite. A Prato invece le ronde continuano. Dal 2009 pattuglie miste forze dell’ordine e militari (inizialmente parà, poi soldati del battaglione Nembo di Pistoia) controllano il centro storico. Come per Bagno a Ripoli, anche in questo caso tutto è stato fatto bypassando il Consiglio Comunale se è vero (come riportato da quotidiani locali) che a sollevare il caso è stato un consigliere che ha avvicinato il pattuglione per capire chi fossero. Inutile dire, da Bagno a Ripoli fino a Prato, che siano gli immigrati i bersagli preferiti di tali controlli “democratici”.
Il mare dei morti. Un’altra strage targata UE
Domenica 8 febbraio 2015 la Guardia Costiera di Roma ha ricevuto una prima richiesta di soccorso da parte di un gommone con più di cento persone a bordo, naufragato a poche miglia dalla costa libica in condizioni meteo proibitive. All’arrivo sul posto, sul gommone indicato sono stati ritrovati 7 morti per assideramento e durante il trasferimento verso Lampedusa altri 22 persone sono morte assiderate.
I superstiti, che sono stati trasferiti al centro di accoglienza di Lampedusa, hanno avvertito la Guardia Costiera spagnola della presenza di altri 3 gommoni, ognuno con circa 100 persone a bordo. Hanno dichiarato, inoltre, di essere stati costretti con le armi a intraprendere il viaggio. Si stima che i morti assiderati e i dispersi siano 231 secondo i dati ufficiali, ma potrebbero essere più di 300. Una grande anomalia salta all’occhio: per quale motivo 400 persone vengono a forza costrette a imbarcarsi sui dei gommoni per affrontare il viaggio in condizioni avverse (si parla di onde di 9 metri e mare forza 7)?
Proprio come per il 3 Ottobre 2013, queste stragi forniscono il pretesto per riproporre le stesse retoriche ipocrite e ridondanti: la necessità di maggiori investimenti militari per il controllo delle frontiere e per le politiche securitarie, l’inadeguatezza delle operazioni militari in atto, l’accelerazione del processo di delocalizzazione delle politiche di controllo delle frontiere nei paesi di partenza e dunque il rilancio di nuove politiche interventiste in queste aree. Ancora una volta respingiamo fortemente queste narrazioni che omettono deliberatamente un’analisi delle cause che spingono queste persone a partire.
Rifiutiamo le lacrime di coccodrillo di quegli attori internazionali (UE, NATO…) che sono i principali responsabili della destabilizzazione di interi territori e, di conseguenza, della morte di chi è costretto a fuggire in clandestinità. Dietro le politiche migratorie si nascondo le solite ambizioni neo-colonialiste e imperialiste, spinte dagli interessi economici dell’industria bellica. Ribadiamo la necessità di smascherare le vere cause che provocano le migrazioni. La libertà di circolazione per tutti e la fine di ogni tipo di ingerenza sono l’unica strada per evitare simili stragi in futuro. (Collettivo Askavusa)
Spagna, assalto alla frontiera di Melilla
Melilla è l’enclave spagnola di circa 12 chilometri quadrati, che costituisce l’unico punto di passaggio via terra tra Africa (Marocco) e Europa. La frontiera è protetta da una tripla barriera alta 6 metri che si estende per un perimetro di circa 10 chilometri.
L’11 febbraio, dopo ripetuti assalti alla tripla barriera frontaliera da parte di 400 persone, all’alba un gruppo di 36 migranti di origine subsahariana è riuscito ad entrare a Melilla. Alcuni sono giunti nel centro di soggiorno temporaneo (Ceti) della città autonoma, poi portati in ospedale per le ferite riportate durante lo scavalcamento delle reti. Altri sono rimasti appesi alle recinzioni per ore e poi accalappiati, espulsi e riportati in Marocco.
La pressione migratoria sulla città autonoma si è intensificata dopo l’annuncio da parte del governo marocchino relativo allo smantellamento degli accampamenti di fortuna delle migliaia di migranti, che aspettano il momento opportuno per provare a superare le reti ed accedere in territorio spagnolo. Infatti non hanno perso tempo e nella notte la polizia marocchina e salita sul monte Gurugu, vicino al confine con Melilla, dove ha devastato e incendiato gli accampamenti. Almeno 300 persone sono state arrestate e centinaia caricate su bus e deportate, dopo essere state violentemente bastonate. Sono tutti di origine subsahariana e tra di loro ci sono molti minori.
In Spagna ci sono attualmente 8 CIE e il governo ora sta valutando la costruzione di altri tre lager etnici: a Madrid (dove un CIE è già presente nella zona di Aluche); a Malaga, dove il CIE era stato chiuso nel 2012 per l’assenza di “condizioni di vita dignitose”; e ad Algeciras. Inoltre l’Esecutivo ha ritenuto prioritaria la realizzazione di un nuovo centro di detenzione nella città di Cadice, a causa delle cattive condizioni in cui versa quello già esistente.
Grecia, CIE di Amygdaleza ancora morte
9 febbraio. Un ragazzo di 23 anni afgano Sayed Mehdi Ahbari, recluso insieme ad altre 1.600 persone, muore nel centro di detenzione per migranti di Amygdaleza, a 10 chilometri da Atene. Sayed si era sentito male la sera del 4 febbraio ed era stato portato all’ospedale per poi essere riportato al centro. L’otto febbraio era stato ricoverato di nuovo, ed è morto in ospedale il giorno dopo, per una patologia polmonare.
Sappiamo bene che sono proprio le inumane condizioni di vita in questi moderni lager che aggravano qualsiasi problema di salute e che le malattie sono causate dalla detenzione in questi centri. Si tratta di veri e propri omicidi di stato. Nel campo di Amygdaleza, come negli altri centri di detenzione per migranti in Grecia, non è presente nessun presidio medico, le poche cure sono fornite da medici volontari o dalle cliniche e farmacie sociali autogestite.
3 febbraio, Patrasso. 26 migranti hanno cominciato uno sciopero della fame. Erano stati arrestati perché senza documenti regolari e sono detenuti nel carcere di Santo Stefano da 11/14 mesi, nonostante ci sia una sentenza di espulsione.
7 febbraio. In risposta all’appello “per chiudere ORA i campi di concentramento” lanciato dall’Iniziativa aperta contro i centri di detenzione e dall’Assemblea di solidarietà con i rifugiati, si sono svolti 35 presidi in tutta la Grecia.
13 febbraio. E’ ricominciata ad Atene la protesta, davanti all’ufficio immigrazione, dei rifugiati siriani protagonisti per due mesi del presidio di piazza Syntagma, di fronte al parlamento greco. Lo striscione esposto riportava quelle che sono le parole d’ordine delle comunità migranti e delle reti di solidarietà greche: “Frontiere aperte per tutti. Documenti per i profughi e gli immigrati”.
17 febbraio. Le stesse comunità dei migranti e i gruppi antirazzisti greci hanno organizzato un’assemblea nazionale aperta ad Atene, per rafforzare e allargare la lotta e chiedendo: la chiusura immediata di tutti i centri di detenzione e la liberazione di tutti gli immigrati trattenuti nelle stazioni di polizia; pieni diritti per gli immigrati e rifugiati e documenti di viaggio per chi desidera lasciare la Grecia per raggiungere altri paesi.
Turchia, Campi Profughi
4 febbraio. A Suruç c’è il primo campo profughi gestito da Afad, “una specie di protezione civile turca”. E’ un campo molto sofisticato, circondato da alte recinzioni e presidiato da torrette e carri armati. E’ costato circa 35 milioni di dollari ed è stato costruito in appena 40 giorni. Ci sono trattenute 4.400 persone ed è composto da 7.000 tende.
Al suo interno sono presenti supermercati, asili e scuole. Ci sarebbero 400 insegnanti, 260 addetti alle pulizia, 325 dipendenti della sicurezza 60 traduttori, 63 impiegati dell’amministrazione e 48 pompieri. Mentre a Pirsus c’è un altro campo gestito dai curdi. L’accesso alla struttura è libero, è non c’è bisogno di identificarsi all’ingresso.
Il campo è composto da 700 tende e sono in molti a fuggire dal campo Afad per andare a quello a gestione curda. Pirsus si trova a pochi chilometri da Kobane, dove i curdi e i combattenti dello Stato Islamico si sono fronteggiati per mesi, lasciando la città completamente in rovina. Queste informazioni sono date da Rojava Calling, che è un’associazione nata per il sostegno umanitario alle popolazioni del Rojava (la regione di cui fa parte la città di Kobane). E’ schierata a fianco del partito Pkk curdo, di cui chiede la cancellazione dalle liste del terrorismo internazionale e la liberazione di tutti i prigionieri.
Operazione “Mos Maiorum”: report finale
Più di 19.000 persone sono state arrestate durante “Mos Maiorum”, l’operazione congiunta di polizia e guardie di frontiera in tutta Europa nell’arco di due settimane nell’ottobre 2014. Una copia del report finale, redatto dalle autorità italiane, è stata resa pubblica ed evidenzia che più di un quarto delle persone fermate erano siriane, seguite da afgani, kosovari, eritrei, somali e albanesi. 9.890 migranti irregolari sono stati intercettati nelle frontiere esterne, mentre 9.344 sono stati trovati nelle frontiere interne. Un totale di 257 persone sono state arrestate per favoreggiamento dell’immigrazione “clandestina”. Secondo il report, tutti gli stati membri UE hanno partecipato a “Mos Maiorum”, eccetto Croazia, Grecia e Irlanda. Hanno partecipato all’operazione anche Norvegia e Svizzera, e Frontex ha supportato le autorità italiane fornendo uno studio analitico dei dati riguardanti l’attraversamento illegale delle frontiere esterne europee.
Le testimonianza raccolte dal progetto “Map Mos Maiorum”, organizzato per monitorare il lavoro delle forze dell’ordine durante l’operazione, riportano: Saragozza “La Polizia Nazionale sta fermando le persone soltanto in base al colore della loro pelle (tutti neri); Berlino “2 volanti all’angolo di una strada fermano le auto ‘a caso’ secondo un profilo razziale. Più volanti del solito sorvegliano l’area”; Germania “Forze speciali della polizia alla stazione centrale cercavano rifugiati illegali con la “pelle scura”“; Bulgaria “La polizia cercava persone dell’Afghanistan e della Siria”; Grenoble “Circa 20 persone sono state arrestate nell’area intorno alla stazione ferroviaria e poi portate in questura. C’erano molti controlli d’identità nella stessa zona, condotti da circa 20 poliziotti con i cani”. E’ del tutto evidente che la maggior parte dei reclami segnalava le modalità discriminatorie e “razziste” con cui sono stati effettuati i controlli.
Milano, gennaio 2015
IL RIARMO CONTROINSURREZIONALE DELL’EU
Il centro per l’esercitazione al combattimento (CEC, 23.000 ettari) del Heer (esercito), nella brughiera di Colbitz-Lentzling della regione Altmark, nel nord del Land Sassonia-Anhalt della Repubblica Federale Tedesca, è la struttura centrale per la formazione della Bundeswehr (l’esercito federale), dove ogni militare tedesco previsto per le missioni all’estero passa due settimane d’addestramento conclusivo.
Il campo è munito di complessi sistemi di simulazione (per es. per sparare con i laser sui nemici, ancora immaginari, in Afganistan…). Poiché manca la simulazione degli scenari collocati, come negli ultimi anni, sempre di più nelle aree urbane, nel CEC stanno costruendo un’intera città per addestrare il personale militare per il combattimento casa per casa, strada per strada. Per circa 100 milioni di euro sarà la città-addestramento più grande d’Europa ed è costruita su 6 km quadrati con tanto di canalizzazione, metropolitana, centrale idrica ed elettrica, zona industriale, quartiere diplomatico, baraccopoli, centro commerciale, campo sportivo, area boschiva e moschea occasionalmente convertibile in chiesa. Questo perché prevedono che nel 2035 il 60% della popolazione mondiale vivrà nelle città e al 2070 addirittura il 70% e che dovrebbe far ipotizzare interventi urbani sempre più frequenti della Bundeswehr.
Ma già oggi il CEC è affittato regolarmente dai partner NATO ed EU per delle esercitazioni congiunte dei vari eserciti europei. Che in futuro saranno intensificate per le forze militari e di polizia strutturate militarmente dei vari paesi.
Ormai è da tanto tempo che stanno formando delle unità militari e di polizia specializzate nell’intervento internazionale contro ogni espressione insurrezionale. Dopo i disordini del 1998 in Bosnia-Herzegowina (sotto amministrazione ONU), gli USA ordinarono ai carabinieri italiani di formare una truppa di gendarmeria internazionale capace di “mantenere l’ordine pubblico”, vale a dire di mantenere sotto controllo la popolazione in zone di guerra o post-guerra, e si formò la prima unità multinazionale specializzata (MPU) impiegata nell’ambito delle “forze di stabilizzazione” della NATO.
Sempre sotto comando USA ma in base ad un trattato internazionale stipulato nel 2004 dai capi di Stato che parteciparono al G8 di Sea lsland, nel 2005 fu installato il centro di competenza per le unità di stabilizzazione (Coespu) con sede a Vicenza nella caserma dei carabinieri Armando Chinotto, sprovvista però di un grande campo di addestramento tipo CEC.
