indice n.75

“Morsi vattene!” La rabbia si riaccende in Egitto
La Tunisia è tutt’altro che pacificata
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
Germania: Sulle azioni di protesta dei profughi negli ultimi mesi
Francia: solidarietà con le lotta nella prigione di Roanne
Lettera dal carcere di Alessandria
LETTERA DAL CARCERE DI SALUZZO (to)
Da Tolmezzo a Roma
Resoconto del capodanno sotto il carcere di Tolmezzo
Lettera dal carcere di Spini di Gardolo (TN)
lettera dal carcere di perugia
lettera Dal carcere di Velletri (rm)
Lettera DAL CARCERE DI TEIXEIRO (spagna)
lettera dal carcere di Carinola (CE)
lettera dal carcere di siano (cz)
lettera dal carcere di livorno
Brescia: sulla situazione del carcere di Canton mombello
Resoconto del presidio anticarcerario al carcere di Palermo
Ca’ del Ferro (CR): solo isolamento!
Sul presidio di capodanno sotto il carcere di Monza
lettera dal carcere di lenzburg (svizzera)
Aggiornamenti dalla lotta NO TAV
notav: comunicato sull’udienza del 19 dicembre
Savona: LA RIVOLTA NON SI ARRESTA!
livorno non si piega
Art. 129 e co.: la situazione a Dresda
Padova: sgomberi, barriere e sequestri preventivi!
Aggressione fascista a Milano
ups di bologna: uno sciopero esemplare
ikea: la lotta non si ferma

“Morsi vattene!” La rabbia si riaccende in Egitto
La rabbia della popolazione egiziana continua a riversarsi nelle piazze, e nella giornata del 4 dicembre ha dato vita ad una grande manifestazione fuori dal palazzo presidenziale, lo stesso che per oltre 30 anni è stata la residenza di Mubarack. Migliaia di persone, hanno quindi circondato la residenza dell'attuale presidente, oltrepassando le barricate di filo spinato poste a difesa, mentre Morsi fuggiva dall'edificio per poi fare ritorno al suo interno la mattina seguente. La rabbia della popolazione che si è riversata ai piedi del palazzo ha dato vita a scontri con la polizia che, con l'avvicinarsi dei manifestanti, ha lanciato gas lacrimogeni contro la folla, dando inizio a scontri che si sono conclusi a notte inoltrata con numerosi feriti e una ritirata da parte delle polizia al grido dei manifestanti -diretti a Morsi- di “Vattene, vattene!”.
A provocare la rabbia degli egiziani e delle egiziane ieri scese in strada, le ultime mosse del presidente che già nelle settimane scorse aveva tentato di prendere più potere possibile. Con lo scioglimento del parlamento, la presa del potere legislativo e mandando in pensione i militari (eredi del vecchio regime che avevano ancora un potere fortissimo), Morsi è giunto all'approvazione di una dichiarazione costituzionale che gli permette di emanare dei decreti inappellabili dalla magistratura, togliendo di fatto alla stessa, il potere di decidere sulla costituzionalità degli organismi parlamentari.
La bozza di costituzione è stata approvata in tempo record dall'Assemblea Costituente e il conseguente annuncio da parte di Morsi di un referendum il prossimo 15 dicembre per l'approvazione definitiva del testo: la molla che ha fatto scattare le proteste. Tuttavia anche la composizione di piazza sembra assumere caratteri diversi da quella della primavera araba. Se il protagonismo sociale degli studenti e degli ultras risulta essere forte e caratterizzante, dall'altra parte in piazza comincia a riversarsi anche quella parte di popolazione che a suo tempo appoggiava il regime di Mubarack e che ora risultano avversari politici di Morsi e i Fratelli Musulmani. Un irriducibile zoccolo duro della società alto-borghese, di quello che alcuni chiamano “partito del divano” che in precedenza non era mai sceso in piazza e che ora vuole trovare espressione - seppur minima ma inevitabile - dei suoi interessi politici nell'opposizione a Morsi. […]
Nelle giornate di referendum – si è votato in due fasi: sabato 15 e sabato 22 dicembre – numerose sono state le denunce degli attivisti e del fronte del no. Molte le aggressioni contro le donne, i cristiani ed i laici, dunque nei confronti di tutti coloro che sono stati penalizzati dal nuovo testo costituzionale; aggressioni che le diverse facce del potere hanno sempre smentito: Fratelli Musulmani, autorità locali e nazionali, presidenti delle circoscrizioni elettorali e sostenitori della galassia dei partiti politici dell’Islam moderato. Inoltre, mentre nelle aree povere ed operaie, principali bacini del ‘no’, seggi meno organizzati e lunghissime file hanno scoraggiato molti dei potenziali votanti ad esprimersi, diversa è stata la situazione nelle zone più ricche del paese; infatti, la maggiore organizzazione delle circoscrizioni delle aree appartenenti alla borghesia egiziana ha fatto si che i votanti di tali aree, propensi per un ‘si’ che di fatto non colpisce gli interessi militari e borghesi, votassero senza problemi.
Ad ogni modo, nonostante le manifeste violazioni, la maggioranza di coloro che si sono recati alle urne (l’affluenza si è attestata circa al 30%, evidenziando la generalizzata mancanza di fiducia degli egiziani verso un sistema così distante da loro) ha votato a favore della bozza di costituzione tanto contestata in queste ultime settimane.
Importante è stato il ruolo della propaganda del regime: l’utilizzo di slogan come ad esempio “se non voti per la costituzione non sei un bravo musulmano” unito allo spauracchio dell’instabilità e dello scontro civile, hanno trasformato il referendum in un voto religioso, molto efficiente in una società fortemente musulmana come quella egiziana.
La recriminazione delle manifestazioni, a cui si è cercato di attribuire la colpa dell’instabilità economica e politica, la propaganda nelle moschee, l’utilizzo del sentimento religioso sembrano dunque aver vinto sulla piazza, su quella piazza che da quasi due anni si batte con le stesse parole d’ordine: giustizia sociale, giustizia per le vittime della rivoluzione e libertà, cioè per quel cambio di regime a lungo invocato durante le giornate della rivoluzione ma ad oggi tutt’altro che realizzato.
Traducendo in maniera sommaria il preambolo della costituzione, leggiamo queste parole: documento della rivoluzione del 25 Gennaio (…) rivoluzione che, in Piazza Tahrir ed in tutto il paese, si è battuta contro tutte le forme di ingiustizia, oppressione e tirannia per il nostro pieno diritto a “pane, libertà, giustizia sociale e dignità umana”, pagato con il sangue versato dai nostri martiri, con le sofferenze dei nostri bambini, con la lotta dei nostri uomini e delle nostre donne; dunque all’apparenza si delinea un sistema di potere poco distante da quella rivoluzione di cui sostiene voler essere espressione.
Ma la lettura del testo completo mette in evidenza ben altri aspetti: esattamente come il decreto approvato lo scorso novembre da Morsi per “proteggere la rivoluzione” - decreto che il presidente egiziano si è visto costretto a ritirare a seguito delle fortissime manifestazioni di piazza - anche la costituzione non fa che mantenere i privilegi di potere su cui, ormai da decenni, il paese si basa. Nella costituzione si fa, infatti, riferimento alla Sharia, la legge islamica, si rafforzano le istituzioni religiose, si aggiungono ulteriori limitazioni della libertà, si concedono maggiori poteri all’apparato repressivo.
Nonostante il ‘si’ alla nuova costituzione - peraltro redatta da un assemblea composta solo da rappresentanti dell’Islam moderato - ed approvata dal 60% di chi si è recato alle urne – cioè solo il 30% degli aventi diritto - il movimento rivoluzionario sembra non darsi per sconfitto, continuando a lottare per una vera giustizia sociale.
Lo si è visto nella capitale egiziana, nei numerosi presidi, negli scioperi delle ultime settimane; lo si è visto anche lo scorso venerdì ad Alessandria quando, poche ore prima dell’apertura dei seggi, la rabbia del fronte del ‘no’ è emersa e sono nati forti scontri con i sostenitori dei Fratelli Musulmani e con le forze dell’ordine che hanno provocato più di 80 feriti. La stessa rabbia che continuerà a farsi sentire nelle prossime giornate in cui sono state già indette manifestazioni che andranno nuovamente a riempire le strade egiziane con l’obiettivo dichiarato di voler finalmente realizzare quei valori per cui si lottava nella piazza dell’ormai lontano 25 Gennaio.

