indice n.78
Irak: 20 marzo 2003 - 20 marzo 2013
Sulla Siria
Migrazione del lavoro nell’Unione Europea
L’Egitto in rivolta e la «nuova sicurezza»
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
Lettera dal carcere di Opera (Milano)
Appello per la manifestazione a Parma contro il carcere e il 41bis
lettera dal carcere di “san vittore” (milano)
COMUNICATO SULLA MORTE DI CRISTIAN UBIALI
Lettera dal carcere di Lenzburg (svizzera)
lettera dal carcere di “rebibbia” (roma)
lettera dal carcere di terni
resoconto del presidio sotto il carcere di terni
lettera dal carcere di padova
lettera dal carcere di prato
Sulla sezione per anarchici nel carcere di Ferrara
da una lettera dal carcere di velletri (roma)
lettere dal carcere di alba (cn)
lettera dal carcere di viterbo
4 APRILE 2013: GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE
Per un intervento di massa sul terreno della repressione
firenze: NON SARANNO I TRIBUNALI A FERMARE LE NOSTRE LOTTE
Milano: Solidarietà agli studenti condannati per le mobilitazioni del 2008
Perquisizione alle 6 della mattina: succede in Valle di Susa
Sul processo alle lotte contro lo sfruttamsnto nella logistica
Piacenza: Via il foglio di via
Milano: all’ospedale San Raffaele arrivano i licenziamenti
milano: Breve resoconto sulla manifestazione del 16 marzo
Berlino: “La vita vale meno di un affitto”
Irak: 20 marzo 2003 - 20 marzo 2013
10 anni di occupazione della NATO. Che cosa hanno voluto affermare e portare con sé. Appunti liberamente tratti dall’indagine che segue.
Declino della civilizzazione
In Irak, la generazione oggi fra i 20-30 anni di età è cresciuta nel corso dell’occupazione USA. Con coscienza e piena di paura ha provato la guerra e l’invasione di soldati stranieri partiti da 39 paesi. Yasmine, oggi 25enne, ricorda le bombe che per tre settimane sono cadute su Baghdad, dove viveva con la sorella e i genitori. “In qualsiasi momento potevamo essere uccisi. Non c’erano, sicurezza, scuola, nulla, soltanto l’occupazione. Era come se la vita fosse scomparsa. Prima dell’occupazione sognavo di avere una buona istruzione e di costruirmi un futuro nella mia patria. Volevo aiutare lo sviluppo del mio paese, che, dopo 13 anni di sanzioni ONU, aveva perso l’indipendenza ed era stato isolato sul piano internazionale. Oggi voglio lasciare l’Irak per trovare sicurezza e stabilità da qualche parte, per fuggire da queste condizioni miserevoli.”
Tortura invece che diritti umani
Nomi come “Abu Ghraib” (carcere di Baghdad dove la tortura praticata dagli invasori era quotidianità) hanno marchiato la memoria della popolazione irachena. La pena di morte, sospesa all’inizio dell’occupazione venne reintrodotta l’anno successivo. Da allora sono state/i uccisi/e almeno 447 prigionieri; solo nel 2012 le condanne a morte eseguite sono state 129. Fonti ufficiali dichiarano che oggi nelle carceri dell’Irak sono chiusi/e circa 30mila persone.
Tutto ciò è stato lo scopo dell’invasione: spezzare l’autonomia dell’Irak con la finanza e la tecnologia (soprattutto militare) degli stati-NATO attraverso lo scatenamento della guerra fra le comunità che da secoli convivevano nell’Irak. Così oggi la guerra fra le comunità sannita e sciita segna profondamente il paese. Nel febbraio 2013 l’organizzazione sunnita, “Stato Islamico in Irak”, ha lanciato un appello alla popolazione sunnita affinché prenda le armi per puntarle contro il governo (in mano alla comunità sciita). Fra ottobre e dicembre 2012 sono stati condotti 82 attacchi contro gli apparati violenti dello stato.
Nel territorio autonomo kurdo (situato nel nord del paese) attacchi e uccisioni sono ridotti, in ogni caso la situazione dei diritti umani è tutt’altro che in ordine. I clan famigliari kurdi la fanno da padroni: in particolare quello di Barzani, presidente del territorio autonomo kurdo, e di Talabani, invece presidente proprio dell’Irak.
Cerchio chiuso e disperazione
L’Irak è il paese dove più marcate e evidenti sono le conseguenze dell’impiego delle munizioni arricchite con l’uranio. Sono state infatti impiegate già nella guerra con l’Iran (1991). Nel 2003 USA e Inghilterra rifiutarono assolutamente di rivelare agli iracheni il tipo di munizioni all’uranio impiegate e i luoghi dove erno installati i missili per lanciarle. Sono oltre 300 i territori contaminati, “chiusi”, soprattutto quello di Falluja e delle province del sud.
Insicurezza, malattie e disoccupazione costituiscono dunque il circolo chiuso, senza speranza, in cui si dibatte oggi la popolazione irachena. Ne è esempio quel che è accaduto all’inizio di marzo 2013 a nord di Bassora nel campo petrolifero di “West Qurna 2” sfruttato dalla società russa Lukoil e dalla sudcoreana Samsung. 400 operai hanno superato con forza le porte principali, hanno occupato gli impianti per chiedere lavoro: sono stati cacciati dall’intervento in forze dell’esercito. La ristrutturazione degli impianti di estrazione e delle raffinerie, il governo l’ha assunta fra i compiti primari, tanto da stanziare, per la sua realizzazione ben 173 mld di dollari. L’obiettivo è aumentare l’estrazione giornaliera di 9 mln di barili. Attualmente ogni giorno in Irak vengono estratti 3,15 mln di barili, come nel 2002. La ricchezza del petrolio viene sottratta alla gente, resa così sempre più povera dalla ripartizione ineguale, al punto che oggi il 90% degli uomini sotto i 30 anni vuole lasciare l’Irak per trovare lavoro all’estero.
Violenza, disperazione, influenza crescente della religione sulla politica, determinano uno specifico peggioramento della condizione delle donne. Esse sono sempre più marginalizzate nell’istruzione come nel mercato del lavoro e nell’assistenza sanitaria, aggredite dai precetti religiosi come nesun’altra componente della popolazione. Per le donne non ci sono “diritti”, non c’è partecipazione diretta allo scontro armato (ad esclusione delle donne kurde inserite autonomamente invece nello scontro), ma solo doveri, comandi. 1 mln e mezzo di vedove non sa come nutrire la prole, non sa dove sia finito il suo uomo. Con ogni probabilità inghiottito fra i 16mila “dispersi”, la gran parte scomparsi fra il 2006-2008, quando ogni mese venivano uccise circa 3mila persone dalla polizia e dallo scontro religioso.
Conflitti religiosi
Una recente documentazione del quotidiano inglese Guardian e della BBC Araba ha rivelato il ruolo omicida del colonnello James Steele “esperto dell’antiterrorismo” statunitense in Irak. Il colonnello pensionato è un veterano della guerra in Vietnam, dove ha appreso il lavoro sporco contro l’insurrezione. In Nicaragua e El Salvador, negli anni ‘80, era competente nella guerra contro i movimenti di guerriglia. Là ha organizzato all’interno dell’esercito gli squadroni della morte. Data l’esperienza accumulata Steele nel 2004-2005 venne inviato in Irak dove, al comando del gen. David Petraeus organizza la costruzione di commando speciali di polizia. La truppa veniva raccolta, per lo meno in parte, dalla brigata Badr, una delle milizie sciite a suo tempo addestrate in Iran, i cui combattenti erano pieni di odio verso gli appartenenti ai governi di Saddam Hussein. Adesso venivano addestrati per fermare quelli che combattevano l’occupazione dell’Irak – però condotta dagli USA. In breve tempo prese corpo un’unità speciale preoccupante, composta di 15mila uomini. Il loro agire avveniva al di fuori della legge ma sotto il comando e la conoscenza delle forze armate USA; riuscì così loro di far sparire, torturare e assassinare in carceri segrete sparpagliate in tutto il paese, migliaia di persone. Steele faceva riferimento diretto sull’ex ministro della difesa Donald Rumsfeld, sul vice presidente Dick Cheney e sul presidente Bush. Insomma agiva sotto la stretta direzione e sorveglianza dei comandi yankee più alti.
Una nazione distrutta
La guerra condotta dagli USA ha distrutto una società, certamente indebolita dalle guerre precedenti e dalle sanzioni ONU, ma pur sempre una società intatta: ha distrutto la nazione irachena. La guerra 2003-2012 ha ucciso in Irak 1,5 mln di persone; 2 mln invece sono fuggite dopo la guerra a causa delle condizioni instabili, indefinite, piene senz’altro di ogni reale e possibile miseria e morte.
La guerra ha trasformato il paese in rifugio dei gruppi armati islamici, i quali hanno trovato e trovano in Libia, Siria e Mali nuovo impiego. In questi gruppi la retorica dogmatica religiosa cede il passo al vero scopo del loro disegno. Effettivamente essi sono i mercenari al servizio di stati che, per ragioni finanziarie e di politica interna, non potevano inviare proprie truppe. Gli Usa e l’Europa si sono serviti di quei gruppi, poiché in Medioriente questi ultimi hanno marcato come proprio il territorio, e vogliono conservare influenza su questo. Non di rado, per “controllarli”, USA e Europa permettono che quei gruppi armati irregolari siano messi in piedi da imprese private e servizi segreti. Le loro missioni che si collocano al di sotto della soglia della guerra aperta, destabilizzano comunque la regione interessata con una “guerra di bassa intensità”.
Qatar e Arabia Saudita pagano e armano quei gruppi per saldare vecchi conti con concorrenti politici sgraditi, quali la Libia e attualmente la Siria. Loro vogliono fermare l’influenza dell’Iran nella regione. In ballo c’è il conflitto fra sunniti e sciiti, inesistente nella popolazione. La Turchia si serve di questi mercenari per consolidare il suo piano di grande potenza regionale, di forza dirigente della fratellanza musulmana. Sempre quei gruppi destabilizzano la zona di confine turco-siriana per realizzare una testa di ponte nel nord della Siria. La guerra aperta nel 2003 contro l’Irak si estende.
da jungewelt.de, 20 marzo 2013
Sulla Siria
La “Coalizione Nazionale delle Forze per l’Opposizione e la Rivoluzione in Siria”, lunedì scorso (18 marzo 2013) in un hotel di Isanbul, dopo 14 ore di discussioni ha eletto il presidente del Consiglio. La scelta è caduta su Ghassan Hitto, un manager 50enne tecnico tecnologico. Hitto è cresciuto negli USA, dove ha studiato matematica e informatica. A tutti gli effetti è cittadino americano ed “è incline all’islam”. Per oltre 10 anni è stato direttore in Texas della “Brighter Horizons Akademie”, definita da alcune fonti una “istituzione diretta alla promozione di un clima amichevole nei confronti dell’islam”. Ha fondato la Coalizione per una Siria Libera e nel 2012 è stato membro del consiglio direttivo siriano-americano.
Da quando nel novembre 2012 è sorta la Coalizione Nazionale, Hitto ha coordinato l’organizzazione per gli aiuti umanitari. Per questo si è trasferito con la sua famiglia in Turchia. Ha buoni rapporti con gli stati del Golfo finanziatori della Coalizione.
L’altro candidato alla presidenza del Consiglio era Assad Mustafa, ministro dell’agricoltura in Siria al tempo di Assad padre. Hitto è stato votato da 35 dei 49 voti validi; 20 membri della Coalizione non hanno votato. In un comunicato della Coalizione si afferma che Hitto è sostenuto dagli islamici come dai liberali.
Hitto è contrario a negoziati con il governo siriano, tuttavia previsti nell’accordo stilato a Ginevra. All’occidente chiede armi e sostegno finanziario.
Per due volte la data per la formazione di un governo in esilio è stata rinviata, poiché era contestato il modo di procedere della Coalizione. Il critico più deciso è sempre stato il presidente dell’Alleanza, Mouaz Al-Khatib, che si era dichiarato pronto ad accettare negoziati con rappresentanti del governo siriano. Al-Khatib aveva espresso il suo rifiuto nei confronti della formazione di un governo dell’esilio, in quanto poteva costituire il passo per una divisione della Siria. Si diceva invece pronto alla formazione di un governo di transizione, come previsto dall’accordo di Ginevra. Per queste sue posizioni è stato oggetto di forti critiche all’interno della Colalizione. In passato, sotto la pressione interna, ha dovuto revocare colloqui con Mosca già preparati.
La pressione degli stati finanziatori del Golfo è diventata troppo forte anche per Al-Khatib. Il Qatar, primo fra tutti, vuole cancellare l’accordo di Ginevra, mentre spinge per la formazione di un governo dell’esilio, che deve prendere il seggio della Siria nella Lega Araba.
Il comandante in capo del Consiglio Militare Superiore dell’ “esercito siriano libero”, il gen. Selim Idriss, ha dichiarato il sostegno delle sue truppe, aggiungendo che opererà “sotto l’ombrello di questo governo”. Idriss fa di nuovo appello all’occidente per la fornitura di altre armi dirette all’insurrezione. Francia e Inghilterra sono pronte a chiedere nella prossima conferenza dei ministri degli Esteri dell’UE, la cancellazione dell’embargo di armi (all’esilio siriano) decretato tempo fa dalla stessa UE.
da jungewelt.de, 20 marzo 2013
Let's go West
Migrazione del lavoro nell’Unione Europea
Segue una raccolta non solo di dati sulla migrazione di operai/e, di forza-lavoro dall’est verso l’ovest dell’Europa. Anche per dare una base più reale all’inevitabile relazione fra la società fondata sullo sfruttamento e il sistema tribunale-carcere per imporlo. Le carceri in Italia sono affollate non solo da proletari/e provenienti dai paesi arabi, da Asia, Africa e America Latina. Parecchie migliaia arrivano in cerca di miglior fortuna proprio dall’est europeo.
A cominciare dal 1° Maggio 2011 Rft (Germania) e Austria devono aprire i rispettivi mercati del lavoro a 8 paesi dell’Europa dell’est entrati a far parte dell’Unione Europea (UE) nel maggio 2004. Per le genti degli stati del Baltico, di Polonia, Slovacchia, Céchia, Slovenia e Ungheria in cerca di lavoro diviene reale la piena libertà di circolazione e di assistenza medica anche nei mercati del lavoro tedesco e austriaco.
Data questa premessa, il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza si chiede: quanti/e salariate/i lasceranno la Polonia in direzione dell’ovest? Secondo l’Istituto per il Mercato del Lavoro di Francoforte, dall’Europa centrale nella Rft possono arrivare anche 700mila lavoratrici-lavoratori. Forze-lavoro ben formate, invocate, ne arriveranno, però nel complesso saranno una grandezza marginale. La gran parte è costituita da manovali che trovano lavoro soprattutto nell’edilizia, nella logistica e nell’agricoltura. Ogni anno 300mila-400mila polacche/i emigrano nella Rft per lavorare soprattutto nell’agricoltura, dove ricevono regolarmente salari di fame - quattro-cinque euro l’ora.
A questo movimento migratorio, dopo l’alargamento dell’UE verso l’est, si sono aggiunte, nella stessa direzione, ulteriori correnti migratorie, in particolare provenienti da Polonia, stavolta dirette in Scandinavia, Inghilterra e Olanda; in Inghilterra oltre 550mila polacchi lavorano nell’edilizia o in mansioni anche più usuranti; mentre da Bulgaria e Romania le correnti si dirigono verso Italia e Spagna. Dopo l’ingresso nell’UE, gennaio 2007, ad oggi, dalla Romania sono emigrate 1,67 mln di persone, dalla Polonia oltre 2 mln, dalla Bulgaria 700mila (quasi il 10% della popolazione, il cui totale è sceso dal 1989 al 2009 da 9 a 7,9 mln). Negli stessi anni dalla Lituania sono emigrate verso ovest 75mila persone su un totale di 3,3 mln. Per contro, l’emigrazione da Céchia e Ungheria ha un aspetto più contenuto.
La criminalizzazione nell’UE della forza lavoro immigrata
Secondo stime della Commissione Europea dopo il 2007 nell’UE circa 8 mln di persone vivono senza i regolari permessi di soggiorno e libretti di lavoro. Secondo l’Ufficio per l’Emigrazione e Profughi della Rft, in quel paese, sin dal 2007, vivono senza le carte legali 500mla-1 mln di persone. Queste grandezze sono costantemente sottoposte alla minaccia dell’espulsione, del carcere, in ogni caso di impiego in settori di lavoro sottopagati.
Si deve in ogni caso tener conto che la migrazione da est verso ovest in Europa si somma a quella proveniente dal sud, in particolare dai paesi arabi, da Africa, Asia e America Latina. Una migrazione quasi completamente criminalizzata. Tra il 2006-2008, secondo dati di Frontex, oltre 800mila persone hanno oltrepassato i confini dell’UE senza i documenti previsti.
L’immigrazione in Europa negli anni dello scoppio della crisi
All’inizio del 2009 nei paesi dell’UE la quota dell’emigrazione, rispetto alla popolazione totale, in media, è pari al 6,7%, cioè circa 32 mln di persone, di cui: 12 mln si sono mosse dai paesi europei classici dell’emigrazione (Italia, Portogallo e Grecia ai quali si sono negli ultimi decenni uniti Polonia e Romania); 7 mln si sono mosse dai paesi dell’Europa dell’est non membri dell’UE; 5 mln dai paesi africani, 4 mln dall’Asia e 3,3 mln dai paesi dell’America Latina.
La crisi ha avviato grossi e importanti mutamenti come l’aumento della quota di disoccupazione della forza lavorativa immigrata rispetto alla forza lavorativa di origine europea. Per es, in Spagna nel 2007 quella quota era superiore “solo” del 4,4%, nel 2009 toccava già il 12,9%. Questa tendenza negli stati membri dell’UE è meno vistosa (alla fine del 2009 nella Rft è pari all’8%, in Italia si aggira attorno al 5,3%, in Inghilterra 2,2%).
Il peggioramento delle prospettive economiche e sociali della popolazione immigrata ha provocato una netta caduta del flusso migratorio: fra il 2008-2009, secondo stime di Frontex, il passaggio illegale dell’immigrazione nel Mediterraneo è caduto del 41%; in Spagna negli stessi anni il flusso legale dell’immigrazione, anche da Bulgaria, Romania, è crollato del 66%.
Dati questi ridimensionamenti si è verificata la caduta delle rimesse (di denaro) dell’emigrazionee, contemporaneamente, il crollo dei consumi in paesi come Bulgaria, Romania, Egitto…, che ha portato con sé l’acutizzazione delle tensioni sociali nei paesi d’origine. Le cifre non sono piccole: secondo la banca centrale della Polonia nel 2008 le rimesse dell’emigrazione avevano raggiunto quota 7,1mld di euro, l’anno successivo erano già scese a 6,4mld; in Romania la situazione è ancora più marcata: la cifra delle rimesse dall’estero nei primi 4 mesi del 2010 sono diminuite di un buon 15% rispetto al medesimo periodo del 2008: da 1,1mld a 600mln di euro.