Secondo il direttore del Coespu, il generale dei carabinieri Paolo Nardone, si tratta piuttosto di un centro di formazione che concentra e trasmette delle competenze con seminari e convegni e compone delle «robuste forze di polizia per le missioni internazionali di pace», vale a dire forze di gendarmeria formate sul modello dei carabinieri italiani, cioè unità ibride con competenze militari e di polizia munite d’armi pesanti ma anche “non letali” che possono operare sotto comando sia militare sia civile.
Interventi all’estero
Obiettivo primario delle formazioni Coespu sono le capacità di controllo degli assembramenti umani e di contrasto ai tumulti: i poliziotti di stabilizzazione, dice un rapporto di seminario, devono essere capaci di gestire i disturbi dell’ordine pubblico, la vigilanza dell’infrastruttura sensibile, le scorte delle persone importanti, la lotta al terrorismo e contro le rivolte, di sgomberare barricate e di addestrare la polizia locale nelle tecniche contro-insurrezionali. Nello stesso documento si chiede la stessa formazione anche per le forze militari ed infatti è ormai consueto che i militari NATO nei loro luoghi di dispiegamento si addestrino in tal senso.
E nell’EU? Nel 2001, due settimane dopo la sanguinaria repressione della rivolta contro il G8 di Genova, l’allora ministro degli interni tedesco Otto Schily (il classico ravaniello, fuori rosso-verde e dentro bianco che da “compagno” si ricicla… Hitler e Mussolini docet!) in un’intervista chiese a gran voce la formazione di una polizia internazionale ed in seguito fu rafforzata la cooperazione tra le polizie europee, ed anzitutto tra le forze speciali europee addette al “mantenimento dell’ordine pubblico”. E se nei vertici EU continuano a discutere il, progetto di una polizia speciale europea sembra che lo facciano piuttosto per dissimulare che tale forza di polizia è già una realtà!
Clausola di solidarietà UE
L’articolo 222 dei trattati EU di Lisbona prevede che gli Stati affiliati s’impegnano al mutuo soccorso in caso d’emergenza. In caso di “attentato terroristico o di calamità naturale o di una catastrofe provocata dall’uomo”, l’unione può mobilitare “tutti i mezzi di cui dispone, incluso i mezzi militari messi a disposizione dagli Stati affiliati”.
La rappresentante per gli affari esteri e per la politica di sicurezza dell’Unione Europea, Catherine Ashton, e la commissione europea nel 2012 hanno precisato che questa clausola di solidarietà entra in vigore se si tratta di “vite umane, dell’ambiente, delle infrastrutture critiche o funzioni sociali essenziali”. L’evento potrebbe avere le sue origini da “una catastrofe naturale o provocata dall’uomo o da attentati terroristici”. È definita come catastrofe ogni situazione “che ha o può avere degli effetti nocivi per le persone, l’ambiente o le proprietà”. Una definizione molto larga, che include anche gli scioperi e le insurrezioni.
Eurogendfor
Ecco la cooperazione tra vari Stati UE: nel 2004, Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Paesi Bassi con la formuletta di una dichiarazione d’intenti come per magia esibirono la European Gendarmerie Force (Eurogendfor), un’aggregazione informale di unità di polizia provenienti dagli Stati firmatari. Dal 2008 vi appartiene anche la Jandarmaria Romana rumena; la gendarmeria turca ha uno status da osservatore, quella polacca e lituana sono considerate come partner.
In caso d’impiego, entro trenta giorni deve essere formata un’unità di 800 effettivi; il personale di polizia è fornito dagli Stati affiliati. L’indirizzo degli allenamenti congiunti come anche l’organizzazione e la direzione competono ad un quartier generale insediato nella stessa caserma a Vicenza che ospita anche la Coespu.
Eurogendfor è stata impiegata sinora solo in Bosnia ed Erzegovina, Afganistan e Haiti. Secondo il portavoce di Eurogendfor, Armando Sisinni, il dispiegamento della gendarmeria europea sarebbe previsto solo per dei paesi esterni all’Unione.
Eurogendfor è fuori da ogni controllo parlamentare. Sottostà solo ad un consiglio di ministri degli interni e della difesa degli Stati affiliati. Chi può impedire a questo consiglio d’inviare, quando ritenuto opportuno, i gendarmi europei in un paese dell’UE? In fondo il come, quando e dove s’impiegano delle forze armate e delle unità di polizia dipende dalla volontà politica e la clausola di solidarietà del trattato di Lisbona può giustificare tale impiego. Ed ecco che la UE in caso di tumulti dispone della facoltà d’inviare nei paesi dell’UE, sia forze speciali di polizia sia militari con l’ultimo tocco ottenuto per esempio nel CEC.
Per ora pare che i governi europei si limitino al rafforzamento della cooperazione di polizia negli ambiti “controllo degli assembramenti umani” e “contrasto ai tumulti”.
Su richiesta al governo federale da parte della frazione della Die Linke (La Sinistra) si apprende che tra il 2010 ed il 2013 già solo la polizia federale tedesca svolgeva 73 esercitazioni congiunte con altre forze di sicurezza estere. Risulta insolita la gran frequenza d’esercitazioni per le situazioni d’occupazioni di case e di manifestazioni.
Alcuni esempi: giugno 2012, a Beyreuth, agenti di polizia tedeschi e austriaci si preparano per lo scenario “occupazione di case, perquisizioni di case, tiro, catastrofe naturale, nuoto e salvataggio, scorte”; fine novembre 2012, forze di polizia tedesche, belghe e lussemburghesi si esercitarono per lo “sgombero blocchi”; il 10 ottobre 2013, a Quierschied-Göttelborn nel Saarland, esercitazioni anti-manifestazione con una centuria della celere della polizia del Saarland, una della Gendarmerie mobile francese ed una centuria delle Compagnies Républicaines de Sécurité.
Secondo un’informazione data dal governo federale il 13 febbraio 2014, si esercitava l’azione di polizia contro una demo con manifestazione intermedia e conclusiva come nelle cosìdette giornate di azione Blockupy.
Vuole dire che si preparano a contrastare una manifestazione a livello europeo contro la gestione politica della crisi.
Blockupy è quell’alleanza di criticx della globalizzazione, di sindacalistx e d’attivistx di sinistra che si è formata già nel 2012 per protestare, a Francoforte, am Main presso la sede della BCE, contro la gestione politica della crisi attuata dalla Troika - Banca Centrale Europea (BCE), commissione UE e fondo monetario internazionale. Con lo slogan «Austerity kills» (L’austerità uccide) l’alleanza prevede di bloccare anche l’inaugurazione della nuova sede BCE, prevista nel 2015.
Uno scenario che non può non terrorizzare l’establishment di Bruxelles...
Sintesi a cura di Marco Camenish, 20 novembre 2014
(dall’ articolo di Aureliana Sorrento della rubrica “internazionale” della Woz n. 47)
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Francia: Calais Migrant Solidarity, Appello alla solidarietà
Ad aprile 2015 la municipalità di Calais in collaborazione con il governo socialista statale, intendono aprire il Centro diurno Jules Ferry per tutti i migranti che vivono in città. Questo centro viene venduto dal governo e dai suoi media come un’azione umanitaria. E’ una stronzata! E’ un misero tentativo per provare ad alleviare la catastrofica situazione in cui vivono le persone migranti.
Una situazione che è stata creata dalle politiche che il governo ha attuato.
L’apertura del centro diurno sarà accompagnata da uno sgombero di massa di circa 2.000 persone e dalla distruzione delle loro case: gli squat e le jungles di Calais. E’ chiaro che l’apertura del centro diurno coinciderà con un grande sgombero degli spazi esistenti nel centro di Calais, e che gli accampamenti verranno “tollerati” solo nell’area attorno al centro. L’intenzione chiara è quella di creare un ghetto per immigrati fuori dalla città. Per ora non c’è una data confermata ma sembra che (lo sgombero) dovrebbe avvenire alla fine di marzo, in tempo per l’apertura del centro ad aprile.
L’ultima tornata di grandi sgomberi avvenne il 2 luglio 2014 con un grande dispiegamento delle forze del disordine. Con lo sgombero di Salam e di quattro squat, tutti coloro che vennero identificati come immigrati, furono arrestati e internati nei centri di detenzione di tutta la Francia, dopo esser stati gasati e picchiati dalla polizia.
Con l’aumento delle deportazioni dal governo francese in Sudan, le conseguenze di uno sgombero, che presenti le stesse caratteristiche, potrebbero essere catastrofiche per molti/e. Nonostante alcune persone stiano considerando di trasferirsi “volontariamente”, fino ad ora la maggior parte delle persone ha rifiutato di spostarsi.
Malgrado la sistematica repressione sbirresca e le rigide condizioni meteorologiche, le comunità migranti sono state in grado di creare e difendere spazi di autonomia e di auto-costruirsi le case. In questi luoghi (accampamenti e occupazioni) un minimo di libertà è assicurata, per esempio la possibilità di andare e venire quando si vuole, di permettere o rifiutare l’ingresso ad altri, di condividere, di far festa, di pregare, di tirar su qualche soldo…
L’appello è quello di venire a Calais per portare solidarietà e per resistere a questo tentativo di affermazione dell’apartheid e della segregazione nelle strade di Calais. Combattiamo contro la violenza della polizia, contro coloro che l’hanno creata, contro coloro che la appoggiano e la proteggono, contro tutti e tutte coloro che non vogliono vedere. Facciamo appello a te per lottare contro le frontiere, che sono uno strumento di potere e controllo. Non solo a Calais ma ovunque tu sia.
Libertà di movimento per tutti e tutte!
Il regime delle frontiere deve cadere. Venite organizzati/e!
Calais Migrant Solidarity
12 febbraio 2015, da hurriya.noblogs.org
LETTERa DAL CARCERE DI PADOVA
La fuori dal muro di cinta una bugia detta tre volte diventa una verità, in galera invece basta una volta e mezzo. Leggo: Rivolta al carcere di Padova: detenuti inneggiano all’Isis. Sale la tensione al carcere Due palazzi di Padova. Ieri pomeriggio una rissa fra due detenuti ha rischiato di degenerare (Il Giornale). Feriti quattro agenti nel carcere di Padova. Quattro poliziotti sono stati feriti per una rivolta dei detenuti nel carcere di Padova avvenuta ieri pomeriggio. All’origine c’è una lite tra detenuti di cui non sono chiare le cause (Internazionale). Rivolta nel carcere padovano Due Palazzi: ore di tensione e due agenti feriti. Il sappe: Molti detenuti inneggiavano all’Isis. Sono state ore di paura quelle di ieri sera nel carcere di padovano Due palazzi. Tra le 18 e le 20 una sessantina di detenuti del quarto piano dell’edificio è insorta contro le guardie penitenziarie (Huffington). Carcere di Padova, rivolta dei detenuti arabi al grido di Allah e Isis: feriti due guardie e un carcerato (Il Messaggero).
A me risulta, dalle testimonianze raccolte, che un detenuto si sentiva male e i suoi compagni di sezione hanno protestato con urla e una battitura alle sbarre per attirare l’attenzione. Ed in seguito è nata una colluttazione fra un detenuto ed degli agenti. E che fra i principali protagonisti principali non c’era nessun detenuto di fede mussulmana. Anch’io però sono di parte e vi chiedo di non credermi sulla parola perché, in carcere è difficile, se non impossibile, scoprire la verità forse perché anche questa deve rimanere prigioniera. Purtroppo, quando accadono questi brutti fatti a nessuno interessa la verità perché probabilmente tutti i protagonisti dell’universo carcerario ne approfittano per avere dei vantaggi politici, mediatici e finanziari: le guardie, miglioramenti sindacali, le associazioni di volontariato, attenzione pubblica, le cooperative che lavorano in carcere, sgravi fiscali e urlare che il lavoro in prigione abbassa la recidiva e ai giornali, dopo i brutti fatti di terrorismo di Parigi non gli sembra vero di mettere un titolo come questo (non ha importanza se la notizia non sia vera) “Carcere di Padova, rivolta dei detenuti arabi al grido di Allah e Isis”.
In carcere tutto fa brodo e dei detenuti non si butta via nulla neppure il cuore e il cervello. E la loro disperazione, sofferenza, rabbia e lacrime spesso serve ai “buoni” per avere un motivo di continuare a tenere i cattivi nelle nostre patrie galere.
Credo che la cultura della punizione non serve né ai cattivi né ai buoni. Non capisce o non vuole capire che bisognerebbe mettere sullo stesso piano sicurezza e la legalità sociale come d’altronde la legge vuole. Credo che i detenuti lasciati più liberi di creare, studiare e lavorare, potrebbero essere giudicati meglio invece che dai loro comportamenti passivi alle regole del carcere. Non so se è una notizia eclatante “Rivolta al carcere di Padova: detenuti inneggiano all’Isis” ma v’informo che salgono a quattro i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio del 2015 nelle nostre illuminate e democratiche prigioni italiane.
gennaio 2015
Carmelo Musumeci, via Due Palazzi 25/a – 35136 Padova
da una Lettera dal carcere di Rossano Scalo (CS)
[...] Dopo gli eventi che sono successi in questi mesi la nostra situazione si è leggermente complicata, la diffidenza e il pregiudizio sono aumentati...