dicembre 2012, da infoaut.org


La Tunisia è tutt’altro che pacificata
Questo è il mio quarto giorno a Tunisi ed il paese non è certo silente e pacificato. Le persone in questo paese sono molto gentili e sono disposte a stare delle ore a parlare di quello che vivono perchè amano dialogare e amano stare le ore ai caffè a discutere. Diversamente da noi, non fuggono da una parte all'altra, ma il tempo se lo prendono. La frenesia dell'uomo occidentale atomizzato non gli appartiene e riescono ancora a dedicare del tempo alle persone.
Incontro migrati all'aereoporto che tornano a casa per stare con le loro famiglie, incontro gli studenti di sociologia della Facultè des Sciencies Humaines et Sociales de Tunis e tutt* mi raccontano come questo periodo di transizione è molto duro per i Tunisini. Da quando Ben Ali è stato mandato via sono emersi i partiti islamici del paese, prima repressi dal regime, che cavalcando il vuoto politico del post-rivoluzione, vorrebbero imporre la loro visione politica/religiosa dello Stato.
Il 4 Dicembre lungo le strade di Rue Al-Jazira e Boulevard Bab Mnara ha sfilato il corteo dell'Ugtt che commemorava la morte di Farahat Hached. Fondatore dell'Ugtt, fu ucciso nel 1952 dall'organizzazione coloniale Francese “La Main rouge”. E' un simbolo importante per il paese perchè rappresenta la resistenza al colonialismo francese. Il suo ricordo è ancora vivo nella memoria Tunisina e lo stesso sindacato vive alla luce di questo eroe nazionale: “L'ugtt è il sindacato di Farahat Hached” mi dicono.
Durante il concentramento alla sede dell'Ugtt di Rue Mohammed Alì i manifestanti sono stati attaccati dalla Ligue nationale pour la protection de la revolution. Questa organizzazione è il braccio informale dell'Ennahdha che cerca di intimorire e boicottare il sindacato e chi partecipa alle manifestazioni pubbliche. Non è un caso infatti, che questa aggressione avvenga proprio dopo le contestazioni di Siliana. La colluttazione tra la Lega e i manifestanti ha provocato dei feriti, come i video mostrano, ma nonostante questo il corteo è partito da Rue Mohammed ALì ed ha raggiunto la Kasbha, la piazza principale sede del governo. Ancora una volta sono stati costretti lungo quelle vie a gridare “libertà per i Tunisini”.
Questo avvenimento ha provocato molta indignazione tra le forze politiche del paese. I membri indipendenti dell'Assemblea Nazionale Costituente hanno deciso, a tal proposito, di boicottare le assemblee plenarie per tre giorni in segno di solidarietà con il sindacato. L'Ugtt ha reagito all'attacco immediatamente, boicottando la cerimonia del governo di commemorazione di Farhat Hachet. Ma la risposta più dura è arrivata quando, ieri, il sindacato ha convocato uno sciopero generale per il prossimo giovedì che diventerà ufficiale se il governo non dichiarerà illegale la Lega in difesa della Rivoluzione.
L'Ugtt è un sindacato che storicamente non si è occupato, e non si occupa tutt'ora, esclusivamente dei diritti dei lavoratori ma è un sindacato che scende in piazza contro i massacri della polizia, per i diritti umani, per l'indipendenza, contro Ben Alì e oggi contro le derive dell'Ennahdha. Non si può negare il fatto che i suoi vertici hanno appoggiato il regime di Ben Alì e tutt'ora mi sono oscuri i passaggi che hanno rimesso in carreggiata questo sindacato. Tuttavia, per i Tunisini l'Ugtt è una garanzia ed un veicolo tramite il quale muovere tutto il paese. Ma perchè uno sciopero generale dovrebbe fare così paura al governo? Perchè nella storia della Tunisia ci sono stati solo due scioperi generali. Convocare uno sciopero generale sostanzialmente, vuol dire minacciare il governo di un altro degage.
Il leader del partito di governo Ennhadha, Rached Ghannouchi, ha condannato le violenze avvenute il 4 Dicembre e ha proposto al governo di costituire una commissione d'investigazione indipendente per individuare le responsabilità di quello che è accaduto a Piazza Mohammed Alì. Inoltre, ha accusato l'Ugtt di portare il paese in uno stato di caos attraverso la convocazione dello sciopero generale. Il governo attuale, continua Ghannouchi, non può essere messo in discussione perchè è stato eletto dai cittadini e perchè: “Il dialogo è il solo ed unico cammino da percorrere permettendo di portare al successo la transizione democratica, sapendo che il nostro partito ha fatto diverse concessioni che ci hanno fatto soprassedere all'instaurare la Chariaa nella costituzione per concretizzare l'unione nazionale tanto desiderata e realizzare gli obiettivi della rivoluzione”.
Dopo gli avvenimenti di Siliana il governo non ha dimostrato certo di amare il dialogo sociale. I giovani di Siliana infatti, la settimana scorsa, insieme ai componenti territoriali dell'Ugtt hanno bloccato le strade per cinque giorni chiedendo il miglioramento della loro condizione e di tutta quanta quella del paese.
Le stesse persone che hanno rovesciato il regime di Ben Alì subiscono ancora gli stessi problemi: la fame, la disoccupazione giovanile, lo sfruttamento e la disuguaglianza. I manifestanti sono stati duramente attaccati dalla polizia con gas lacrimogeni CS, piuttosto noti anche a noi italiani, e fucili “a pallettoni” provocando la cecità di moltissimi manifestanti. Il governo ha dimostrato di preferire al dialogo sociale la repressione violenta delle persone e della libertà sindacale.
La gente di Siliana rifiuta le politiche neoliberiste di questa Troika, le stesse che li hanno portati a rovesciare il regime precedente. Non si sentono rappresentati da un governo, perfino islamista, che si colloca sulla stessa linea di Ben Alì e che proprio nelle ultime settimane stipula nuove convenzioni commerciali con l'Europa.
E intanto la popolazione si muove e non rimane ferma ad aspettare e a subire. Lo sciopero generale regionale a Sfax, Gafsa, Sidi Bouzid e Kasserine convocato prima degli attacchi all'Ugtt ha registrato una grossa adesione in tutti i distretti. Licei, scuole, amministrazioni pubbliche si sono fermati a Sfax e a Sidi Bouzid mentre a Gafsa si è registrato il 90% di adesioni nel primo settore e il 100% negli altri. Ieri tutti i presidi e i cortei organizzati in queste regioni, hanno espresso la loro solidarietà ai militanti aggrediti a Piazza Mohammed Alì e hanno richiesto che la Lega Araba in difesa della Rivoluzione venga dichiarata illegale. […]
Lunedì 17 dicembre sono piovute pietre sul presidente della repubblica Marzouki e sul presidente dell'assemblea nazionale costituente Jaafer. A Sidi Bouzid l'anniversario della morte di Mohamed Bouazizi è una giornata di lotta, come in molte altre località della Tunisia compresa la capitale si è tenuto il presidio nei pressi dell'assemblea costituente indetto dai parenti e amici dei martiri della rivoluzione. Durante la mattinata era stata prevista una celebrazione ufficiale nel cimitero di Sidi Bouzid ma non appena il presidente della repubblica, salito sul palco, ha tentato di dire le prime parole è stato fatto oggetto di un fitto lancio di pietre e insulti, e naturalmente di “degage!”. L'assalto al palco presidenziale ha messo in fuga le autorità protette dalla polizia che non ha potuto aggredire come di consueto i manifestanti che ormai avevano conquistato il palco.
Le istituzioni fantocce, emerse dalla grande farsa delle elezioni di un anno fa continuano ad essere il bersaglio della contestazione e della lotta della popolazione tunisina che ogni settimana insorge in località differenti contro le autorità della così detta transizione democratica. Gli ultimi gravissimi eventi si sono registrati a Siliana poche settimane fa quando durante uno sciopero è stato represso dalla polizia a fucilate, con cartucce da caccia che hanno colpito il corpo e gli occhi di diversi manifestanti facendogli perdere la vista.
Solo la scorsa settimana si sarebbe dovuto tenere uno sciopero generale che il sindacato UGTT aveva convocato dopo l'aggressione squadrista della base militante di Ennahdha (organizzata nella così detta Lega di difesa della rivoluzione) durante la celebrazione dell'anniversario della morte del fondatore dell'organizzazione sindacale. Ma come era facile immaginare la segreteria centrale lo scorso mercoledì e a poche ore dallo sciopero ha revocato l'iniziativa di lotta dando ragione alle clientele al vertice del sindacato sempre ammanicate, tra interessi e lobby, ai vertici governativi, un tempo del regime di Bourguiba, poi di Ben Ali, ed ora della fazione islamista. L'evento sta provocando un vero e proprio terremo nella base del sindacato e tra la popolazione, già inferocita dal mix di povertà e repressione che dopo due anni dalla fuga di Ben Ali dal paese è ancora costretta a subire... ma non in silenzio!
Le pietre lanciate oggi su Marzouki, le sedi di Ennahdha assaltate continuamente dal movimento tunisino, e le quotidiane rivolte che attraversano il paese (che nessun media occidentale raccontano più!) mostrano da una parte la debolezza delle transizioni democratiche affidate alla corrente dei fratelli musulmani dalla Casa Bianca e dalla UE, e dall'altra la continuità, modulata secondo un livello estensivo della lotta, del movimento rivoluzionario in Tunisia (ma lo stesso discorso e con manifestazioni ancora più eclatanti vale per l'Egitto. […]
dicembre 2012, da infoaut.org


AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
CIE DI C.SO BRUNELLESCHI, TORINO
30 novembre. Presidio di solidarietà promosso dalla Samba Band nel giorno del suo decimo compleanno (la prima uscita fu il 30 novembre 2002 proprio sotto le mura di corso Brunelleschi). La risposta da dentro è stata immediata, dando vita ad una protesta collettiva, cercando di sfondare le porte delle gabbie, salendo sui tetti delle sezioni ed interagendo coi solidali fuori. Però immediato è stato anche l’intervento della polizia con il modello Valsusa, che dall’estate 2011 in poi è stato applicato spesse volte anche dentro ai CIE: manganelli, idranti, lacrimogeni. Alcuni prigionieri rimanevano sul tetto, mentre fuori c’era un via vai di ambulanze, cinque feriti. Dopo un’ora e mezza i solidali hanno sciolto il presidio a causa dell’aumento della violenza della polizia e del clima abbastanza teso.
7 dicembre. Una quarantina di persone ha fatto irruzione in una sala del Liceo scientifico Cairoli, dove era in corso una conferenza organizzata dall’International University Collage of Turin, in cui veniva presentato uno studio sui diritti umani nel CIE di Torino. I 40 sono entrati nella sala mentre parlava il colonnello della Croce Rossa militare Antonio Baldacci, direttore del Cie di Torino e hanno interrotto la sua relazione urlando slogan al suo indirizzo tra cui “Assassino, assassino”. La polizia presente in sala ha controllato che le discussioni non degenerassero (non è intervenuta ulteriormente perché si trattava di una sede universitaria). Dopo circa 40 minuti i manifestanti se ne sono andati.
9 dicembre. Un anarchico di Torino porta al CIE un pacco contenente vestiti, cibarie e banane con all’interno seghetti da ferro, naturalmente visti dal metal detector. L’anarchico è stato denunciato dalla polizia per porto abusivo di armi ed oggetti atti ad offendere e per istigazione a delinquere.
14 dicembre. Nel pomeriggio una trentina di solidali si raduna fuori dalle mura, alcuni reclusi di diverse sezioni salgono sui tetti e incendiano materassi. Palloni da calcio e palline da tennis vengono lanciate oltre le mura, e un piccolo falò viene acceso sul marciapiede. La polizia interviene con gli idranti per spegnere gli incendi sui tetti e, a quanto pare, un muro interno dell’area rossa viene buttato giù per ricavarne pietre da gettare agli sbirri. A protesta terminata, la polizia perquisisce l’area rossa alla ricerca di pezzi di vetro e, poco dopo, nell’area blu i reclusi lanciano bottiglie contro le guardie.

CIE DI VIA LA MARMORA, MODENA
25 dicembre. Tramite palline da tennis, con all’interno un messaggio, lanciate dentro al CIE, da mani ignote, giunge la notizia ai reclusi di un imminente liberazione prevista per natale. Nei bigliettini c’era la dicitura ‘Liberi Tutti’ ed un numero telefonico. Forse una mal interpretazione di quel ‘Liberi Tutti’, ma di fatto quel giorno non succede nulla e gli animi si scaldano dando vita nella notte ad una rivolta. I prigionieri hanno iniziato ad inveire contro gli aguzzini presenti. Tre reclusi presi dalla disperazione hanno tentato il suicido impiccandosi, sono stai soccorsi in tempo e portati in infermeria. A notte fonda tutto ritorna all’infernale tranquillità. Il giorno dopo giunge notizia dell’inizio di un nuovo sciopero della fame.
CIE DI BARI PALESE
17 dicembre. Una folta delegazione di giornalisti e avvocati ha potuto visitare il CIE di Bari, in concomitanza con la Giornata Mondiale del Rifugiato del 18 dicembre. Un video di oltre sei minuti con interviste realizzate all’interno del Cie di Bari è stato pubblicato dal sito web di Repubblica.
A visitare il Centro di Identificazione ed Espulsione barese sono stati attivisti dell’associazione Class Action Procedimentale e giornalisti aderenti alla campagna LasciateCIEntrare. L’avvocato Luigi Paccione, dell’associazione Class Action Procedimentale, ha chiesto la chiusura del centro. Il tribunale di Bari, a rilento, sta esaminando la questione. Ai primi di dicembre c’è stata la terza udienza, ora si attende la decisione finale. Per questa visita naturalmente gli aguzzini si sono dati da fare per camuffare il degrado di quel luogo, come accendere i riscaldamenti e passare dell’intonaco per nascondere la muffa. Attualmente ci sono 108 reclusi, tutti uomini molto giovani, alcuni provenienti dal carcere. Ci sono otto blocchi, alcuni in ristrutturazione. Finestre con grate, senza tapparelle, che si affacciano ad un cortile circondate da altre sbarre e muri altissimi. Non ci sono sedie e non c’è mobilio, solo dei loculi in muratura dove poter riporre oggetti personali. Un giovane dichiara di aver voluto partecipare all’ultima sanatoria, ma il datore di lavoro gli ha chiesto seimila euro, impossibile per lui. Un altro è in Italia dal 2004 ed ha sempre lavorato in nero ed ora è lì dentro da quattro mesi. Un blocco porta i segni di un vecchio incendio, con il soffitto nero, memoria di una rivolta e segno della rabbia e dell’ingiustizia subita. Personalità forzatamente alienate attraverso la somministrazione elevata di psicofarmaci e calmanti, utili a placare la rabbia e le rivolte. Molti lamentavano un continuo e insopportabile prurito che faceva pensare ai sintomi della scabbia. Altri lamentavano l’assenza di libri, di biro e di fogli, di asciugamani puliti e molti perché senza risposta il perché di queste torture.

CIE DI GRADISCA D’ISONZO (GO)
12 dicembre. Gravi atti di autolesionismo si susseguono per avere una possibilità di uscire da quelle mura. Cocktail di farmaci, pezzi di vetro e batterie dei telecomandi ingurgitati nella notte, quando la guardia si abbassa, ai primi sintomi di malore bisogna sbraitare per attirare l’attenzione degli aguzzini, che chiamano il 118; se succede prima delle 19, il recluso viene portato all’ospedale di Gorizia, ma se succede dopo le 19, si può andare solo all’ospedale di Udine o di Trieste, in quanto a Gorizia il reparto di gastroenterologia chiude alle 19.

CIE DI PONTE GALERIA (ROMA)
6 dicembre. Ogni anno stessa situazione, d’estate l’emergenza caldo, d’inverno l’emergenza freddo con impianti non funzionanti per mancanza di manutenzione ordinaria. Dieci giorni senza acqua calda e riscaldamento in condizioni precarie. La rabbia sfocia nell’incendio di alcuni oggetti, danneggiamenti alla struttura e purtroppo, per alcuni, in atti di autolesionismo e per altri con l’inizio dello sciopero della fame. Attualmente sono reclusi 136 uomini e 58 donne.