Alla caduta di entrate bisogna inoltre aggiungere altri fattori indicativi del peggioramento delle condizioni di vita della popolazione salariata: la svalutazione delle monete locali, come per es. dello zloty (Polonia), il reale potere d’acquisto dei salari medi nel secondo quadrimestre del 2009 è caduto del 4,2% anche a causa dell’aumento della tassazione che ad esempio in Romania ha provocato la riduzione effettiva del salario medio mensile da 500 a 350 euro. Di fronte al costante aumento della disoccupazione, alla frugalità dei salari, a tanti/e europei/e dell’est non resta che la ricerca di lavoro a ovest. L’andamento disastroso del livello dei salari promosso da UE, Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale nel quadro dei “programmi di austerità” condizionati dalla crisi nella periferia est dell’UE manterrà quindi la pressione all’emigrazione anche in futuro.
in Lunapark21, dicembre 2010
liberamente tratto da www.sopos.org/aufsaetze/4da767adf1f9a/1.phtml
L’Egitto in rivolta e la «nuova sicurezza»
L'Egitto è sempre più in subbuglio. Nella zona di down-town del Cairo, nei dintorni di Piazza Tahrir, quasi giornalmente rabbia e sassaiole si scontrano con gli idranti e i gas lacrimogeni delle forze dell'ordine. Non solo al Cairo: nelle ultime settimane e negli ultimi giorni tutto l'Egitto si è rivoltato.
Fin dallo scorso 25 gennaio – data dell'inizio delle rivolte che hanno portato alla caduta dell'ex rais Hosni Mubarak – in tutto il paese è in corso una campagna di disobbedienza civile. La campagna, che vorrebbe realizzare esperienze simili a quella di Port Said, ha visto vasti scioperi dei lavoratori in città industriali come Tanta, Mansoura e Mahalla.
Proprio a Mahalla la notte centinaia sono i giovani che, ormai da una settimana, si scontrano con la polizia. In questa città, con un recente passato di forti scioperi, la presa di coscienza popolare aumenta sempre più.
Anche se oggettivamente la lotta dei lavoratori e la rabbia dei giovani per il malgoverno non sono ancora riuscite a portare ad un conflitto globale e generalizzato contro tutte le espressioni del governo – sullo stile Port Said – rivolte e scioperi stanno però portando ad una nuova presa di coscienza popolare. Sempre più egiziani si rendono contro che senza un cambiamento del sistema, il regime è e rimarrà lo stesso, anche se con facce e nomi nuovi.
Anche il deserto del Sinai è stato scosso dalle proteste. Nella penisola, in cui forti e potenti sono le relazioni tribali, nella zona di Arish nell'ultima settimana in molti sono scesi per le strade per protestare contro l'atteggiamento del governo centrale. Il territorio, strategico in quanto da decenni campo di battaglia e conquista delle autorità israeliane, è ormai da decenni al centro delle "trattative di pace" regionali con lo stato sionista, che lo controlla tuttora politicamente. Territorio-cuscinetto praticamente militarizzato in cui, appunto per questa particolare importanza strategica, non è possibile alcun tipo di sviluppo ed in cui il potere dei clan tribali si fa sempre più forte.
L'ennesimo attacco da parte di una banda armata ad un check-point nel deserto, avvenuto nella giornata di ieri, dimostra – sia pur con le forti contraddizioni presenti in tal territorio – come sia lontana la pacificazione, non solo nelle città, ma anche nelle zone periferiche dell'Egitto.
Ed è proprio sul fattore "sicurezza" che nelle ultime giornate si sono avute le maggiori discussioni. Immediatamente dopo il verdetto sulla strage di Port Said è iniziato uno sciopero delle forze di polizia in varie aree del paese. Centinaia i poliziotti in sciopero "contro il governo Morsi" che chiedono maggiori poteri e più armi per "proteggersi" dagli attacchi dei manifestanti. Sempre di più sono le caserme attaccate ed incendiate dai manifestanti in varie zone del paese. A seguito delle richieste delle forze di polizia, le autorità egiziane la settimana scorsa hanno proposto un nuovo decreto grazie al quale verrebbe permesso, a non meglio specificati "gruppi di cittadini", di arrestare i "vandali".
In merito a questa misura, se i membri dei Fratelli Musulmani e di Al-Gamaa Al-Islamiya si mostrano compiaciuti della facoltà accordata ai "poteri politici di aver il diritto di formare proprie forze di polizia, per combattere i crimini nelle strade", di tutt'altro parere sono coloro che niente hanno a che fare con il regime e con l'Islam al potere. Insomma, dimostra soddisfazione solo chi il potere ce l'ha e adesso trova nuovi margini per esercitarlo, non certo chi, continuando a lottare, affronta un potere poliziesco capace di una violenza maggiore perfino di quella degli anni bui di Hosni Mubarak.
Tra chi si oppone alla proposta, accanto a coloro che parlano di una linea "legalista" affermando che la mossa sarebbe anticostituzionale, vi è anche chi rintraccia nel provvedimento un ancora maggiore rafforzamento del regime e dei propri poteri.
Che siano vere oppure no le voci secondo le quali lo sciopero dei poliziotti sia stato funzionale a questo passaggio, indubbiamente le discusse "milizie" delle forze al potere porterebbero a nient'altro che un nuovo totalitarismo, anche per le strade. Ad un ancor maggior controllo delle forze di polizia, già subalterne al regime. O, ancor peggio secondo alcuni punti di vista, alla possibile legittimazione di contractor o di compagnie di sicurezza private che nello stesso Medio Oriente e nel vicino Golfo Persico continuano ad uccidere per conto delle guerre portate avanti dall'occidente.
Non va scordato che i sostenitori delle milizie sono gli stessi che in più di un'occasione avevano affermato che era legittimo, per la "protezione dello stato", massacrare gli attivisti laici. Ma, come dimostrato dalla fantastica esperienza di Port Said – sebbene ridimensionata e mutata dopo le recenti sentenze e gli ultimi scontri – nessuna polizia di regime o di partito potrà mai portare alcun tipo di sicurezza per le strade. Solo l'organizzazione popolare e l'autorganizzazione dei quartieri sono espressioni dell'unica sicurezza possibile: quella radicata in un processo rivoluzionario che continua ad essere sostenuto con forza mostrandosi irriducibile all'arroganza del nuovo regime e dei partiti politici.
15 marzo 2013
da infoaut.org
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
Cie di C.so Brunelleschi a Torino
1 marzo. Il processo contro 67 antirazzisti/e torinesi per le iniziative di lotta contestate, 41 eventi avvenuti tra il maggio 2008 e il gennaio 2010, tra i quali 20 sono presidi al CIE Brunelleschi, è stato rinviato al 30 maggio.
Il 12 marzo un recluso dell’area gialla tenta di impiccarsi e perde i sensi prima che i suoi compagni riescano a tirarlo giù. I carabinieri vengono subito chiamati ma non intervengono perché hanno altro da fare: in televisione c’era Barcellona-Milan. Tra il primo e il secondo tempo, gli sbirri, a quanto pare abbastanza alticci e divertiti, aprono le gabbie alla Croce Rossa. Portato in ospedale, non appena si riprende, il ragazzo è subito ributtato in camerata, come se avesse avuto un semplice mal di pancia.
14 marzo. Nelle ultime settimane c’è stata un’impennata di casi di autolesionismo, per ritardare la minaccia di un’espulsione o per disperazione. E’ ormai prassi che i reclusi siano accompagnati al pronto soccorso con molta calma, solo per accertamenti e poi portati subito indietro senza cure, soprattutto se hanno ingerito oggetti. I reclusi raccontano addirittura di un ragazzo che è stato rimpatriato con ancora nello stomaco bulloni e lamette, senza essere stato portato in ospedale.
Il 16 marzo intorno alle venti scoppia una breve sommossa tra i reclusi dell’area viola, con materassi e masserizie a fuoco nelle stanze. La rivolta è avvenuta una mezz’oretta dopo un rumoroso saluto portato fuori dalle gabbie da una ventina di nemici delle espulsioni, con petardo, slogan, urla, battiture e messaggi di solidarietà. Ora nell’area viola di stanze agibili non ce ne sono più, e i prigionieri sono stati trasferiti nella sala mensa e in parte in altre sezioni. Nell’area blu è rimasta soltanto una stanza, dove dormono ammassati nove persone, e pure nella rossa ce n’è solo una. L’area gialla, dove il 24 febbraio erano andate a fuoco tre stanze su cinque, è la più affollata.
20 marzo. Dopo gli incendi che hanno reso inagibili le stanze dell’area viola, i reclusi hanno rifiutato il cibo sia a pranzo che a cena, per mancanza totale di riscaldamento, assenza di coperte, costretti a dormire a terra in 15 persone nella sala mensa. Un paio di loro sono stati spostati in altre aree, mentre altri tre sono stati trasferiti a Modena.
Nel frattempo, in tutto il Centro si registra un certo lavorio e si vedono televisori e materassi entrare: per mercoledì 27 marzo è prevista un’ispezione e i capoccia non vogliono certo fare brutta figura. Non potendo fare in tempo a sistemare tutte le stanze andate in fumo stanno infiocchettando l’area bianca chiusa ormai da tempo.
23 marzo. Due terzi del lagher di corso Brunelleschi sono fuori uso. Quelli dell’area viola sono spostati in altre aree, tranne che per Jamal, il recluso che aveva evitato un’espulsione a fine gennaio, che lo fanno sostare nell’ufficio immigrazione per troppo tempo, per poi caricarlo sul furgone e via verso l’aeroporto. Alla fine l’area viola è svuotata e i reclusi distribuiti dove, almeno per terra, c’è ancora posto. Qualcuno accetta di andare in isolamento per non stare uno sopra l’altro nelle camerate rimaste.
Il 24 marzo c’é stata una visita di una delegazione di parlamentari e legali, solita e sinistra manfrina sull’inefficienza del CIE a fronte dei costi sostenuti.
2 aprile. Continua lo sciopero della fame di tutti i reclusi del Cie di Torino, e i prigionieri raccontano che due di loro da diversi giorni stanno portando avanti anche lo sciopero della sete. Per sostenerli nella loro lotta, lunedì sera una ventina di solidali si è data appuntamento in Corso Brunelleschi per un saluto con slogan, battiture e petardi. Come al solito, da dentro la risposta non si è fatta attendere. Inoltre, e questa è una novità, si sentivano chiaramente le urla delle donne prigioniere. Martedì mattina i reclusi dell’area gialla del Cie di Torino salgono sui tetti delle camerate: chiedono che siano liberati almeno quelli che hanno già passato sei mesi dietro le sbarre.
3 aprile. Lo sciopero della fame nel CIE di Torino è cessato questa mattina in tutte le sezioni tranne una. Durava da domenica 31 marzo ed ha coinvolto tutti i 47 uomini e donne rinchiusi nelle palazzine di Corso Brunelleschi. Nella notte tra lunedì e martedì un recluso dell’area gialla ha appiccato il fuoco, contribuendo a danneggiare ulteriormente la struttura, quasi inagibile dopo le rivolte degli ultimi due mesi.
7 aprile. Presidio davanti al CIE
11 aprile. Quattro mandati d’arresto e due divieti di dimora: queste le ordinanze emesse dal giudice, e che la polizia sta tentando di eseguire a Torino questa mattina. I mandati sono stati emessi per il Presidio del 28 febbraio scorso, presidio in sostegno di un recluso che stava resistendo all’espulsione e finito con fotoreporter di Torino Cronaca, giustamente maltrattato. Due dei tre fermati sono stati rilasciati: uno era stato preso per sbaglio, nella fretta di abbandonare al più presto il quartiere di Porta Palazzo; a un’altra dovevano notificare solo un obbligo di firma per un furto in Autogrill al ritorno da una manifestazione No Tav. Il terzo invece è stato picchiato durante l’arresto: arrivato in questura senza maglia e con segni di botte, è stato portato prima in ospedale, e poi in carcere. Sono ancora irreperibili due compagni, destinatari rispettivamente di un mandato di arresto e di un divieto di dimora. Al momento una compagna è stata bandita dalla provincia di Torino, e due compagni e una compagna sono al carcere delle Vallette. Per chi volesse scrivere: Borzì Martina Lucia, Poupin Gregoire Yves Robert, Milan Paolo Via Pianezza, 300 10151 Torino.
Torino: Palazzine ex-Moi occupate da profughi e migranti
1 aprile. Due palazzine dell’ex villaggio olimpico sono state occupate da profughi, migranti e antirazzisti solidali, per far fronte all’emergenza che riguarda centinaia di persone dopo la fine dell’Emergenza Nord Africa. Gli spazi delle palazzine sono ormai suddivisi tra gli occupanti ma a quanto pare non bastano a soddisfare le esigenze di tutti coloro che nel frattempo sono sopraggiunti.
8 aprile. Con il passare dei giorni, sembra che il numero delle presenze nell’edificio aumenti e che i migranti siano ormai 300. Per loro si è costituito il Comitato di solidarietà con i rifugiati composto da ex operatori dell’Ena, ragazzi dei centri sociali e aderenti ad associazioni laiche e cattoliche. Il problema dal questore non è stato definito di ordine pubblico, ma emergenza umanitaria. Tutta la situazione puzza, cosa si nasconde sotto? Seguiranno aggiornamenti.
Cie diTrapani Milo
Il 26 marzo circa 15 reclusi del CIE di Milo riescono ad evadere scavalcando il muro di recinzione e dileguandosi nelle campagne limitrofe. Qui parte la caccia ai fuggiaschi da parte dei carabinieri della Compagnia di Alcamo. E’ l’alba quando arriva una richiesta d’intervento da parte di un Istituto di Vigilanza privata che segnalava la presenza di possibili ladri all’interno di un ristorante nei pressi della stazione ferroviaria. E’ lì che un tunisino di trentatré anni, stava facendo razzia di generi alimentari, ed è stato il primo a essere arrestato con l’accusa di furto aggravato, colto in flagranza. I militari capiscono che si tratta di uno dei quindici evasi e iniziano a setacciare la zona circostante alla ricerca dei suoi compagni di sventura dileguati nell’oscurità con l’arrivo delle autovetture dei Carabinieri. Una vera e propria caccia all’uomo per la quale venivano fatte convergere sul posto altre pattuglie provenienti dalle Stazioni limitrofe di Castellammare del Golfo, Balata di Baida e Buseto Palizzolo. L’unione delle forze e il loro dispiegamento sul posto facevano in modo che fossero rintracciati altri sette “clandestini” probabilmente rimasti in attesa di poter tentare la fuga salendo al volo su qualche treno in transito. Tuttavia, mentre due di essi si consegnavano nelle mani dei Carabinieri, altri cinque ponevano resistenza iniziando a lanciare sassi contro i Carabinieri e cercando di guadagnare terreno. Una battaglia durata circa un’ora: da un lato i clandestini cercavano di respingere l’avanzata dei carabinieri lanciando pietre al loro indirizzo, dall’altro i militari cercavano di farli desistere con un atteggiamento passivo per non dover arrivare allo scontro fisico ma avvicinandosi sempre più a loro tanto da dargli la sensazione di essere circondati.
Una logorante azione di accerchiamento. I cinque indietreggiando, incappavano nel fiume Gaggera. Per loro, oltre l’acqua gelida, non esisteva più alcuna via di fuga. A quel punto la resa era l’unica via da scegliere. Immediate le manette ai loro polsi. I cinque dovranno rispondere all’accusa di furto aggravato in concorso e resistenza a pubblico ufficiale. Altre notizie invece dicono che gli stranieri saranno rimpatriati il prima possibile.
Cie di Modena
9 marzo. In questo periodo i reclusi sono aumentati, per via della contemporanea chiusura del CIE di Bologna, che è stato svuotato e chiuso per lavori di ristrutturazione per un mese.
Il 7 aprile scoppia la rivolta a causa di un trasferimento dal carcere al Cie di una persona diabetica in preoccupanti condizioni di salute. Tutti i reclusi, 60 persone, si chiudono dentro le sezioni, sfasciano pareti di plexiglas, grate di ferro, telecamere e cabine del telefono e cercano di resistere, mentre da fuori le forze della prepotenza, militari dell’esercito, della finanza e i carabinieri in assetto antisommossa, cercano di sfondare e dopo varie resistenze riescono a entrare e iniziano il pestaggio a suon di manganellate. Alcuni rimangono feriti e arrivano due ambulanze, altri si sarebbero fatti dei tagli sul petto per autolesionismo.
L’8 aprile un gruppo di solidali saluta i rivoltosi con grida e fuochi artificiali: da dentro i reclusi rispondono con una battitura e gridano Libertà!
Cie di Ponte Galeria (Roma)
Il 25 marzo tre minorenni vengono prelevati dal centro di accoglienza San Michele, che li aveva in carico e, poiché giudicati maggiorenni e destinatari di un decreto di espulsione, accompagnati direttamente al Cie per non aver ottemperato all’obbligo di recarsi all’ufficio operativo dove avrebbero dovuto prelevare il foglio di via. Dopo vengono sottoposti a una nuova visita e dopo un calvario durato giorni, accertata la minore età, vengono riaffidati al centro che li aveva in carico. Per lo Stato italiano, il tutore legale dei minori non accompagnati è il sindaco della città, quindi senza la possibilità di un tutela legale. Evidentemente Alemanno li considera figliastri e se ne vuole sbarazzare, ma si affretta a chiedere al Ministro dell’Interno e al Prefetto, il rimborso di quanto anticipato dal comune in fatto di “accoglienza” minori. La cifra versata per ogni minore si aggirerebbe intorno ai 70 euro al giorno, nel 2012 ha comportato una spesa di quasi 20 milioni, ma naturalmente non corrisponde a effettivi servizi erogati e che il più delle volte va a coprire anche quelli che sono falsi minori. A quanto pare, negli accordi stretti con l’ospedale “militare” di Clelio, si prevede di sottoporre ad accertamenti medici “forzosi” fino a 800 ragazzi. Tutti giovanissimi stranieri, da considerarsi colpevoli a priori: è il teorema dei “finti minori”. Un’indagine penale condotta dalla Procura di Roma in accordo con il Tribunale dei Minori. Caccia e persecuzione al minore che lo è veramente oppure la possibilità di dichiararsi maggiorenne, lasciare immediatamente il centro per i minori non accompagnati e beccarsi un’espulsione e una denuncia penale per esibizione di documenti falsi, falso ideologico e truffa ai danni dello Stato, che non fa altro che intascare soldi per servizi inesistenti e legalizzare la caccia all’immigrato, che è schiavizzato, quando riesce ad avere tutti i documenti in regola oppure perseguitato, catturato, internato, torturato ed espulso.
Cie di Gradisca di Isonzo (Go)
Il 24 marzo la procura di Gorizia ha concluso le indagini preliminari sulla gestione del Cie e del Cara di Gradisca d’Isonzo, e ha trasmesso i capi d’imputazione nei confronti dei 13 indagati L’accusa principale è quella di associazione a delinquere finalizzata alla frode nelle pubbliche forniture e alla truffa. Il gestore del Cie, Consorzio Connecting People, avrebbe ricevuto, da parte dello Stato, somme più alte rispetto a quelle che gli sarebbero spettate sulla base del numero di persone recluse nella struttura. Era indagato anche il vice prefetto vicario di Gorizia, che dovrà rispondere dell’accusa di falsità materiale e ideologica in atti pubblici, mentre sono cadute le ipotesi di peculato, corruzione e frode in pubbliche forniture.