Riguardo a Khalil, lui aveva chiesto l’espulsione come alternativa e gli hanno risposto positivamente, ora sta aspettando che la questura prepari il necessario per il viaggio d’espulsione, invece a Dridi Sabri avevano rifiutato i 45 giorni ed è uscito a dicembre ed espulso in Tunisia. Di quelli “vecchi” ne sono rimasti, compreso me, 5 più altri 5 “nuovi” da Bari, qua dentro ora siamo in 10 in totale, due usciranno a mesi e quelli del processo di Bari tra un anno dovrebbero uscirne 4, gli unici con gli anni lunghi ancora da scontare sono in due. Di questo passo se non arresteranno altri innocenti dovranno chiudere questo AS2 e speriamo sia così!
Febbraio 2015
Lettera dal carcere di Monza
Quelli che seguono sono brani tratti da una lettera indirizzata alla direttrice del carcere di Monza. Ora Joe ha deciso di renderla pubblica. Eccola.
Gentile signora Pitaniello, in questo carcere, retto da lei, sono accaduti tanti episodi indegni di una società civile e si stanno tuttora verificando. C’era la presenza di una banda formata da alcuni agenti, specifico alcuni... che indossavano la divisa della polizia penitenziaria, dello Stato, la repubblica Italiana! praticando ugualmente le atrocità dei movimenti «antidiversità», dei neofascisti, dei Ku Klux Klan, prendendo di mira gli stranieri che non hanno appoggi esterni, causa lontananza e non parlando bene l’italiano; prendendo di mira anche i ragazzi. Addirittura istigano alcuni detenuti, favorendoli, concedendo alcuni privilegi, ad altri negati, per poterli influenzare a commettere gli atti di violenza ai danni di altri detenuti; e alla fine di ogni pestaggio il medico di turno viene raccomandato a non refertare niente. Qui di seguito le elenco gli episodi più recenti ed emblematici.
Un ragazzo tossicodipendente italiano ha chiesto aiuto alla guardia carceraria per una visita dal medico, dato che stava molto male. La guardia gli ha risposto «impiccati». A quel punto è nata discussione tra loro. Quella guardia ha aperto la cella ad altri due detenuti, facendoli entrare nella cella del ragazzo sofferente, autorizzandoli, col suo comportamento, a picchiarlo, e sostando all’esterno a guardare quel pestaggio, ne rideva. Dopodichè il ragazzo è stato portato via.
Mi chiedo, com’è stato giustificato a lei lo spostamento di quel ragazzo, tanto da trattenerlo in isolamento per più di 15 giorni previsti dalla legge? Per lei, signora Pitaniello, il debole non è creduto anche se giura per tutti gli dei; come nel diritto romano «Possessores sunt potiores, licet nullus jus habeat»: chi possiede, cioè il forte, è in linea di diritto, in condizione più favorevole di chi non possiede, cioè il debole, benché non abbia diritto.
Uno zingaro aveva chiesto alla guardia di poter avere un po’ di detersivo per pulire la sua cella. Quella guardia gli ha risposto «Nella baracca dove abitavi facevi pulizia?» Quel detenuto non sapendo cosa rispondere a quell’insulto, si autolesionò sbattendo forte la testa contro le inferriate della finestra, rompendosi la testa....
La fornitura di prodotti igienici personali e per l’igiene della cella è praticamente nulla! E pur avendo i magazzini del carcere pieni di questi prodotti, la direzione ci obbliga a comprarli, a spese nostre, sulla spesa interna. Questa situazione porta disagio! Un detenuto indigente come me, per mantenere uno stato normale di igiene personale è costretto ad elemosinare questi prodotti essenziali dai suoi compagni; e a dover elemosinarli si perde la propria dignità.
Signora Pitaniello, la povertà non è un crimine, perché è creata dall’egoismo e dall’indifferenza dell’uomo. Lei deve ritenersi moralmente ed istituzionalmente responsabile di ciò che è accaduto a quel detenuto zingaro.
Non è finita qui. Un detenuto macedone di esile corporatura è stato picchiato da molti agenti o secondini (mi chiedo: a cosa serve dare un altro nome alle rose se l’odore rimane lo stesso?) per una banale discussione provocata da uno degli assalitori. Quel ragazzo, signora Pitaniello, poteva essere suo figlio. Chi vive in una casa di vetro non scaglia mai le pietre!
Un detenuto ivoriano è stato picchiato e subito trasferito. Durante il pestaggio una guardia è rimasta con un occhio gonfio. Senza dubbio le sarà stato riferito che quel nero l’ha aggredito nell’esercizio delle sue funzioni. E sicuramente quel nero non sarà stato visitato dal medico.
Ho da dirle ancora: i maghrebini abitualmente si autolesionano per chiedere i diritti di base, concessi senza fastidio ed abbondantemente ai super detenuti «picchiatori» di altri detenuti. Se la legge è uguale per tutti, l’esecutività della pena deve essere uguale a prescindere dalla razza e dallo status sociale. Non è corretto che alcuni vengano favoriti per compiere atti di violenza su altri detenuti...
L’aspetto più disumano è che lei stessa direttrice non accetta lettere dei detenuti in busta chiusa, come previsto dall’ordinamento penitenziario. Le chiedo: è giusto che un detenuto debba per forza mostrare agli agenti, stessi autori delle violenze, la lettera, mettendosi così ancora più a rischio nell’intento di voler comunicare gli abusi subiti? Poi, prima di ogni «summit» spacciato per un consiglio disciplinare vero, capeggiato da lei, con lo scopo preciso di legittimare i soprusi delle guardie sui detenuti, lei manda un ispettore degli agenti di custodia per raccogliere anticipatamente le dichiarazioni che il detenuto di turno voleva portare a sua conoscenza, permettendo alle guardie di modificare il proprio rapporto in base alle dichiarazioni del detenuto. È come se Ponzio Pilato avesse mandato Tiberio a prendere in anticipo le dichiarazioni di Gesù, prima della sua comparizione davanti a lui. Non è assurdo?...
Nella sesta sezione c’era un’affissione, firmata da lei che sanciva l’orario di passeggio dalle 9 alle 12. Di solito molti detenuti scendono alla mattina e rientrano alle 10, e chi intende rimanere fino alla chiusura definitiva viene perpetuamente mandato dentro da alcuni agenti, dicendo che non possono perdere tempo per vigilare su quei pochi.
Un giorno ero il solo che voleva scendere all’aria, ma mi hanno rifiutato perché ero solo! Idem per la biblioteca. Già essendo solamente un’ora alla settimana per sezione e per poterci accedere bisogna essere in cinque e non più di dieci. Spesso ci si ritrova in due-tre e comunque ne viene negato l’accesso...
Monza, 31 luglio 2014
Joe Ortiz, via S. Quirico, 10 - 20900 Monza
Lettera dai domiciliari
Una truffa ai detenuti
Vi è molto sconforto nelle carceri, non solo per le condizioni di vita disumane, e per l’impossibilità di rieducarsi e prepararsi al reinserimento nella società, ma soprattutto perché a danno dei detenuti, nel silenzio assordante dei mass media, si sta compiendo l’ennesima truffa.
La Corte di Strasburgo minacciava gravi sanzioni pecuniarie verso l’Italia, se non avesse reso i penitenziari più vivibili, per cui in tutta fretta è stato approvato un decreto legge, che prevede un abbuono di 1 giorno per ogni 10 trascorsi in celle sovraffollate o un risarcimento di 8 euro al giorno per chi ha già scontato la pena.
Ma la normativa è stata resa inoperante per l’interpretazione data alla stessa dalla magistratura di sorveglianza, che sta dichiarando inammissibili la quasi totalità dei ricorsi con le più svariate motivazioni, costringendo a defatiganti ricorsi in Cassazione.
Da qui l’unica possibilità il risarcimento monetario, che lascia il tempo che trova, perché non ci sono civilisti che per una istanza per ottenere qualche paio di migliaia di euro in media, non si facciano dare almeno 1.000 di onorario e bisogna anche considerare che si può nominare un civilista dal carcere soltanto se si è in pendenza di un giudizio civile e non per istaurarne uno ex novo.
La Corte di Strasburgo nel frattempo certa che “giustizia è stata fatta” ha bocciato le migliaia di istanze presentate in questi anni a partire dalla sentenza Torreggiani del gennaio 2013, in cui era stata condannata l’Italia ad un risarcimento cospicuo per aver tenuto alcuni detenuti (situazione normale) in celle dove disponevano di tre mq a testa (tenendo conto che in Europa negli allevamenti ad un maiale ne sono obbligatoriamente concessi 10).
É veramente convinto lo Stato che far scontare ai detenuti la pena in modo disumano dentro carceri sovraffollate, senza alcuna attività, imbottiti di psicofarmaci, incattiviti ed esasperati, renda la società più sicura?
Le carceri così come sono, sono inutili e dannose per i detenuti, per le loro famiglie, e per la società; invece di recuperare escludono ed emarginano, e rischiano di far uscire le persone peggiori di come sono entrate.
I penitenziari si rendono vivibili garantendo ai detenuti quanto previsto dalla legge: semi libertà a metà pena, affidamento in prova quando mancano 4 anni dal fine pena, gli ultimi 18 mesi di reclusione ai domiciliari; provvedimenti che gradualmente svuoterebbero i penitenziari, tenendo conto che oltre 20.000 detenuti potrebbero beneficiarne, portando il numero dei reclusi in linea con quanto perentoriamente richiestoci dall’Europa.
Un discorso a parte meritano i numerosi tossicodipendenti, che dovrebbero essere, prima che puniti, curati in apposite strutture.
Potrei dilungarmi ricordando l’epidemia di suicidi, che andrebbe contrastata con un’inesistente assistenza psicologica, ma vorrei trattare dei non meno importanti mali dell’anima: la solitudine, la malinconia, la sofferenza, la nostalgia. Conosco un rimedio infallibile per combatterli: rimanere in contatto costante con i propri familiari, anche solo per telefono. In tutta Europa i detenuti (a loro spese) sono liberi di fare quante telefonate desiderano.
Perché dobbiamo essere costantemente il fanalino di coda della civiltà?
Per convincere l’opinione pubblica che indulto e amnistia sono ineludibili (parole del Presidente della Repubblica) basterebbe che si montasse nelle piazze principali del nostro paese un cubo avente il volume di una cella, nella quale secondo le normative della U.E non potrebbero vivere 4 maiali e viceversa vivono, nei gironi infernali di Poggioreale e dell’Ucciardone, 16 esseri umani 23 ore su 24 ed invitare altrettanti cittadini ad entrarvi ed a rimanerci non 1 anno, non 10 anni, non fine pena mai, ma soltanto un’ora. Ne uscirebbero inorriditi e si affretterebbero a comunicare ad amici e conoscenti l’intollerabile situazione carceraria.
16 gennaio 2015
Achille della Ragione
Lettera dal carcere di Velletri (RM)
Car* compagn* di Olga, ricevuta la vostra con inusuale velocità postale…
Vi ho accennato della farsa sul 35 bis, 35 ter e 69 L. 354/1975 riferito alla L. 10/2014 e soprattutto al decreto n° 92/2014 (visto che 35 bis è ogni reclamo in realtà...). Il ritornello lo conosciamo: un giorno al mese di sconto pena perché ancora dentro, otto euro al giorno perché fuori ed è stato detenuto in condizioni disumane.
Magistrati di sorveglianza e il tribunale civile sono i referenti a seconda dei casi.
Ora, questa legge è del 28 giugno 2014, quel giorno è entrata in vigore come decreto.
Grazie ad essa il governo è riuscito ad evitare la sanzione europea (C.E.D.U.), così che Strasburgo ha rigettato migliaia e migliaia di ricorsi.
Nella realtà questo espediente, se ci si avventura ad analizzarlo, ricorda il gioco delle tre carte. Oppure un “pacco” rifilato sulla Roma-Napoli o nei quartieri popolari di Bari!
Hanno fatto la legge, ok... ma prima non è stata istituita nessuna commissione o creato nessun “fondo risarcimenti” ad hoc.
Così, a decidere sulla legittimità dei nostri corsi, sono di nuovo quei magistrati di sorveglianza che già firmano ogni altro atto riguardante il nostro percorso carcerario.
Ad oggi, compagni, non ho sentito o letto di un detenuto a cui sia stato accolto sto fottuto reclamo. Il “no” arriva diretto o tramite camera di consiglio. Quelli sì che li ho visti! Le motivazioni addotte sono nette, irritanti e a volte incomprensibili.
La prima è di solito che “il reclamo manca dei dettagli utili ad una corretta valutazione”.
Allora lo si descrive, specificando pure quanti sono i bacarozzi ospiti in cella e il “no” smaschera il loro gioco: “da un’analisi coadiuvata dal personale addetto (!!) risultano condizioni di detenzione rispettose dei criteri richiesti... contando la cella indicata un metraggio superiore ai 3 mq”...