PISA
18 dicembre. Anche a Pisa il 18 Dicembre è trascorso all’insegna dell’”emergenza Nord-Africa”. Alcuni profughi, “ospiti di un centro di accoglienza della Croce Rossa”, si sono letteralmente auto-invitati ad un’iniziativa organizzata dalla Provincia.
Hanno chiesto la parola, e hanno denunciato le condizioni in cui vivono da più di un anno: “Il nostro ‘centro di accoglienza’”, si legge nel documento diffuso ai presenti, “ha due bagni funzionanti più altri due senza luce e acqua calda. Siamo in venticinque e la mattina facciamo la fila per andare in bagno. Siamo alloggiati dentro dei container, le nostre stanze sono piccole e ci dormono molte persone; quando piove entra l’acqua dal tetto e abbiamo dovuto occuparci da soli della riparazione tramite dei pezzi di plastica”.

TRAPANI
28 dicembre. Si è svolto un corteo e presidio davanti al Palazzo Cavarretta, sede del consiglio comunale, organizzato da pochi antirazzisti (Rifondazione Comunista, Circolo Arci Malatesta e gli anarchici dell’Andrea Salsed) per ricordare i 6 morti nel rogo del 1999 al CIE di Serraino Vulpitta, per tutti i migranti vittime delle frontiere e per chiedere l’abolizione delle leggi razziste (Turco-Napolitano, Bossi-Fini, Paccchetto sicurezza). Uno dei superstiti racconta come si svolsero i fatti all’epoca, con le guardie che dicevano di non avere le chiavi, e che, una volta scoppiato l’incendio, sopraggiunsero con un estintore piccolo, evidentemente inadatto allo scopo. Le fiamme vennero appiccate dagli stessi reclusi, dopo che erano stati catturati mentre tentavano la fuga e picchiati forte, senza avere poi avuto assistenza medica. Gli atti del processo risalgono al giugno del 2003, naturalmente il Prefetto di Trapani è stato assolto. Quest’estate il centro prigione è stato chiuso, ma è possibile che dopo una serie di lavori sarà riaperto (speriamo non avvenga) e comunque sul territorio c’è quello di Trapani Milo, sovraffollato, dove le fughe sono all’ordine del giorno e dove è aperta un’inchiesta per irregolarità nell’appalto per la gestione della struttura. Altroché irregolarità, di fondo sono strutture di tortura legalizzate.
Attualmente sono chiusi il CIE di Trapani Serraino Vulpitta, il CIE di Lamezia Terme ed il CIE di Brindisi. Potrebbe trattarsi di chiusure temporanee per lavori di ristrutturazione e di adattamento, o per riparare i danni subiti nel corso di qualche rivolta, ma intanto continuano le torture negli altri CIE, continuano ad esserci morti alle frontiere, continua la manovalanza sfruttata e continuano le leggi razziste.

Milano, dicembre 2012


Germania: Sulle azioni di protesta dei profughi negli ultimi mesi
Dalla marcia di protesta all’occupazione di un’ambasciata
Dopo il “suicidio” di Mohammad Rahsepar (iraniano), avvenuto nella primavera del 2012 nel lager per profughi installato presso Wuerzburg, soprattutto profughi iraniani e iracheni si sono organizzati per protestare contro le condizioni imperanti. Hanno iniziato ad abbandonare i luoghi d’asilo assegnati loro dalla polizia; hanno dato vita ad una tendopoli nel centro di Wuerzburg e a uno sciopero della fame. La protesta si è immediatamente estesa a altre città (Aub, Bamberg, Norimberga, Passau, Regensburg, Osnabrueck, Duesseldorf e Berlino) ed è stata ripresa da profughi di altri paesi. Le richieste avanzate sono: “abolizione dell’obbligo di dimora, blocco immediato delle espulsioni, basta con l’alloggiamento forzoso nei lager e diritto al lavoro”.
L’abolizione dell’obbligo di dimora metterebbe fine in Germania alle gabbie invisibili, tenute sempre pronte per profugh* e per chi richiede asilo. In Europa esiste una regola secondo la quale chi è profugh* deve soggiornare nel distretto assegnato. Chi supera i confini di quel distretto commette un reato. In questo modo vengono artificialmente alzati i numeri della criminalità caricata sulle spalle di profughi e richiedenti asilo, giustificate e semplificate le espulsioni. Inoltre, così chi è profughi viene tenuto isolato dalla società di maggioranza tedesca. Uno scambio fra profughi e tedeschi è in tal modo pressoché impossibile. Un rapporto che lo stato tedesco proprio non vuole, anche per riuscire a compiere senza difficoltà le espulsioni.
In settembre (2012) le/i profughi di Wuerzburg, Duesseldorf iniziarono una marcia di protesta, mettendosi in cammino a piedi e con pullman verso Berlino, allo scopo di dare rilievo alle loro richieste. Lungo il percorso si unirono ad essi altri profughi di altri lager. Con questa marcia è stato possibile raggiungere per la prima volta una grossa pubblicità. La marcia è stata il tramite per infrangere coscientemente l’obbligo di dimora e l’alloggiamento forzato nei lager. L’associazione “Rassismus Toetet” (Il razzismo uccide) sulla protesta, poco prima del suo arrivo a Berlino-Kreuzberg avvenuta il 6 ottobre 2012: “Questa protesta autorganizzata contro le pratiche razziste dello stato tedesco è, allo stesso tempo, una sollevazione contro la morte lenta nei lager tedeschi e la compartimentazione dell’Unione Europea (UE) verso l’esterno, che determina la morte di migliaia di esseri umani”.
Con questa consapevolezza il 13 settembre, una settimana dopo l’arrivo della protesta, a Berlino si è svolta da Oranienplatz (situata nel quartiere Kreuzberg) al Bundestag (parlamento) una grossa manifestazione antirazzista, per l’abolizione dell’obbligo di dimora… un corteo composto per lo meno da 6mila persone.
Il 15 ottobre profugh* e attivist*, attendati nell’Oranienplatz decidono di occupare l’ambasciata della Nigeria. Questa azione e altre successive vengono però accompagnate dalla massiccia presenza e violenza della polizia. In venticinque, fra chi entra e rimane fuori a dare sostegno, verranno arrestati.
(La Nigeria è uno dei tre stati africani che coopera strettamente con la Germania e l’UE, riguardo all’espulsione di profughi neri verso l’Africa nera. Ogni mese hanno luogo “consultazioni” per stabilire origini e identità delle persone nere fermate. Queste “consultazioni” si svolgono nei luoghi d’asilo e nei lager; abitualmente durano pochi minuti, che si conclude con il pagamento di Germania e UE alla Nigeria di 500 (cinquecento) euro per ogni persona identificata e espulsa).
In quindici, fra profugh* e attivist* nel pomeriggio del 15 ottobre riescono a entrare dunque nell’ambasciata della Nigeria. La polizia interviene dopo pochi minuti per lo sgombero, con arresti, manganellate. Nasce una manifestazione spontanea che si mette in movimento verso la base di Oranienplatz, facendosi largo fra la polizia che cerca di impedirla. Quel luogo viene raggiunto da altr* compagn*. Si forma un corteo di oltre 500 fra profugh* e attivist*. L’obiettivo è andare assieme al commissariato e all’ospedale per tirare fuori chi la polizia invece è intenzionata ad arrestare. Alla fine la polizia accetta che una delegazione del corteo entri nel commissariato per uscirne poco dopo con tutt* le/i fermat*; lo stesso éscamotage funziona per le visite a chi è stato ricoverato. La giornata di lotta riesce così ad avere una buona conclusione.
Il giorno successivo è ripreso lo sciopero della fame da parte delle/dei “Profughi in protesta alla porta di Brandeburgo”, mirato a ottenere:
- riconoscimento a tutti i richiedenti asilo della condizione di perseguitati politici;
- blocco di tutte le espulsioni;
- cancellazione dell’obbligo di dimora;
- basta con i controlli e l’alloggiamento forzato nei lager, ma alloggio in abitazioni.

da “Gefangenen Info”, novembre 2012 e www.thevoiceforum.org



Francia: solidarietà con la lotta nella prigione di Roanne
Nell’aprile 2012, alcuni prigionieri inviano al magistrato di sorveglianza ed al direttore della casa di reclusione di Roanne [dipartimento della Loire, regione Rhône-Alpes, NdT], in forma anonima, una lettera di rivendicazione nella quale esigono un certo numero di misure, che rimettono in questione il funzionamento e l’esistenza stessa della prigione, in particolare: la fine dell’isolamento, del tribunale interno alla prigione, del quartiere disciplinare, dei regimi chiusi, che sono i mezzi di pressione e repressione di cui dispone l’Amministrazione Penitenziaria. Menzionano anche il sistema del racket della spesina, lo sfruttamento nelle officine di lavoro, le restrizioni per ciò che riguarda i colloqui, etc. Questa lettera ha larga diffusione e viene volantinata davanti a questa prigione e ad altre. C’è anche un presidio solidale, fuori.
Quello stesso weekend, la stampa riporta diverse notizie: il tentativo di suicidio di un prigioniero, un altro che è accusato di aver buttato un frigo sui sorveglianti. Chiedeva spiegazioni sul perché gli era stato impedito, diverse volte, di uscire al passeggio. Viene duramente pestato da molti secondini, si becca un mese d’isolamento, poi passa in processo al tribunale di Roanne. Vi è condannato a due anni di prigione supplementari.
Poco tempo dopo, una lettera pubblica scritta da un prigioniero spiega meglio com’è la vita quotidiana nella casa di reclusione. Nel novembre 2011, questo stesso prigioniero era stato all’origine di alcune petizioni che criticavano, fra l’altro, le perquisizioni ai colloqui e lo sfruttamento nelle officine di lavoro. Come conseguenza, la direzione lo aveva messo in isolamento per 3 mesi, poi lo aveva tenuto 5 mesi in regime chiuso. Per finire, quando il rumore fatto intorno alla sua situazione è diventato scomodo per l’amministrazione penitenziaria e viene a mescolarsi ad altre vicende, è stato trasferito. La sua lettera spiega, fra l’altro, come l’amministrazione penitenziaria e le guardie ci si mettono per cercare di isolare e spezzare i prigionieri recalcitranti. Nonostante ciò, la resistenza si manifesta sotto diverse forme.
Il 4 luglio c’è un blocco del cortile, che è seguito da un pestaggio da parte dei secondini che intervengono. Alcuni detenuti filmano la scena, altri gettano oggetti sui secondini, solidali con quelli che si sono rifiutati di tornare in cella. Queste ultime persone erano confinate in regime chiuso ed il blocco arriva quando l’AP ha deciso l’ennesimo cambiamento per quanto riguarda gli orari del passeggio. Qualche giorno dopo, il video viene largamente diffuso su internet, accompagnato da una lettera esplicativa scritta dai prigionieri.
Qualche volta, la stampa ufficiale ha parlato di questi avvenimenti, pubblicando anche una parte della lettera di rivendicazione ed il video del blocco, cosa, questa, che ha fatto circolare di più le informazioni. La stampa ha però sempre messo in avanti il punto di vista dei sindacati dei sorveglianti e dell’amministrazione penitenziaria.
Pochi giorni dopo, in città vengono incollati dei manifesti che raccontano del blocco e, in particolare, fanno i nomi dei secondini che hanno pestato i prigionieri. Ciò fa scandalo, i giornali riprendono questa storia, quindi tutti i prigionieri ne vengono a conoscenza, visto che il giornale viene distribuito gratuitamente in prigione (anche se proprio quel giorno viene censurato).
Il giorno dopo, i secondi dichiarano che si sentono in stato d’insicurezza. Gli ERIS [i GOM francesi, NdT] prendono il loro posto; i prigionieri restano chiusi in cella tutto il giorno, passeggio ed attività vengono soppressi, i colloqui sono ritardati e per qualcuno soppressi, i pasti serviti in ritardo, etc. I sorveglianti vengono insultati e minacciati da numerosi prigionieri arrabbiati, ci sono diversi tentativi d’incendio, il blocco di un piano, la casa di reclusione è in ebollizione. Poi la routine riprende il suo corso.
L’estate, c’è una piccola manifestazione selvaggia a Lione, in solidarietà con le lotte dei prigionieri. Viene distribuito un volantino, la sede locale dello SPIP (quelli che si occupano della re-inserzione) viene vandalizzata.
Alla fine dell’estate, sul tribunale di Roanne compare una scritta, con il nome di un graduato dei secondini, seguito da: “vuoi degli infami, non avrai che il nostro odio, fuoco alle prigioni”.
Qualche tempo dopo, davanti al tribunale vengono ritrovati dei dispositivi incendiari; uno ha danneggiato la porta d’entrata del tribunale, l’altro non ha funzionato. Questi fatti compaiono nel giornale locale, che li mette in relazione con quanto successo nella casa di reclusione.
Sempre in settembre, uno dei prigionieri che aveva partecipato al blocco del passeggio durante l’estate esce di prigione. Parla del blocco, spiega anche che, a fine estate, è stato nominato un nuovo maggiore, che ha irrigidito la gestione della prigione. Ciò, vigilando sull’applicazione letterale del regolamento interno, cosa che ha come conseguenza che molti prigionieri passano in commissione disciplinare (oppure davanti al tribunale interno della prigione) per delle stupidaggini come fumare o mangiare nei corridoi. Vengono anche fatte delle perquisizioni di massa delle celle, cosa che ha grosse conseguenze. Tensione permanente, perdita di fiducia nei legami fra prigionieri, rinvii davanti al tribunale interno che generano pene che vanno da alcuni giorni d’isolamento con la condizionale, fino a mesi di prigione che si aggiungono alle vecchie condanne; ciò a causa di un po’ di fumo, dei telefoni o dei caricabatterie, delle chiavette USB od altri oggetti trovati in cella e vietati all’interno della prigione.
Ne è un esempio la situazione di una donna che si è presa 10 mesi di galera supplementari, più 14 mesi con condizionale, per il possesso di un cellulare.
L’amministrazione penitenziaria ha certamente altre armi dalla sua per cercare di far regnare la paura e la sottomissione. Cercare ed utilizzare degli infami, far vedere la carota (permessi di uscita, possibilità di libertà condizionata, sconti di pena), oltre al bastone, che usa bene.
Nell’autunno, nella città di Roanne, viene attuato un blocco stradale in solidarietà con i prigionieri in lotta e 500 volantini vengono distribuiti nelle cassette delle lettere della città. Essi precisano, in particolare, chi sono quelli che fanno funzionare la casa di reclusione e quale posto essa ha nella città. Ad inizio dicembre, un furgone della Eiffage [la grande impresa di costruzioni che è proprietaria dell’edificio della prigione; si tratta del primo caso in Francia di cogestione pubblico-privato delle carceri, NdT] viene incendiata e dell’olio per motori viene versato davanti alla prigione, prima dell’ora del cambio mattutino dei secondini.
L’amministrazione penitenziaria vuole isolare le persone che resistono e soffocare le informazioni che potrebbero uscire dalle mura. Per questa ragione, essa vieta l’ingresso di alcuni giornali, o quello del quotidiano locale in funzione delle informazioni che contiene.
Ma le testimonianze e le informazioni varie che arrivano da dentro e fuori la prigione circolano, per quanto possibile, sui media alternativi e vengono in particolare ripresi da emissioni radio anticarcerarie.
L’amministrazione penitenziaria cerca con ogni mezzo di schiacciare quelli che non chinano la testa, moltiplicando gli attacchi, dentro. Isolare nel quartiere disciplinare oppure attraverso dei trasferimenti, pestare, mantenere in stato di carenza, aggiungere mesi o anni di prigione, essi fanno il loro sporco lavoro e ne hanno tutto i mezzi. In questo modo, vogliono spaventare e sottomettere tutti i prigionieri. Nonostante ciò, la resistenza si manifesta quotidianamente, in maniere diverse (rifiuti di tornare in cella, rifiuti di obbedire agli ordini, sabotaggi vari, come la cassetta delle lettre dei secondini, che serve per raccogliere i buoni spesa della Eurest, che si trova riempita di escrementi), etc.
Siamo solidali con coloro che resistono e vogliamo renderli più forti!
Per distruggere tutte le prigioni, per non lasciare in pace i bastardi!
Perché quelli che resistono (ed i loro boia) sentano che hanno del sostegno fuori. Per influire su questo rapporto di forze in tensione permanente, ogni iniziativa è la benvenuta!