Milano: sgomberato lo scalo di Porta Romana
19 marzo. Lo scalo di Porta Romana era uno dei centri informali di “non accoglienza” più noto in città. Vi abitavano in condizioni d'igiene e sicurezza estremamente precarie, un centinaio di cittadini stranieri, per lo più dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dalla Somalia,''in maggioranza titolari di protezione'', che non avevano ricevuto accoglienza in altri circuiti, secondo l'associazione di volontariato Naga. La proprietà è delle Ferrovie dello Stato e il comune di Milano ha sgomberato per la messa in sicurezza dell’area. Parte delle persone si sono allontanate, altri sono passati al Centro Aiuto Stazione Centrale con il piano emergenza freddo che durerà circa due settimane.
Bologna, 23 marzo: manifestazione generale dei migranti contro sfruttamento e Bossi-Fini
Corteo nazionale dei e delle migranti, contro lo sfruttamento e la legge Bossi-Fini.
Per il permesso di soggiorno garantito a tutti e slegato da lavoro e reddito, per dire basta al razzismo istituzionale, alle sanatorie truffa, alla farsa dei permessi umanitari e del finto diritto d’asilo e per la chiusura di tutti i Cie. Duemila le persone presenti, due i pullman organizzati da Brescia da Cross Point e dal Presidio della gru. Il corteo è partito da Piazza Venti Settembre alle 15 per sfilare nelle vie centrali della città. Segue l’appello della manifestazione.
Da più di dieci anni noi migranti siamo incatenati dalla legge Bossi-Fini il nostro permesso di soggiorno dipende dal lavoro e dal reddito, e per mantenere i documenti in regola dobbiamo accettare qualsiasi condizione di lavoro e salario. Se perdiamo il lavoro, corriamo il rischio di perdere il permesso, di essere rinchiusi nei CIE o espulsi. Già migliaia di migranti dopo aver costruito la propria vita qui hanno dovuto lasciare il paese perdendo anni di contributi versati. Già migliaia di migranti hanno dovuto separarsi dalle loro famiglie che sono tornate nei paesi di provenienza. I nostri salari sono mangiati dalle tasse e dai versamenti che siamo costretti a pagare alle Poste per rinnovare un permesso che spesso scade dopo pochi mesi. Per chi non ha il permesso di soggiorno, è impossibile ottenerlo e ogni sanatoria è solo una nuova truffa. Il diritto d’asilo esiste solo sulla carta e non è garantita nessuna vera accoglienza. Questo è razzismo istituzionale! Questo è sfruttamento!
Oggi, però, noi migranti abbiamo ricominciato a sognare. Abbiamo accumulato forza dentro e fuori i posti di lavoro, abbiamo lasciato alle spalle la paura e abbiamo preso parola insieme, donne e uomini. Ora è arrivato il momento di uscire dai luoghi di lavoro, dalle case e dalle comunità per invadere le strade, tutti insieme! È arrivato il momento di usare la nostra forza per liberare dal razzismo istituzionale tutti i migranti, in tutte le categorie lavorative e in tutte le condizioni di vita. Sappiamo che non siamo soli, al nostro fianco ci sono i nostri figli che vogliono la cittadinanza per liberarsi dalle catene del permesso di soggiorno. Sappiamo che con noi ci sono operai e precari, donne e uomini: perché sanno che la Bossi-Fini con il suo razzismo è una legge che divide e indebolisce tutti i lavoratori, italiani e migranti.
Basta farci dividere dalle leggi! Nessuno risolverà i nostri problemi al posto nostro, soltanto con la nostra forza possiamo vincere, cancellare la legge Bossi-Fini e conquistare la libertà per tutti i migranti!
Vogliamo che il permesso di soggiorno sia garantito a tutti slegato da lavoro e reddito!
Diciamo basta al quotidiano razzismo istituzionale! Non vogliamo più sanatorie truffa!
Non vogliamo più la farsa dei permessi umanitari e del finto diritto d’asilo!
Vogliamo chiusi per sempre tutti i CIE! QUESTO É IL MOMENTO! BASTA RAZZISMO E SFRUTTAMENTO CANCELLIAMO LA BOSSI-FINI!
New York (USA)
9 marzo. Il braccio armato dello Stato americano, ha colpito ancora, a Brooklyn: con undici colpi di pistola ha assassinato Kimani Gray, un ragazzo nero di sedici anni. Ogni trentasei ore una persona di colore è uccisa dalla polizia americana. Dall’inizio del 2013 sono già più di venti gli omicidi perpetrati per mano degli sbirri ai danni della popolazione nera.
Il 10 marzo il quartiere si mobilita per una manifestazione che termina in una sorta di riot, gruppi di ragazzi giovani, tra i 16 e 23 anni, lanciano pietre e bottiglie alla polizia per poi scomparire e apparire ancora per riattaccare. Ci sono state altre manifestazioni nel quartiere pilotate da alcuni gruppi di sinistra che hanno lamentato i disordini accaduti, dando la responsabilità ad agitatori esterni, ancora alcuni ragazzi del quartiere reagiscono contro la polizia. Nelle ultime proteste hanno partecipato anche membri di movimenti rivoluzionari. Nel quartiere scoppia la rivolta per due giorni finita con 45 arresti e un agente ferito. E’ nato un sito web che raccoglie fondi in sostegno agli arrestati.
Milano, aprile 2013
Lettera dal carcere di Opera (Milano)
Carissimi vi abbraccio forte, […] oltre a leggere molto, con un ragazzo che è qui, come passatempo scriviamo canzoni. Così occupiamo il tempo in modo diverso da quello standard, tipo giocare a carte, parlare di processi, o, farsi rincoglionire dalla televisione.
Questo carcere non offre tante alternative. Ti scalfisce molto psicologicamente se tu non sei abbastanza forte. Siamo in 50 in sezione, due per cella e oltre le 4 ore d’aria, che non sono mai 4 ma sempre qualcosa di meno, siamo sempre chiusi. Alle 17 c’è la saletta. Anche lì la presenza delle guardie è continua; anche per andare in doccia ti accompagnano le guardie e appena hai finito ti riaccompagnano in cella . In ogni posto che devi andare c’è sempre la presenza di una guardia. Quando vai al colloquio o dall’avvocato, le attese sono snervanti, aspetti, se va bene, un’ora e anche i famigliari fuori aspettano 2/3 ore per fare 1 ora di colloquio.
La presenza dei cani della cinofilia, le perquisizioni sono costanti; nel pacco che portano i famigliari non fanno entrare quasi niente, tipo, carne con osso, formaggi molli, sughi e tante altre cose. Sono anche vietati gli accappatoi con il cappuccio, ogni tipo di cintura; poi le felpe, le scarpe con il carrarmato sotto, tipo scarponi; i libri e le riviste vengono contati nel peso del pacco. Durante i colloqui non puoi avere molto contatto fisico con i parenti, appena ti abbracci o dai un bacio ti bussano al vetro.
Se ti segni da un’educatrice, da un ispettore, aspetti settimane se non mesi. Qui è tutto a rilento e con risultati scarsi. Il vitto è scarso e di qualità pessime. Basti pensare che a agosto passavano la minestra bollente,con le zanzare (ce ne sono tante) che gli ronzano sopra e finiscono dentro. D’estate fa un caldo terribile, perché i muri tanti non fanno circolare l’aria. D’inverno l’umidità è troppa tanto che la mattina dobbiamo alzare i materassi per farli asciugare; i caloriferi sono quasi sempre rotti. Un ragazzo ha provato a protestare, ha fatto un po’ di casino perché aveva freddo , l’hanno portato in isolamento e ce l’hanno tenuto 50 (cinquanta) giorni. Qui è così che fanno con chi reclama i propri diritti. Ci sono squadrette pronte a zittirti con modi squadristi-fascisti,con botte e dispetti degni dei peggiori figli di puttana che sono.
I cancelli sono elettrici (automatici). Alle finestre oltre le sbarre c’è pure la rete (grata) che ti ammazza gli occhi. Insomma, qui se non sei abbastanza forte ti lasci andare. Vedo persone che ormai sono dei robot, non hanno dialogo, pensano che protestare per un proprio diritto sia andare contro un muro; rincoglioniscono tutto il giorno tra televisione, carte e terapia a go go. Sono spenti e la cosa più triste è che non hanno delle prospettive per un domani di libertà. Vivo aspettando che inizi il tg, il programma che seguono o la telenovela; aspettano che aprano la saletta o che passi il carrello della terapia. E’ molto triste questa cosa.
Il centro clinico, chi ci è stato, mi ha raccontato come si stava. E’ un racconto triste e incazzato. Lì in cella sono tre-quattro; non possono cucinare, non hanno zucchero né sale né caffè. Mangiano quasi sempre riso in bianco o minestra. Le persone che si sono fatte curare qui stanno peggio di prima. Un ragazzo è stato operato fuori di qui per un tumore al palato e quando è rientrato aveva dei dolori. Questi porci gli hanno prescritto la morfina. Roba da pazzi…sto ragazzo ormai è diventato un robot ed è dipendente dalla morfina,il non assumerla gli provoca delle crisi di astinenza, lo hanno rovinato. Per non parlare del dentista, che ha estratto denti senza mettere punti di sutura, creando così emorragie. Ci sono persone che sono state operate e successivamente non hanno mai fatto riabilitazione o non sono mai state seguite con le visite e cure prescritte. Ci sono 80enni immobili nel letto con diverse patologie, lasciati in galera a morire. Su questo la colpa non è tanto del carcere, piuttosto della magistratura. Sono qui abbandonati ragazzi con HIV conclamata, che stanno più di là che di qua. Ti fanno uscire solo quando ti restano pochi mesi di vita.
Compagni, tutto questo è un’ingiustizia del cazzo. Un uomo anche se ha sbagliato va aiutato, se sta male non va tenuto a morire… così questi sono dei porci schifosi… la magistratura fa schifo. Mi chiedo: quando l’uomo apre gli occhi per accorgersi che il mondo non è giusto il mondo, come invece ci vogliono far credere?
Adesso è uscito lo scandalo degli ospedali psichiatrici e degli OPG. Chi è negli OPG lo stanno trasferendo nelle altre carceri. Lì lo tengono in isolamento. Anche qui chi è stato recentemente nella sezione di isolamento dice che ci sono tanti che provengono proprio dagli OPG. Ho bisogno di saperne di più. Per quanto riguarda il 41bis è come se fosse un altro carcere. Non c’è il minimo di contatto… alle finestre ci sono le bocche di lupo, le ho viste con i miei occhi.
L’opuscolo non l’ho mai ricevuto; non so il perché ma posso immaginarlo. Sarebbe una grande cosa ricostruire la solidarietà tra i prigionieri e smuovere un po’ ste galere come una volta… Bella, la solidarietà, la vicinanza: ora vi lascio con questa penna con l’augurìo di incontrarci il più presto possibile in libertà e realizzare tutti i nostri, e di tutti i compagni, sogni e desideri di libertà. Un forte abbraccio a tutti
marzo 2013
Appello per la costruzione e la partecipazione alla giornata
di lotta del 25/5/2013 a Parma contro il carcere e il 41bis
Nel carcere di Parma sono rinchiusi oltre 600 prigionieri, la capienza regolamentare è di 350. Al suo interno vi sono, inoltre, una sezione per paraplegici, una sezione protetti, e una sezione di Alta Sicurezza articolata in AS1, AS3, 41bis. Oltre 50 detenuti sono in 41 bis, tra di essi il compagno Marco Mezzasalma, condannato a due ergastoli nei processi contro le Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente.
L’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario è tortura perché stabilisce l’isolamento del prigioniero per la durata di 4 anni, prorogabile di due anni in due anni, con decisione centralizzata del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in base alle relazioni della direzione carceraria.
L’art 41 bis significa:
- 22 ore al giorno rinchiuso in cella
- I reparti a 41 bis sono carceri nelle carceri, con strutture separate, spesso interrate e sorvegliate dal Gom, che sostituisce le guardie penitenziarie.
- Isolamento da tutti gli altri detenuti, cella individuale con impossibilità di cucinare
- Un’ora al mese di colloquio, solo con parenti strettissimi e con vetro divisorio
- Processo in videoconferenza
- Due di aria al giorno, al massimo con altri tre detenuti decisi dalla direzione e senza possibilità di alcuno scambio (cibo, vestiti, libri...)
- Corrispondenza limitata alle persone con cui si fanno i colloqui, sottoposta a censura che in regime di 41 bis è la normalità
- Taglio drastico dei libri
Questa barbara condizione non riguarda solo chi si trova in queste sezioni speciali ma, nella pratica, tutti i prigionieri poichè, nelle carceri dove queste esistono, viene investita l’organizzazione della quotidianità di ogni detenuto, in ogni sezione, attraverso perquisizioni continue, personali e delle celle, limitazione nei rapporti tra prigionieri...
In tutte le altre carceri la logica del 41 bis viene assunta in toto e rivolta ad ogni prigioniero che non si adegua alle regole imposte e per questo viene punito con l’isolamento del 14 bis.
Lo scopo è lo stesso: tentare di impedire metodicamente i rapporti tra i prigionieri e romperli. Questo per distruggere ogni solidarietà individuale, ma soprattutto collettiva e, così, prevenire ogni lotta e ribellione.
Il 41 bis incarna la logica della differenziazione e della divisione fondata sul ricatto premio/castigo, esso è la punizione estrema agitata a monito di tutti.
Esempio di questo è ciò che è avvenuto recentemente nel carcere di Tolmezzo, con una sezione a 41 bis. Qui, dopo uno sciopero del carrello in solidarietà con i prigionieri in isolamento ad Alessandria, contro le condizioni di vita interne e dopo una raccolta di un centinaio di firme dei detenuti, la risposta è stata ancora pestaggi, trasferimenti e ancora isolamento.
Questa gestione, creata ad arte, crea confusione nella costruzione delle mobilitazioni contro il carcere in generale e, in particolare, contro il 41 bis. Soprattutto perché gli oracoli responsabili di questa criminale gestione si ammantano di “democrazia” e di “sinistra”. Ne abbiamo un bell’esempio con l’eroe, propugnatore e difensore del 41 bis, Ingroia.
La realtà è l’esatto contrario, il 41 bis ha la finalità di isolare e annientare chi lotta e mantiene la sua identità anche dentro le carceri.
Rilanciamo oggi la mobilitazione contro il 41 bis e contro il carcere perché pensiamo sia parte della lotta più generale che, dentro alla situazione di crisi e guerra attuale, si manifesta e si intensifica come unica possibilità per non soccombere per milioni di uomini e donne, qui e in tutto il mondo. E anche perché, non accettare il ricatto del castigo, denunciandone e combattendone l’uso, rafforza la possibilità di sviluppo della lotta sia dentro che fuori le galere.
“Crisi e guerra”, non è una questione ideologica, é la realtà che respiriamo. Ogni lotta contro questa realtà viene contrastata, criminalizzata e il carcere, tutti lo tocchiamo con mano, va a pieno ritmo (vedi ad es No tav, lavoratori in lotta, studenti, immigrati, lotta contro i Cie, Muos in Sicilia...).
Ecco perchè proponiamo di tornare a Parma il 25 maggio 2013 con corteo in città presidio e corteo attorno al carcere, con volantinaggi ed interventi.
Invitiamo tutti/e a contribuire a costruire la giornata per essere tanti, coscienti e determinati. Socializziamo il dibattito nelle situazioni di lotta, dai territori alla scuola/università, ai posti di lavoro. Rompiamo il terrorismo del ricatto della paura che stato e padroni vorrebbero imporre con carcere, isolamento, 41 bis e differenziazione.
2 febbraio 2013
Assemblea di lotta “Uniti contro la repressione”
lettera dal carcere di “san vittore” (milano)
Buongiorno, innanzi tutto il Centro Clinico, VII° reparto e/o raggio di San Vittore, si compone di tre piani. Il primo (o piano terra) è occupato da 10 celle che formano il COMP (il reparto psichiatrico), sono celle a due letti di m 4x2, dotati anche di bagno e doccia. In questo reparto le celle rimangono chiuse tutto il giorno, salvo l’ora d’aria la mattina e quella del pomeriggio.
Il secondo piano è formato da un lungo corridoio “a sette” e presenta da un lato 12 celle a due letti, più bagno e doccia; grosso modo la cella è di circa mq 12, comprensivi di letti, bilancini e armadietti. Nell’altro lato del corridoio 11 cameroni, di cui 2 da quattro letti riservati ai degenti/carcerati e 2 ai lavoranti/carcerati (6 per cella).
Il terzo piano è a ferro di cavallo, un po’ complesso per la disomogeneità degli occupanti. Innanzi tutto ci sono 10 cellette da due letti (mq 12 comprensivi di letti e armadietti) con gabinetto alla turca, un lavandino e nessuna porta di divisione; 7 celle a due letti con gabinetto a tazza e porta di divisione. Gli ospiti carcerati (34 persone) non hanno la doccia in cella, ma solo due docce centrali in comune. Dall’altra parte ci sono 4 cameroni di cui 2 da dodici carcerati condannati per pedofilia, una da 4 carcerati e l’ultima con 8 lavoranti. E quanto ti ho descritto sopra è la sistemazione fisica del centro clinico.
Il funzionamento medico è delegato alla capacità ed umanità degli operatori e ai vari laboratori medici distribuiti per San Vittore: laboratori come infermerie dotati di vecchissime strumentazioni e locali assolutamente inadatti ad ospitarli. Così mi allargo un po’, a San Vittore esistono 4 infermerie (ossia localini da 1 e/o 2 infermieri per il 1° braccio (penalino), 3°, 5°, 6° braccio e per ciascun braccio un medico a cui si deve assolutamente rivolgersi per qualsiasi motivo, anche quello di morire.
Poi c’è un Pronto Soccorso per casi urgenti e, alla sera, tanta insulina per i detenuti dei vari bracci. Nei laboratori si alternano medici e specialisti provenienti dall’Ospedale San Paolo, che a sua volta ha 18 posti letto riservati ai detenuti provenienti da tutti i carceri della Provincia di Milano, reparto assolutamente visibile dall’esterno per le sbarre e i vari colori verde militare che lo contraddistinguono. [...] Ecco ti ho fatto il quadro sanitario di San Vittore e lascio a te ogni commento e considerazione. Ritornando al Centro Clinico posso dirti che l’assistenza diurna è garantita, mentre alla sera e alla notte l’assistenza è carente; il medico di guardia può essere occupato anche in altri raggi, soprattutto in quello femminile. Pertanto in casi di crisi o di necessità i detenuti chiamano a gran voce assistenza e sbattono pentole sui blindo. Anche l’unica guardia in servizio notturno se non è presente al piano, impiega da dieci a trenta minuti per presentarsi. E ciò ti anticipa un’altra terribile situazione: le celle si chiudono alle 15 del pomeriggio per riaprirsi solo alle 9 della mattina dopo. (Succede solo a San Vittore!!!).
Al Centro Clinico vari medicinali i detenuti devono comprarseli (e chi non ha soldi e/o ha le famigli lontane che fa?); i medicinali somministrati sono di fascia generica e vari operatori sanitari si lamentano che ricevono sempre meno dalla farmacia centrale. Gli psicofarmaci sono usati e somministrati in quantità industriale per il COMP e per gli ex COMP (reparto psichiatrico); in questo modo dormono almeno 18 ore al giorno.