Ma come? Quando cazzo sono venuti a misurarmi la cella?! Porta Troia, abbiamo infastidito il delinquente più intelligente della sezione per contare pure millimetri, gli angoli, sottrazioni, moltiplicazione e questi ci vengono a dire “state bene così”?! ‘ndo l’hanno trovato sto metro quadro in più? Ecco... arriva la direttrice e suggerisce la soluzione: “l’avete contato il letto?” - “Il letto”? Ma se dice di calcolare lo “spazio calpestabile”, se nella “Torregiani” lo toglievano, mo’, perché lo rimettono?! Io ci dormo sul letto mica ci cammino! E poi vuoi contare il mio, quello del cellante che c’azzecca col culo mio?”.
Così, ironia a parte, conviene studiare bene i riferimenti della legge. Hanno provato a mediare tra i ricorsi accettati in passato da Strasburgo, allora da lì dobbiamo ripartire pure noi: oltre alla Torregiani VS Italia c’è la “Sulejmanovic Vs Italia” dove si indicano altre relazioni oltre metri quadri (bagno, areazione, luce naturale, riscaldamenti, igiene); poi il D.P.R. 230/2000 che dice che le celle devono avere “acqua corrente fredda calda”, “lavabo” e “doccia”... art. 7.
In passato qualche magistrato sorveglianza s’è preso la briga di contestare quanto nei reclami di persona e, in alcuni casi, come a Lecce e a Bologna o a Catanzaro, ci hanno pure dato ragione. In passato, si, quando non era legge!
A mio modesto avviso ora c’è una direttiva partita dal ministero che invita i magistrati a prenderci per il culo. In breve:
- ci sono almeno quattro modi per presentare sto ricorso: se in carcere/non sei carcere/se è detenuto in condizioni disumane/se è stato detenuto in condizioni disumane...
- Hai usufruito di qualche beneficio nel frattempo (es: comunità, domiciliari, etc) e l’hai rotto? Sei un 58 quater si vede che non stavi male in condizioni disumane... “Rigetto”!
- Eri in un carcere stile San Vittore o Regina Coeli o Poggioreale ma da un po’ sei in un carcere leggermente migliore? Hanno risolto la tua situazione, no?! “Rigetto”...
- Diciamo che ti dice bene e il magistrato accoglie: l’amministrazione penitenziaria viene esortata a migliorare le condizioni di detenzione prima di un ideale risarcimento. Lei se ne frega (come fa) e la toga dovrebbe in teoria commissariarla o altrimenti dichiarare nulli gli atti in violazione: secondo voi, cosa farà?
Prima di chiudere con una riflessione manca da dire a chi davvero ci sta provando a fare sto’ reclamo, che come tutti i rigetti del magistrato pure questo si può impugnare al tribunale di sorveglianza; una volta ricevuto anche quel rigetto c’è la corte di cassazione. In bocca al lupo! Umilmente credo sia una porcata. Credo che abbiamo a che fare con dei cani in giacca e cravatta ed in toga nera (chiedo scusa agli amati cani). E questi cani tra di loro non si mordono. Hanno messo su una bella giostra di menzogne per fregare noi e fare i giusti davanti a Strasburgo, niente di più.
Hanno messo in mano ai magistrati di sorveglianza una penna nuova. Così ora oltre a dire che ci stanno rieducando, sentenziano pure sull’umanità o disumanità dei loro carceri. Una trappola. Come altro chiamarla?
Ora qualcuno mi dirà: se lo permettiamo ce lo meritiamo! Puntiamo ad un misero sconto per uscire prima o ad un’elemosina e non vediamo che ci fottono la dignità. Il discorso andava bene finché serviva a fare pressione e a costringerli a dire la verità sulle patrie galere. Ma la verità la mostrano attraverso gli specchi come diceva Eco... Non li imbarazza, figuriamoci se li spaventa!!
Non voglio fare il “cangaceiro” o il kamikaze... Vogliamo ancora diplomazia (o burocrazia?)?!... potremmo coordinare un’invasione postale diretta alla corte suprema di cassazione o a quella dei diritti di Strasburgo per rivelare loro (come non lo sapessero!) le furbe dinamiche italiane. Potremmo. Come potremmo provare tante cose, che i detenuti non sono una classe sociale, anch’io, legale artista, ho poco da spartire con la maggioranza dei presenti qui, se non la dignità ed il muso duro quando si prova a prendermi per il culo! Un saluto a tutti ribelli, all’uomini liberi. Enko
Velletri, 13 gennaio 2015
Enrico Cortese, Via Campaleone 97 - 00049 Velletri
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Art. 35 bis (Diritto di reclamo)
Di tale reclamo si occupa ora il nuovo art. 35 bis o.p. che, rinviando all’art. 69 o.p., anche esso novellato, stabilisce innanzitutto i casi in cui può essere attivato.
Secondo la nuova normativa, il detenuto può proporre reclamo al magistrato di sorveglianza in due ipotesi: la prima è rappresentato dai provvedimenti di natura disciplinare adottati dall’amministrazione penitenziaria (art. 69, co. 6 lett. a), la seconda dall’ “inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti” (art. 69, co. 6 lett. b)...
Art. 58 quater (Divieto di concessione dei benefici)
1. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’art. 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato per uno dei delitti previsti nel comma 1 dell’art. 4 bis, che abbia posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale (evasione).
2. La disposizione del comma 1 si applica anche al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47 ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma.
3. Il divieto di concessione dei benefici opera per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena, o è stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2.
4. I condannati per i delitti di cui agli artt. 289 bis e 630 del codice penale (rispettivamente sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione e sequestro di persona a scopo di estorsione) che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4 bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni.
5. Oltre a quanto previsto dai commi 1 e 3, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal cap o VI non possono essere concessi, o se già concessi sono revocati, ai condannati per taluni dei delitti indicati nel comma 1 dell’art. 4 bis, nei cui confronti si procede o è pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale (evasione), ovvero durante il lavoro all’esterno, o la fruizione di un permesso premio, o di una misura alternativa alla detenzione.
6. Ai fini dell’applicazione della disposizione di cui al comma 5, l’autorità che procede per il nuovo delitto ne dà comunicazione al Magistrato di Sorveglianza del luogo di ultima detenzione dell’imputato.
7. Il divieto di concessione dei benefici di cui al comma 5 opera per un periodo di cinque anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca della misura.
LETTERA DAL CARCERE DI REBIBBIA (RM)
Ciao a tutti, come potete leggermi sono di nuovo con voi, speravo che con questo 2015 il Magistrato di sorveglianza di Roma mi avrebbe concesso l’affidamento in prova in una struttura che non fosse il carcere, invece mi ha rigettato tutto. È anche vero che mi trovo col “4 bis”, ma è pure vero che sono sotto il tetto dei 4 anni, effettivo a 3 anni senza giorni e 2 anni di presofferto. Per ora lavoro, cella da solo, e me faccio la mia e poi verso ottobre presento istanza per un nuovo affidamento in prova. Qui c’è gente che va e gente che viene, e pure oggi è passata e domani si vedrà, è come diceva il Grande Califano: “Vivo la vita così alla giornata per quello che dà...”. Già perché la vita si vive e non si programma. Per il resto che dirvi? Tutto a posto anche perché per noi lo Stato, tutt’ora, non ha fatto nulla, solo pubblicità ai telegiornali e le solite barzellette, sta bene a loro sta bene a tutti. Carissimi amici/e e conoscenti di questo viaggio, vi saluto con un caloroso abbraccio...
Roma, 15 febbraio 2015
Raffaele Morra, Via Raffaele Majetti,70 – 00156 Roma
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
[...] Entro nel merito di quello che ho letto nell’opuscolo e negli scritti dicendovi: che oggi discutere dell’abolizione dell’ergastolo è difficile, ma dell’ergastolo ostativo è impossibile, perché la zavorra del 4-bis non viene alleggerita per giochi politici e di voti… ciò non toglie che bisogna parlarne con insistenza perché il popolo crede nelle frottole dei media. Cioè: l’ergastolo non esiste e la pena non è certa.
L’unico interesse è il sovraffollamento, che viene superato con il gioco delle tre carte, cioè, mettere su carta posti inesistenti o futuristici.
Di fronte ad una situazione sociale sempre più critica, dove non c’è lavoro, non ci sono case, non ci sono pari opportunità, se la porta sociale si chiude si spalanca il cancello del carcere, soprattutto per i giovani.
Diventa così, il carcere, sempre più un contenitore umano troppo pieno, un modello istituzionale inteso come privazione di ogni legame sociale, fisico ed intellettuale, come violenza fisica che offende la nostra stessa specie. E tutto si riduce semplicemente all’annichilimento psicofisico del detenuto.
Senza nessuna prospettiva di un futuro costruttivo fuori dalle carceri anche il fine educativo che si dovrebbe prefiggere l’istituzione carceraria è fallito, perché il reinserimento sociale del condannato è possibile solo le condizioni esistenti lo consentono. Ma oggi la libertà, il lavoro sono privilegi negati ai cittadini liberi, figuriamoci ai soggetti esclusi dai processi di consumo/produzione.
L’indifferenza generale nei confronti di questa realtà è una vergogna per tutti quelli che credono nella libertà e nella dignità umana. Il carcere così è anacronismo, indegno, non bisogna fingere che non lo sia, non bisogna abituarsi ma nemmeno farsi carcere, diventarlo, smarrendo la dignità della tenerezza del proprio sguardo che fa sapere e sentire. Il dono è la vita e per questo si deve sempre lottare e fare di tutto per uscire da questi posti di sofferenza, dove nessuno deve stare, perché il carcere, anche con tutti gli spazi che può avere rimane sempre una gabbia.
Purtroppo oggi una certa categoria di detenuti non lotta più perché vengono poste prospettive diverse come la collaborazione impossibile, la non solidarietà tra carcerati, nociva al soggetto e al compagno, e la minaccia costante di punizioni o quella di ucciderti burocraticamente con la lentezza in tutto quello che chiedi. Questo vale anche per i compagni sottoposti al 41bis con il gravame dello stato in cui vivono. Restrizioni oltre l’immaginario, torture psicologiche senza nessun diritto, la dignità umana calpestata.
Tanti detenuti hanno superato i 25-30-43 anni di carcerazione effettiva e nulla muta nello status quo di ergastolano. Se questa non è pena certa, cos’è?
L’Italia si vanta di essere la culla del diritto, ma l’unico problema è che la culla si è smarrita da decenni! Cari compagni il bello della vita è il colore verde, cioè, la speranza che qualcosa cambierà e questo ci consente di continuare a lottare e a andare avanti, senza arrendersi mai.
Tanti cari saluti a tutti i compagni e a tutte le compagne. Con affetto, Antonino.
Sulmona 4, febbraio 2015
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L’Aquila)
spagna: SOLIDARIETA’ CON LA LOTTA DI JOSE’ ANTUNEZ BECERRA
Da Clivella, collettivo anticarcerario di appoggio alle persone detenute in lotta, vogliamo fare un appello urgente alla solidarietà con il detenuto in lotta Josè Antunez, e denunciare pubblicamente la situazione di discriminazione in cui si trova, accumulando quasi 40 anni di carcere, una forma di ergastolo nascosto, non essendo ancora l’ergastolo, per lo meno finora, dichiarato dalla legge.
Josè Antunez è stato mebro della COPEL (Coordinamento prigionieri in lotta), gruppo molto attivo durante gli anni ‘70 e ‘80, che ha portato avanti diverse rivendicazioni in tutte le carceri dello stato per l’amnistia di tutte/ le/i prigioniere/i, e provato a dare una coscienza nuova ai detenuti sociali, per la conquista dei propri diritti come esseri umani.
La lunga parabola carceraria di Antunez sempre è stata caratterizzata dalla denuncia delle frequenti ingiustizie, vessazioni, torture e morti che con tanta frequenza accadono in prigione con la complicità dei partiti politici e istituzioni. Sempre contro la passività di gran parte della società che non vede gli abusi, l’emarginazione o lo sfruttamento del lavoro carcerario, così pure la dottrina del castigo e della umiliazione con cui si reggono, diretto principalmente verso i settori impoveriti della società.
Per questo, Antunez viene trattato come un detenuto contro cui dirigono particolarmente il loro odio. Antunez è in carcere da tutta una vita, dove ha sviluppato il suo spirito autodidatta e cosciente che non sono riusciti a piegare neanche con le peggiori strategie di dissuasione dell’istituzione carceraria.
L’ipocrita e chiamata erroneamente “riabilitazione penitenziaria” ha come obbiettivo di tentare di piegare le persone in carcere attraverso il ricatto e l’umiliazione.
Come per molti altri prigionieri, la perversione del sistema di “riabilitazione” lo ha collocato nella tessitura, e pur accettando il programma di trattamento, l’amministrazione penitenziaria non gli permette di realizzarlo, senza nessuna spiegazione, ritardando deliberatamente il suo rilascio e condannandolo appunto all’ergastolo.
Lo spirito di lotta e resistenza di Antunez lo ha portato a realizzare diversi scioperi della fame. L’ultimo l’ha iniziato nel gennaio del 2014 ed è durato 36 giorni, per chiedere il trasferimento dal carcere di Brians 1, dove era emarginato.
Davanti alle promesse della giudice di sorveglianza e della direzione del carcere, ha deciso di fermarsi. E’ passato un anno da allora, e di fronte alla violazione dei suoi diritti fondamentali, lo scorso 23 gennaio ha iniziato un altro sciopero della fame.