ripreso da Indymedia Nantes, 30 dicembre 2012
in informa-azione.org


Lettera dal carcere di Alessandria
Ciao, innanzitutto volevo salutarti e sapere come stai, spero bene.
Io sono al Don Soria e ho trovato dei buoni compagni di cella. Il carcere non è dei migliori (anzi, è punitivo!), però in cella si stava fino a sabato mattina 15 dicembre (2012). Alle 7,45 mi sono alzato per andare al bagno. Qui ho trovato un mio compagno di cella, marocchino (quindi mio paesano che abita a Torino) steso per terra mezzo nudo vicino al wc (probabilmente intento a fare pipì). Ho subito chiamato i miei compagni di cella quindi anche un italiano di nome Paolo, che ha tentato di rianimarlo in qualche maniera. Nel frattempo scongiuravamo l’appuntato di turno di aprire la cella e di chiamare il soccorso. La guardia ha esitato parecchio, poi a furia di insistere ha chiamato i suoi colleghi che ci hanno ordinato di portarlo giù in infermeria (cosa più che sbagliata). Dopo di che ci hanno fatto uscire dall’infermeria, hanno perquisito la cella (dove non hanno trovato nulla), poi non abbiamo saputo più nulla, anzi quando abbiamo chiesto informazioni ci hanno detto che il nostro cancellino stava bene; che si era sentito male solo a causa di un mix di farmaci. Alla santa messa di sabato il prete alla fine ha solo detto: “è mancato un nostro fratello”.
Cercano di tenere tutto nascosto. Non è stato un mix di farmaci a ucciderlo, ma bensì una terapia sbagliata (gliela avevano appena sostituita), che probabilmente non era compatibile con il suo fisico.
Ora ti chiedo solo di pubblicare il tutto perché lo hanno trattato come se fosse morto un animale. E soprattutto vogliono mettere tutto a tacere altrimenti passerebbe dei guai il carcere, soprattutto l’appuntato di turno. Sicuramente anche all’infermeria o allo psichiatra non gli darebbero una medaglia. Ora mi domando e dico: perché quando sbagliamo noi dobbiamo pagare con mesi di carcere, e quando invece sbagliano loro devono “insabbiare” il tutto per pararsi il “culo” (scusa la parola). Valuta la cosa, però preferirei che tu la pubblicassi di modo che paghino per quello che hanno fatto. Ti saluto e ti ringrazio da parte dei miei compagni di cella (italiani e marocchini), spero che le tue parole servano a qualcosa…

gennaio 2013


LETTERA DAL CARCERE DI SALUZZO (to)
Ciao carissimi compagni, chi vi scrive è un compagno di Maurizio Alfieri. Maurizio mi ha parlato molto bene di voi e allora mi sono sentito di prendere carta e penna e scrivermi la mia sofferenza.
Mi chiamo Santo, sono di Catania, vivo a Milano e ho 38 anni. In questo momento sto passando dei momenti brutti e molto tristi per la morte di mio padre. Ma questo mi dà più forza per combattere il mio problema e spero che la mia testimonianza spingerà qualcuno ad aiutarmi e a fare sentire la mia voce tramite voi compagni e Internet.
Io sono portatore di bendaggio gastrico, pesavo 188 kg, ne ho persi più di 80 e ho bisogno di controlli periodici specializzati presso il policlinico di Milano (padiglione Zonda, dottor Mozzi). Dovrei andare ogni 6 mesi per come hanno dichiarato i periti in sentenza. Ma è da giugno 2011 che non faccio controlli.
Sono stato accusato sulla base di "voci confidenziali" ritenute attendibili di essere mandante, capo sommossa e capo promotore di rivolte ecc. ecc. E mi trovo in isolamento da dicembre 2011 come un cane. Mi hanno sanzionato con gli articoli più gravi (art. 3,4,5 e 39 OP) e applicato la G.S.C. (Grande Sorveglianza Custodiale) da reato comune. Tutto ciò perché ho lottato per i mie diritti alla salute.
Ogni 6 mesi mi trasferiscono senza darmi cure né spiegazioni (da Catania a Caltagirone, Caltanisetta, Trapani, Favignana, Ucciardone, S. Vittore, Opera, Biella e ora Saluzzo).
Ora è da marzo 2012 che aspetto un'operazione all'epidermide cutea DX, è per questo che se ne lavano le mani perché abbiamo fatto denuncia per danni permanenti e si spaventano ad operarmi.
Ho scritto a Riccardo Arena (radio carcere) con tutta la documentazione ma siccome il tutto scotta non ha fatto niente perché c'è da combattere per gli abusi che sto ricevendo, ma io li affronto giorno per giorno sì che loro hanno paura perché io mi faccio rispettare.
Spero che avrò la solidarietà dei vari compagni così mi faranno compagnia e potremo combattere assieme per i nostri ideali che sono la libertà di uomini liberi.
Ora vi saluto con affetto e stima. Il vostro compagno carcerato, Santo Galeano

Maurizio ci informa che Santo (il quale aveva accluso alla lettera la documentazione medica e il cui stato di salute è ancora peggiore di quanto non emerga dalle sue parole) è stato di nuovo trasferito, ma non sappiamo ancora dove. Lo comunicheremo appena possibile.


Da Tolmezzo a Roma
Il 21 dicembre 2012 una cinquantina di compas per oltre due ore hanno portato in strada a Roma, quanto sta avvenendo nel carcere di Tolmezzo. Il presidio diretto contro il DAP doveva svolgersi davanti al ministero della Giustizia, ma lo hanno “autorizzato” circa un centinaio di metri distante da quella roccaforte. Al termine, si è tentato un corteo impedito da diversi furgoni di polizia e carabinieri. In ogni caso si è riusciti con megafono, striscioni, volantini a prendere pezzi di marciapiede, a rendere pubblico l’accanimento delle guardie, le loro violenze intimidatrici, assassine, pilotate dal DAP, dalla direzione locale. Il DAP assieme a chi dirige la galera di Tolmezzo, si è pericolosamente montato la testa: architetta “biciclette”, aggressioni, persino a mano armata, per tentare di imporre la tristezza che ognuno si chiuda in cella e pensi a se stesso, ingoi la droga del “carrello della terapia”, si addormenti, si distacchi dagli altri e così cada nelle loro braccia. Questo è il clima instaurato là dentro, come ci comunicano chiaramente le lettere dei prigionieri; ecco brani di queste lettere.
Da una lettera uscita a metà ottobre 2012: “Un comandante a fine discussione mi ha riaccompagnato in cella e con voce melliflua mi propinava consigli paternalistici in modo da conquistarsi la fiducia del neo carcerato. Il puzzo del compromesso mascherato di legittimità usciva dalla sua bocca di fogna, forse credeva di trovare un ragazzetto spaurito! Voleva convincermi che i sobillatori come Alfieri [Maurizio, da mesi in isolamento in quel carcere, dove è divenuto un solido riferimento, ndr] sono dannosi per la mia carcerazione. I rotti in culo come quel brigadiere sono dannosi per la mia carcerazione! Ho apprezzato molto la vostra manifestazione e il vostro appoggio morale; non soffro per i 5 mesi di isolamento, soffro per le iniquità che vedo scorrermi davanti come un fiume in piena, credono che con le minacce dette o bisbigliate, possono piegare la volontà, anche se fossi il peggior carnefice sulla terra. Con questi metodi non potrebbero di certo redimermi, non hanno ancora capito che un uomo non si migliora per la paura dell'inferno, ma si migliora contemplando il paradiso.”
Da una lettera di Maurizio (Alfieri) uscita invece a metà novembre 2012: “L'ultimo fatto ignobile e deplorevole che ho sentito e saputo mi fa venire il voltastomaco; se l'ispettore che ha detto a Bouzian [un ragazzo arabo solidale con le proteste, in quei giorni colpito alla gola con un coltello da un “sicario”, ndr] di essere stati voi a farlo colpire alle spalle e che fra poco toccherà a me, vi dico con sincerità che io non ho paura di niente e di nessuno. Anzi, auguro all'ispettore o chi per lui che il delatore che deve venire non sia solo, che si assicuri di portare a compimento la sua opera, soprattutto di non pagarmi, perché io la galera non la auguro nemmeno al più infame del mondo, in caso contrario, cioè che non riesca nella sua sporca opera, credo che con tutti i detenuti e amici che mi vogliono bene e mi rispettano avrà vita dura, non solo qui, ma dovunque esso o essi andranno.”
Segue il volantino diffuso dal presidio.