Relativamente al ragazzo marocchino morto al 3° raggio, io ho avuto la notizia lo stesso giorno, ma non ho avuto modo di verificarla; si dice che sia caduto a terra di notte dall’alto, dalla terza branda (m.3 di altezza). Nonostante che il ragazzo accusasse dolori è stato invitato a mettersi a letto (il sonno ristora e guarisce) per morire la mattina dopo. Una morte che sembra passata e giudicata come infarto. Queste incertezze nascono dal fatto che siamo assolutamente separati per raggi, per piani e per cortili d’aria. I cortili (e sono tantissimi) sono aree dalle più svariate forme geometriche che vanno da un minimo di mq 70/80 ad un massimo di mq 500 (campetto da calcio), divisi da orrendi muri di cemento alti m. 5/6 e che raccolgono massimo 20/30 detenuti alla volta, e sempre gli stessi. Ovviamente questi cortili non hanno acqua e gabinetti, hanno solo una piccola tettoia per quando piove e per un po’ d’ombra d’estate. Posso parlarti a lungo, ma forse vale la pena sistematizzare tutte le problematiche e raccontarle in modo sistematico. Un abbraccio.
Milano, aprile 2013
COMUNICATO SULLA MORTE DI CRISTIAN UBIALI
Mercoledi 3 aprile 2013, muore all'ospedale di Mantova Cristian Ubiali,31 anni di Osio Sotto. Il ragazzo, detenuto presso l'OPG di Castiglione delle Stiviere, era stato ricoverato 3 ore prima per degli accertamenti medici relativi ad un disturbo gastrointestinale, manifestatosi dopo aver consumato la cena nel penitenziario. Con lui, altre 70 persone hanno lamentato disturbi analoghi (12 di queste anche in modo acuto), in seguito attribuibili proprio alla probabile contaminazione del cibo. Un attacco batterico attraverso il pesce avariato. Parafrasando, la democrazia ha ucciso ancora e ha tentato di avvelenare 1 quarto dei detenuti in una sua struttura. Verrebbe da chiedersi come mai si muore ancora in un'istituzione che per legge non dovrebbe esistere più, o meglio dovrebbe essere sostituita da un'altra di competenza esclusivamente psichiatrica (questo ovviamente non ci renderebbe più tranquilli). Oppure perché in una struttura pubblica, che esprime il potere giuridico e psichiatrico, deputata dunque ad educare e riabilitare, si muore o si viene avvelenati.
La risposta è implicita, nella proposta di legge per la chiusura degli OPG e nei valori che l'hanno ispirata. Fintanto che ciò che indigna l'opinione pubblica è la spettacolarizzazione dell'incuria degli ambienti, o la violenza, più o meno tollerata, con cui normalmente si esprime il personale, difficilmente si riuscirà ad ottenere una messa in discussione generale dei principi che ispirano il carcere e la psichiatria. Dopotutto, la nascita dei manicomi, storicamente si inserisce in una spinta volta all'emancipazione da una condizione di reclusione e deprivazione dei detenuti.
La psichiatria ed il carcere, sono la cifra che si paga per l'imbarazzo, che la morale e i costumi correnti esprimono di fronte a ciò che non comprendono e non sono in grado di definire, di governare. Ciò che avviene quotidianamente in un quadro istituzionale, per un utente dei servizi di salute mentale, è l'esclusione da ogni forma di partecipazione alla vita pubblica e nelle questioni che riguardano la propria vita, è l'imposizione di accettare la propria condizione di malato e di conformarsi ai costumi che attengono a questo stigma. E' la morte sociale e l'anticamera per un' eliminazione anche fisica.
L'approccio psichiatrico, sia a livello culturale che al lato pratico, è un sistema di amministrazione del vivente e di conservazione degli assetti di potere, che pervadono ogni istituzione. Se non si va oltre la compartimentazione dei saperi e la messa in discussione della “presa in carico”, non si può cogliere il condizionamento che la psichiatria esprime sui nostri pensieri, sulle nostre abitudini, oltre al pregiudizio che riafferma in ogni sua forma e ricostituzione.
Intervenire ora, può sembrare contraddittorio rispetto a quanto scritto, poiché appare come una risposta ad un fatto “grave”. Intervenire solo quando avviene un omicidio o quando ci sono “abusi” evidenti, rischia di coglierne solo gli aspetti marginali. Ragion per cui, ci si augura che questo odioso episodio, possa far nascere dall'indignazione, la lotta. Una lotta capace di accompagnare tutte quelle persone che non si piegano ai dispositivi psichiatrici che aggrediscono la loro libertà, che lottano per la dignità della propria condizione sociale. Una lotta capace di svelare a tutti i livelli la falsa neutralità della scienza e la dimensione eminentemente politica della psichiatria.
Chiediamo a tutte le persone e alle realtà interessate a questo tema di mobilitarsi.
Chiediamo di gridare pubblicamente la propria rabbia fin sotto ai cancelli e denunciare la complicità di cui si avvale il potere giuridico, medico e psichiatrico. Affinché un altro ragazzo, non sia morto invano... non aspettiamo che un'altra persona esca in una bara da una struttura pubblica.
Bergamo, 8 aprile 2013
collettivo antipsichiatrico bg
Lettera dal carcere di Lenzburg (svizzera)
[...] Posso immaginarmi bene, anzi lo vivo quotidianamente, il randello chimico che fa, e alle teste di legno. Non ti dico i suicidi e la tendenza al, di disperati per aspettarsi qualche mese più o meno di carcere, anzitutto di quell’umanità già “modernizzata” e sputata nella miseria dalla “rivoluzione” nordafricana. Sputata qui dalle nostre parti dove difficilmente puoi incontrare i “black block”, ossia, queste ed altre componenti più coscienti e combattive.
Poi,il tutto è, logicamente ed ovviamente, tendenza sociale generalizzata, se teniamo conto che un terzo della popolazione complessiva “non ce la fa più!” senza droghe, in stragrande maggioranza “ufficiali” – psicofarmaci…. E l’aumento vertiginoso dei suicidi, arrivati a investire già da tempo anche la gioventù,i bambini. Poi si susseguono nei giornali i rating che affermano, per es. rispetto alla Svizzera, che la stragrande maggioranza è contenta e felice (se non fosse per l’”aumento criminalità”, di turno, ora, appunto i nordafricani…
[Per quel che riguarda la sua situazione-condizione per uscire, ci scrive:] Rimane aperto il mio ricorso (del 5 marzo 2013) al DAP competente di Zurigo (che ha già respinto la mia prima istanza di liberazione) contro la seconda negazione comunicata il 5 febbraio 2013 sempre per la mia liberazione condizionale. In quest’ultima negazione il DAP richiede a Lenzburg una presa di posizione sulla mia liberazione da inoltrare entro il 31 dicembre 2013. Il 22 marzo 2013, confermando le sue previe dichiarazioni orali – e l’esistenza, perlomeno, di una certa contraddizione interna agli apparati repressivi -, la direzione di Lenzburg ha inviato, anzitempo, al solito DAP un rapporto di conduzione con richiesta di trasferimento in quest’estate 2013 in un carcere “aperto”.
Velocemente i responsabili di Lenzburg e di Zurigo hanno organizzato una riunione per oggi (28 marzo 2013). La richiesta di Lenzburg è stata categoricamente respinta dai responsabili di Zurigo a causa dell’ “alto rischio di pericolosità”, per la quale non potrebbero assumersi responsabilità.
Le loro condizioni per degli “allentamenti esecutivi” rimangono che mi dissocio ed accetto la psichiatrizzazione della lotta rivoluzionaria/radicale e della relativa lotta armata e “visione del mondo”. Incontrando, naturalmente, il mio ennesimo deciso rifiuto.
Seguiva la dichiarazione di Lenzburg di non continuare, a queste condizioni, l’esecuzione della mia pena oltre l’estate 2013. Questo significa in pratica il mio imminente trasferimento di ritorno nel lager di annientamento di Poeschwies, Regensdorf, Zurigo.
Ti abbraccio forte, con le/i compas.
Marco Camenisch PF75 – 5600 Lenzburg (Svizzera)
lettera dal carcere di “rebibbia” (roma)
Gentile signora Olga, la ringrazio per l'invio della sua bella rivista alla quale mi piacerebbe poter collaborare. Come assaggio le invio (a tergo) la lettera che attraverso un vescovo è stata consegnata nelle mani del pontefice e la relazione che ho letto al ministro della salute Balduzzi in occasione della sua visita al gruppo universitario di Rebibbia di cui faccio parte. [...]
Signor Ministro, direttore, professori, colleghi, sono Achille Della Ragione, divenuto qui più semplicemente: 90159, sono medico, specialista in Ostetricia e Ginecologia ed in Chirurgia Generale, già docente di Fisiopatologia della riproduzione nell'Università di Napoli. Nello stesso tempo sono gravemente ammalato, affetto da una ventina di patologie, per cui costituisco l'osservatorio ideale per tracciare un quadro della situazione sanitaria nel penitenziario, di cui sono ospite da 18 mesi.
Prima di entrare nel merito dei numerosi disservizi, comuni, ma qui aggravati, a quelli di tutti i cittadini, in un momento di grave crisi economica come quello che stiamo attraversando, vorrei fare una precisa denuncia dell'abuso di psicofarmaci, i quali vengono elargiti in cospicua quantità, pur di tenere calmi i detenuti e che in breve tempo trasforma gli stessi in automi disarticolati, in pallidi ectoplasmi, in marionette impazzite.
Un altro prodotto che viene distribuito a richiesta è la tachipirina, un antipiretico, che viene utilizzato per curare le più svariate affezioni: dal raffreddore al mal di testa, dai dolori muscolari alle bronchiti, una vera panacea se non si trattasse di un semplice placebo.
I tempi di attesa per una visita specialistica interna sono di mesi, per un indagine esterna, superano spesso un anno.
Le procedure burocratiche per far entrare un consulente esterno sono macchinose e defatiganti e durano costantemente molti mesi.
La permanenza in carcere peggiora tutte le patologie, anche nei più giovani, immaginiamo gli effetti devastanti che possono avere in pazienti, spesso anziani, affetti da cardiopatie gravi, crisi ipertensive, Aids in fase terminale, diabete scompensato e tante altre affezioni che conducono in breve tempo al decesso.
Un discorso a parte meritano i numerosi tossicodipendenti, che dovrebbero essere, prima che puniti, curati in apposite strutture.
Potrei dilungarmi, ricordando i tanti morti, l'ultimo meno di un mese fa e l'epidemia di suicidi, che andrebbe contrastata con un'inesistente assistenza psicologica. Ma vorrei trattare brevemente dei non meno importanti mali dell'anima: la solitudine, la malinconia, la sofferenza, la nostalgia. Conosco in rimedio infallibile per combatterli: rimanere in contatto con i propri familiari, anche solo per telefono. In tutta Europa i detenuti (a loro spese) sono liberi di fare quante telefonate desiderano. Perché dobbiamo costantemente essere il fanalino di coda della civiltà?
Signor Ministro le auguro di far parte del nuovo governo e La invito, in accordo col nuovo Ministro della giustizia di cercare di ovviare ai gravosi problemi che Le ho brevemente esposto, i quali, se trascurati, più che alla giustizia terrestre, gridano vendetta davanti a Dio.
Roma, 25 marzo 2013
Achille Della Ragione, via Majetti, 70 - 00156 Roma
lettera dal carcere di terni
Segue una lettera-comunicato di Maurizio Alfieri scritta in occasione della giornata di mobilitazione sotto le carceri di Terni, Tolmezzo e Saluzzo.
Inizia il presidio ed esprimo amore, per le sorelle, fratelli, compagni/e qui fuori.
Carissimi/e compagne/i, oggi con gioia il mio cuore è rivolto a tutti/e voi, che qui a Terni, Saluzzo e Tolmezzo, esprimete esprimete la vostra vicinanza e solidarietà a me e tutti i prigionieri in lotta e rinchiusi in gabbie come animali.
L'abuso che esercitano i burocrati, garanti della loro autorità, che perpetrano con ogni tipo di violenza, sia fisica, che morale, ed affettiva, usando ogni mezzo, allontanandoci dai nostri cari, con repressione, volta ad ottenere l'annientamento della personalità, pensando di addestrare e addomesticare animali chiusi in gabbie, invogliando i detenuti/e ad ingurgitare psicofarmaci, per annichilirli e renderli timorosi e succubi delle loro violenze, che loro possono farci, coperti dalle autorità, da organi "collusi" che il sistema le garantisce l'incolumità.
A tutto questo è arrivato il momento di dire "basta" di ribellarsi, oggi tanti/e compagni/e lottano per tutti/e noi, ne avete la prova con i compagni/e di (Ampi Orizzonti) che danno voce alle vostre ingiustizie, alle prevaricazioni che subite, alle cattiverie gratuite, ogni giorno fuori dalle mura, migliaia e migliaia di compagni/e si riuniscono e si confrontano, per lottare e portare i presidi fuori dalle prigioni, mettendo a repentaglio la propria libertà e la loro stessa esistenza, per il bene e la libertà di tutti/e.
Oggi io, a nome mio e di tutti i prigionieri di Teramo, Tolmezzo e Saluzzo, desidero ringraziare tutti/e i miei compagni/e che con enormi sacrifici, hanno affrontato lunghi viaggi, per portare la loro solidarietà a me e tutti/e i prigionieri, da Rovereto, Roma, Torino, Trento, Terni, Milano e tante altre città d'Italia, la solidarietà non conosce confini, l'affetto e l'amore che ognuno, ognuna, di loro trasmette, riesce ad abbattere tutte le mura, non si è mai soli/e se tutti/e uniamo le nostre forze; bisogna lottare, ribellarsi, il momento di non permettergli più di erigersi a padroni della mostra esistenza è giunto, non bisogna avere paura, timori, bisogna essere "impavidi" e coscienti, che quando davanti a noi, si parano figure che vogliono arrogarsi il diritto di calpestare la dignità, i propri affetti, di violare la legge (anche se io in quest'ultima non credo, la legge) non permettetegli mai questo, unite le vostre forze, fate uscire le vostre voci oltre le mura, urlate la vostra rabbia, fate questo in ricordo e nel nome di tutti/e i nostri fratelli e sorelle, che sono morti, o stati uccisi, nei carceri, nelle caserme, morti dall'incuria e dall'indifferenza di gente senza scrupoli, incapaci di confrontarsi con la propria coscienza, costernati dalle loro frustrazioni, privi di sentimenti, di amore, incapaci di rapportarsi con i problemi sociali. La solidarietà abbatte le mura, scioglie le catene come fa la neve al sole, non si è mai soli/e.
A me hanno applicato (4) 14bis, quello che sto scontando adesso frutto di 22 false denunce, perché insieme a tanti compagnia Tolmezzo abbiamo denunciato abusi e pestaggi, quando si sono resi conto che, dopo decine di denunce, non riuscivano a piegarmi e spaventarmi, sono ricorsi al metodo dell'agente "corrotto" infiltrato, così con lusinghe e apprezzamenti, degno di una soap opera, sono riusciti ad incastrarmi, ma oggi tutto questo, mi ha ancora di più fatto capire, lo schifo del sistema, mi ha invogliato a continuare nelle mie lotte, ha fatto di me un "seme" per seminare la lotta per i propri diritti a tutti/e i detenuti/e prigionieri, perché solo così, il male potrà essere sconfitto e debellato, per dire basta alle violenze gratuite, alle sopraffazioni, all'unisono, uniamo i nostri cuori, che sono pieni di affetto, amore, comprensione e solidarietà, perché le sofferenze della nostra pena, non debbano essere più delle torture, qualsiasi compagno/a che subisce abusi e violenze, non lasciate che questi atti rimangano impuniti, avete mille modi, per dire e protestare il vostro dissenso.
Le urla dei miei compagni/e nel presidio, scaldano il mio cuore, il cielo ha spazzato le nubi, il sole ha scaldato i nostri animi, il presidio volge al termine e i fuochi d'artificio illuminano il cielo di colori e amore
Sappiatelo tutti/e non siamo soli/e un abbraccio forte e ribelle. Maurizio .
Terni, 30 marzo 2013 [lettera e busta con visto 3 aprile 2013]
Maurizio Alfieri, Strada delle Campore, 32 - 05100 Terni
resoconto del presidio sotto il carcere di terni
Sabato 30 marzo 2013: in questa giornata sono stati preparati con sollecitudine presidi alle carceri di Tolmezzo, Saluzzo e Terni in sostegno alle proteste collettive - contro pestaggi, prepotenze, isolamento con applicazione dell’art. 14bis, trasferimenti punitivi… - iniziate alla fine dell’estate scorsa proprio nel carcere di Tolmezzo. Il Dap ha voluto, come è suo uso, colpire la protesta anche con il trasferimento di alcuni prigionieri, in particolare di Maurizio (Alfieri), prima portato a Saluzzo infine a Terni; altri sono invece finiti a Piacenza.
Quello di Terni non è un carcere qualsiasi innanzitutto perché è attiva una sezione retta con il 41bis, dove, come sempre avviene in queste situazioni, metodi e forme dello stretto controllo individuale, delle limitazioni più diverse e gravi vengono applicate in ogni altra sezione. Oltre alla sezione distaccata del 41bis che rinchiude una cinquantina di persone, e dell’isolamento, c’è il blocco centrale del giudiziario in cui sono rinchiusi circa 300 prigionieri – in larga parte immigrati. Non c’è il femminile.
Anche qui, come altrove, all’interno della cinta hanno tirato su un blocco prefabbricato (circa 250 posti) nell’area fino al 2005 destinata al campo di calcio.
Al presidio nonostante sia stato preparato in poche settimane, prendiamo parte in oltre sessanta compagne/i provenienti soprattutto da Terni e Roma, ma anche dalle Marche. Il carcere, costruito circa 20 anni fa in un demanio militare, ora è attorniato dalla “zona industriale” e logistica. Ci infiliamo in una stradina proprio dirimpetto alle finestre del blocco centrale da cui escono assieme alla battitura, urla di saluti, di imprecazioni contro guardie e governo. Urlano forte: “qui non funziona niente, non ci curano, non c’è lavoro, è tutto uno schifo… ci danno la terapia…”
Insomma, si stabilisce immediatamente una vicinanza, un clima di scambi di messaggi vivo, diretto quanto concreto, che si fa beffe, dentro soprattutto, delle minacce e ritorsioni più che sicure delle guardie, le quali (possono anche essere digos) riprendono noi fuori e dentro chi sta alle finestre, nascondendosi nel camminamento della cinta.
Insieme urliamo “Libertà”, “Libere/i tutte/i”… tiriamo alcuni striscioni, battiamo sulla forte inferriata che circonda la cinta di cemento. Dalle finestre commentano, completano a viva voce i nostri interventi, si impegnano a riportarli, assieme ai saluti, anche a Maurizio e Roberto (Morandi, compagno condannato all’ergastolo), sottoposto all’isolamento e al 41bis. I collettivi presenti esortano a scrivere ai loro indirizzi. Agli interventi accennati si uniscono messaggi brevi, come il seguente, capaci di spiegare bene la realtà esistente dentro: “… mi rode lo stomaco… bisogna far conoscere che qui non hanno nenche uno straccio di pallone per giocare a calcio; che d’inverno sono al gelo; che non funzionano le docce; che in questa regione (Umbria) non c’è il garante per i diritti dei detenuti; che nella maggior parte ci sono immigrati pieni di necessità e problemi; che il giudice di sorveglianza applica nei confronti degli immigrati giunti a fine pena la “pericolosità sociale” ciò che significa il loro immediato arresto e trasferimento nei CIE; che tanta corrispondenza, specialmente se proveniente dall’estero,non viene spedita e consegnata e nemmeno parte - quel che accade anche ai pacchi postali; che verso chi prova a reclamare c’è ogni tipo di ritorsione… che non ci sono sufficienti educatrici-educatori per concludere le “sintesi” necessarie allaliberà anticipata…”
Insomma, il risultato è un pomeriggio di solidarietà, di comunicazine fra dentro e fuori, fra le diverse realtà presenti senz’altro presupposto di buon auspicio per il futuro.