Il carcere e tutto il sistema penale e di polizia non è rivolto solo verso determinate persone, giorno dopo giorno, la democrazia capitalista che ci governa, dimostra che esso è un efficace mezzo di castigo contro tutti i settori sociali non-sottomessi e dissidenti. Le carceri sono l’espressione più chiara del sistema di dominio che subiamo. Le leggi che precarizzano la nostra vita non fanno distinzioni; è il pendolo che usano per ipnotizzarci, attraverso pene di carcere, direttamente, o con il ricatto economico delle multe penali.
Con questo comunicato, Clivella vuole estendere la solidarietà con la giusta lotta di Josè Antunez, come con le/i prigioniere/i che con la loro attitudine di resistenza nelle condizioni più difficili si scontrano al dispotismo carcerario.
ABBASSO LE MURA DELLE PRIGIONI!!!
Per scrivergli: Josè Antunez Becerra, Centre Penitenciari Can Brians 2, Ctra. Martorell-Capellades, KM 23 - 08635 SANT ESTEVE SESROVIRES, BARCELONA (SPAGNA)
Barcelona, 3 febbraio 2015
Clivella, collettivo anticarcerario in appoggio alle persone detenute in lotta
Lettera dal carcere di Pavia
[...] Qui a Pavia ho incontrato qualche vecchio amico che conosceva già l’opuscolo e a mia volta ho girato alcune copie nuove in sezione. È sempre bello trovare persone che come «noi» non si arrendono ad uno stato di cose precostituito e che si interessano non solo della realtà in cui vivono singolarmente, curiosi di capire cosa succede al di là degli alti muri. Beh, che dire, Pavia è una Casa Circondariale risalente ai primissimi anni 90, inserita nelle famose «carceri d’oro» come Opera, Vigevano e Cremona, che vennero travolte da tangentopoli e dalle gravi carenze di natura strutturale e qualitativa che subito balzarono agli occhi degli addetti ai lavori e di chi le affollava: i prigionieri.
Da quasi 6 anni è in atto una manutenzione mai iniziata realmente, se non con la costruzione di alcuni nuovi padiglioni adibiti ai detenuti «protetti» e che per giunta sono stati edificati sul terreno dove sorgeva il campo sportivo per giocare a pallone.
Ma adesso vorrei elencare alcuni spazi della struttura nei quali ho potuto notare tutto all’infuori che il funzionamento. La palestra è un campo rettangolare in terra battuta dove praticamente è impossibile non farsi male se per caso uno cadesse, dato il materiale assolutamente inadatto, pressoché spoglia di tutto, alle sue estremità sono collocate le porte non attaccate a terra, semovibili e arrugginite, per non parlare del riscaldamento inesistente e dei bagni alle cui pareti è presente muffa, umidità e infiltrazioni dovute alla scarsa impermeabilità del tetto. Di fatto nei giorni di pioggia questo edificio è reso inabitabile in quanto tanta acqua da tutte le parti forma un vero e proprio lago, difficilmente rimovibile nei giorni seguenti. Le docce, altra cosa importante non sono ben erogate, pensare che ci sono solamente due docce funzionanti su quattro e che l’erogatore di ogni doccia è rotto, quindi bisogna con difficoltà girare con le mani la vite che di fatto fa sgorgare l’acqua. Anche qui muffa, fili scoperti e acqua ovunque, visto che i bocchettoni principali sono bloccati e non vengono puliti. Inoltre, molte volte noi reclusi abbiamo dovuto lavarci con acqua fredda, difatti molte volte, e soprattutto nelle sezioni alte, l’acqua calda non arriva, causa la chiusura (voluta) dell’erogazione dell’acqua calda.
Il riscaldamento è un altro problema che esiste qui, in 7a sezione addirittura nei corridoi e nella saletta ricreativa non esisteva riscaldamento, i termosifoni sono messi lì per optional, forse la direzione ha voluto differenziare questi servizi in base alle sezioni, infatti la 7a sezione ora è stata chiusa per lavori... ma su questo mi soffermerò tra poco. Non sapevo che c’erano sezioni buone e sezioni lasciate abbandonate!
Per quanto riguarda le sezioni c’è stato un rivoluzionamento generale: alcune sono diventate solamente per detenuti definitivi e appellanti, la 3a sezione per detenuti in attesa di giudizio e la 6a «promiscua» e punitiva. Nei fatti su sette sezioni disponibili solamente quest’ultima è a regime chiuso mentre la 7a è stata chiusa per lavori di rifacimento. Dovrebbe fungere da reparto OPG in previsione della chiusura delle strutture psichiatriche prevista per metà 2015 (sempre che non scivoli la data di rinvio come da un paio di anni a questa parte).
Non parliamo degli irragionevoli fili della corrente scoperti della pericolosità che c’è ogni volta che bisogna accendere la luce che illumina la cella, poiché non esiste il bottone con relativa tastiera, ma si è costretti a girare la lampadina. Ultimamente, ricevendo una scossa, fortunatamente di lieve voltaggio, esponendo il problema ad uno dei tanti «portachiavi», mi è stato detto con arroganza che era colpa mia poiché se voglio la luce e non voglio rischiare scosse, devo chiamare l’agente e farmi accendere da fuori dove c’’è il quadro elettrico. Agghiacciante e avvilente.
Voi compagni vi potete rendere perfettamente conto da chi siamo gestiti e come viene (non) speso il denaro pubblico destinato all’edilizia carceraria.
Un altro tasto dolente è il carrello porta-vitto, cibo scarso sia sul piano qualitativo che quantitativo, e, addirittura il pane viene dato sfuso per mancanza di sacchetti di plastica, tanto che molte volte abbiamo rimandato indietro il carrello per via della scarsa igiene presente, oltre che per il pane messo lì in cestoni sporchi e polverosi.
Tanto per cambiare discorso. Sono stato spostato (definitivo da quasi tre anni) da una sezione chiusa ad un’altra chiusa in 6a, e, alla mia richiesta di andare in sezione aperta per definitivi, mi è stato detto dall’ispettore che al momento non c’erano posti né premesse per spostarmi e che eventualmente nel caso fossero libere ubicazioni avrebbero provveduto. Cosa falsa, infatti molte volte mi è stato detto che avevo una specie di bollino rosso a stare aperto e sono stato più volte «invitato» a lasciare calma e tranquilla la sezione e a non coalizzare i detenuti. I loro metodi ricattatori e funzionali al mantenimento del sistema non mi scalfiscono né mi scoraggiano a continuare con dignità e a testa alta a combattere insieme a chi non si arrende alla staticità della galera contro gli abusi e la giustizia malata.
Saluto tutti i detenuti e i compagni Francesco di Cremona e Davide di Teramo, nonché tutte le associazioni che come Olga si propongono l’abbattimento del carcere quale strumento di rieducazione e repressione. Un saluto ai compagni No Tav e agli ospiti nei CIE e CPT. Fuoco alle galere! Lo stato si abbatte e non si cambia. Andrea.
Pavia 13 gennaio 2015
Andrea Renzullo, via Vigentina, 85 - 27100 Pavia
Dal carcere di venezia: si scrive suicidio si legge omicidio
Il 5 gennaio scorso Adrian, un ragazzo di 19 anni, si è tolto la vita impiccandosi nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. Arrestato il 31 dicembre per un piccolo reato contro il patrimonio, commesso tempo prima, avrebbe dovuto scontare la custodia cautelare ai domiciliari, salvo il rifiuto della famiglia ad accoglierlo.
Visti gli articoli di giornale apparsi in questi giorni ci preme non lasciare adito a speculazioni sulla sua morte: le sue scelte di vita, i rapporti che intratteneva con la sua famiglia e i suoi problemi personali non sono stati la causa della sua morte e non devono divenire argomento di discussione. Adrian è morto di carcere. Tutto il resto è chiacchiera da bar o inchiostro per riempire i giornali.
Non sta a noi, come a nessun altro, indagare sulle cause che l’hanno portato a compiere questa scelta. Non ci sentiremmo meglio sapendo che, nelle ultime ore di vita, aveva incontrato una guardia violenta, aveva mischiato psicofarmaci, si era sentito rifiutato da qualcuno o che, magari, aveva già deciso da tempo di lasciarci. L’unica cosa di cui siamo certi è che nessuna scelta, in carcere, è una scelta autonoma. Adrian, come tanti altri detenuti, fuori dal carcere non sarebbe morto. Deve bastarci questo per desiderare che di quelle quattro mura, e dei giri di affari che le sorreggono, non rimanga altro che cenere e macerie.
Non ci interessa conoscere le responsabilità oggettive, se mai verranno fuori. Dare un nome e un cognome al secondino di turno, o additare l’amministrazione carceraria di negligenza, magari per far aprire all’ennesimo parlamentare illuminato un’inchiesta su quanto si sta male in galera. Per noi le responsabilità sono già chiare.
Responsabile è questo stato di cose al collasso, che non si regge su altro che sulla violenza che il carcere e la polizia sono in grado di esercitare. Responsabile è questo mondo infame che, fuori prima che dentro una cella, non è in grado di riservare altro che solitudine e paura. Responsabile è un ordine incapace di trovare altro posto a un ragazzo di 19 anni che non sia la galera, anche quando questo, per le stesse leggi che governano quest’ordine, in galera non dovrebbe starci.
Contro tutto questo la nostra rabbia non può più trasformarsi in rassegnazione. Va organizzata ed espressa in ogni frangente in cui questo presente opprimente ci schiaccia e mortifica. Le occasioni non mancheranno, statene certi.
gennaio 2015, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org
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La mattina di sabato 10 gennaio una cinquantina di solidali veneziani e da tutto il Veneto si raduna sotto il carcere di Santa Maria Maggiore con cori, slogan e musica. Con il passare del tempo affluiscono anche parenti e congiunti dei detenuti (è giornata di colloqui) e altre persone che si fermano per lanciare un saluto a chi è dentro.
Come sempre, durante questo tipo di presidi, uno degli scopi principali è quello di intessere dei legami con chi ha delle relazioni all’interno del carcere, scambiandosi indirizzi per scrivere. Più tardi, dato anche il numero consistente di partecipanti al presidio, un gruppetto raggiunge l’altro lato del penitenziario, su Rio Terà dei Pensieri, per parlare al megafono con chi non riesce a sentire cosa si dice dall’altro lato. La risposta è buona, si va via dopo una ventina di minuti con battiture sui vicini cantieri edili e il “lancio” di alcune lanterne volanti. Si va via con la promessa di ritornare al più presto sotto le mura di Santa.
milano-OPERA: UN CARCERE SICURO DA MORIRE
A seguito del clamore suscitato da alcune frasi scritte su dei social media da alcuni secondini riguardo l’ennesimo suicidio avvenuto in carcere, siamo andati sabato 21 a volantinare il messaggio che segue durante l’orario dei colloqui davanti al carcere di Opera. Cercheremo di tornare più spesso, considerate le enormi difficoltà di ingresso dell’opuscolo. Invitiamo quindi i detenuti di Opera a scriverci ed a farci contattare dai loro parenti.
Venerdì scorso, Joan Gabriel Barbuta, 39enne rumeno, si è tolto la vita, impiccandosi, nella cella del carcere di Opera dov’era rinchiuso. Recentemente aveva ricevuto la pena definitiva dell’ergastolo… questa è la motivazione del gesto che ci riporta la stampa…
Si tratta della dodicesima persona morta in carcere dall’inizio dell’anno, la sesta classificata come suicidio. In carcere si muore di suicidio, ma più frequentemente per la totale mancanza di cure di mediche.
Lo scorso anno sono morti in carcere almeno 131 persone, una ogni 3 giorni. Una strage dimenticata perché dimenticati sono i detenuti e così anche la loro morte riscuote, al massimo, un trafiletto sul giornale locale, spesso senza indicazione del suo nome perché, per identificare un detenuto, è sufficiente indicarne la nazionalità (quando è straniero) ed il reato che stava scontando. Ed in quegli articoli di giornale, dove spesso ci si rammarica quasi che il criminale non sconti fino in fondo la sua pena, si magnifica sempre lo splendido lavoro della polizia penitenziaria che però non è sufficientemente valorizzata, è sempre in sotto-organico, sotto-pagata, in costante pericolo di vita e così la morte di una persona diventa il pretesto di rivendicazioni sindacali perché il carcere serve a questo: rinchiudere ai margini chi non può (o non vuole) accontentarsi delle briciole, spersonalizzare, annientare il surplus umano.
La morte di Joan non avrebbe quindi nessun titolo di arrivare alla grande cronaca, se non fosse che dei poco avveduti frequentatori di un account Facebook del sindacato Alsippe non si fossero impegnati in commenti definiti “choccanti”. Infatti su quella pagina si leggevano, sotto la notizia della morte, commenti come “Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone” oppure “Collega cala la conta” o ancora “mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio” ed altri di questo tenore. Ovviamente tutto ciò ha creato scandalo… forse perché certe cose, certi pensieri, è meglio dirseli in privato e non sulla pubblica piazza. E così il ministro Orlando promette un’inchiesta, i soliti parlamentari promettono interrogazioni… certi che tutto sarà dimenticato nel giro di qualche ora, perché i detenuti sono invisibili, sono feccia e non contano.