***
DA ROMA A TOLMEZZO PERCHE’ NESSUNO E’ SOLO, PERCHE' NESSUNA E' SOLA
Da alcuni mesi, attraverso numerose corrispondenze e la determinazione dei detenuti del carcere di Tolmezzo (Udine) siamo a conoscenza delle infamie praticate abitualmente in quelle mura da parte dei carcerieri.
I prigionieri che si sono più esposti, chiedendo di far circolare all’esterno le notizie dei continui pestaggi delle “squadrette speciali”, dell’isolamento punitivo, delle aggressioni e le minacce fisiche e psicologiche da parte del brigadiere di turno, hanno subito la rappresaglia della Direzione del carcere.
Ciò che vorrebbe schiacciare e dividere non ha fatto altro che rafforzare la solidarietà, sia dall’esterno che tra i detenuti stessi. Percorsi di vita che s'intrecciano: un presidio solidale di fronte alle mura di Tolmezzo, uno sciopero del carrello contro l'isolamento e in solidarietà con i compagni anarchici imprigionati nel regime AS2 del carcere di Alessandria, i numerosi e spontanei gesti di ribellione alle guardie…
La complicità che allontana la paura. La consapevolezza che ogni azione di rifiuto, di non sottomissione, di denuncia, è uno strumento importante nel percorso di liberazione di tutti e tutte.
Ma nelle brutalità venute alla luce dall’inferno di Tolmezzo si rispecchiano le storie di tantissimi detenuti e detenute di diverse carceri della Democrazia. In Italia, come altrove, lo Stato, per sua natura, reprime anche attraverso l’utilizzo sistematico della violenza.
Niente da chiedere a chi ci opprime. Agire in prima persona invece.
Rompere il silenzio, spezzare l’isolamento, non lasciare nessuna, nessuno solo nella lotta per la libertà. Per un mondo senza galere.

***
MAURIZIO ALFIERI TRASFERITO NEL CARCERE DI SALUZZO (CUNEO)
Apprendiamo che il 18 dicembre Maurizio Alfieri è stato trasferito dalla sezione di isolamento del carcere di Tolmezzo alla sezione di isolamento del carcere di Saluzzo. Chiamato al mattino in matricola e accompagnato da 6 o 7 guardie aveva capito subito che c'era qualcosa di strano. Dopo qualche ora di sosta in una celletta vuota, Maurizio viene portato in una saletta dove trova tutti i suoi vestiti buttati a terra e dove viene fatto spogliare e perquisire, mentre il comandante insulta i compagni che avevano partecipato al presidio di solidarietà perché avevano fatto il suo nome al microfono. Dopo un po' il comandante Raffaele Barbieri arriva con un coltello di ghisa nero lungo circa 30 centimetri e accusa Maurizio, sulla base di una dichiarazione scritta di un delatore, di averlo nascosto nella sua cella. Maurizio risponde che a trovarlo è stato chi lo ha nascosto e che la dichiarazione dell'infame (una doppia merda, visto che nei suoi confronti Maurizio è sempre stato generoso e solidale!) è stata concordata con la promessa di un lavoro e della salita in sezione. Dopo di che Maurizio viene trasferito senza nemmeno poter raccogliere vestiti, fornello, cibo, radio, buste, francobolli ecc. Nel cellulare ci sono sette guardie e un fuoristrada con altre quattro lo segue. Gli dicono che la destinazione è Trani, ma alle ore 24,00 si ritrova a Saluzzo, in isolamento. Qui Maurizio ha potuto contare sulla solidarietà degli altri detenuti, che si ricordano del compagno NO TAV che era stato lì e del presidio di solidarietà che si era svolto all'esterno.
Maurizio si trova ora con dieci sanzioni disciplinari di 15 giorni di isolamento ciascuna, espressione della rappresaglia e delle ritorsioni nei suoi confronti da parte della direzione del carcere di Tolmezzo per tutte le denunce e le lotte da lui fatte. Tra l'altro, sia detto tra parentesi, una guardia che denuncia un prigioniero non dovrebbe poi "prestare servizio" nella stessa sezione del detenuto, mentre Maurizio ha accumulato fino a 6 denunce (per 90 giorni di isolamento) da parte di due guardie, rimaste sempre allo stesso posto. Che la direzione del carcere di Saluzzo decida o meno di farsi complice delle ritorsioni decise a Tolmezzo dipenderà, come sempre, anche dalla solidarietà che si svilupperà all'esterno. Maurizio, quanto a lui, non abbasserà certo la testa.
Maurizio ci informa anche che poco prima di essere trasferito stava raccogliendo delle firme in solidarietà con i compagni in AS2 ad Alessandria. Ringrazia poi uno ad uno, una ad una, tutti quelli e tutte quelle che gli hanno scritto. "Sono riuscito a portarmi la posta e ci tenevo ad abbracciarvi tutti/e al mio cuore compagni/e per dirvi che il vostro calore e la vostra vicinanza non mi fanno mai sentire solo. Vi voglio bene e vi abbraccio fraternamente, Maurizio".
Maurizio ha espresso il desiderio di ricevere libri e pubblicazioni sull'anarchismo.
Per scrivergli:
Maurizio Alfieri, via Regione Bronta n. 19/bis - 12037 Saluzzo (Cuneo)

3 gennaio 2013, da informa-azione.info


Resoconto del capodanno sotto il carcere di Tolmezzo
Come una buona vecchia tradizione vuole, alcuni di noi hanno trascorso la notte di Capodanno sotto un carcere.
Quest’anno il carcere non poteva che essere quello di Tolmezzo. Anche se a poche settimane dalla fine dell’anno, intorno al 20 dicembre, Maurizio Alfieri è stato trasferito a Saluzzo (CN), abbiamo deciso di mantenere l’appuntamento a Tolmezzo perché lì rimangono le decine di detenuti che ci scrivono e con i quali vorremmo allacciare rapporti per poterli supportare nella lotta.
Di sicuro l’allontanamento di Maurizio è un tentativo di affievolire il percorso intrapreso a Tolmezzo, un carcere in cui è nata una conflittualità condivisa da più detenuti e che non deve tornare ad essere la tomba dove prevaricazioni di ogni tipo vengono perpetrate nel silenzio e nella connivenza di tutti gli “organi preposti”.
Questa volta, considerando i vari presidi sotto le mura per la notte di Capodanno- Bergamo, Cosenza, Como, Monza, Roma, Torino e altri- possiamo dirci contenti di come sia andata l’iniziativa: eravamo una cinquantina di persone; da dentro c’è stata una buona risposta ed è stato possibile comunicare con i detenuti delle celle più in alto – in particolare durante un intervento in cui si è nominato Massimo Russo, aguzzino particolarmente distintosi per le minacce, i pestaggi, i dispetti , i detenuti hanno fatto sentire bene cosa pensano di questa merda di uomo; abbiamo salutato in modo particolare chi ci ha scritto invitandoli a farlo ancora.
E’ stato un saluto caloroso per ricordare che siamo solidali con i detenuti in lotta, un saluto la notte di capodanno per dire che non ci dimentichiamo dei detenuti di Tolmezzo.
A tal proposito però pensiamo che questo carcere avrebbe avuto ed ha bisogno di iniziative più incisive. Ben vengano ad esempio le iniziative come quella organizzata a Roma davanti al DAP. Auspichiamo che non siano iniziative isolate. Detto questo non possiamo non chiederci quale trattamento avrebbe ricevuto Maurizio se il presidio organizzato per lo scorso 24 novembre avesse visto la partecipazione richiesta da una situazione come quella di Tolmezzo in quel momento: dalla aggressione contro Mohamed commissionata dal comandante ed effettuata da un detenuto, ai 115 giorni di isolamento a Maurizio a cui sono seguiti altri 45.
Il presidio era stato pubblicizzato con largo anticipo e con l’attenzione a non sovrapporsi alle altre iniziative di solidarietà che erano state organizzate per Maurizio, per Nicola e Alfredo, per Alessio… era stata rimarcata più volte la necessità di una iniziativa grossa e determinata che facesse capire alla direttrice, al comandante e scagnozzi che non potevano più permettersi le continue angherie, vere e proprie pratiche di tortura.
La solidarietà arrivata da tanti compagni e da tante persone che si occupano di carcere ai detenuti di Tolmezzo, le informazioni circolate in rete su informa-azione, su Radio Black Out di Torino, Radio Onda Rossa di Roma, le iniziative fatte a Trento e Rovereto hanno sicuramente influito sull’andazzo in carcere, tant’è che non ci sono pestaggi da un po’. Alcuni detenuti ci hanno scritto che in altri tempi Maurizio sarebbe stato massacrato.
Ma le rappresaglie della direttrice e del comandante non sono finite, si sono fatte più subdole: il già citato ferimento di Mohamed, i mesi di isolamento a Maurizio e l’ultimo trasferimento di Maurizio a Saluzzo passando da …Trani! Maurizio ha subito 18 ore di viaggio con i secondini che continuavano a provocarlo, che l’hanno trasferito attirandolo fuori dalla cella con l’inganno, portandolo via senza lasciargli il tempo di recuperare le sue cose, tra cui l’abbigliamento pesante, e facendogli credere che l’avrebbero lasciato a Trani, dove lui non voleva assolutamente rimanere avendo i suoi fratelli più cari a Milano.
E ora che Maurizio è stato trasferito, tra l’altro proprio vicino Cuneo, pensiamo sia importante tenere alta l’attenzione su ciò che accade tra quelle mura, supportare maggiormente le iniziative che verranno costruite a Udine e dintorni e portare a casa il messaggio che i detenuti di Tolmezzo hanno lanciato con la loro determinazione, con l’iniziativa di solidarietà agli anarchici rinchiusi ad Alessandria: dentro nessuno, solo macerie!

9 gennaio 2013
Anarchici di Trento e Rovereto
da informa-azione.info


Lettera dal carcere di Spini di Gardolo (TN)
Vi scrivo dal 14° giorno di isolamento (cioè in due mesi ho fatto un mese d’isolamento spezzato in due volte) il primo lo sapete già il motivo [sull’opuscolo n.74, ndr] ma questo è ancora più assurdo! Una mattina, cioè alla conta mattutina, l’ispettore di turno mi ha rotto i coglioni perché non l’ho salutato e io gli ho detto che non ero obbligato a salutarlo. Questo coglione ha iniziato ad urlare e quando ho capito che non me ne fotteva un cazzo ha iniziato a dirmi di staccare i miei cartelli sovversivi che ho attaccato in cella ma ovviamente l’ho mandato a fanculo! Comunque sia mi ha detto che mi avrebbe fatto rapporto… Ed è finita lì! Dopo due giorni ho fatto il consiglio disciplinare con quello stronzo del fascistone (il direttore) e ha iniziato a insultarmi perché sono un anarchico di merda e che quelli come me dovevano morire tutti e poi mi fa: ci vorrebbe Mussolini per voi! Allora mi sono incazzato e gli ho urlato: viva l’anarchia e a morte i fasci! Lui ovviamente mi ha appioppato 15 giorni di isolamento. Il 1° giorno di isolamento sono arrivati quattro servi perché, da quello che ho capito io, volevano menarmi! Poi è arrivato un ispettore e gli ho sentito dire che se mi avrebbero toccato io avrei fatto un casino con sciopero della fame e avrei potuto provocare una rivolta! Ci odiano così tanto ma alla fine hanno una gran paura…
Se avete saputo da Juan [compagno No Tav arrestato il 26 gennaio 2012 e detenuto a Spini di Gardolo, ndr] come funziona qua dentro direi che non è cambiato niente anzi forse è peggiorato. Diciamo che come organizzazione interna è un vero schifo. Juan ha visto l’altro direttore che era una donna, ma adesso c’è un fascistone pieno di lardo seduto ad un tavolo a sputar sentenze peggio di un giudice! Bé diciamo pure che questo carcere “modello” è una vera merda! […]

29 novembre 2012
Giancarlo Garofalo, via Cesare Beccaria, 13 – 38121 Spini di Gardolo (Trento)