Milano, 1 aprile 2013
lettera dal carcere di padova
Comunicazione numero uno agli ergastolani in lotta per la vita
Noi siamo la nostra via di uscita. E non abbiamo bisogno di collaborare con la giustizia o di mettere nelle nostre celle qualcuno al posto nostro.
L'ho detto tante volte: l'ergastolo esisterà fin quando le terranno in vita gli stessi ergastolani perché di fronte alle ingiustizie bisogna ribellarsi.
E il "fine pena mai" è la madre di tutte le ingiustizie, poiché una società che condanna e mura viva per sempre una persona, senza la compassione di ucciderla prima, aggiunge ingiustizia e male ad altro male e ingiustizia.
Come potete leggere dal documento "Buon anno 2013 dagli uomini ombra" inizierà uno sciopero della fame fin quando la vostra mente, il vostro cuore e il vostro fisico ve lo consentiranno.
L'ergastolano che vorrà partecipare a questa iniziativa dovrà firmare qui sotto e acconsentire che la sua adesione sia inserita in rete per essere resa pubblica alla stampa e alla classe politica.
La lista delle adesioni degli ergastolani sarà inserita nel sito www.carmelomusumeci.com con il richiamo alla prima pagina (in home page).
Si consiglia agli ergastolani "perditempo", che pensano che la pena dell'ergastolo sarà abolita senza fare nulla, di astenersi da partecipare all'iniziativa.
Ovviamente, è molto consigliato agli ergastolani in precarie condizioni di salute di non aderire all'iniziativa, gli ergastolani più sani lotteranno anche per loro. Buona lotta.
Le adesioni o le richieste di informazioni si possono inviare a questo indirizzo:
Carmelo Musumeci, via Due Palazzi, 35/A - 35136 Padova
Ci farà da sede di segreteria: Nadia Bizzotto, Comunità Papa Giovanni XXIII, via del Convento, 7 - 06031 Bevagna (PG)
gennaio 2013
Carmelo Musumeci, via Due Palazzi 35 - 35136 Padova
lettera dal carcere di prato
Carissimi compagni/e, come tutti i mesi mi è giunto l'opuscolo che come sempre mi porta sollievo e conforto. Come ben sapete ricevere la posta è un momento atteso qui dentro ed è come ricevere una boccata d'aria in un inferno dantesco come quello di tutte le carceri italiane.
Molti di noi avranno visto in TV la trasmissione su Rai tre dove si evidenziano alcuni aspetti delle carceri italiane, impariamo a chiamare in questo caso queste strutture con il proprio nome lager e non carceri. Perché di lager si tratta.
Peccato che in TV fanno sempre vedere all'opinione pubblica quello che vogliono, tutte le trasmissioni vengono colorate con le spudorate menzogne dei direttori dei lager con il benestare di giornalisti, parlamentari, e in questo caso con l'equipe della TV.
All'interno di questi lager sotto l'occhio vigile dei signori direttori viene solo attuata violenza psicologica giorno dopo giorno, che con il tempo porta parte di noi a compiere atti irragionevoli e violenti per nulla dettati dalla volontà, suicidi, autolesionismo, e ovviamente non parlo di fantascienza, i numeri parlano da soli.
Inviterei giornalisti e parlamentari a visitare tutte le carceri e non semplicemente singole sezioni o singoli reparti. (I signori direttori gli fanno vedere sempre quello che vogliono).
Come inviterei qualche detenuto, a dire realmente ciò che pensa. Non si può sentire una persona che dice qui in carcere si sta bene.
Gli agenti di polizia penitenziaria sono attenti e sensibili alle problematiche dei detenuti, è palese che dietro a tali affermazioni ci sono dei timori. Ma comunque...
Spesso nei miei scritti ho sempre evidenziato la più totale negligenza, inesistente assistenza sanitaria e condizioni igieniche inesistenti, i prezzi al sovravitto sono esosi, vi è un vertiginoso giro di denaro da far gola a chiunque, un chilo di pasta per dirne una, lo paghiamo il doppio praticamente tutto, caffè ecc.
Questi signori che poi di signori non hanno niente si credono furbi, mensilmente vengono distribuiti i prezziari aggiornati. Sempre stessa merce, tra la quale molta inutile perché non consumata da nessuno. I prezzi mensilmente vengono variati in modo del tutto scriteriato, insensato, senza logica alcuna, evidenziando palesemente che sono decisi ad hoc proprio per trarre profitto a danno dei detenuti. Si può pagare una bomboletta del gas di grammi 190 un euro e quarantacinque centesimi? (per uso fornello). Mi fermo OK.
Prato, 20 marzo 2013
Giuseppe Trombini, via La Montagnola. 76 - 59100 Prato
Sulla sezione per anarchici nel carcere di Ferrara
Segue un breve resoconto del prigioniero anarchico Giuseppe Lo Turco sulle condizioni detentive del carcere di Ferrara
Pare che i giornali avessero già preannunciato il nostro arrivo, con relativo mugugno delle guardie. In tutto ci sono sei celle. Al momento non c'è neanche il frigo. Non esistono spazi comuni, eccetto un cortile di circa 12x6 m. Quindi, se non vai all'aria, te ne resti in cella. Assente ogni minima forma di palestra o attrezzatura. Solite due o tre battiture al giorno e frequenti perquisizioni in cella. Ovviamente impossibile ogni contatto con altri detenuti. Anche se non la chiamano sezione Alta Sicurezza 2, chiaramente lo è a tutti gli effetti. Così almeno tutti si possono fare un'idea della situazione.
Peppe
Per scrivere ai compagni anarchici prigionieri a Ferrara:
Sergio Maria Stefani, Stefano Gabriele Fosco, Alessandro Settepani, Giuseppe Lo Turco, Nicola Gai, Alfredo Cospito, C.C. Via Arginone, 327 - 44122 Ferrara
da una lettera dal carcere di velletri (roma)
Nella notte tra il 27 e il 28 marzo se ne è andato silenziosamente nel carcere di Velletri Aziz ,24 anni, marocchino. Se ne è andato inalando alcune bombolette di gas, forse alla ricerca di quello "sballo" che per brevi attimi gli avrebbe consentito di evadere da quel crimine chiamato galera. Ora Aziz non c'è più,portato via in una notte come tante dentro un sacco nero. Aziz è il quarantacinquesimo morto nelle carceri italiane dall'inizio dell'anno. Per lo Stato semplicemente un dato statistico ,nulla più. Non conoscevo Aziz. Non conosco nemmeno il reato per cui si trovava in carcere, e del resto non mi interessa saperlo. Che la terra ti sia lieve Aziz.
Aprile 2013
Salvatore Gugliara, Via Campo Leone, 97 – 00049 Velletri (Roma)
lettere dal carcere di alba (cn)
Cari compagne e compagni dell'Olga, ormai sono giunto ai miei primi 6 mesi di carcerazione. Sono detenuto da 6 mesi (in via definitiva) per aver danneggiato un bancomat della filiale di una banca che finanzia il TAV durante la manifestazione a sostegno dei compagni detenuti e sono in custodia cautelare per i fatti dell'15 ottobre 2010 a Roma.
Non vi scrivo per parlare della mia situazione, bensì per denunciare il degrado e la violazione dei diritti umani nel carcere di Alba dove sono internato. Carcere che nel mese di agosto ha ucciso, spingendolo al suicidio, un cittadino albanese. Questo omicidio è passato nel silenzio più totale, ignorato pure dalla stampa locale. Non si sono degnati neppure di avvisare i suoi familiari. Struttura che in questo momento detiene in regime di isolamento da più di una settimana un detenuto con la sindrome di Down (solo il fatto che si trovi in carcere ha dell'assurdo). Il motivo del suo regime punitivo è legato al fatto che la direzione sanitaria del carcere ha pensato bene prima di imbottirlo di psicofarmaci per sedarlo per poi dimezzarglieli di colpo per motivi economici (a furia di imbottire i detenuti di terapie si sono accorti che stavano spendendo troppo) ovviamente alla reazione violenta ma solo verbale del detenuto hanno pensato bene di isolarlo con tanto di piantone fisso. [...]
26 marzo 2013
Dayvid Ceccarelli, via Vivaro 14 - Loc. Toppino - 12051 Alba (Cuneo)
***
[…] Mi chiedi della mia vicenda processuale… Anche se non del tutto chiaro, grazie al fatto che oggi inizia il dibattimento per i fatti di Roma, ho finalmente potuto visionare gli atti (mi ci sono voluti 2 giorni) ed ho un'idea più chiara di come sono arrivati alla mia "identificazione" e degli altri compagni. Dunque sembra che le identificazioni si siano svolte in 3 parti, la prima quelli identificati subito dopo l'11 Ottobre attraverso i filmati, la seconda parte l'identificazione degli "assalitori" della camionetta e nella terza io e altre quattro persone. Le identificazioni sono avvenute a colpi di informative tra la digos e i ROS di tutta Italia. La mia in particolare sembra che sia partita dalla digos di Lecco (provincia in cui sono stato studente e da cui me ne sono andato a 16 anni) e confermata da quella di Milano che informava Roma che aveva identificato un gruppo di Anarchici in procinto di partire per Roma la mattina dell'11 ottobre (3 persone il folto gruppo) e usando le loro parole "Visto il mio passato ideologico che condivide pratiche di protesta violenta" si sono intensificati i lavori per arrivare alla mia identificazione.
L'informativa della mia "identificazione" nei saccheggi e negli scontri è datata 6 aprile 2012 casualmente 5 giorni prima del mio arresto alla manifestazione milanese a sostegno dei No Tav. Per loro il solo il fatto che io alla manifestazione del 10 marzo 2012 avessi avuto uno zaino (un seven blu) identico ad uno portato da qualcuno negli scontri era sufficiente per la mia identificazione.
Dopo, come avrai letto nella mia lettera, sono stato condannato per la manifestazione milanese e, dopo 7 mesi di interrogatori in cui mi sono sempre avvalso della facoltà di non rispondere perchè non sapevo di che cosa mi stessero accusando, mi hanno consegnato la custodia cautelare per i fatti di Roma. Oltre al fatto che tutti gli atti, avvisi di garanzia, ecc., saranno più di 2.000 fogli per dire una cosa sola: sappiamo che eri a Roma e vista la tua ideologia politica devi stare in galera!
La cosa che mi spaventa è il cambiamento radicale delle tecniche repressive negli ultimi anni. Ormai non mirano più ad arrestare nomi illustri o ad attaccare i grandi gruppi antagonisti (sempre se ancora esistono), ora preferiscono attaccare facce note alla questura e singoli individui staccati dalla grande area antagonista così che si renda più difficile creare una rete di solidarietà. Ormai vorrebbero poter arrestare 20, 30 sconosciuti al più e usarli come agnelli sacrificali da sbattere sui giornali come monito per i prossimi ribelli. Ma non hanno capito che noi/io la parte del sacrificale non la faccio, posso lottare anche ora che mi hanno spedito qua lontano dalla mia città e dai miei affetti. Stare in questa condizione e in questo tipo do carcere, non so se lo sai, ma Alba è stato costruito per le BR e tiene tuttora l'assurda struttura e regole (blindi da 41 bis, interruttori esterni, niente cappucci, sempre libri relegati, ecc.), non fa altro che rinforzare in me la sicurezza che quello che ho sempre fatto nella mia vita sia giusto. Stando qua dentro diventa ovvio come il sistema sia marcio, come il carcere non sia altro che un immenso contenitore dei problemi che la nostra società neoliberista non vuole affrontare e soprattutto che niente può essere cambiato per vie istituzionali. Per cambiare le cose bisogna lottare per difendere gli operai, gli sfruttati, gli immigrati, i pensionati, quelle popolazioni che hanno il coraggio di opporsi apertamente allo stato per difendere le loro terre e la loro salute.
Scusami tanto per questo sfogo, ormai sto usando le lettere per comunicare con l'esterno e soprattutto per far uscire quello che ho dentro nella maniera più sincera che conosco: di botto, come mi viene, magari ogni tanto sbaglio, ma di sicuro lo faccio in buona fede. Nè servi, nè padroni.
4 Aprile 2013
Dayvid Ceccarelli, via Vivaro, 14 - Loc. Toppino - 12051 Alba (Cuneo)
lettera dal carcere di viterbo
Car* compagn* e fratelli carcerati,
Ho ricevuto l'opuscolo n. 77 dove veniva pubblicata la mia lettera dal carcere di Teramo. Da allora ad oggi (parliamo di poco più di un mese) me ne hanno fatte di tutti i colori. Per chi vive la nostra situazione potrebbe essere qualcosa di strano, ma penso che per molti, così come anche per me, è assurdo questo trattamento.
Il mio è stato un arresto politico che mirava a zittirmi e creare terra bruciata intorno a me, volevano farmi capire che mettersi contro questa società ingiusta comportava un prezzo alto da pagare e che combattere il sistema borghese non poteva avvenire così come stavamo facendo noi.
Infatti nella mia piccola Teramo si era creato un movimento non solo attivo, ma anche forte numericamente e determinato. Vedevano in noi un pericolo e hanno così utilizzato le loro armi per annientarci. Prima ci hanno accusato di essere un'associazione a delinquere e poi incriminati per i fatti di Roma [15 ottobre 2010, ndr].
La macchina dello stato ha fatto il meglio di sé e lo ha fatto perché aveva paura di chi non era disposto ad abbassare la testa. Io ho deciso di affrontarli a viso aperto e quando hanno capito che dal carcere di Teramo non ero cambiato, mi hanno trasferito prima a Rieti, dove mi hanno messo solo in cella e trattenuto la corrispondenza e poi, non contenti, mi hanno portato nel carcere di Viterbo (carcere duro) e messo per 4 giorni in isolamento in una cella senza riscaldamento dove non avevo coperte e ho dormito con il giubbotto ad una temperatura intorno ai 4/5°. Sia a Rieti che a Viterbo non mi hanno motivato il trasferimento, di fatto agivano come nei peggiori anni della dittatura fascista. Solo quando sono venuti i consiglieri del PRC del Lazio, guarda caso, mi hanno portato in sezione mezz’ora prima che venissero davanti alla mia cella.
È un modo di fare squallido, penoso oltre che vile. Fanno gli angeli quando sanno di avere le spalle al muro e poi come dei lupi ti sbranano quando chiudono i cancelli. Io non mi son perso d'animo, e da subito ho informato fuori di quanto accadeva. Ho capito che l'unica arma che abbiamo è quella della controinformazione. Ho affidato comunicati ai miei cari e fuori molti si sono indignati.
Non contenti di quanto mi avevano già fatto, mi hanno messo in cella con un macedone con l'AIDS. Io non ho nulla contro chi purtroppo ha contratto questa malattia, ma porca puttana neanche me lo hanno detto, lo sono venuto a sapere da terzi e poi ho avuto conferma da lui. Dico, almeno informatevi in caso di ferimenti...
Io non so più che si vogliono inventare, ma non cadrò alle loro provocazioni e anche se a volte la testa viaggia e pensa a male, io resterò lucido.
So di non essere solo e che fuori i compagn* si stanno muovendo per sputtanare il loro modo di agire e forte del loro sostegno io lotto fino alla fine.
Come noi sono stati molti i compagni e le compagne che hanno pagato con la galera le proprie idee e dalla loro resistenza dobbiamo prendere esempio. La storia ci ha insegnato che chi si metteva contro veniva perseguitato e che le loro idee di libertà e giustizia sociale erano giuste.
Dobbiamo essere fiduciosi e spingere chi è fuori a continuare la battaglia, dobbiamo fargli sentire la nostra voglia di non mollare ed essere tenaci. Raccontiamo quello che subiamo e quello che vediamo, se stiamo in silenzio facciamo il loro gioco.
La situazione carceraria è la vergogna dell'Italia in terra ma a conoscerla siamo solo noi e i nostri cari, sono convinto che se solo qualcuno entrasse e vedesse questo scempio le chiuderebbero tutte. Qui dentro non ci sono regole ed è l'unico posto in Italia dove vige una situazione senza alcun controllo.
Proviamo a cambiare lo stato di cose chiedendo a chi è fuori di essere la nostra voce. Ci vogliono 10-100-1000 Ampi Orizzonti. Spezziamo le catene, liberiamo la mente. Un abbraccìo! Davide (falce martello stella)
Viterbo, 2 aprile 2013 [data timbro postale]
Davide Rosci, strada San Salvatore, 14b - 01100 Viterbo
4 APRILE 2013: GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE
In solidarietà con gli imputati e gli arrestati del 15 ottobre 2011
Il 4 aprile si terrà a Roma la prima udienza per 25 persone accusate di devastazione e saccheggio e resistenza per la giornata di rivolta del 15 ottobre a Roma. Altre 16 persone hanno già ricevuto in primo grado condanne dai 2 ai 9 anni.
In tutto 6 persone si trovano ai domiciliari, due in carcere e una decina sono sottoposti all’obbligo di firma.
Dopo la rivolta di Genova 2001 è fin troppo chiaro l’utilizzo del reato di devastazione e saccheggio come monito teso a scoraggiare il ripetersi di rivolte popolari ed a smorzare il desiderio di esternare in maniera efficace il proprio dissenso, com’è chiaro l’intento dello stato di tener divisi gli imputati, di processarli separatamente al fine di isolarli e “annientarli”, come è capitato per i primi ad essere giudicati e condannati.
Non ci può più essere l’illusione di poter chiedere, interagire, cambiare qualcosa stando seduti ai tavoli della democrazia o sperando nella giustizia.
E’ fondamentale non lasciare soli i condannati e gli accusati per il 15 ottobre 2011: che nessuno in galera o tra le mura di una casa trasformata in prigione si senta solo; che mai gli venga il dubbio che forse non ne valeva la pena. Affinchè la gioia di una città illuminata dalle fiamme della rivolta non si spenga mai; affinchè il coraggio di abbandonarsi alla passione dei propri desideri e della propria rabbia non diventi mai un rimorso.
E’ fondamentale ribadire che chiunque abbia partecipato alla rivolta del 15 ottobre a Roma ha fatto bene ad esserci.
Che da più città possibili si alzi un grido di rabbia in solidarietà ai prigionieri e agli inquisiti! Ne va della libertà di tutti noi! Non lasciamoli soli!
24 marzo 2013
***
Roma, sulla recente udienza preliminare
Il 4 aprile 2013 al tribunale di Roma si è svolta l’udienza preliminare del processo a 25 compagne/i per “devastazione e saccheggio”, alcuni/e anche per “resistenza pluriaggravata”e per tre anche per “tentato omicidio”. Fuori c’è un buon numero di manifestanti, corsi a non far mancare la sempre necessaria solidarietà. L'aula dove si è svolta l'udienza la mattina era tanto blindata. L'udienza è stata monitorata tutto il tempo da agenti in divisa e agenti in borghese. La giudice si dimostra assolutamente incapace di gestire l'aula e i nostri scalmanatissimi avvocati.