Non si preoccupino gli autori di quei messaggi così sinceri… non pagheranno nulla, così come non hanno pagato gli assassini in divisa di Marcello Lonzi (2003, Livorno), di Niki Aprile Gatti (2008, Firenze), di Stefano Cucchi (2009, Regina Coeli), di Federico Perna (2013, Poggioreale) e delle altre decine e decine di detenuti morti “per cause da accertare” (quando c’è una famiglia che si incaponisce a cercare la verità) o “morte naturale” (quando nessuno insiste).
Lo scorso anno, dalla segnalazione di alcuni detenuti a cui era seguita un’inchiesta giornalistica, abbiamo saputo dell’esistenza dentro il carcere di Opera, della “cella 24”, una cella vuota, liscia, dove avvengono le peggiori torture. Niente di strano visto che il direttore è Giacinto Siciliano, che ha al suo attivo la direzione di numerosi carceri difficili scenari di violenze e suicidi, e che ad Opera si impegna particolarmente a rendere la vita dei detenuti il più misera possibile.
Ad un giornalista del Corriere della Sera, il garante dei detenuti in Lombardia, Donato Giordano, disse rispetto alle violenze denunciate “che avrebbe indagato”, a che punto sono le sue indagini? E quali indagini hanno compiuto i Magistrati di sorveglianza?
Domande retoriche, sappiamo già che la risposta, sempre che ci sia, non parlerà delle torture che avvengono sotto i nostri occhi e nella piena indifferenza.
Vogliamo ribadire che l’atteggiamento denigratorio di quegli agenti della penitenziaria e la brutalità che vive dentro ogni carcere (ed ogni questura, ed ogni CIE) non è un fatto eccezionale, non sono “mele marce”, è invece la normalità, la natura stessa del carcere.
Il carcere non è la soluzione, ma parte del problema e perciò è insensato volerlo riformare, il carcere deve essere abbattuto.
Milano, 21 febbraio 2015, Collettivo OLGa
lettere dal carcere di ferrara
In questi sei mesi non ho scritto molto perché non amo fare la parte del prigioniero che tempesta il web e le riviste specialistiche di lettere. Scrissi un breve comunicato nel quale spiegavo che la galera non avrebbe certo smussato la mia fierezza rivoluzionaria, rifiutavo ogni ipotesi di servizio sociale e chiedevo all'universo plurale e multiforme delle persone che mi sono solidali a non cadere nel vittimismo.
Torno a scrivere perché mi giunge voce di alcuni scritti che sarebbero girati in rete e sul giornale "il garantista" nei quali vengo descritto niente meno che "pacifista", "spaventato a morte", etc. Faccio notare che questo atteggiamento è, in primo luogo, offensivo nei miei confronti e nei confronti dei miei compagni e delle mie compagne che lottano ogni giorno senza mai tremare di fronte alla minaccia della repressione. In secondo luogo è totalmente inutile: lo Stato ci spia di continuo, ascolta i nostri discorsi, ci fotografa e ci filma mentre ci scontriamo in piazza con i suoi servi. Insomma pensare che un camuffamento tardivo possa farmi risparmiare mesi di galera è mera utopia, nonché poco dignitoso.
I miei compagni a Spoleto hanno avuto il merito di organizzare 3 conferenze negli ultimi 5 anni nelle quali si è analizzato con precisione e spietatezza il cancro del giustizialismo di sinistra e poi l'ascesa della feccia grillina. Oggi mi accorgo che abbiamo fatto un errore a non dedicare altrettanto spazio ad un fenomeno del tutto speculare: la mistificazione garantista. Il giustizialismo ed il garantismo nascono dalla stessa menzogna, quella volta a rimuovere la natura intrinsecamente classista della giustizia sociale. E' la smisurata e pervertita sete di profitto che porta allo sfruttamento, alla devastazione ed alla galera per chi si ribella. Invece per i manettari del "Falso Quotidiano" il problema sono i ladroni mentre per le pietose anime del "Garantista" gli abusi di potere.
Per loro un regime capitalista senza ladri e senza accanimenti giudiziari andrebbe benissimo. Ma noi sappiamo che lo Stato avrà sempre "guardie e ladri". Lo Stato non è altro che il braccio armato delle classi dominanti e la sua funzione è eminemente repressiva.
E per tirare giù queste mura gli appelli non bastano... Con Damiano e Fabrizio nel cuore.
Michele Fabiani, via Arginone 327 - 44100 Ferrara
28 gennaio 2015, da informa-azione.info
***
Poche parole per farvi sapere quanto sta avvenendo nella sezione AS2 del carcere di Ferrara, nessuna voglia/intenzione di alimentare il feroce appetito del cultore del vittimismo o del professionista dell’anticarcerario alla vista dell’ultimo sugoso lamento galeotto.
Venerdì 13 febbraio Alfredo è stato sottoposto al tribunalino carcerario a seguito di un rapporto ricevuto qualche notte prima per aver insultato una guardia che si era rivolta in modo irrispettoso e provocatorio a uno di noi, Graziano, reo di aver chiesto all’infamone di abbassare il volume, per la cronaca il tutto è avvenuto dopo la mezzanotte. Oltre alla perdita dei 45 giorni di liberazione anticipata, la “condanna” ha comportato che Alfredo fosse portato immediatamente in isolamento o meglio, come dicono loro, escluso da tutte le attività comuni (aria, socialità, palestra e campo).
Appena saputo la cosa in sezione, dopo un breve consulto, abbiamo iniziato una sonora battitura. La richiesta è semplice: rivogliamo Alfredo in sezione. Nel giro di pochi minuti sono arrivati diversi ispettori, ai quali abbiamo ribadito la nostra pretesa.
Dopo un po’ di chiacchere inutili, se ne sono andati promettendoci il più grande onore (per loro...): lunedì parlerete con il comandante (meu cojoni!).
Visto che non sembrava avessero capito quanto avevamo detto, forse per il tono un po’ concitato, dopo un’oretta abbiamo fatto partire un’altra battitura. E abbiamo terminato la giornata con una battitura by night, allo scoccare della mezzanotte.
Oggi, nel primo pomeriggio abbiamo dato un’altra scrollatina alle sbarre, domani si vedrà... Al momento abbiamo “ottenuto” la sospensione della socialità (“fino a nuovo ordine”) di pranzo e di quella pomeridiana, ma Alfredo continua a non vedersi...
Sappiamo che sta bene e se ne sbatte alla grande delle loro punizioni, così come noi ce ne fottiamo dei loro ricatti e indigesti benefici.
Abbiamo la testa dura e continueremo a manifestare la nostra vicinanza e complicità con Alfredo. Questo è quanto, vi terremo aggiornati!
15 febbraio 2015
I compagni anarchici della sezione AS2 di Ferrara, Adriano, Francesco, Graziano, Lucio, Michele e Nicola.
Nel frattempo, mentre Alfredo rimane in isolamento, agli altri compagni è stata ripristinata la socialità
lettera dal carcere di agrigento
Ciao, ti scrivo dal carcere di Agrigento. A quanto pare il trasferimento è dovuto al solito motivo di “ordine e sicurezza”. Avevo appena iniziato a Caltanissetta un isolamento di 30 gg (15+15) a seguito di provocazioni e abusi. Dopo 2 gg mi hanno spostato nell’isolamento dell’AS e il giorno successivo mi hanno portato nell’isolamento di questo schifo di galera. Purtroppo devo iniziare a fare tutte le domandine di ammissione alle telefonate e ai colloqui e passerà del tempo per le risposte, quindi anche la telefonata all’Avv. è stata annullata. Come arbitrarietà dell’Amministrazione carceraria non c’è male! Vedremo quanto mi faranno ancora incazzare.
Mi è arrivato l’ordine di traduzione per il processo del 12 febbraio a Cagliari (non più il 15) emesso il 19/12/2014. Se il Dap non dovesse bloccare tutto come l’ultima volta [è il processo che si voleva fare in videoconferenza, ndr] allora per quei giorni sarò in Sardegna [...] Sono appena stato chiamato dall’appuntato che si occupa della posta e mi ha detto che hanno telefonato le poste dicendo che non faranno partire più la mia posta se non la affranco in alto a destra e se uso colla [...]
Qui le condizioni di isolamento sono più bestiali rispetto al fatto che non esistono i riscaldamenti e si gela considerando i pochi indumenti che mi hanno permesso di avere e piove dappertutto dentro (in tutto il carcere anche nei vari uffici: comandante, matricola, magazzino, ecc), insomma bisogna attuare tutte le strategie di sopravvivenza.
Se non ci organizziamo bene in una progettualità contro il carcere, il solo scontro individuale ci porta ai risultati che sappiamo. In merito c’è una discussione in corso [...] e quello che sta emergendo si riferisce al fatto che senza solidarietà rivoluzionaria all’esterno non si va molto lontano. […]
Per il momento chiudo la lettera. Un forte abbraccio di riscossa!
Galera di Petrusa, 27 gennaio 2015
Davide Delogu
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Il secondo processo (l’udienza si è tenuta il 12 febbraio) è quello che avrebbe dovuto tenersi in videoconferenza ma, dopo l’opposizione della difesa, avanzata nella prima udienza avvenuta qualche mese fa, e accolta, è stato fissato con la presenza di Davide.
L’avv. di Davide aveva presentato per il 12 febbraio istanza di rinvio, per legittimo impedimento che è stata respinta ed è stato nominato, in aula, un avv. d’ufficio. La prossima udienza è stata fissata per il 17 febbraio.
La difesa ha presentato opposizione sia alle motivazioni per la negazione del legittimo impedimento sia per il termine troppo breve che è stato concesso all’avv. d’ufficio per studiare il fascicolo.
Davide sta bene e scrive il 13 febbraio: “Finalmente in Sardegna! Sono stato appoggiato nel nuovo carcere di massima sicurezza (prima sezione comuni-sesta sezione AS) di Oristano e spero di rimanerci il più a lungo possibile. […] In aula si respirava aria di inquisizione più del solito. Io ora mi trovo in isolamento e solo oggi ho saputo che il motivo è perché sto continuando la punizione. Con determinazione. Davide” .
L’attuale indirizzo è: loc. Is Argiolas - 09170 Massama (OR)
proteste contro i rincari alle vallette di torino
Tra dicembre e gennaio i detenuti e le detenute del carcere delle Vallette hanno protestato contro il rincaro del prezzo dei francobolli, passato dal primo dicembre da 70 cent a 80, dichiarando uno sciopero dei bolli. Come già avvenuto per l’aumento del prezzo delle bombolette del gas in diverse carceri, che ha provocato lo sciopero della spesa e proteste ad Asti e Brissogne, i detenuti non hanno atteso ad alzare la voce.
Attraverso dei passaparola, tra i vari blocchi e sezioni, passando dal maschile al femminile, lo sciopero ha raggiunto un po’ tutti i reclusi del carcere torinese. La direzione ha risposto con la sospensione della vendita dei francobolli, riiniziata solo la settimana successiva al prezzo definitivo di 80 cent. Aumento insopportabile per i detenuti i loro amici e familiari, per i quali la posta è l’unico mezzo di contatto.
23 febbraio 2015, da www.autistici.org/macerie
lettera dal carcere psichiatrico di Lippstadt (Germania)
La resistenza ha bisogno di coraggio!
Spezzare chi, che cosa, vuole spezzarci!
Nel corso dello sciopero della fame (in solidarietà con i prigionieri combattenti in Grecia) attuato da alcuni prigionieri in Germania e Svizzera dal 18 al 21 luglio 2014 è stato scritto da Manfred Peter un triplice messaggio di solidarietà.
Manfred è tenuto prigioniero in un tipo di carcere chiamato “Giudiziario Psichiatrico”. Sulla base dell’attuale inasprimento delle condizioni in cui viene eseguito il regolamento, per esempio, sanzioni tipo sorveglianza e censura sulla posta - capaci di tagliarli anche una parte del suo saluto ai prigionieri combattenti in Grecia.
I reparti giudiziari psichiatrici sono un’invenzione diretta al dispregio dell’essere umano, mediante la quale le persone non più produttrici di profitto, considerate anche non-controllabili (fra le quali anche coloro che non vogliono o non possono seguire norme e leggi in modo adeguato, persone represse/sfruttate), persone che sono un peso scomodo o un pericolo per le diverse strutture di potere di questa società, che devono perciò essere messe in disparte e controllate.
Il giudiziario psichiatrico è un’istituzione in cui quelle persone vengono sistematicamente sottomesse, rese patologiche, calmate attraverso farmaci e terapie distruttive, che creano dipendenza, che tolgono alla persona che vi è sottomessa la libertà, la dignità assieme all’incolumità corporale e fisica.
Le persone autrici di reati, ma allo stesso tempo considerate malate psichiche vengono arrestate e in base all’art. 63 (Nota al termine) del codice penale chiuse nei giudiziari psichiatrici, dove debbono affrontare il tentativo di distruzione della loro personalità e del loro possibile “accantonamento” per tutta la vita. Ma tuttavia anche là ci sono persone che cercano di non farsi spezzare, anche se in quei luoghi sembra difficile non perdere il coraggio. Alcune persone, in ogni caso, anche dopo 20 anni chiuse là non hanno smesso di lottare per i loro ideali, di cercare allo stesso tempo dentro e fuori le mura altre vie per una vita autodeterminata, senza autorità.