Lettera dal carcere di Perugia
Dal lager di stato di Capanne-Perugia, bun anno a tutti voi!
Ciao amici di Ampi Orizzonti e lettori dell’opuscolo, vi scrivo per ringraziare tutte quelle persone che si sono messe in contatto con me, “Liberi” e “Prigionieri”. Purtroppo non ho potuto corrispondere con tutti, ma li ringrazio di vero cuore per la loro partecipazione ai miei sentimenti; quando non sei “solo” è più facile affrontare certe situazioni. Ripeto, avrei risposto a tutti, però le mie condizioni economiche non me lo permettono…
Voglio confessarvi una cosa… Non sono né di sinistra né di destra né tanto meno anarchico. Sono un uomo con tutti i miei pregi (pochi) e i difetti (tanti) che tale status comporta e mi pongo sempre domande su quello che è meglio fare e non nella vita.
Non riesco a collocarmi in quella che la moltitudine di molte persone al mondo considerano, erroneamente,”società”, per questo mi trovo in prigione; ma questo luogo ha un estremo paradosso, specialmente poi per coloro che purtroppo ci “vivono” da parecchi anni, per esempio io da cinque anni e mezzo, qui ritrovi la libertà…
No, non sono matto, almeno qui sei libero di pensare liberamente… E’ proprio questo paradossale… E sì, cari fratelli e sorelle, ho fatto la scoperta dell’acqua calda e mi rivolgo a coloro che stanno al di fuori delle “quattro mura”, vi pongo un domanda e fateci tutta la riflessione che vi pare: “VOI SIETE LIBERI?”. Prima di fare la mia considerazione o osservazione, conclusione (chiamatela come vi pare), vi cito da un comune vocabolario il significato di Libertà: 1) Stato o situazione di chi è libero, specialmente in contrapposizione a ‘schiavitù: concedere la libertà ai servi. 2) Stato o condizione di chi è prigioniero, libertà provvisoria, liberazione concessa all’imputato che si trovi in stato di carcerazione preventiva in considerazione di vari elementi (?).
3) Condizione di chi non subisce controlli o costrizioni. 4) Condizione di chi non ha obblighi, impegni, legami: essere geloso della propria libertà. 5) Atto o comportamento eccessivamente familiare, spesso scorretto o audace; prendersi qualche libertà, delle libertà con qualcuno. 6) Potere che la legge riconosce all’individuo in un determinato ambito…
Rimetto la parola Libertà, seguita dalle altre parole: libertà, prigioniero, controlli, scorretto, costrizioni, obblighi, “determinato” ambito, carcerazione, imputato, schiavitù, servi, impegni, eccessivamente, gelosia…. Mi si accappona la pelle! Questa parolina di 7 lettere eppure così pericolosa? E’ il concetto che è sbagliato. Da quando siamo nati ci inculcano in testa, volontariamente o non, subliminalmente, spudoratamente che il contrario della libertà è cosa pericolosa, tabù, e che professare la propria libertà equivale a mettersi su un rogo e accendersi la fiamma da solo, e tu che vivi nel mondo “credi” di essere “Libero”, (a proposito, andate a vedere, invece, il significato di libero) solo seguendo la fila, la coda, insomma andando dietro ai precursori di coloro che hanno dato significato preciso alla parola libertà, distorcendo e modificando il valore di queste 7 lettere. Sono matto!
Al posto di Libertà metto altre 7 lettere, SCHIAVO, che bene si associano a quanto detto sopra… Ooohh… Mi ci trovo bene ora! Schiavo di passare su una strada, schiavo di pagarti tutte le tue tasse del cazzo, schiavo di pagarti se voglio avere un tetto per ripararmi la testa, schiavo di pagarti se voglio mangiare una mela, schiavo fino a spezzarmi i reni se voglio portare qualche spicciolo agli schiavetti che abitano con me sotto lo stesso tetto, schiavo di dover appartenere a qualcuno o qualcosa, schiavo di comprare una pianta che poi mi voglio fumare (schiavo perché lo devo fare di nascosto), schiavo di “te” che decidi per me cosa devo e non devo fare, schiavo di farmi una tessera, schiavo di quello che decidi di farmi vedere in tv; finisco, ma riflettete voi, su quanti “schiavi” siamo in confronto ai “liberi”.
Ciao, vi voglio bene, Marco Furcinti
Ah… dimenticavo, se non sei schiavo, sei padrone…che belle parole…
p.s.: fatevi una risata e andate a vedere sul “famoso” dizionario il significato della parola schiavo! Vi abbraccio tutti, sorridete!!

dicembre 2012
Marco Luca Furcinti, N.C. v. Strada Pievaiola, 252 - 06132 Perugia


lettera Dal carcere di Velletri (rm)
Carissimi/e, scusatemi per il ritardo nel darvi notizie ma sono stato molto impegnato con scuola e mille paranoie che mi frullano per la testa.
A dispetto del tanto bel parlare che si fa in giro, Severino in testa, qui va sempre peggio. È chiaro che dietro la benevola maschera, si sta solo tentando di ricondurre il problema sovraffollamento carceri, entro limiti fisiologici.
Qui a Velletri il carcere è nuovamente sovraffollato, pur con il nuovo padiglione da 300 posti aperto 3 mesi fa e gli educatori sono stati ridotti a 2 unità su 600 detenuti. Mancanza di carta igienica, acqua ed energia elettrica che vanno e vengono senza ordine logico, acqua fredda nell'unica doccia disponibile in sezione, appartengono alla prassi quotidiana ma senza educatori è troppo.
È la sintomatologia di uno stato italiano in disfacimento, retto dal caos e dal vuoto politico, che noi non siamo capaci di colmare. Senza educatori addio sintesi e relazioni, faccio un esempio: io da otto mesi aspetto che il tribunale di sorveglianza risponda all'istanza da me presentata per ottenere la liberazione anticipata.
La prossima settimana dovrò quindi iniziare uno sciopero della fame, ma mi sorge il dubbio che l'educatore non abbia fatto la relazione e spedito l'istanza. Tanti sono nelle mie condizioni, alcuni sarebbero già nei termini per eventuali benefici, boh!
In compenso, psicologi e psichiatri abbondano, rottinculo ce n'è a volontà.
Altro che decreti sfolla carceri, andrebbero rasi al suolo in modo violento con le nostre mani, con l'aiuto di tutti/e i/le compas all’esterno. Allora si ci sarebbe una presa di coscienza proprio come hanno fatto 45 dei/lle 46 compas, che a Torino hanno deciso di andare a processo con il rito ordinario [processo contro il movimento No Tav, ndr]. Un'azione importante che spero risulti d'esempio a e funga da cavallo da battaglia contro individualismo e atomizzazione.
A tutti/e quei/lle compagni/e, esprimo tutta la mia solidarietà e ringraziamento per l'esempio, certo che la dignità val più dell'arbitrio di un giudice fascista, specialmente quando si tratti di riappropriarsi della propria vita e toglierla dalle mani del nemico.
La mia solidarietà va comunque a tutti/e i/le prigionieri/e rinchiusi/e nelle galere dello stato, attendo inoltre che si decida un'azione collettiva per sollecitare un'indagine nel carcere di Tolmezzo, o si opti per una denuncia. Sono scelte in stile borghese ma non si può non ascoltare il grido d'aiuto venuto da quell'istituto, dopo aver letto le lettere sull'opuscolo. Vi saluto tutti/e di cuore e vi ringrazio per accompagnarmi con la vostra presenza in questa carcerazione.
Un abbraccio fraterno.

2 dicembre 2012
Andrea Orlando, via C. Leone 97 – 0049 Velletri (Roma)


Lettera DAL CARCERE DI TEIXEIRO (spagna)
Ciao, ho ricevuto la tua lettera il 31 agosto 2012 e ho letto sull’opuscolo nr. 72 di agosto la tua lettera… Certo hai ragione che varrebbe la pena aprire un confronto dialettico per trovare forme di lotta comuni, che prendano in considerazione il fenomeno droghe, non solamente nelle carceri, ma bensì fuori (proprio) tra i nostri compagni, perché se non lo facciamo prendiamo il rischio di non essere all’altezza di capire il fenomeno tossicodipendenti qui dentro. Io conosco la realtà spagnola, perché vivo in questo paese da un bel po’ di anni (più di 23) e mi posso permettere un’analisi precisa di come evolve la strategia amministrativa nel diffondere la destabilizzazione sociale, con la diffusione delle droghe, fuori e dentro queste mura.
Quindi non è un problema solo delle carceri, ma soprattutto la conseguenza di quello che non siamo riusciti a risolvere come movimento… Quindi parliamo di droghe se vogliamo lottare in comune… marijuana, hashish, oppio, alcol, trips, anfetamine, cocaina, extasis, ghb, ketamine, pasticche varie, popper, cavallo e le nuove combinazioni, tutto un menù alla portata della nostra triste vita, per vivere nella fantasia quello che non possiamo sperimentare nella realtà (diceva una compagna in una critica scritta).
Si drogano con frequenza, è raro trovare qualcuno che non fuma spinelli o beva alcol, non è difficile trovare chi prenda extasis, coca o anfetamine il fine settimana, tra i compagni anarchici e non, dimenticando questi, che così facendo fanno quello che il sistema vuole: vederci… “drogati e passivi per continuare la repressione sociale”.
Quindi il problema deve essere fronteggiato da subito anche fuori, soprattutto nel nostro ambito ideologico, non si può considerarsi compagni in lotta contro il sistema di dominio, se si stanno utilizzando i mezzi di distruzione del potere. E’ una contraddizione che ci sorprende l’utilizzo del metadone dentro le carceri, se poi fuori i propri compagni si drogano con un sacco di prodotti messi in vendita da chi ci vuole annientare. Chiaramente la mia critica è parziale, non tutti si drogano, però è allarmante che la percentuale di chi lo fa è in aumento e come dicevo prima è urgente aprire una confrontazione seria su questo fenomeno. […]

14 ottobre 2012
Claudio Lavazza, Carretera Paradela s/n – 15319 Teixeiro-Curtis (A CORUÑA) SPAGNA


lettera dal carcere di Carinola (CE)
Carissimi compagni anzitutto voglio ringraziarvi per la continua solidarietà che con la vostra vicinanza ci date e questo rafforza il nostro entusiasmo e la determinazione per continuare a resistere e lottare perché tutte le lotte per ottenere i diritti sono validissime e vanno sostenute da ognuno secondo le proprie convinzioni e modalità ritenute opportune. Noi qui portiamo avanti delle piccole lotte per ottenere un po' di vivibilità, anche se la cosa più importante è quella di abbattere tutte le galere e dare la libertà a tutti i prigionieri.
Anche qui si parla di chiudere la sezione AS1 e di essere trasferiti nei nuovi carcere in Sardegna dove hanno fatto 2 carceri con delle sezioni AS1, AS2, AS3. Quindi siamo in attesa, sicuramente il prossimo mese ci trasferiscono.
Ho ricevuto l'opuscolo 74 di novembre. Tanti cari saluti a tutti. Saluti da Mario e tutti gli altri compagni.

7 dicembre 2012
Antonino Faro, via S. Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)



Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Cari compagni, in Sardegna, mentre si chiudono fabbriche si aprono nuove carceri, così da proporre la trasformazione in una grande Cayenna. In particolare, nel nuovo carcere di Sassari è stata realizzata una sezione di 9000 mq per il “41bis”. Questa è seminterrata, con muri antibomba (!) e senza finestre (da: “Nuova Sardegna”).Già nelle altre sezioni a regime 41bis le finestre sono state ridotte a spiragli, giusto per un minimo di aerazione. Così hanno pensato di toglierle del tutto.
Se qualcuno poteva pensare che l’orizzonte politico di questo regime si rifacesse ai tempi dell’800 si sbagliava: pare di poter dire che questi sia il ‘700 con i suoi regimi assolutistici. Quindi cosa meglio di un supplizio quotidiano per incutere timore al popolino? nella forma di tortura istituzionalizzata dal “41bis”.
Basta vedere il trattamento riservato a Provenzano, qualcosa di bestiale ed oltre l’inimmaginabile. Se poi qualcuno pensa che tutto questo riguardi solo chi ha la sventura di finire in questi luoghi, sicuramente ha la vista molto corta.

28 dicembre 2012
Bruno Ghirardi, via Tre Fontane, 28 - 88100 Siano (Catanzaro)


lettera dal carcere di livorno
Segue una lettera che alcuni detenuti del carcere “le Sughere” di Livorno hanno recentemente inviato ai comp della Ex-Caserma Occupata. Risale a questa estate quando alcuni detenuti portarono avanti una protesta a causa delle impossibili condizioni di vita alla quale sono costretti.
Purtroppo da quello che sappiamo la protesta ha ottenuto ben poco. Anche lo stesso garante dei detenuti non ha avuto probabilmente la forza necessaria ma anzi, una volta presentatosi come unica figura in grado di "sedare" la protesta, è stato in grado di far ottenere poco o nulla ai centinaia di detenuti. La situazione è sempre più grave e nessun* Livornese può far finta di nulla. Abbiamo un lager a poche centinaia di metri dalle nostre case. Ogni anno sono sempre di più gli uomini e le donne che si tolgono la vita o vengono uccis*. Ma chi sono questi detenuti? La maggiorparte finisce dentro per piccoli reati contro il patrimonio (furti , rapine ecc) altri a causa della tossicodipendenza.
Nessuno dei responsabili della crisi attuale, che ha portato povertà, disoccupazione e disperazione, finisce in galera. Molti stranieri finiscono in carcere e non riescono neanche a parlare col proprio avvocato. Chi ha i soldi per permettersi una difesa resta a piede libero...