Il primo problema si è posto per un compagno detenuto ai domiciliari per altro processo: non gli è stato consentito dai carabinieri della città in cui risiede di recarsi a Roma con mezzi propri. La sua “colpa”, secondo la giudice, è stata di non aver preventivamente comunicato lui stesso, a lei, di essere sottoposto ai domiciliari per altro processo, perché lei non ne era a conoscenza. I suoi avvocati hanno provato invano a chiedere di rinviare l’udienza affinché il compagno potesse essere presente. Dopodiché sono emersi i problemi relativamente all’ammissione delle parti civili nel processo.
Si sono presentate e sono state ammesse: Ministero della Difesa, Ministero dell’economia e della finanza, Ministero degli interni, avvocatura dello stato. Inoltre, Comune di Roma, Ama Spa, Atac Spa, i carabinieri Tartaglione e D’Alessandri, 12 poliziotti; e società Elite, MaPower e un distributore di benzina potranno costituirsi in una prossima udienza. Inoltre, si è presentata ma ha dichiarato di non volersi costituire parte civile la Banca popolare del Lazio.
Sono seguite le opposizioni poste dalla difesa: prima fra tutte il fatto che non avessero consegnato loro la documentazione che le parti civili hanno fatto mettere agli atti per tempo e quindi i nostri legali fossero impossibilitati a porre delle questioni nel merito. La giudice si è impuntata ha concesso solo mezz’ora per leggere più di 200 pagine e poi dopo le dichiarazioni dei nostri legali ha deliberato di ammettere tutte le costituzioni di parte civile. Una volta ammesse tutte le parti civili si è passati al dibattimento.
Primo ad intervenire il pm Minisci. Nella requisitoria ha voluto sostenere che: alla manifestazione del 15 ottobre erano presenti certamente degli infiltrati violenti tra i manifestanti pacifici a cui è stato impedito di manifestare. Il travisamento e la presenza di armi bianche come sanpietrini bastoni etc, sono l’evidente segno di premeditazione da parte di quella parte di manifestanti violenti. Si sono susseguiti numerosi e gravi episodi di devastazione e saccheggio con una scelta mirata degli obiettivi oltre che di resistenza contro le forze dell’ordine tutto conclusosi con il gravissimo episodio dell’incendio della camionetta. Citando la relazione dei carabinieri e della polizia di quella giornata, e riferendosi ai loro video, il pm ha sostenuto che vi è stata una rapida successione di eventi che rende evidente la consapevolezza dei responsabili di aver dato il proprio apporto ai fatti, tutti si rendevano conto di ciò che stava succedendo e consapevolmente davano il loro apporto alla degenerazione. Sulla base di questo materiale è stato possibile, così il pm, arrestare immediatamente due manifestanti. Secondo lui anche il semplice lancio di oggetti è da ritenersi già resistenza a pubblico ufficiale perché è un atto volto ad allontanarle e a offenderle. Per tutte/i ha chiesto, citando a sostegno sentenze recenti della Cassazione (compresa quella contro i compagni di Teramo), il rinvio a giudizio per “devastazione e saccheggio” ovviamente “in concorso”.
Gli avvocati delle “parti civili” sono andati oltre, specie chi difende i carabinieri in fuga dal blindato in fiamme, invocano il “tentato omicidio”.
Gli avvocati della difesa hanno chiesto “il non luogo a procedere” per assenza di prove e argomentazioni, senz’altro rispetto a “devastazione e saccheggio” e “tentato omicidio”.
A questo punto la giudice si è ritirata in camera di consiglio. E’ uscita dopo due ore, dichiarando “il non luogo a procedere” per sette “imputati/e” per mancanza di elementi a loro carico per poter procedere. Ha invece rinviato a giudizio le/gli altri/e 18.
La data dell’inizio del processo è il 27 giugno 2013 presso la nona sezione del tribunale di Roma.
Firenze. Il 4 aprile, in concomitanza all'udienza che a Roma ha visto processati 25 manifestanti per i fatti del 15 ottobre, abbiamo raccolto l'appello alla solidarietà.
Dopo un concentramento a piazza dei Ciompi, un corteo di circa 50 persone si è mosso per il centro storico facendo attacchinaggi e scritte, accompagnato da un ingente schieramento di forze dell'ordine (4 camionette della celere, alcune auto della polizia e della municipale, un bel po' di digossini).
Ci siamo poi sciolti senza problemi nei pressi della Stazione di Santa Maria Novella.
Ci rallegriamo che per la rivolta romana del 15 ottobre si stia finalmente muovendo qualcosa, non si può restare indifferenti di fronte a questa atroce macelleria giudiziaria che ha già prodotto pesanti condanne. Che la solidarietà si faccia sempre più calda, che sempre più città si facciano sentire.
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Aggiornamenti sui processi collegati alla giornata del 15 ottobre 2011
L’11 aprile 2013 il tribunale di Roma del riesame ha rigettato il ricorso per Davide (ora in carcere a Viterbo), relativo alla condanna per “evasione” dagli arresti domiciliari.
Si conoscono almeno quattro casi di compagne/i già condannate/i per “resistenza…” ora accusati/e anche di “devastazione e saccheggio”. Questo è anche un giochetto artefatto per far cadere la posizione di “incensurata/o” e così riuscire a colpire con le aggravanti della recidiva…
Milano, aprile 2013
Per un intervento di massa sul terreno della repressione
Abbiamo inviato a Salvatore Ricciardi alcune domande, concernenti l’attuale inasprimento delle politiche repressive e la possibilità, da parte delle forze antagoniste, di farvi fronte. La scelta del nostro interlocutore non è stata dettata solo dalla sua esperienza diretta della cruda realtà carceraria e delle vessazioni che lo Stato italiano riserva in particolare a certe categorie di detenuti. Ma anche dalla sua capacità di svolgere un discorso complessivo sulla storia dei movimenti sociali italiani, dagli anni ’60 in poi, dimostrata col volume “Maelstrom” (contromaelstrom.com).
E’ infatti impossibile capire alcune dinamiche attuali senza riferirsi alle precedenti stagioni conflittuali ed ai termini con cui sono state contrastate dalle istituzioni. Non per rimanere prigionieri di un modello interpretativo, ma per avere una maggiore intelligenza dell’oggi attraverso le analogie (e le differenze) con quanto è accaduto ieri.
Inoltre si tratta di fuoriuscire pure da un modo inadeguato di concepire la risposta alla recrudescenza repressiva in atto. Spesso, magari facendo di necessità virtù, ci si acconcia a formare piccoli gruppi sul tema, che non riescono a saldare questo discorso con quelli riguardanti la concreta articolazione delle lotte nei territori e nei posti di lavoro.
Riteniamo che, nelle risposte di Salvatore, vi siano diversi elementi utili a reinserire, di fatto, la riflessione su carcere e repressione in un quadro e – soprattutto – in una progettualità più ampia. A patto che la discussione – muovendo da questo e da altri interventi – “non si arresti” ma continui a svilupparsi liberamente, preferendo l’analisi agli schemi precostituiti.
A cura de Il Pane e le rose – Collettivo redazionale di Roma
Nell’Italia attuale, un dato colpisce, quanto a rapporti fra istituzioni e movimenti. E cioè la sproporzione tra l’apparato repressivo dispiegato e le spinte contestative esistenti. Le quali, pur essendo cresciute rispetto al più recente passato, ancora non hanno raggiunto dimensioni considerevoli. Come interpreti tale situazione?
A sinistra siamo abituati a pensare che i sistemi repressivi degli stati democratico-borghesi, rispondano ai movimenti contestativi in maniera proporzionale. Ossia più un movimento è antagonista e di difficile controllo istituzionale, più la repressione è pronta a colpire con durezza. Con questa “credenza” valutiamo anche la repressione verso la extralegalità sociale: pensiamo che le carceri si riempiono e le condanne diventano più dure quando le attività extralegali si intensificano. Questo è ciò che ci hanno insegnato a scuola, per mezzo dei media e nelle sezioni, ormai sciolte, del vecchio partito comunista. Nella realtà non è così. La modalità repressiva proporzionale è vera soltanto in teoria. Appartiene alla cosiddetta sanzione retributiva: tanto danno fai tu alla società col tuo violare la legge, altrettanto danno ti infligge la giustizia statale in termini di privazione di libertà e sanzioni economiche e amministrative; il tutto improntato al criterio della proporzionalità tra reato e pena. Criterio che dovrebbe valere sia per “reati comuni”, sia per i conflitti, i “reati politici”. Recentemente su il Manifesto del 5 febbraio 2013, Antonio Bevere, riscontra l’abbandono del criterio proporzionale: «All’origine della sovrabbondante presenza nelle carceri italiane non vi è solo la ristrettezza dei locali, ma anche una scarsa attenzione per il principio della proporzionalità della pena…».
La teoria proporzionale è stata in voga nei regimi liberali dell’Ottocento, ma, in maniera molto relativa. Successivamente, anche a causa dei conflitti sociali, intensissimi nella seconda metà di quel secolo, si è prodotta un’altra teoria che si è affiancata a questa ed ha messo al primo posto esplicitamente la “difesa della società”, e si è attrezzata per operare in maniera “preventiva”. I giuristi definiscono questo modo di procedere “prognostico” perché, come i medici, gli apparati dello Stato, forze dell’ordine e magistrati, fanno una prognosi sullo stato del corpo sociale e sulle sue possibili infezioni. Gli agenti dell’infezione vengono analizzati con particolare attenzione se il corpo sociale “non sta bene”, se è debole, e dunque soggetto a contrarre infezioni se in contatto con agenti patogeni. A questo punto si tratta di individuare i probabili veicoli di infezione e neutralizzarli. Non ha molta importanza ciò che il “veicolo di infezione” faccia, è importante la valutazione del danno che può provocare.
Tutti gli stati, nel Novecento, hanno imparato a usare questa “filosofia” giuridica detta anche della pericolosità sociale che meglio si prestava al mantenimento dello stato di cose presenti. Perfino nei paesi a cultura giuridica anglosassone dove si andava fieri della giustizia rispettosa del “fatto” e della “persona” -ciò che conta è quello che hai fatto, non quello che sei-, oggi è rimasto un ricordo sbiadito. Basti pensare che negli Usa vi è una condanna “senza fine”: il giudice ti può condannare a una pena da “un mese all’infinito”, ossia fin quando gli operatori penitenziari decideranno che ti sei messo sulla retta via. Conosciamo la storia del compagno George Jackson (Col sangue agli occhi; Fratelli di Soledad;), del Black Panther Party, che per il furto di 70 dollari fu condannato a tempo indeterminato: “da 1 anno a vita” e in carcere fu ucciso. Inoltre hanno introdotto il meccanismo del “terzo strike”, ossia al terzo reato continuo (recidivo) la condanna diventa infinita, anche se si tratta di tre piccoli furti.
In alcuni stati, tra cui l’Italia, a questa teoria è ispirato il Codice penale Rocco redatto nel 1930 in epoca fascista e le leggi di Pubblica sicurezza (TULPS). Il Codice Rocco è ancora attuale, non perché si siano dimenticati di riscriverlo in epoca “democratica”, semplicemente perché è risultato più funzionale per una repressione efficace. D’altronde alcune leggi fatte in periodo repubblicano, come le leggi Cossiga, sono molto più dure e preventive di quelle del codice Rocco, (c’è però da aggiungere che la repressione in epoca fascista andava molto oltre lo stesso codice Rocco: il regime arrestava e ammazzava chi voleva quando voleva).
Questa premessa ci permette di interpretare le parole del capo della polizia Antonio Manganelli, quando, lo scorso anno, nell’audizione alla Commissione Affari Costituzionali della Camera, il 21 febbraio 2012, disse: «Il problema è individuare una risposta da parte dello Stato… [la magistratura] ha più difficoltà nel perseguire un’organizzazione che lo è fino a un certo punto, visto che nulla vieta al singolo esponente di fare azioni individuali”. Personalmente – ha detto ancora Manganelli – ho parlato con alcuni dei procuratori più esperti in materia per cercare di capire se ci sono spazi per un’altra figura normativa, diversa dall’associazione o dalla banda armata, per perseguire un’associazione speciale, a metà tra l’organizzazione strutturata e l’organizzazione che ti rende forte in quanto appartieni ad essa ma non ti vieta, anzi, di fare qualcosa da soli».
In questo quadro, è importante delineare proprio il ruolo della magistratura. Rispetto a Genova 2001, essa è sembrata muoversi secondo la logica “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Però, se si analizzano bene le sentenze (contro i manifestanti e contro gli “eccessi” della polizia) si scopre che non è così. E che, anche in questo caso, emerge una magistratura sempre più dura nei confronti dei movimenti…
Dopo Genova le incriminazioni per “devastazione e saccheggio” fioccano, purtroppo. La magistratura italiana si è fatta le ossa sulle inchieste contro il conflitto sociale dal dopoguerra e contro la criminalità organizzata e la mafia, utilizzando criteri e ragionamenti politici, sociali ed economici piuttosto che cercare l’autore di un fatto. È stato delegato alla magistratura e agli apparati di polizia l’annientamento del movimento rivoluzionario degli ani Settanta, chiudendo la dialettica conflittuale in una logica “criminale”. Allo stesso modo è stato delegato alla magistratura anche l’azione di contrasto alla presenza di estese reti mafiose, che -al contrario- andavano combattute dalle forze politiche sul terreno economico e politico, favorendo il conflitto sociale e il radicamento di strutture proletarie autorganizzate. Tutto ciò ha allenato la magistratura ad operare sempre più con criteri politico-sociali preventivi. Gran parte della magistratura è oggi omologata a questo terreno di “difesa dell’ordine sociale”, invece che “difendere la libertà del cittadino”. Ci sono ancora piccole sacche di resistenza “garantista” nella magistratura, ma dalle recenti sentenze sembrano in netta diminuzione.
Sulla vicenda delle manifestazioni di Genova 2001 e i successivi processi e condanne, andrebbe aperta una riflessione profonda e autocritica nel movimento che, mi sembra, non ha ancora avuto luogo. Genova è stato un test per gli apparati statali. Questi hanno colpito tutto il movimento con pestaggi e torture, come deterrenza; poi hanno osservato il muoversi delle componenti del movimento e hanno registrato che non c’è stata alcuna risposta unitaria adeguata. Hanno anche osservato che tra molte componenti si è sviluppata una polemica disaggregante. Difatti l’anno successivo, la gran parte di quel movimento era a Firenze (Fortezza da Basso novembre 2002) in gran festa e sembrava dimentico dei massacri dell’anno prima. A quel punto la repressione giudiziaria ha pensato bene di operare selettivamente, isolando e colpendo una pattuglia di capri espiatori scelti tra i “cattivi”: un segnale esplicito agli altri settori del movimento di tornare dentro le istituzioni. La condanna, formale (perché poi prescritta) dei poliziotti è servita a salvare la faccia sul piano internazionale e a rimandare ancora una volta l’inserimento del reato di “tortura” nel Codice penale, perché i giudici hanno “dimostrato” che il reato di “maltrattamenti” elargisce condanne.
C’è una oscillazione, nel dibattito pubblico italiano, tra due poli. Uno puramente “repressivo”, rappresentato dalle forze più esplicitamente reazionario, l’altro di carattere legalitario, più sottile ma non meno pericoloso, rispetto al quale non sempre i movimenti sembrano avere i dovuti anticorpi…
Se cerchiamo di trarre una valutazione da ciò che sta mettendo a punto lo Stato, e che è già operante, ne dovremo dedurre che loro, gli apparati statali, si aspettano sommosse e tumulti sociali di grande intensità. Le loro previsioni vanno oltre le più rosee previsioni del più ottimista dei compagni. Tuttavia le classi dominanti non sono concordi su come affrontare una fase di crisi permanente della cui portata sono consapevoli. Questa divisione si manifesta anche su come operare la repressione. La parte che proviene dal mondo “progressista”, ma del quale ha abbandonato ogni proposito, ha un unico obiettivo: la legalità, sbandierata come fosse una religione, cui credere ciecamente. La propaganda della ex-sinistra legalitaria si avvale della denuncia dell’illegalità dei potenti, che non è certo una novità, è la natura stessa del capitalismo fin dalla sua nascita. Ma da questa propaganda nasce quella confusione che si trasmette purtroppo anche in ampi settori di movimento e che manifesta quell’assenza di anticorpi che, giustamente, sottolinei.
Non credo in scenari da fantapolitica, con poteri totalizzanti e controlli asfissianti, sicuramente assisteremo a colpi repressivi sempre più duri contro chi non accetta l’ordine della crisi, con gli apparati dello stato molto attivi che però non riusciranno ad azzerare la tensione sociale. Ma altrettanto assisteremo ad un conflitto sociale, imprevedibile, del quale non so se il movimento, o settori di esso, saprà conquistare la direzione. In questa fase di transizione, che immagino lunga, lo scenario probabile è quello che ci offrono le realtà già effervescenti, come l’Egitto, la Grecia, la Tunisia. Tensioni continue, difficoltà di governare, rottura delle fittizie unità nazionali, nuove figure che si affacciano al conflitto e rimescolamento parziale delle divisioni di classe, spostamento dello scontro dalle piazze centrali ai luoghi più prossimi ai soggetti rivoltosi. Le forze più lucide della repressione statale sanno che dovranno convivere con questi scenari e approntano gli strumenti. Uno scenario che opererà selettivamente anche nei confronti delle aree del movimento, favorendo la crescita di alcune, facendone scomparire altre.
Le campagne che le realtà di movimento stanno portando avanti contro la repressione, spesso meritorie, sono però piuttosto minoritarie, anche quando toccano temi (come, appunto, l’abolizione dei reati di devastazione e saccheggio) che in astratto dovrebbe rientrare anche nelle corde dei liberal. Come si può fare perché fuoriescano dal ghetto?
Come dicevo prima, i settori garantisti o liberal sono in via di estinzione. Casomai li troviamo negli istituti di ricerche, nelle riviste dotte e patinate, ma sempre meno tra coloro che agiscono la repressione, siano essi magistrati o forze dell’ordine.
Le campagne recentemente prodotte dal movimento non hanno sortito effetti importanti semplicemente perché, secondo me, il movimento ha scarso radicamento nei settori a noi più vicini, figuriamoci tra la cosiddetta “gente”. La “gente” segue la televisione, e gli altri media. Se analizziamo le campagne riuscite, come quella sulla “strage di Stato” e sull’arresto di Valpreda che introdusse limiti alle misure cautelari anche nei casi di reati gravissimi (legge n. 773 del 15 dicembre 1972), beh, quella campagna si vinse, perché il radicamento del movimento era di gran lunga maggiore di oggi, perché parte della sinistra era ancora garantista e perché settori della borghesia guardavano ancora con simpatia al movimento studentesco. Insomma era una fase abissalmente diversa da oggi.
Più che “campagne” rivolte all’opinione pubblica, penso sia utile oggi un intervento di massa sul terreno della repressione. Poiché la repressione colpisce sempre più settori proletari in conflitto, come in Val di Susa, è possibile dunque produrre iniziative di massa che poi investano, dal basso, tutta la società.
A parte il vissuto di chi milita, in Italia il carcere è sempre più una tremenda discarica sociale, dove vengono radunati – in condizioni spaventose- diversi soggetti indesiderabili. Ciò, in un quadro in cui si fanno grossi passi indietro in merito alle pene alternative al carcere stesso. Secondo te, cosa si può fare per unificare i due percorsi: quello contro la repressione che colpisce le avanguardie e quello che si occupa della repressione più diffusa e del carcere in generale?