Questa ricerca ci unisce. Esistono tante possibilità di spezzare l’isolamento della società ingabbiata e di attaccare chi ne è responsabile. Attraverso lo scambio di idee possiamo rendere trasparenti le mura e creare così le basi per iniziative comuni.
Sarebbe bello corrispondere (anche su un piano internazionale) con persone avversarie della psichiatria per scambiare idee o discutere questioni speciali! …
Nota. Questo articolo di legge è nato assieme al codice penale divenuto legge il 14 ottobre 1933. Pur con tutte le modificazioni intervenute nel dopoguerra, le persone arrestate perché ritenute “non-controllabili” non diminuiscono. Ad esempio, nel “manicomio” della città di Eickelborn nel 1940-’43 erano chiuse 700 persone, delle quali 598 vennero uccise nei campi di sterminio; nel 2013 ce ne erano 450.
Responsabile di questi numeri alti, in tutta la Germania, è la politica arbitraria che fissa la durata dell’allontanamento voluta dalle corti di giustizia preposte all’esecuzione delle pene, dai tribunali che esaltano le imputazioni, dagli psichiatri e medici che stilano prognosi… Questi costituiscono così, assieme all’industria farmaceutica, un gruppo interessato (lobby) all’esistenza crescente di persone dipendenti dai farmaci, dall’osservazione-controllo psichiatrica…
Manfred Peter, Eickelbomstr. 21- 59556 Lippstadt – St.44/1 (Germania)
Tratta da “gefangenen info”, ott-nov 2014
RILANCIAMO LA LOTTA ALLE NOCIVITÀ
Sono passati quasi cinque anni dal nostro arresto in Svizzera, quando ad un posto di blocco sul passo dell’Albis, nel Canton Zurigo, venne rinvenuto nell’auto su cui viaggiavamo dell’esplosivo, alcune bombole di gas propano, taniche di benzina e diverse copie di uno scritto rivendicativo a firma Earth Liberation Front Switzerland. Obiettivo dell’attacco rivendicato negli scritti era il “Binning and Rohrer Nanotechology Center”, una struttura allora in costruzione, di proprietà dell’IBM e in collaborazione con l’ETH, il Politecnico federale di Zurigo.
Il processo si tenne un anno e mezzo dopo il nostro arresto con tre accuse a nostro carico: atti preparatori punibili di incendio intenzionale; occultamento e trasporto di materie esplosive; commercio non autorizzato (importazione) di esplosivi. Le richieste di pena formulate dal procuratore federale Hansjörg Stadler, tra i 3 anni e 4 mesi e i 3 anni e 8 mesi vennero ampiamente accolte dal giudice federale Walter Wütrich, la quale corte confermò tutti i capi d’accusa ad eccezione del traffico (importazione) illecito di esplosivi, accusa dalla quale fummo assolti.
Parallelamente, la procura di Torino aveva da subito dato avvio ad un’indagine a tutto tondo intorno alle cartucce di esplosivo che gli svizzeri ci trovarono addosso, con l’obbiettivo di poterne determinare la provenienza. Ad indagine conclusa, le accuse a nostro carico ipotizzate dal pm Enrico Arnaldi Di Balme, sono pure tre: atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, detenzione e trasporto in luogo pubblico di esplosivi e ricettazione per l’esplosivo, accuse tutte aggravate dalla finalità di terrorismo.
In questi 5 anni passati, la nostra analisi del presente ha solo continuato a confermarsi e, conseguentemente, il nostro sentire anarchico ed ecologista non ha potuto che rafforzarsi. Le nano - biotecnologie sono gli ultimi sentieri battuti dalla corsa del sistema capitalista tecno-industriale al saccheggio e alla devastazione della Terra. Sentieri che, come tutti quelli precedenti (si pensi all’era dell’industrializzazione), presentano come miracoli ciò che, possiamo facilmente immaginare, in futuro è destinato a trasformarsi in incubo.
Tecnologie che nascono dal cambio di visione del mondo che l’era informatica ha portato con se, soppiantando la visione meccanicista delle leve e degli ingranaggi con una visione matematica fatta di bits d’informazione in cui la realtà tutta deve poter rientrare in un algoritmo. Una visione nuova che si è affermata perché meglio risponde alle esigenze del sistema. Affermandosi, ha schiuso alla scienza delle possibilità fino ad ora pressoché inimmaginabili per adempiere a quel compito che i tempi e l’autofagia del sistema le richiedono con sempre più impellenza: riuscire ad appropriarsi di ogni cosa nell’universo per scomporla nei suoi più piccoli, infinitesimali componenti, nei suoi “bits”. Ovvero, arrivare ad ottenere una qualche unità di base universale, attraverso la quale gli scienziati possano ridurre tutto l’esistente ad un grado sufficiente d’interscambiabilità ed equivalenza, affinché in seguito, con l’ingegnerizzazione di questa nuova (perché prima inaccessibile) materia prima, ogni cosa di questo universo diventi fruibile alle necessità del dominio. Queste tecnologie sono dunque per il sistema un pilastro su cui rifondare i processi produttivi e di approvvigionamento, fondamentali per la sua crescita. Una crescita che si vorrebbe senza fine in un pianeta saccheggiato già oltre ogni limite delle sue possibilità. E la convergenza delle scienze, cosi come con gli OGM, è l’ultima delle promesse di uno sviluppo che avrebbe dovuto risolvere la crisi ecologica a cui ci ha portati lo stesso progresso ecocida.
Come già detto in un precedente scritto, il “Binning and Rohrer Nanotechology Center” è stato reso operativo ed inaugurato pochi mesi prima del nostro processo in Svizzera. Da quasi tre anni a questa parte offre 950 metri quadri di superficie alla collaborazione per la ricerca di base su nuovi materiali ed elementi di costruzione in scala nanometrica. Un luogo di ricerca che permetterà ai ricercatori, tanto di IBM che dell’ETH e di altri partner, di spingere la conoscenza, ma soprattutto le possibilità di applicazione delle nanotecnologie, ben oltre, ma molto ben oltre, l’attuale impiego raggiunto tra cosmetici, pneumatici o spray nanotech. Cosi assicura il direttore della struttura, Matthias Kaiserswerth. Per noi, per quanto quelli di IBM o dell’ETH si vantino di avere tra le mani un laboratorio unico al mondo - e per certi aspetti hanno pure ragione - la realtà è che i luoghi dentro cui si sta spingendo l’ingegnerizzazione e la manipolazione del vivente e del pianeta sono molti e, soprattutto, sono un po’ ovunque. Dai centri di ricerca delle multinazionali alle università, dai poli scientifici alle istituzioni di ricerca sovranazionali, un mondo che si muove in parallelo alla realtà che viviamo, e che sulla nostra testa progetta e costruisce il futuro che ci verrà imposto e i cui lineamenti già li abbiamo sotto gli occhi. Un mondo che ha un nome e un indirizzo.
Negli anni abbiamo sempre più sentito l’urgenza di provare a costruire lotte contro questo sviluppo, partendo proprio dalla comprensione della sua imprescindibilità per il sistema, oltre che per la nocività che gli sviluppi bio e nanotecnologici rappresentano. Nocività, e conviene chiarirlo, non in quanto danno alla salute umana, problema ambientale, ma in quanto rapporto tra potere e tecnologia che si traduce in rimodellamento\sostituzione\distruzione degli ecosistemi e del vivente.
Un concetto di nocività ben più ampio e che si ricollega a filo diretto all’unica vera nocività rappresentata dal sistema stesso. Un’urgenza che continuiamo a sentire e per cui, davanti a questo salto in avanti che il sistema tecnologico ed industriale sta compiendo, rimaniamo convinti di come questa si debba tradurre in una critica necessariamente radicale e che non possa prescindere dal contesto sociale e economico, di cui queste nocività sono il prodotto e per cui sono necessarie.
Critica che a sua volta sappia trasformare i fiumi d’inchiostro e le parole, necessarie per esprimerla e svilupparla, in lotta e azione diretta. Rimaniamo dunque ancora convinti/e della necessità di sviluppare lotte ecologiste radicali per contrastare questo sviluppo tecno-industriale mortifero, tracciando però come linea chiara quella di vedere nella lotta unicamente una reale possibilità per rimettere tutto in discussione, e non uno spazio in cui provare a ritagliarsi la propria parte nel teatrino politico o per offrire alternative “eco-sostenibili” al sistema.
Quello che vediamo è come i luoghi del potere tecno-scientifico si stiano decentralizzando e molecolarizzando in una costellazione di interessi e progetti ultra specifici, nonostante poi tra loro siano sempre e necessariamente interconnessi. Intervenire e colpire là dove più nuoce è sempre meno evidente e facile da capire. Una continua fonte d’ispirazione in questo senso è rappresentata da chi, in tutto il mondo, continua a sentire l’urgenza della lotta, portando avanti progetti, campagne, mobilitazioni e lotte in difesa di quanto ci si sente parte, e di sabotaggio e attacco distruttivo contro quegli ingranaggi che compongono il sistema industriale tecno-scientifico, patriarcale e capitalista.
Mettersi in gioco attraverso la lotta, sappiamo bene che probabilmente, presto o tardi, significa dovere fare i conti con la repressione e da questo non si sfugge. Quello da cui però si può e anzi si deve sfuggire, è lasciare soli/e coloro che sono colpiti/e dalla repressione. Il sostegno ai/alle prigionieri/e è qualcosa a cui non si può prescindere, e oltre alla solidarietà e supporto più immediato, altrettanto importante e fondamentale è il dare seguito alle lotte per cui compagni/e stanno pagando.
Nel nostro caso, trovandoci fuori da quelle mura, abbiamo davvero apprezzato le energie di tanti/e che attraverso serate e iniziative negli ultimi mesi, oltre al calore del supporto più immediato e necessario, hanno dato spazio al nostro caso ma, soprattutto, alle tematiche su cui ci preme un confronto e il trasmettere il nostro sentire. Questo per noi rimane fondamentale.
Il 23 aprile è la data in cui è stata fissata l’udienza preliminare, dove si deciderà se verrà fatto o meno questo processo “dejà vu”. Da parte nostra, quello che sentiamo, non è tanto un interesse a richiamare l’attenzione sul nostro caso specifico, sul processo nei nostri confronti, quanto più la voglia di riuscire a trasformare questo momento in un’occasione, anche di mobilitazione, per rilanciare queste tematiche e il sentire che ci accomuna.
Mettere al centro non la repressione, ma l’agire senza delegare ad altri/e contro le bio e le nanotecnologie, contro il nucleare, contro ogni altra nocività di questo sistema mortifero e in sostanza: contro questo presente di annientamento e devastazione.
Per la liberazione della Terra. Per la liberazione animale.
Febbraio 2015 - Billy, Costa, Silvia
Dal processone contro i notav
27 gennaio, ultima udienza, aula bunker carcere le vallette, Torino
Dopo 2 anni e 2 mesi di udienze il processone ha conosciuto l’ultima giornata: iniziata nell’aula bunker del carcere delle Vallette alle 9 e conclusa alle dieci di sera passate nelle strade di Bussoleno oltre le dieci di sera.
Dopo l’appello e la rinuncia delle pm alla replica, il tribunale si è ritirato in “camera di consiglio” da dove è uscito alle 14,30 come annunciato. Ad accogliere la lettura della “sentenza” c’erano oltre a una trentina dei 53 “imputat*”, una quarantina di compagn* (il numero massimo ammesso ad entrare, le altre circa 100 compagn* sono rimasti nel piazzale) la gran parte di avvocat* oltre a giornalist* e sbirri; insomma una generale, ma diversificata, attenzione.
Al termine della lettura della “sentenza” le/gli imputat* hanno preso la parola per leggere una dichiarazione, invitando le figure del tribunale a non scappare, a rimanere ad ascoltare l’opinione di chi avevano condannata/o. Niente da fare, sono scappati con le loro carte sottobraccio. Ecco le righe lette:
“Oggi cercate di elevarvi fino alla pretesa di stendere una condanna, fra le tante, per voi, per lo stato delle guerre saccheggiatrici, dello sfruttamento, della devastazione ambientale compiuta in nome del Tav.
Nei 2 anni del ‘processone’ abbiamo approfondito i rapporti fra noi, ci sentiamo uniti alla continuità della lotta assieme a Chiara, Claudio, Mattia, Nico, Graziano, Lucio, Francesco che avreste voluto seppellire con condanne esemplari mirate a sconfiggere il movimento. Non ci siete riusciti perché come sempre, così oggi, la vostra condanna conferma invece la giustezza della lotta unita alla determinazione a proseguirla.”
La lettura si è conclusa nel grido congiunto fra “pubblico” e “imputat*” di: “Ora e sempre resistenza”, “Giù le mani dalla Valsusa”, “Liberi Tutti/e”.