8° Sezione
I detenuti della casa circodariale "Le Sughere" di Livorno, con la presente vogliono informare delle ragioni che hanno supportato la loro protesta pacifica svoltatsi nei giorni addietro e lo stato di agitazione tuttora in corso.
Nella casa circodariale v'è assenza anche del minimo rispetto delle norme igieniche, anche in considerazione della molteplicità dei detenuti stranieri presenti con le loro abitudini diverse, la struttura è assediata da scarafaggi, piattole ed altri insetti portatori di malattie, oltretutto in presenza di un sovraffollamento che costringe a vivere i detenuti in tre per cella. Le celle create in origine per ospitare un solo detenuto , oggi ne ospitano tre, il tutto in soli otto mq.
Per potersi muovere, visti gli ingombri delle suppellettili, rimane veramente molto poco spazio. Il bagno non presenta l'installazione di un bidet, è angusto e oltretutto serve anche da cucina e per riporre le scorte alimentari acquistate al sopravvitto.
In tre persone utilizzare i servizi igienici, molto spesso porta alla violazione della privacy e della dignità personale.
Purtroppo il cambio delle lenzuola non avviene con cadenza settimanale giacchè i fondi ministeriali per l'approvvigionamento sono stati ridotti in modo drastico e solo con le donazioni delle organizzazioni umanitarie, è possibile effettuare il cambio con cadenza che va dai 20 ai 30 giorni. Le poche lenzuola che sono rimaste dell'amministrazione penitenziaria sono consumate e lise.
Originariamente, con cadenza mensile e settimanale, veniva distribuito del materiale per la pulizia delle stanze, putroppo da vari mesi tale distribuzione non avviene, vengono distribuiti solo un rotolo di carta per detenuto ogni domenica.
Il vitto, potrebbe addirittura essere definito organoletticamente molto poco gradevole, tanto che la parte dei detenuti che dispone di risorse finanziarie è costretta ad acquistare presso il sopravvitto generi alimentari, per prepararsi da mangiare da soli.
L'acquisto di tali generi alimentari è veramente oneroso, giacchè gravato da ulteriori agi da corrispondere al gestore dell'impresa che gestisce il sopravvitto.
Un capitolo a parte merita il discorso sulla salute in carcere, soprattutto non vi è alcuna profilassi per prevenire eventuali malattie, endemiche nei paesi di provenienza di molti ospiti stranieri.
Attualmente sono state ridotte le presenze mediche, addirittura il prossimo 5 luglio scade il contratto con gli infermieri, i quali dovranno solo distribuire i medicinali salvavita. La guardia medica fissa all'interno della struttura di notte è stata soppressa, in caso di necessità o di urgenza, stabilita da chi? non certamente da un medico, bisognerà rivolgersi al 118 con tutti i ritardi possibili, visto che si è in carcere.
L'area educativa purtoppo a causa del sovraffollamento e della ignoranza della lingua Italiana da parte degli ospiti stranieri, che sono la maggioranza dei detenuti, non può dedicarsi ai detenuti definitivi così come si dovrebbe, tanto che molte incombenze possono essere trascurate.
Il sovraffollamento e le delusioni molto spesso soprattutto degli ospiti stranieri, di una impunità propagandata dai nostri mezzi di informazione portano a gesti di sconforto, come tentativi di suicidio ed autolesionismo. Questi atti sono molto spesso dovuti al perpetuarsi per tutto il periodo della detenzione della somministrazione di metadone, senza programmarne l'assunzione e la prescrizione con somministrazione in abbondanza di psicofarmaci di ogni natura e specie riducendo gli individui ad un bradismo diffuso.
Il carcere serve per espiare la pena ma anche perchè possa essere effettuato, nel rispetto della dignità umana, un percorso rieducativo che consenta di restituire alla società un uomo possibilmente cambiato, anche se all'esterno, una volta oltrepassato il cancello di uscita per fine pena, la società civile considera sempre i detenuti dei reprobi tali da meritare ben poco.
Fiduciosi di risposte ed atti concreti , ringraziamo dell'attenzione ed assicuriamo che solo allorchè le cose cambieranno, terminerà lo stato di agitazione.

I detenuti delle sughere


Brescia: sulla situazione del carcere di Canton mombello
E cosa ci propinano come soluzione i nostri politici locali? Balle, solo balle!!!
La prima è che la costruzione del prossimo Verziano 2 o Nuovo Canton Mombello sia imminente…(secondo il consigliere comunale del Pdl Roberto Toffoli: “ nel migliore dei casi i lavori potrebbero iniziare già nel 2013” dal Bresciaoggi, 23 ottobre 2012)
Falso!!! e vi spieghiamo il perché…
Come sia possibile il “miracolo” di Verziano 2, ce lo possiamo proprio chiedere, visto che non c’è traccia di un progetto simile nel piano carceri nazionale che fino alla fine del 2012 non contempla in alcun modo interventi su Brescia.
Provate a ricercare la parola “Brescia” o “Canton Mombello” sul sito www.pianocarceri.it e vedrete che nulla si dice né si prevede per il carcere della nostra città, considerato da tutti il più sovraffollato d’Italia e uno dei luoghi di pena peggiori del nostro paese….
L’unica cosa che il comune di Brescia ha fatto per ora è stata quella di individuare l’area di Verziano 2 nel nuovo PGT, area che il comune stesso peraltro pagherà a caro prezzo dal punto di vista urbanistico concedendo in contropartita la possibilità di costruire su un’altra ampia area a sud del Villaggio Sereno…qualcuno chiama questa operazione:
“SPECULAZIONE EDILIZIA? !!!
Mentre si imbonisce l’opinione pubblica attraverso le notizie dei giornali, i detenuti vivono l’incubo di una carcerazione da denuncia. Sono infatti oltre 2 mila le sentenze contro il nostro Paese emanate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sulla base della Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria in materia penale, istituita nel 1959. Tra le più frequenti motivazioni di condanna: l'irragionevole durata dei processi e le condizioni disumane in cui vivono i detenuti nelle nostre carceri. Se in Italia fosse riconosciuto il reato di tortura che comprende anche i trattamenti inumani e degradanti, i detenuti di Canton Mombello potrebbero intentare delle azioni penali.
Proprio per queste ragioni noi del Comitato per la chiusura del carcere lager di Canton Mombello, preoccupati dalle notizie consolatorie circolanti sulla stampa che lasciano presagire soluzioni radicali e imminenti, pensiamo invece che proprio ora sia il momento di pensare ancor di più ai detenuti che rimangono soli a vivere nell’estremo degrado di questo carcere lager con malattie come tubercolosi, scabbia, epatiti, Hiv, parassitosi che mettono a repentaglio non solo la loro incolumità fisica e psichica ma anche quella dei parenti in visita e del personale penitenziario.
Per queste ragioni abbiamo fatto un esposto all’Asl di Brescia in data 7 novembre 2012 mettendo in rilievo le sue responsabilità e facendo leva sulle sue competenze, visto il ruolo decisivo che spetta all’Asl dopo che la legge 244/ 2007 art.2 , comma 283, punto a ha disposto: “Il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale di tutte le funzioni sanitarie svolte dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal dipartimento della giustizia minorile del Ministero della Giustizia”
Nell’esposto abbiamo evidenziato, in concorso con la responsabilità dell’Asl, quella del Sindaco di Brescia in qualità di responsabile della salute pubblica della città, perciò anche della popolazione carceraria di Canton Mombello. Detto ciò l’Asl ha celermente risposto scrivendo chiaro e tondo, almeno per lei, che le relazioni contenenti gli esiti delle visite ispettive semestrali sono trasmesse agli enti preposti; dunque secondo l’Asl: suo compito è di segnalare eventuali problemi e suggerire gli interventi di manutenzione necessari, ma con funzione solo di “PREVENZIONE”... A questo punto noi ci chiediamo quale significato diano l’Asl e gli enti preposti al termine “prevenzione”?!
Ma il problema per noi è ancora più a monte e non è quello di aumentare il parco edilizio penitenziario ma di eliminare le leggi che producono carcerazione eccessiva, come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex-Cirielli, questo anche attraverso soluzioni come amnistia, indulto e pene alternative.
Inoltre siamo particolarmente preoccupati per le soluzioni che il governo Monti ha adottato riguardo al sovraffollamento carcerario col decreto per le liberalizzazioni che attraverso la delega a soggetti privati per la costruzione di nuove galere, pensa così di risolvere questo annoso problema. Perciò riteniamo di dover contrastare tale decreto sulle privatizzazioni che all'art. 44 introduce la “privatizzazione delle carceri” facendo diventare non solo la carcerazione un luogo di espiazione della pena che sconfina nella vendetta ma un vero e proprio business legale e riconosciuto che favorisce imprenditori privati e banche, che come al solito fanno affari e soldi a palate speculando sulla sofferenza del detenuto.
Se questo dovesse avvenire le politiche penali verrebbero messe nelle mani di una cricca il cui unico obbiettivo è il PROFITTO! Con il rischio che come nei paesi dove esiste già questo business carcerario (USA, Inghilterra, Israele) le politiche penali vengano esercitate per riempire le patrie galere.
Il Comitato per la chiusura del carcere lager di Canton Mombello, rispondendo alle richieste dei detenuti e sostenendo la loro protesta, ha inoltrato un esposto al Ministro della Giustizia affinché intervenga a breve per verificare l’operato del Tribunale di Sorveglianza di Brescia per mezzo di un’ispezione, perché sistematicamente i suoi magistrati mantengono un atteggiamento di chiusura nei confronti dell’applicazione dei benefici di legge e del cosiddetto “decreto svuota carceri”.
Per confortare le richieste dei detenuti sono intervenuti anche gli avvocati della Camera Penale di Brescia che si sono astenuti da tutte le udienze il 22 novembre 2012 per richiamare l’attenzione di legislatori, cittadini e magistratura sul dramma del sovraffollamento di Canton Mombello, sollecitando la magistratura, in attesa che si muova qualcosa a livello legislativo, perché faccia un uso accorto e costituzionale della custodia cautelare, oggi troppe volte abusata, e in sede di condanna tenga conto delle percentuali di recidiva che sono sicuramente più alte dove gli ordinamenti giudiziari sono più autoritari.
Fondamentale per gli avvocati penalisti di Brescia è l’obiettivo di ottenere ciò a cui la pena dovrebbe servire: la rieducazione e il recupero del condannato, cosa che non può essere raggiunta se gli si riservano trattamenti disumani.
Sembra unanime il coro di dissenso verso l’operato del Tribunale di Sorveglianza di Brescia perché la stessa direttrice del carcere di Canton Mombello sottolinea come, nonostante i recenti solleciti del ministro della Giustizia Paola Severino, la magistratura stessa abbia una concezione molto rigida sui benefici che si possono concedere, sul lavoro esterno, sulle misure alternative alla detenzione dietro le sbarre.
Quello che si deve fare il prima possibile dunque è concedere una serie di forme alternative alla detenzione che rendano effettivo il principio per cui la detenzione deve essere la misura eccezionale mentre la norma è l’applicazione di pene alternative!
Cambiare il carcere significa liberarsi dalla sua necessità, cambiando i meccanismi sociali che oggi lo rendono indispensabile per il mantenimento dell’ordine costituito e degli apparati di potere. Significa far si che tutte e tutti vivano in condizioni migliori, eliminando per primi i meccanismi che creano forti sperequazioni economiche. Significa cambiare la cultura della separazione e della repressione!
17 dicembre 2012
Comitato per la chiusura del carcere lager di Canton Mombello


Resoconto del presidio anticarcerario al carcere di Palermo
Giorno 14 dicembre ci siamo ritrovati sotto il carcere Pagliarelli di Palermo per esprimere la nostra solidarietà e infondere coraggio alla compagna detenuta Madda e a tutti i prigionieri, urlando il disprezzo contro ogni tipo di gabbia e contro tutti gli aguzzini.
Dopo mezz'ora di cori e botti in una stradina adiacente al complesso carcerario, un nutrito gruppo di polizia penitenziaria ha fatto la sua comparsa, pistola alla mano, per tentare di spegnere quella scintilla di solidarietà verso gli oppressi e di rabbia contro gli oppressori. L'arroganza che accomuna tutte le guardie non ci ha scoraggiato, anzi abbiamo continuato ad intonare cori per chi, a pochi metri di distanza, ci ascoltava da dietro le odiate sbarre.
Con l'atteggiamento intimidatorio che li contraddistingue , i servi in divisa hanno proceduto ad identificazioni e perquisizioni, alle quali è seguito un trasporto coatto all'interno del carcere di tutti noi partecipanti al presidio, venendo poi rilasciati dopo appena un paio d'ore. Se i cani da guardia dello Stato credono di aver messo a tacere le nostre voci, di aver sopito i nostri spiriti in rivolta, di aver spento almeno per un po' quella luce che anima i nostri cuori e mai ci abbandona, si sbagliano: la loro volontà di reprimere ci ha soltanto resi più determinati nel voler abbattere ogni prigione, sempre in lotta contro l'esistente che le produce.
MADDA LIBERA! TUTTI LIBERI!
FUORI TUTTI DALLE GALERE! DENTRO NESSUNO SOLO MACERIE!