Sempre più compagni e compagne varcano i cancelli di quelle maledette galere. È un fatto. Dunque dobbiamo attrezzarci. Come? Intanto parlando di carcere. Discutendone a fondo, cercando di conoscerlo. Di carcere se ne parla, ma se ne parla male. O si rincorre l’utopia del “distruggiamo le galere” oppure si rincorre il “lamento”. Ci si lamenta del sovraffollamento e dei suicidi, si inseguono i radicali che dicono “bisogna riportare il carcere alla sua funzione originaria, alla rieducazione”, “bisogna riportare la legalità nel carcere”. Sono entrambe allucinazioni! Che vuol dire “distruggere il carcere” quando la grandissima parte (per non dire tutti) dei detenuti conferma, col suo comportamento passivo, l’esistenza della galera e della punizione e al massimo chiede che sia più dolce la punizione, ma che sia una punizione. E che vuol dire “legalità” in carcere? Che vuol dire “rieducazione?”. Chi deve rieducare? E a cosa dovremmo essere rieducati? A rispettare il regime della proprietà e dello sfruttamento?, delle guerre e della devastazione ambientale?; educati a rispettare che oltre un miliardo di persone siano alla fame e centinaia di migliaia di bambini muoiano ogni giorno per denutrizione?
Discutere di carcere, secondo me, è discutere su ciò che può fare un compagno o una compagna, un attivista, che va in carcere in rapporto con quelle e quelli che rimangono fuori. Come confrontarsi con i segmenti della popolazione detenuta, come sviluppare percorsi di organizzazione nelle galere, come riappropriarsi della capacità di lottare in quelle condizioni. Considerando che in questo campo abbiamo in questo paese un’esperienza tra le più significative e massicce della storia del carcere nel mondo, simile per certi versi soltanto a quella delle Black Panters negli Stati Uniti.
Dobbiamo parlare del carcere e parlarne come un luogo familiare, non come luogo sconosciuto e terrorizzante, un luogo in cui si può lottare e ci si può organizzare per non soccombere; si possono migliorare le proprie condizioni, si possono organizzare evasioni e rivolte e si può avvicinare la sua abolizione. Ma facendo un passo alla volta e in maniera organizzata e coinvolgente. A chi finisce in carcere dobbiamo dare sostegno massimo e strumenti per utilizzare al meglio la volontà di lotta e di ribellione di fronte al sistema carcerario. Dobbiamo fare uno sforzo maggiore per iniziative sul territorio in grado si criticare il carcere e convincere la popolazione proletaria che si può e si deve lottare contro il carcere in ogni territorio; perché poi in carcere i giovani proletari ci finiscono e molto frequentemente. Allo stesso modo va ricostruita una lotta di massa contro i Cie.
19 marzo 2013
da www.pane-rose.it
firenze: NON SARANNO I TRIBUNALI A FERMARE LE NOSTRE LOTTE
Solidarietà per chi lotta!
Nei prossimi mesi numerosi saranno i processi a carico di compagni e compagne del movimento a Firenze. Si tratta di processi per svariati episodi ed ipotesi di reato. Dalla resistenza a pubblico ufficiale, semplice ed aggravata, ai danneggiamenti, violenza privata, fino ad arrivare all’associazione a delinquere, utilizzata sempre più spesso in tutta Italia al fine di costruire un castello accusatorio tale da consentire l’applicazione di misure cautelari, dal carcere, ai domiciliari, agli obblighi di firma o residenza, per reati che altrimenti non le consentirebbero. Molti dei processi riguardano denunce per legittime iniziative volte a impedire o contestare l’apertura di nuove sedi di fascisti, la loro presenza in città e non solo. E’ in questo senso importante sottolineare il ruolo che questi ricoprono come elementi interni cooptati e protetti dal sistema, in quanto funzionali al suo mantenimento.
Il 3 maggio sarà poi la prima udienza del processo maxi a carico di 87 compagni del movimento a Firenze. A questo quadro di per se sufficientemente pesante vanno aggiunte le numerose denunce che continuano ad arrivare, dalle manifestazioni contro il TAV a Firenze, contro la guerra in Libia ed ultima in ordine cronologico quelle contro 15 studenti “colpevoli” di aver contestato la presenza di Visco all’Università di Novoli.
Di fatto quindi, centinaia di persone sono sotto processo e denunciate a Firenze per le attività e le mobilitazioni politiche e sociali degli ultimi anni.
Lo Stato adegua continuamente la propria legislatura repressiva. Oggi si sviluppa in una cornice europea, sia nell’allineamento delle legislazioni che nel coordinamento delle forze di polizia e magistratura. Negli ultimi 20 anni numerosi sono stati i nuovi provvedimenti sviluppatisi in questo senso: dalle liste internazionali delle organizzazioni e delle persone “terroriste”, alla comune legislazione antiter, in Italia adeguata con il comma sexies al reato 270 del Codice Rocco, che definisce condotte “terroristiche” le pratiche proprie delle manifestazioni e delle contestazioni verso organi dello Stato, sovranazionali ed economici. Le conseguenze di questo clima di controllo e repressione si sono concentrate anche sui conflitti sul lavoro. Se, da una parte, vengono attaccati i diritti dei lavoratori e limitato lo stesso diritto a manifestare, dall’altra le cariche verso i lavoratori in lotta, gli arresti, l’uso dei crumiri per sfondare i picchetti o di squadrette per intimorire gli occupanti (fascismo/repressione), i provvedimenti restrittivi a carico di chi attivamente partecipa alle mobilitazioni e/o porta loro solidarietà, sono diventati pratica comune di stati e padroni.
I processi, le denunce, gli arresti, le botte in piazza a lavoratori e studenti, sono ormai ovunque una costante. La repressione, come sempre, diventa una delle principali forme per garantire controllo sociale, disgregare momenti organizzativi, intimidire e spingere verso il “privato” migliaia di ragazzi e ragazze che si affacciano oggi nelle mobilitazioni di piazza, spinti tra l’altro da una condizione sociale giovanile estremamente difficile, pesantemente condizionata da oltre 25 anni di tagli continui a scuola ed università, con conseguente impoverimento della qualità didattica.
Scuola ed università diventano non a caso luoghi dove le forme proprie di controllo (dalle note alle sospensioni, fino ad arrivare alle espulsioni…) vengono sostituite con modelli culturali repressivi finora mai usati in questi ambiti, con le richieste di intervento di polizia e carabinieri. Di fatto, applicando alla gestione dei comportamenti “devianti” e del disagio dispositivi repressivi propri di altre istituzioni, la scuola abdica al suo ruolo educativo (i cani davanti e dentro le scuole, le operazioni spettacolari dei carabinieri, l’utilizzo dell’emergenza bullismo), ed il corpo docente rischia di essere relegato ad una sorta di “guardia scolastica”. Così come assistiamo sempre più spesso alla cooptazione per finalità repressive di alcuni settori del lavoro: dai controllori degli autobus nella repressione dell’immigrazione, al personale medico per reprimere comportamenti devianti attraverso i TSO, ai vigili del fuoco in manifestazioni e sgomberi. Vediamo territori sempre più militarizzati, a maggior ragione se contesti di lotte e vertenze significative (dalla Val Susa a Napoli), parallelamente ad una sempre maggiore militarizzazione delle stesse forze dell’ordine con ricadute pesanti sulla gestione stessa dei conflitti, sempre più vicina ad una strategia propria delle zone di guerra. Tutto ciò la dice lunga sulla fase di profonda arretratezza che la sinistra italiana sta vivendo. Mentre i magistrati dalle aule dei tribunali svolgono il loro naturale ruolo nella strategia repressiva, parte della sinistra si butta a capo fitto nel giustizialismo, nella legalità e nella sicurezza. In questo senso possiamo dire con certezza che questo sistema culturale ha fatto breccia: la presa di distanza o il silenzio, la desolidarizzazione, finanche la denuncia, come abbiamo visto per il 15 ottobre 2011, sono purtroppo diventate pratiche comuni anche in parte del movimento.
Crediamo che rispondere alla repressione, manifestare la solidarietà necessaria a chi lotta non voglia dire piangersi addosso, ma al contrario siano tutti elementi che contrastano l’agire dello Stato. Non basta dire banalmente che alla repressione si risponde con le lotte…questa è una completa ovvietà! Alla repressione bisogna rispondere anche con la comprensione del fenomeno, con la solidarietà, con la diffusione delle informazioni, con l’appoggio materiale ai compagni, con le mobilitazioni ed il coinvolgimento su questo terreno dei più ampi settori possibili. Questo, a nostro parere, rafforza le nostre posizioni, contribuisce a ricostruire dei rapporti di forza adeguati a non dover subire passivamente lo Stato e rende chiaro a compagni ed avversari che nessuno verrà lasciato solo.
Se, per i nostri limiti, rinunciamo a questo, continuiamo a fare passi indietro. Allora, di fronte a questo scenario, si deve avere la capacità di affrontare il fenomeno e rilanciare anche su un terreno di mobilitazioni comuni, necessario proprio nella costruzione di legami sociali e di solidarietà che contrastino visibilmente le strategie di controllo e repressione.
Solidarietà per tutti i compagni e le compagne denunciati, sotto processo, in carcere.
23 marzo 2013
Centro Popolare Autogestito fi-sud
milano: LA STORIA NON SI SCRIVE NEI TRIBUNALI
Solidarietà agli studenti condannati per le mobilitazioni del 2008
Il 25 Marzo 2013, il Tribunale di Milano ha emesso la sentenza di primo grado verso alcuni studenti per la tentata occupazione della stazione di Milano Cadorna, avvenuta durante il periodo di mobilitazione noto come “movimento dell’Onda”. Si tratta di 4 condanne dai 5 ai 9 mesi per un totale di quasi 3 anni di condanna per reati che vanno dalla violenza a pubblico ufficiale, al lancio di oggetti, all’istigazione a delinquere.
“Mai quest'onda mai mi affonderà, gli squali non mi avranno mai...”
Colpendo gli studenti che si sono battuti con più decisione, si tenta di rinchiudere dentro i tribunali un grande movimento, che tra il 2008 e il 2009, si batté sia contro la riforma Gelmini, sia contro le politiche neoliberiste di governo e Confindustria. Centinaia di migliaia di persone scesero in piazza nei cortei, nei blocchi stradali e delle stazioni, nelle occupazioni delle facoltà e delle scuole; le nostre rivendicazioni non riguardavano soltanto l’ambito studentesco: collegarsi alle lotte dei lavoratori, contro i licenziamenti, o contro l’ulteriore precarizzazione della forza lavoro, erano parole d’ordine assunte da buona parte del movimento.
Chi governa sa benissimo che il mondo della formazione, afflitto dai continui tagli al diritto allo studio imposti dalla crisi e dal regime di austerity, è sempre più funzionale ad un mondo del lavoro precario e senza alcuna garanzia. Solo in questi ultimi giorni si è constatato – secondo fonti ISTAT – di come la disoccupazione giovanile tra i laureati sia aumentata in un solo anno del 35%, senza contare gli stage, il lavoro sommerso e gli impieghi senza contratto. Le stesse rivendicazioni del movimento studentesco dell’Onda sono perciò oggi più che mai valide, e ciò viene anche dimostrato dalla volontà dello Stato e degli organi repressivi di colpire quegli studenti che hanno continuato e continuano a lottare contro l’università e la scuola azienda, contro l’istruzione-merce, ricollegandosi alle lotte dei lavoratori e, più in generale, a quelle contro lo sfruttamento e la devastazione di vite e territori.
La risposta migliore ad un attacco repressivo è quindi continuare la lotta: per questo, pensiamo che si debba riportare la questione dalle aule dei tribunali agli studenti, ai giovani lavoratori che hanno dato vita a quelle mobilitazioni, e che ancora oggi si battono.
Sviluppare una memoria collettiva, da anteporre alla “memoria giudiziaria” significa prima di tutto porre le basi e affilare la critica per le future mobilitazioni, sia nella scuola che nel mondo del lavoro. Allo stesso tempo, è l’esempio migliore che si possa dare verso le giovani generazioni di studenti che, cercando di sviluppare la loro critica alla deriva aziendalista della scuola e dell’università, stanno già preparando la prossima Onda.
“Aspettando un’onda lunga, passa la cera un’altra volta. Poi col vento nelle mani, qui il futuro è già domani”.
Ribellarsi era, è, e sarà giusto! No all'istruzione merce! No alla scuola/università-azienda!
26 marzo 2013
Assemblea Scienze Politiche
scienzepolitichemilano@inventati.org - spomilano.noblogs.org
RED NET Rete delle realtà studentesche autorganizzate - www.red-net.it
Perquisizione alle 6 della mattina: succede in Valle di Susa
Questa mattina, martedì 16 aprile, 4 solerti poliziotti sono andati a dare la sveglia ad Andrea, abitante di Vaie e attivista del locale comitato. Perquisizione in casa e in macchina, sequestro di varie cose tra cui telefono, agende, computer e notifica di obbligo di firma giornaliero alla stazione dei cc di Borgone. Il tutto perchè il 16 novembre 2012 (esattamente 5 mesi fa!) Andrea era stato fermato durante un blocco ai cancelli di Chiomonte e aveva passato l'intera giornata in stato di fermo.
Vediamo i fatti: quel giorno c'è stato un alterco vivace tra un poliziotto in borghese che faceva foto e alcuni no tav che presidiavano via dellìAvanà. Andrea all'alterco non ha partecipato, se non per pochi minuti, in quanto si trova davanti al cancello della centrale, mentre il tutto si svolgeva sulla strada a parecchi metri di distanza. Ma le forze dell'ordine, infastidite dall'episodio, decidono di prendere i primi malcapitati che trovano: ed ecco che Andrea e Claudio si ritrovano in stato di fermo.
Oggi, a distanza di 5 mesi, le indagini vengono chiuse e il pm richiede l'arresto per Andrea a causa di gravi fatti di cui è accusato. Ma andiamo a leggere l'ordinanza fatta dal tribunale di Torino consegnata ad Andrea: "La natura della sua partecipazione è, però da individuare in termini di mera assistenza all'altrui condotta... " il poliziotto in questione dichiara: "Non hanno proferito alcuna parola o minaccia (Andrea e Claudio n.d.r.) nè attuato nessun comportamento violento nei miei confornti. Si sono limitati a rimanere sul posto e ad assistere all'accaduto".
Poi c'è l'operaio che tentava di entrare al cantiere: "A riscontro di tale conclusione (circa il ruolo NON ATTIVO di Andrea nei fatti in oggetto) si richiama la condotta tenuta dallo stesso indagato come emerge anche dalla visione dei fotogrammi... nelle dichiarazioni dell'operaio non vengono attribuite all'indagato alcuna delle condotte minacciose e/o violente descritte e chiaramente attribuite agli altri soggetti presenti..."
Pertanto, per sintetizzare, il pm richiede l'arresto nonostante le dichiarazioni dei due teste (poliziotto e operaio) il giudice rigetta la richiesta e dà "solo" l'obbligo di firma.
Quindi, semplificando: Andrea a detta loro (e non nostra!) non ha fatto nulla: nè minaccie nè niente ma è un no tav e quindi è colpevole comunuque e si merita una perquisizione alle 6 della mattina e l'obbligo di firma.
Commenti è dura farne se non che la nausea e la rabbia aumentano ogni giorno.
Ad Andrea va tutta la nostra solidarietà e vicinanza, Andrea è uno di noi, un valsusino generoso che lotta per un futuro dove nessun tav devastatore e nessuna ingiustizia kafkiana possano avere futuro.
aprile 2013, Comitato no tav Vaie
da notav.info
NON UN PASSO INDIETRO! LE LOTTE NON SI PROCESSANO!
Sul processo alle lotte contro lo sfruttamsnto nella logistica
Venerdì 29 marzo 2013 alle 13.30 è chiamata al Tribunale di Saronno la seconda udienza del processo che vede imputati 20 tra compagni e compagne del SI Cobas, dello Slai Cobas, del Centro Sociale Vittoria di Milano del La Sciloria del C.S Kinesis e in generale del Coordinamento di sostegno, con riferimento alla lotta dei lavoratori delle cooperative in appalto ai magazzini Bennet di Origgio iniziata nel mese di luglio del 2008 e protrattasi per quasi un anno.
Una dura lotta autorganizzata, risultata vincente, che ha conquistato un deciso miglioramento delle condizioni salariali e normative, che ha rotto l'onnipresente condizione di sfruttamento e schiavitù presente negli appalti della logistica, che ha costretto la cooperativa datrice di lavoro a reintegrare un operaio arbitrariamente licenziato per l'adesione al sindacalismo di base e che ha visto tutti i lavoratori riappropriarsi di quanto negli anni sottratto loro in termini di diritti, salario e sicurezza.
Oggi davanti al tribunale vogliamo rivendicare quegli scioperi e le forme che la lotta ha assunto in quei 7 scioperi oggi sotto processo.
Senza entrare nel merito dei fatti contestati, respingiamo con forza al mittente l'assoluta pretestuosità delle imputazioni fondate su generiche responsabilità collettive per presunti reati commessi in occasione dei numerosi scioperi organizzati in questa lunga vertenza.
Come imputati/e e come movimento di lotta, intendiamo denunciare l'essenza eminentemente politica delle accuse contestate a un intero movimento di sostegno delle lotte dei lavoratori delle cooperative che, proprio a partire dalla lotta di Origgio del 2008, si è sviluppato e radicato nell'intero settore della logistica e della distribuzione italiano confrontandosi con un sistema fondato su rapporti di lavoro schiavistici e di sfruttamento dove il caporalato (più o meno legale) disciplina in maniera fortemente autoritaria la manodopera impiegata.
Un sistema sempre più centrale e strategico per l'economia italiana nel quale l'accumulazione del profitto e la valorizzazione del capitale impiegato da committenti e appaltatori sono il risultato di ritmi di lavoro disumani, pressoché totale assenza di sicurezza e assoluta precarietà dei rapporti di lavoro. Ma è proprio in tale contesto che i lavoratori addetti hanno costruito un percorso autorganizzato nel quale si riconoscono quali protagonisti diretti per la rivendicazione dei propri diritti, nel quale l'unità e la solidarietà tra lavoratori seppur di diversi poli e con differenti committenti è perseguita e praticata nel riconoscersi parte attiva di una medesima classe.
Un percorso che supera quindi il livello strettamente vertenziale e sindacale ponendosi oggettivamente su un piano politico: da un lato, nell'invocare infatti dignità e ugualitarismo nelle condizioni di lavoro e trattamento mettendo in discussione l'intero sistema di potere nei magazzini, dall'altro, è esemplare per proposta di generalizzazione del conflitto a tutti i settori lavorativi.
E' quindi evidente che questa lotta, come le numerose altre che sino succedute in questi anni, non potevano che causare anche la reazione violenta di un padronato colpito “economicamente” e strutturalmente nel proprio comando assoluto sulla forza lavoro. Risposta che non poteva peraltro ottenere che complicità, appoggio e sostegno dalle forze di polizia contro lavoratori e contro chi pratica in maniera militante la solidarietà di classe.