Una volta fuori dopo abbracci, baci… assieme si è invaso per circa una mezz’ora il vicino sempre denso di auto e camion corso Regina Margherita accompagnati da bandiere No Tav, da striscioni inneggianti la solidarietà con chi condannat* perché lotta, perché ribelle… In seguito è stata raggiunta Bussoleno, un centro importante della Valle, dove una parte della popolazione giorni prima aveva già deciso di esprimere nel giorno della sentenza solidarietà a Mario, “imputato” nel processone. Questo gesto perché per lui il pm aveva chiesto 3 anni e mezzo e un risarcimento (come a tutt* le/gli imputat*) pari a una somma di migliaia di euro, il tutto confermato dal tribunale). Anche per lui, immigrato lì tanti anni fa dalla Calabria, che ha messo su famiglia con figli*, una barbaria… una botta tremenda. Il paese, e non solo, gli si è stretto intorno con una manifestazione che è riuscita, nonostante lo schieramento di sbirri a raggiungere, a percorrere per diverse ore la statale e infine (con qualche decina di manifestanti) a entrare per qualche quarto d’ora nell’autostrada. In quei movimenti sono stat* fermat* tre compagn* (rilasciat* il giorno successivo).
La sentenza seppure abbia ridotto il massimo di pena da 6 a 4,5 anni e abbia fissato 6 assoluzioni, ha conservato l’impianto assolutorio per lo stato e chi lo serve, insomma, l’esatto contrario nei confronti di chi imputato perseguito dalla procura di Torino lungo l’intero processone come nella richiesta delle condanne. Così per numeros* compagn* la sentenza è risultata più grave, di mesi o addirittura anni rispetto alle richieste della procura.
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Clarea sabato 31 gennaio 2015 avvicinamento al cantiere TAV
Nel pomeriggio di quella giornata si è svolta la camminata in Clarea (torrente di Chiomonte -Val di Susa- sulle cui sponde nell’estate 2011 è stato aperto con la forza militare il cantiere per le trivellazioni necessarie al passaggio tra Francia-Italia del Treno ad Alta Velocità - TAV), decisa in segno di protesta contro le 47 condanne di carcerazione emesse nei giorni scorsi dal tribunale di Torino a conclusione del “processone”. La solidarietà espressa dalle centinaia di manifestanti, nella gran gente della Valsusa, è stata diretta, concreta. Vediamo.
Una decina di manifestanti si è avvicinata al cantiere, oltre il ponte della Clarea, attorno alle 8 del mattino, senza ostacoli. Verso le 10 la polizia si è fatta avanti intimando loro di ritirarsi oltre il ponte, in nome di un’“ordinanza” emessa nella notte dal prefetto di Torino. In quel decreto veniva stabilito che in nome dell’“ordine pubblico” veniva vietato a chiunque, dalla mezzanotte di venerdì fino alle 7 del mattino di lunedì 2 febbraio, di percorrere le strade, i sentieri, diretti al cantiere (considerato “sito di interesse strategico pubblico nazionale”). La trasgressione eventuale sarebbe stata motivo di denuncia – in base all’art. 650 cp, questa la minaccia.
A cominciare dalle 14, ora dell’appuntamento a Giaglione (piccolo paese collegato al ponte sulla Clarea, e dunque al cantiere TAV, da una strada sterrata e da diversi sentieri) nonostante la notizia dell’“ordinanza”, degli ostacoli trovati di primo mattino ad avvicinarsi al cantiere, le persone sono affluite numerose e decise a mettersi in cammino. Comandi di questo tipo la gente della valle, negli oltre 25 anni di mobilitazione, ne ha conosciuti a bizzeffe, adesso li legge appena, sapendo già il da farsi.
Così succede. Si parte in corteo che ad un certo punto si divide in due, un troncone si avvicinerà al cantiere dall’alto, percorrendo la montagna, un altro dal basso, puntando direttamente a raggiungere almeno il ponte sulla Clarea. Quest’ultimo viene quasi subito fermato da blocchi di cemento (“jersey”) dietro i quali stazionano centinaia di sbirri, mentre l’altro riesce ad avvicinarsi alla recinzione cemetificata-illuminata del cantiere anche questa protetta da sbirri con blindati e simili. Sul calar della notte tutti questi dispiegamenti militari non impediscono ai manifestanti sulla via del ritorno, di farsi sentire nelle vicinanze di quella fortificazione con petardi e fuochi d’artificio.
Anche questa manifestazione di attorniamento del cantiere è riuscita a confermare l’impegno generale nella lotta per la chiusura del cantiere TAV, a rafforzarne la coscienza pratica nonostante condanne, “ordinanze” e altri ostacoli.
Milano, febbraio 2015
dal processo per i fatti di Roma del 15 ottobre 2011 a Roma
Udienza del 13 Febbraio 2014, Roma, Aula 9
La giornata è importante: l’accusa deve presentare la requisitoria con le richieste d’accusa per i 18 compagni imputati di devastazione e saccheggio, resistenza e per tre di loro tentato omicidio.
Davanti al tribunale si è formato un presidio con un centinaio di solidali; dentro l’aula è piena di compagni nonostante l’ingente dispiegamento di celere presente davanti al tribunale che oltre a richiedere documenti a chiunque voglia partecipare all’udienza, cerca di impedire l’entrata chiudendo l’aula giustificandosi con il numero chiuso (l’udienza era a porta aperta). Anche alcuni imputati hanno problemi ad entrare e devono far valere a gran voce il loro diritto a presenziare all’udienza!
Ma la pagliacciata è solo all’inizio.
Immediatamente si capisce che la requisitoria del pubblico ministero è visiva, volontariamente d’impatto. Con l’ausilio di un montaggio di vari video con tanto di didascalie vorrebbe riraccontare la giornata come vorrebbe lui. Subito la requisitoria viene bloccata. La difesa, in nome dell’articolo 523 cpp (unico caso per cui bloccare una requisitoria), chiede che la requisitoria non venga accettata visto che il filmato è un prodotto di una consulenza tecnica che si avvale di nuove prove mai prodotte e quindi mai visionate dalla difesa: in alcuni casi nelle immagini non viene indicata nemmeno la fonte ed in altri casi sono filmati della polizia scientifica, richiesti più volte dalla difesa addirittura attraverso il Tar del Lazio ricevendo sempre risposta negativa.
I vari filmati assieme a telegiornali etc. sono stati montati a piacimento con tanto di sottotitoli per dimostrare la tesi accusatoria che esista una regia dietro agli scontri ovviamente basata sul nulla.
In conclusione la giuria si è riservata di decidere se accettare o meno le nuove prove presentate dall’accusa, ma comunque decide di visionarla per intero e la sua decisione finale sarà influenzata dall’aver visionato tale filmato che, come detto in precedenza, è il frutto di un collage di vari filmati estrapolati dai tg o dai video della polizia scientifica scelti e montati al solo scopo di screditare i compagni.
Il 19 Febbraio la Giuria scioglierà la riserva, se non ci saranno altre prove da visionare il prossimo appuntamento è il 12 Marzo per le richieste di condanna.
Sempre stesso tribunale, aula, ora e pagliacciata!
Milano, febbraio 2014
Milano, processo Ex-Cuem
Il 6 maggio 2013 il rettore dell’Università Statale di Milano, Gianluca Vago, chiamò la celere a sgomberare la ex-Cuem, uno spazio abbandonato all’interno dell’università a cui un collettivo di studenti aveva ridato vita restituendolo alla fruibilità di tutti/e gli/le studenti. Un mese dopo furono arrestati 7 studenti e denunciati in 3 a piede libero per aver resistito a quello che non è eufemismo chiamare un’aggressione da parte delle forze dell’ordine. Le relative misure cautelari per alcuni sono perdurate fino a non molto tempo fa.
Durante la prima udienza, dal saluto ad un imputato, tenuto ammanettano in gabbia in quanto detenuto per altra causa (si tratta di Graziano, da luglio in carcere per l’attacco al cantiere TAV), è scaturita la decisione del giudice di tenere il processo a porte chiuse oltre che di procedere a denunce per interruzione di pubblico servizio. È evidente che tale grave decisione poco c’entra con i problemi di ordine pubblico ma piuttosto è un segnale inquietante che lancia la procura contro chi si permette di pretendere ciò che gli è negato.
Alla terza udienza, senza nessun reale motivo, il giudice, su richiesta della procura generale nella persona di Laura Bertolé Viale, decide di spostare, il processo presso l’aula bunker, scegliendo, fra l’altro non quella attigua al carcere di San Vittore (in pieno centro di Milano), ma l’altra posizionata in periferia.
Da registrare che a gennaio il rettore Vago (coadiuvato dal prefetto di Milano) aveva addirittura tenuto chiusa l’intera università per ben tre giorni per impedire agli studenti di fare una semplice assemblea No-expo.
Gli imputati e le imputate hanno perciò deciso di convocare una assemblea cittadina per il 28 febbraio (di cui riportiamo l’appello) in vista della prima udienza in aula bunker del processo fissata per il 31 marzo.
AULA BUNKER!
In una Milano viepiù militarizzata in vista dell’Expo, va a concludersi la farsa del processo per la resistenza opposta allo sgombero dell’Ex-Cuem e alle cariche nel chiostro del Filarete, il 6 maggio 2013.
La scelta della Procura Generale di Milano, nella persona di Laura Bertolè Viale, di spostare il processo (già a porte chiuse) presso l’aula bunker di via Ucelli di Nemi è un chiaro monito a chiunque voglia porsi in un percorso di lotta non pacificata com’era quello dell’Ex-Cuem. Tale scelta, del resto, si colloca in continuità con le procedure d’eccezione abitualmente usate contro “anarchici” e “No Tav”.
L’operazione della magistratura è duplice. Da un lato, mistificando la realtà, essa cerca di ridurre alle condotte di un ristretto numero di individui (perlopiù non studenti) una prolungata, magmatica e creativa pratica d’insubordinazione che ha scosso l’Università Statale e dato voce alle esigenze delle nuove generazioni. Dall’altro, mostrando il vero volto del sistema di poteri che da sempre governa la città, essa mira a porsi come esemplare. Talché, pur muovendo accuse di dubbio spessore e scarso peso, impone svariati mesi di custodia cautelare, prolungati obblighi di dimora (fino a un anno) e promette dure condanne.
È fresca la novità dell’arrivo di altre sette denunce, tutte a studenti che partecipano attivamente alla vita politica in Università. E mentre il rettore chiude l’università per tre giorni, vietando un’assemblea No Expo, apre le stesse porte ai nazi-fascisti di Lealtà e Azione.
Si aprono nuovi mesi di lotta. La risposta non rimarrà inattesa.
CONTRO LA REPRESSIONE, RIPRENDIAMOCI LA STATALE! RIPRENDIAMOCI LA CITTÀ!
SOLIDARIETÀ AI COMPAGNI PRIGIONIERI NELLA SEZIONE AS2 DI FERRARA
Milano, 23 febbraio 2015
Nuove edizioni, nuovo libro
Alle compagne ed ai compagni, a tutte le ribelli e ribelli rinchiuse e rinchiusi in galera.
Nel mese di gennaio di quest’anno ho fatto uscire le nuove edizioni anarchiche “El Rùsac”. Il primo libro che è uscito è la ristampa degli scritti di Belgrado Pedrini, anarchico carrarese, che passò trent’anni della sua vita in galera per aver lottato, contro la dittatura fascista prima e poi contro lo Stato dopo la “liberazione”, armi alla mano.
Nel libro, prima dell’inizio degli scritti di Belgrado, c’è una mia breve dedica a chi è rinchiuso e rinchiusa. Mi è difficile non pensare ogni giorno ai miei amici, compagni, a chi ancora affronta la vita con dignità, e di conseguenza muovermi per lottare contro quelle mura che tanta sofferenza portano alle donne ed agli uomini che là dentro sono costretti.
Questi miei sentimenti sono dettati dal mio pensiero critico, che ho cresciuto nel tempo e nella vita di ogni giorno, il quale si è sviluppato abbracciando l’ideale anarchico.
La mia passione per la “propaganda”, in questo caso cartacea, mi ha spinto in questo progetto editoriale che vuole, con umiltà, portare avanti la diffusione dell’anarchismo, ma anche porre, con queste pubblicazioni, un dibattito tra compagni e compagne, che porti ad una crescita individuale su tutti gli aspetti della vita e quindi delle lotte quotidiane contro le catene della società, soprattutto quelle che influiscono su di noi.
Quando sono stato in galera, tutte e due volte per periodi molto brevi, mi sono reso conto che avere dei libri è un buon modo per passare il tempo, per darsi forza e stimolo contro chi ci vorrebbe soggiogati, ecco perché come edizioni “El Rùsac” ho deciso che ogni nuovo titolo delle edizioni vi verrà inviato. Ben volentieri verranno accettate suggerimenti e critiche.
Nel caso in cui a qualcuno o qualcuna non interessi me lo faccia sapere. Ovviamente con la voglia di vedervi al più presto liberi e libere. Queste poche parole per dirvi che sono al vostro fianco sempre, e che questo è uno dei miei contributi per stare vicino a chi è rinchiuso e rinchiusa.
Un forte abbraccio a tutte e tutti! Per la Rivoluzione e l’Anarchia!
Rovereto, 22 dicembre 2014 - Luca Dolce detto Stecco
Il libro “NOI FUMMO I RIBELLI, NOI FUMMO I PREDONI” - Schegge autobiografiche di uomini contro e VERSI LIBERI E RIBELLI di Belgrado Pedrini, Ed. El Rùsac è disponibile, per i detenuti e le detenute, nella biblioteca di Ampi Orizzonti.