Noi rimaniamo convinti che, in un momento di crisi strutturale dell'economia capitalista, ogni momento di conflitto sia da valorizzare e generalizzare per sviluppare un'alternativa sistemica reale e non di governo alla società capitalista, un'opposizione di classe che possa strutturarsi basandosi sulla contrapposizione di massa (e non sulla concertazione) alla repressione di ogni lotta. Questa è la strada che continueremo a percorrere!
LA REPRESSIONE NON FERMERA' LE LOTTE DEI LAVORATORI DELLE COOPERATIVE!
LA SOLIDARIETA' E' UN' ARMA USIAMOLA!
Venerdi 29 Marzo ore 13,30 PRESIDIO A SARONNO
marzo 2013
Imputati e imputate del processo di Origgio
Via il foglio di via
6 aprile 2013: manifestazione a Piacenza
Mille in piazza con i facchini contro la criminalizzazione delle lotte sindacali e per solidarizzare con i compagni colpiti dai fogli di via come Aldo Milani rappresentante nazionale SI Cobas e altri due, ai quali si stanno aggiungendo altri man mano (la notizia di altri 6 lavoratori del piacentino ci ha raggiunto durante la manifestazione).
Le lotte non si criminalizzano
Mesi di sciopero, di blocchi stradali e picchetti davanti alle cooperative per rivendicare il diritto al salario. Migliaia di lavoratori, per lo più migranti, denunciano assenze di buste paga, accrediti fatti sulla posta pay, stipendi mensili di 500\600 euro per un orario giornaliero di quasi 10 ore, assenza di normative di sicurezza, caporalato diffuso per impedire che i lavoratori alzino la testa rivendicando il semplice rispetto del contratto nazionale e dell'orario di lavoro
La lotta nel settore della logistica si diffonde a macchia d'olio nei magazzini perché i primi scioperi hanno dimostrato la concreta possibilità di ribellarsi alle condizioni disumane di sfruttamento avallate dai sindacati cgil cisl uil ugl che spesso e volentieri sottoscrivono accordi farsa con le cooperative e i consorzi , salvo poi trovarsi contestati ai cancelli dei magazzini da lavoratori che non riconoscono più il loro ruolo di intermediatori dello sfruttamento.
Dopo mesi di lotte e dopo avere guadagnato le pagine della stampa nazionale, sono arrivati i fogli di via a 3 attivisti del SI Cobas con il divieto per loro di mettere piede a Piacenza per i prossimi 3 anni. Il provvedimento, adottato contro realtà sociali e di movimento, in ambito sindacale rappresenta una novità (almeno in tempi recenti) e un segnale ben preciso di Questura, Prefettura e Istituzioni locali: non interferite nella vita di Piacenza, basta contestare il modello economico del Piacentino costruito da decine di cooperative (molte legate a doppio filo al Pd e alla Legacoop)
E così hanno individuato 3 attivisti del sindacato con relativi fogli di via per lanciare un messaggio a tutti i facchini in lotta (i fogli di via sono arrivati dopo licenziamenti, arresti e denunce che hanno colpito tanti lavoratori protagonisti delle lotte degli ultimi mesi e alcuni processi per fatti del 2008\9 potrebbero concludersi con pesanti condanne) , insomma un avvertimento per ripristinare la pace sociale in magazzini dove per anni un lavoratore veniva pagato 2 o 3 euro l'ora, senza dispositivi di protezione individuale, in condizioni climatiche particolari(temperature sotto lo zero), spesso senza copertura previdenziale e assicurativa.
La nuova classe operaia?
La composizione del corteo era molto precisa: il 70% costituito da migranti, coesi e con un forte senso di appartenenza al loro sindacato (SI Cobas), una forte rappresentanza dei facchini organizzati in Veneto con ADL (Associazione Difesa Lavoratori), una ventina di facchini della confederazione cobas che ha aperto un intervento nella logistica sul territorio bolognese, attivisti del SI Cobas e della Confederazione Cobas, rappresentanti del sindacato di base Cub, una galassia di gruppi politici (Pdac, Rifondazione, Pcl, Network antagonista piacentino), alcune realtà sociali come il centro sociale Vittoria che da anni opera nelle lotte attraverso il coordinamento che sostiene le lotte della logistica, Crash di Bologna, e altri gruppi di associazioni varie provenienti da Milano, Bologna e zone emiliane.
Lungi da fare ragionamenti e analisi composite, evidenziamo solo un aspetto importante: migliaia di migranti hanno scoperto che è possibile ribellarsi allo sfruttamento e alla semischiavitù del caporalato; ora si deve passare ad una seconda fase, andare ad organizzare questi lavoratori non solo nel nord ovest ma ovunque essi siano presenti, organizzarli senza primogeniture, con coordinamenti unitari, recandosi direttamente davanti ai grandi magazzini per portare a conoscenza tutti i lavoratori che le lotte intraprese hanno prodotto risultati importanti sotto l'aspetto contrattuale e del reddito.
Le lotte della logistica ci permettono di conoscere un pezzo significativo del mondo del lavoro, dello sfruttamento sotto padrone (la cooperativa è un padrone a tutti gli effetti), ma evidenziano che il conflitto nei luoghi di lavoro è la sola risposta alla privazione di salario , dignità e diritti
Domenica 7 aprile si è tenuta l’assemblea nazionale della logistica, i rappresentanti sindacali SI Cobas e Adl con l’adesione della Conf. Cobas nazionale hanno lanciato le proposte per il proseguo della vertenza per il rinnovo del CCNL Nazionale Merci Trasporto Logistica: cercare il confronto diretto con le maggiori aziende della logistica vedi Bartolini, SDA, TNT, per un confronto sulle tematiche del rinnovo del CCNL nazionale, anche se è possibile che intanto cgil csil uil ugl ne accelerino la firma con le rappresentanze padronali.
In base alle risposte ricevute, in una prossima assemblea nazionale delle rappresentanze sindacali e dei delegati di tutte le aziende della logistica prevista per il 19 aprile, ci si riunirà per discutere e decidere sulle prossime azioni di lotta e sciopero con blocchi come quello del 22 marzo.
aprile 2013, da cobas.it
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Segue una breve carellata, in ordine cronologico, delle iniziative svolte sul territorio milanese e nella provincia di Lodi in occasione della giornata di sciopero del 22 marzo.
- Ore 24: A sorpresa (dell'azienda) comincia lo sciopero alla DHL di Carpiano, uno degli snodi più importanti della principale azienda italiana della logistica. 140 operai incrociano le braccia ed escono dai magazzini all'improvviso. Ad attenderli fuori dai cancelli delegazioni operaie della AF di Massalengo, della Stef di Tavazzano, della Tnt di Peschiera e Piacenza e dei loro vicini della SDA di Carpiano. Oltre 200 persone bloccano i cancelli impedendo l'entrata e l'uscita delle merci. L'intenzione è chiara: dare inizio allo sciopero generale a Milano e proseguire fino all'ottenimento delle proprie rivendicazioni specifiche.
- Ore 24: il Cobas della AF di Soresina (CR) dà inizio al proprio sciopero uscendo dall'impianto e dandosi appuntamento per il picchetto alle 6 della mattina.
- Ore 4: Con la fine del turno del giovedì inizia lo sciopero alla Stef di Tavazzano appoggiato da una dellegazione provreniente dai cancelli dalla DHL di Carpiano. 15 operai danno così vita ad un presidio finalizzato a garantire la riuscita dello sciopero che durerà per tutta la giornata. Il presidio cresce man mano che gli operai si presentano per il loro turno...di sciopero e col sostegno aggiuntivo del Cobas della Fiege Borruso di Brembio (LO) e della AF di Masalengo. Alle 11 si contano circa 80 operai davanti ai cancelli. Sui 240 operai coinvolti nelle attività dell'impianto solo 15 hanno deciso di entrare a lavorare.
- Ore 5,30: Ha inizio il picchetto degli operai in sciopero dell'impianto DHL di Liscate. Dopo un'ora e mezza, vista la piena riuscita dello sciopero, decidono di staccarsi progressivamente i cancelli della vicina e strategica DHL di Settala.
- Ore 6: Inizia il picchetto alla AF di Soresina animato da una trentina di operai che danno vita al blocco totale delle merci. Il picchetto durerà fino alle 9,30 dopo di che i lavoratori decidono di andare a casa non entrando avviamente a lavorare.
- Ore 7: Ha inizio il picchetto alla DHL di Settala (circa 300 operai divisi in tre magazzini, dove il SI.Cobas conta circa 120 iscritti), luogo su cui si è deciso che converga la maggior parte delle forze che fanno riferimento al coordinamento di sostegno alla lotta delle cooperative.
Il presidio si ingrossa progressivamente producendo il blocco totale delle merci in entrata e in uscita. Cresce anche la tensione animata da alcuni militanti della CGIL che cercano di sfondare il picchetto dopo aver intruppato qualche decina di operai poco convinti appartenenti alle proprie fila. Il tentativo è respinto e, attraverso capannelli e comizi gli scioperanti riescono a mantenere in piedi lo sciopero. L'arrivo dei cellulari della polizia muta nuovamente il quadro e così alle 12 circa gli scioperanti operano una scelta intelligente e rischiosa allo stesso tempo: liberano i cancelli e attraverso un comizio mettono le operaie e gli operai di fronte alla propria libera scelta: il risultato finale è assolutamente vincente e premia lo sciopero: solo 25 persone scelgono di entrare a lavorare: il successo è totale, la linea conciliatoria e codarda della CGIL è battuta, il Cobas ha vinto e le sue fila sono destinate a crescere notevolmente nei prossimi giorni.
- Ore 7,30: Ha inizio il presidio delle operaie alla DHL di Corteolona (PV); dopo due assemblee di fabbrica che si sono concentrate sulla questione dei salari continuamente erosi dai meccenismi imperanti nel settore, tramite il sistema delle cooperative. Una quarantina di operaie si fermano davanti ai cancelli bloccando le attività di uno dei magazzini più importanti dell'intero impianto.
- Ore 8: Il cobas della Fiege-Borruso di Brembio (LO) che rappresenta circa il 65% della forza lavoro, si raduna davanti ai cancelli e si muove alla volta delle iniziative che si svolgeranno altrove (la già citata Stef di Tavazzano e la DHL di Settala).
- ore 8: Ha inizio lo sciopero con blocco delle attività in un altro dei punti più importanti su cui si articola la battaglia, la TNT di Peschiera; siamo nelle immediate adiacenze dell'aeroporto di Linate e l'impianto ospita allo stesso tempo lo snodo di carico-scarico Internazionale e l'hub di Milano. Il cobas vi si è costituito di recente e la voglia di lottare è alta nonostante i risultati già raggiunti attraverso la "trattativa a freddo" dei giorni precedenti. Tutte le attività aziendali sono bloccate per tutta la giornata e il picchetto viene raggiunto anche dagli operai che operano direttamente presso l'aeroporto di Linate e che vivono condizioni di lavoro alliucinanti per via di orari di lavoro ridotti e spezzati allo stesso tempo. In serata, sicuri che l'esito positivo dello sciopero è stato raggiunto, un'ampia delegazione si muove verso il picchetto della DHL di Carpiano che è ancora in corso e si apprende che, così come ha aperto le ostilità, è intenzionato a non chiuderle.
- Ore 15: Gli operai della SDA di Carpiano cominciano a costituire il picchetto davanti ai cancelli. L'azienda, ampiamente preavvisata dello sciopero preferisce, come la TNT a Peschiera, operare una serrata, pur dovendo così rinunciare alle attività lavorative per tre giorni di fila. Uno dei Cobas storici di Milano, protagonista a giugno del 2012 di sei giorni consecutivi di blocco dei cancelli, si ritrova così... senza lavoro da svolgere nè obiettivi da praticare. Ma lo sciopero è davvero generale anche per questo e l'occasione giusta non tarda a venire.....
- Ore 17: Dal limitrofo presidio della DHL si stacca una delegazione di una ventina di operai e raggiunge il picchetto in SDA, si svolge una breve assemblea di bilancio e di rilancio su una proposta molto semplice: 500 m. più in là ha sede la Mtn, ditta di trasporti che ha recentemente messo in mobilità 25 operai sulla base di un accordo discriminatorio siglato con CGIL-CISL-UIL. Il Cobas non ci può stare e ha il dovere di aiutare questi operai licenziati....Non c'è stato il tempo di finire la frase che il picchetto SDA si muove in massa verso i cancelli della Mtn, andandoli a bloccare di forza. Ne nasce una convulsa tratttativa che produce in breve tempo un incontro fra le parti fissato per lunedì alle 16,30 perridiscutere e ridefinire l'intero accordo di mobilità e fissare ipotesi alternative, contro qualsiasi licenziamento.
- Ore 21: La conclusione .. .che non c'é.
La giornata di battaglia volge al termine. E' stata per davvero, senza enfasi nè toni autoproclamatori, una giornata storica. 5 anni di importantissime battaglie nella logistica, si sono condensate finalmente in un'azione generalizzata e coordinata e per la prima volta, a nostra memoria diretta almeno, operai autorganizzati prendono in mano il prorpio destino, si fanno essi stessi sindacato, si organizzano in comitati di lotta che di volta in volta, di luogo in luogo, di ora in ora, prendono le decisioni collettivamente, si rapportano con gli eventi senza ricette pronte, cercano e danno appoggio ai loro simili, si riconoscono in quanto classe, trasformano la rabbia accumulata l'odio per i padroni in intelligenza collettiva capace di tenere sotto scacco le più importanti multinazionali della logistica.
Milano, aprile 2013
Milano: all’ospedale San Raffaele arrivano i licenziamenti
Dopo mesi di schermaglie e grandi mobilitazioni cittadine è iniziato al San Raffaele con un assaggio di 40 licenziamenti, 20 sanitari e 20 amministrativi, lo stillicidio giocato sadicamente sulla pelle dei lavoratori e delle loro famiglie.
Centinaia sono nel frattempo i licenziamenti striscianti già operati silenziosamente tra i lavoratori e il precariato degli appalti. Scandalosamente rimosso dalla politica milanese che ha regalato la mostruosa patente di “buona amministrazione” alla giunta di un Formigoni che ha preferito cambiare aria, il crack del San Raffaele ha trovato nei giudici e nell’informazione i perfetti occultatori del mastodontico buco nero da un miliardo e mezzo che ha inghiottito nel corso degli anni le risorse di provenienza pubblica dirottandole negli affari immobiliari in Sud America. Mentre nessuno si cura del recupero di quei patrimoni a pagare sono ovviamente i lavoratori e l’utenza che vede il San Raffaele in fase di continuo ridimensionamento.
Ora si apre una partita lunga e difficile che si rivolgerà al sindaco di una sinistra ancora tutta da dimostrare e al governatore con la Lombardia in testa.
L’organizzazione di uno sciopero regionale e la mobilitazione cittadina e permanente in appoggio ai lavoratori del San Raffaele - che si riuniranno in assemblea già lunedì - sono tra i primissimi obiettivi del movimento di solidarietà che si oppone ai 244 licenziamenti minacciati da Rotelli e che si ritroverà domani pomeriggio 14 aprile alle ore 18 presso il San Raffaele sotto le insegne del Coordinamento Lavoratori della Sanità Milano.
Un saluto a tutti.
13 aprile 2013
La redazione de il Paolaccio
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Ancora tensioni all’ospedale San Raffaele di Milano. Un centinaio di lavoratori, per protestare contro l’invio delle prime 40 lettere di licenziamento sui 240 tagli annunciati dalla proprietà ha nuovamente cercato di occupare l’accettazione dell’ospedale, come già accaduto ieri mattina. Questa volta però ad attenderli c’era la polizia che ha caricato e li ha respinti a suon di manganellate. Due lavoratori, feriti alla testa, sono finiti al pronto soccorso dello stesso nosocomio. L’accettazione risulta comunque bloccata dai lavoratori, che denunciano “l’impossibilità di per fare l’assemblea, né più permessi, e con il ricatto delle lettere di licenziamento”. 16 dipendenti sono poi saliti sul tetto per protesta.
16 aprile 2013
da infoaut.org
milano: Breve resoconto sulla manifestazione del 16 marzo
A 10 anni dall’uccisione di Davide “Dax” Cesare un corteo infinito quanto combattivo, lungo come la memoria che guardando avanti, riflettendo su ostacoli, come l’assassinio dello stato a Genova nel 2001, dei fascisti a Milano nel 2003, si è espresso con determinazione contro la devastazione sociale perseguita dai governi.
Manifestanti di generazioni diverse, in gran parte giovani, provenienti da Napoli, Torino, Teramo, Padova… hanno indicato a se stesse/i con la chiarezza inevitabile, che solo la strada riesce a porre, l’impegno, la coesione necessari per affrontare la complessità della situazione. Così, ad esempio, le sedi delle banche incontrate dal corteo nelle 4 ore di cammino, sono state attaccate, dato il saccheggio da loro praticato con solerzia e ostinazione a danno della stragrande maggioranza della popolazione, innanzitutto della sua parte salariata; così il corteo si è concluso nel quartiere Corvetto, ampiamente proletario-multietnico, con occupazioni di case da parte di parecchie famiglie senza dimora, comunque senza il denaro necessario per pagare un affitto per loro assolutamente impossibile.
Questa giornata di lotta ha dato dunque delle risposte al pesantissimo punto interrogativo che milioni di persone non solo in Italia hanno di fronte a sé: come uscire dalla merda che ci buttano addosso? Con la modestia inevitabile per la costruzione dell’insostituibile unità, da cui l’altrettanto insostituibile chiarezza e determinazione per superare ogni altro ostacolo, compresa la repressione.
Milano, aprile 2013
“La vita vale meno di un affitto”
Manifestazione a Berlino venerdì 13 aprile 2013
Rosemarie F., pensionata di 67 anni, è morta due giorni dopo essere stata buttata fuori dall’ampia abitazione situata nella Aroser Allee nel quartiere Reinickendorf di Berlino. La donna era malata e disabile. Nonostante tutto questo e la dichiarata disponibilità dell’assistenza sociale a pagare l’affitto della pensionata, lei martedì 9 aprile è stata costretta dalla polizia a lasciare l’abitazione. Due giorni dopo è morta in una stanza riscaldata del soccorso invernale. Zoltan Grashoff, responsabile dell’istituzione pubblica del quartiere Berlino-Wedding, venerdì sera in un incontro con i media ha confermato quanto accaduto, e ha parlato di “assassinio di stato”.
L’associazione di Berlino “Impedire gli sgomberi” informa che lo sfratto è stato compiuto nonostante una visita medica e relativo certificato dichiarassero l’indisponibilità fisica di Rosemarie F.. Il proprietario dell’appartamento abitato dalla pensionata, per parte sua ha confermato lo sfratto, dichiarando, assieme alla moglie, di essersi attenuto “al diritto, alla legge e all’ordine”.
Contro lo sgombero di Rosemarie F. già martedì erano scesi in strada un centinaio di manifestanti, tenuti a distanza da oltre 150 poliziotti. In febbraio la solidarietà attiva era invece riuscita a impedire lo sgombero.
Venerdì sera in 300 hanno preso parte alla manifestazione in memoria di Rosemarie F.. La polizia, con insistenza, rimarcata da una sua massiccia presenza, dallo sbarramento delle strade d’accesso alla casa abitata da Rosemarie F., ha cercato di isolare la manifestazione dagli abitanti del quartiere, esortandoli “a tenere chiuse porte e finestre”. La manifestazione è andata bene e alcuni manifestanti sono riusciti ugualmente a raggiungere la casa sgomberata.
15 aprile 2013
da jungewelt.de