9 gennaio 2013
Individualità contro il carcere
da informa-azione.info


Ca’ del Ferro (CR): solo isolamento!
Volantino distribuitonei giorni di colloquio davanti al carcere di Cremona
Da diversi mesi ad alcuni detenuti viene impedito di inviare e ricevere la posta. Come solidali, che spesso organizzano presidi e volantinaggi sotto le mura del carcere, denunciamo questo abuso perpetrato dalle guardie e avallato dalla direttrice, la quale viene troppo spesso osannata dai media locali e poche volte criticata per il suo modo iniquo di gestire il carcere di Ca’ del Ferro.
Con questo comportamento si vuole impedire e spezzare qualsiasi tipo di solidarietà o legame esterno e contemporanemanete, in maniera pianificata, si cerca di ridurre al minimo la conflittualità crescente all’interno dell’istituto di pena.
Riteniamo che tale agire sia un tentativo per ammansire il prigioniero.
La logica della premialità e della differenziazione, altro non sono che un agire criminale; togliere anche “solo” la posta è una forma di tortura e ricatto inaccettabile, tutti/e noi, solidali, prigionieri e famigliari dobbiamo rispedire al mittente questo abuso.
Rilanciare la lotta contro il carcere e la società che lo produce vuol dire unire le forze, allacciare legami, sostenerci a vicenda, trovare nuove forme di complicità.
Per questo chiediamo a voi famigliari, di far conoscere ai vostri cari qui rinchiusi, il nostro grido di amore e rabbia e, al tempo stesso, il nostro sostegno va a voi che soffrite in maniera riflessa questa tortura, privazione degli affetti più cari.
Ricordiamo alla direttrice che la posta è un diritto inalienabile del prigioniero, privarlo di tutto ciò, non è altro che una forma di tortura e questo inchioda alle proprie responsabilità chi la mette in atto, perché nemmeno in carceri a regime di 41 bis tale trattamento viene riservato!
Sabato 22 dicembre dalle ore 9 alle ore 12, presidio sotto le mura del carcere (lato est).
Ai familiari che vorranno portare un saluto ai propri cari detenuti, l’impianto audio è aperto e libero.
dicembre 2012
Solidali di Crema e di Cremona
Inguaiati.crema@gmail.com, csakavarna@canaglie.org


IN ATTESA DEL BOTTO FINALE
Sul presidio di capodanno sotto il carcere di Monza
Vorrebbe diventare una tradizione quella di salutare l’anno nuovo ai piedi delle mura di Sanquirico. Anche quest’anno durante la notte di San Silvestro abbiamo voluto condividere i festeggiamenti con chi, nella città di Monza, brinda rinchiuso tra quattro mura.
Può sembrare poca cosa accendere fuochi d’artificio tra uno slogan e una battitura fuori da un carcere come quello monzese considerato dalla maggior parte dei detenuti come un carcere punitivo. In realtà in un momento in cui la maggior parte della gente mangia e beve a volontà, la città è un tripudio di ingannevole contentezza e nelle strade iniziano a riversarsi a migliaia i cacciatori del divertimento metropolitano, crediamo che possa significare moltissimo la condivisione dei primi attimi del 2013 con uomini e donne a noi così vicini, e così terribilmente lontani.
Anche in questo 2012 ci sono state diverse sezioni allagate, problema ormai costante che capita ad ogni precipitazione più o meno consistente. Quest’anno il problema si è aggravato arrivando persino all’evacuazione di intere aree ormai inutilizzabili poiché l’acqua è penetrata fin dentro gli interstizi delle pareti, fatto che ha causato il trasferimento di alcune centinaia di detenuti.
Oltre ai problemi della struttura sono sempre più gravi le condizioni di sovraffollamento e di violazione continua della dignità umana che si vivono dietro le mura del carcere cittadino. Offese all’individuo che non tutti sono in grado di sopportare e che sfociano spesso in suicidi come quello che ha visto coinvolto un detenuto di 50 anni nel novembre dell’anno appena conclusosi.
Come si può vedere anche il carcere monzese volge ad una situazione che ormai riguarda tutte le carceri italiane. Il governo ha provato a metterci una pezza, chiamata “emergenza carceri”, ma le pretese erano esorbitanti e presto la riforma Severino si è rivelata un grande bluff. Come al solito lo stato gioca sulla pelle dei detenuti e qualcuno, come i radicali, pensa bene di sfruttare il malcontento e le sofferenze dei detenuti per garantirsi un bacino elettorale tramite richieste parziali che sono solo fumo gettato negli occhi.
Il carcere rimane un baluardo della società che viviamo e mai come adesso, lo stato ne ha un gran bisogno per reprimere le voci dissidenti e per far fronte ad una generale crisi della finzione democratica. Crediamo che sia importante per ogni individuo che fa dell’azione politica confrontarsi con il carcere e con la possibilità della sua distruzione.
Ecco perché anche il primo giorno del 2013 eravamo sotto il carcere di Monza.
Le nostre voci non si sono piegate e non si sono confuse nel festoso frastuono, ma hanno valicato i muri cavalcando l’aria gelida di gennaio e si sono insinuate nelle celle chiuse, perché non ci sono muri che possono trattenere l’energia vibrante di cui sono fatte. Il nostro augurio per l’anno nuovo? Che dentro e fuori la rabbia diventi incontenibile.
Contro il carcere e la società che lo crea.
Monza, 4 gennaio 2013
CordaTesa - cordatesa.noblogs.org


lettera dal carcere di lenzburg (svizzera)
Compas per il 20° anniversario del Revolutionarer Aufbau vi mando i miei più cari auguri!
Colgo l'occasione per esprimervi, oltre ogni differenza, il mio grande rispetto per il vostro lavoro rivoluzionario e la sua notevole sostanzialità e continuità. Lavoro, sostanzialità e continuità a maggior ragione apprezzabili ed importanti, poiché socialmente, politicamente, nei contenuti, analiticamente e nella prassi agiscono e sono indirizzati, per quel che posso percepire io, all'insegna del coinvolgimento delle generazioni, della molteplicità e dell'apertura. E anzitutto solidale: una solidarietà socialrivoluzionaria internazionalista oltre le differenze politiche ed ideologiche anzitutto nella lotta alla repressione nelle piazze, nelle aule dei tribunali e nelle galere della schifosa giustizia borghese, una solidarietà, lotta e militanza, che in tutti questi anni come militante ho sperimentato politicamente e con rivoluzionaria vicinanza umana con grande concretezza ed efficacia da parte vostra, una solidarietà che come voi sostengo e che ci unisce nella lotta rivoluzionaria!
Nulla di strano perciò che nell'ambito di una condanna in un processo politico di questa schifosa giustizia dell'ipercriminale Stato dell'atomo contro una delle nostre compagne dell'Aufbau, questa stessa giustizia ha applicato all'improvviso alcuni dei suoi paragrafi di gomma contro questa compagna dell'Aufbau che mi è molto vicina e mi visita da moltissimi anni, per disporre all'improvviso un divieto dei colloqui.
Ma sapremo rispondere anche a questo, poiché la solidarietà è un'arma, che nella lotta rivoluzionaria va forgiata ed affilata sotto i colpi della repressione!

Marco Camenish
lager Lenzburg, novembre 2012


Aggiornamenti dalla lotta NO TAV
Sugli operai di Effedue e Felice Suppo
Giovedì 29 novembre all’alba la ditta Effedue di Suppo Felice ha blindato con reti e lamiere il presidio no tav di Chiomonte. Protetti da centinaia di poliziotti gli operai di Felice hanno così fatto il lavoro “sporco” per la magistratura di Torino. Fa male scrivere queste righe ma questa ditta e i suoi titolari, come molti dipendenti hanno le loro origini nel paese di Bussoleno e ora trovano la loro sede di lavoro a Susa.
E’ lavoro e in tempo di crisi bisogna sapersi adattare per sopravvivere ma questo non vuol dire che si è obbligati a fare ogni tipo di scelta ed ogni tipo di lavoro. Si può scegliere, sì, si può sempre scegliere, se vivere da uomini e donne liberi e libere o da schiavi, del denaro, dello stipendio, dei propri vizi o del proprio tenore di vita o meglio ancora per una volta nella vita si può scegliere di lottare per un futuro migliore e magari scegliere di fermare chi in questo paese continua a rubare e ad accumulare ricchezza. C’è chi come gli operai e il titolare di questa ditta ha scelto di lavorare nella vergogna protetto da polizia e carabinieri blindando e distruggendo un presidio no tav, quello di Chiomonte, nato con le offerte, il sudore e il sacrificio di molti valsusini in cambio di poche migliaia di euro. C’è chi invece si alza ogni mattina senza un lavoro, senza reddito, magari proprio come alcuni no tav che passano molto tempo a Chiomonte e non ha paura di scegliere. C’è chi vive con poco denaro o senza un lavoro stabile ma con molta dignità ha il coraggio di camminare in questa valle a testa alta e merita il rispetto di ognuno di noi. C’è chi ancora, come gli operai della ditta Effedue ha il coraggio di distruggere un presidio no tav proprio mentre la polizia vigliaccamente apre le case dei no tav la mattina presto e si mette a rovistare negli armadi e nella vita privata e saluta lasciando agli arresti domiciliari il padrone di casa.
A questi operai, a Felice Suppo non va il nostro rispetto, a loro, che rappresentano purtoppo lo schifo di questa terra va il nostro sdegno. Loro sono la parte peggiore di questo problema, simile a un cancro che divora un uomo dall’interno. Loro, queste ditte, questi operai vanno fermati prima che come delle metastasi proseguano la distruzione. Il cantiere di Chiomonte è una malattia per la valle di Susa di cui conosciamo il nome, si chiama alta velocità Torino-Lione, va fermata e curata subito.
Poi non abbiamo ragione a parlare di Risiko come strategia della lobby del Tav! Arrestano chi protesta, intimoriscono le famiglie, sequestrano i presidi, aumentano la militarizzazione e avviano lo scavo, tutto per dare a Monti un bigliettino da visita da presentare al vertice del 3 dicembre a Lione. “Una grande strategia!” diranno gongolando negli uffici bui del Pd e nelle stanze della Questura. Così “grande” che sfiora il paradosso per quella che si configura sempre più come un’azione di difesa armata per difendere il bancomat della lobby, che è rappresentato dalla Torino-Lione. Non c’è crisi che tenga per difendere gli interessi di pochi, anzi, mentre tagliano ospedali e servizi sociali, trovano i soldi per militarizzare un territorio che va domato, e contro il quale bisogna preparare blitz per indebolirlo.
La risposta è nella serata di stasera, con la ripresa del presidio Garavella di Chiomonte, è nella solidarietà che stiamo ricevendo dappertutto.

Arresti domiciliari e misure cautelari per alcuni No Tav
La mattinata del 29 novembre si apre con perquisizioni e soprusi cui hanno fatto seguito arresti domiciliari, provvedimenti cautelari e obblighi di dimora (con divieto di permanenza a Torino) per l’occupazione della Geovalsusa, una delle ditte implicate negli appalti del Tav, avvenuta in agosto a Torino. 17 persone in tutto, quasi tutti universitari torinesi: 8 ai domiciliari con restrizioni gravi: divieto di visite e dell’uso del telefono e del computer, per altri vi è l’obbligo di dimora (con il divieto di permanenza a Torino), e per altri obblighi di firma. I capi d’imputazione sono violenza, minacce, resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, accensione ed esplosione pericolose.
A pochi giorni dalla manifestazione di Lione, la lobby si tav, fa la sua mossa, che si rafforza nel sequestro del presidio di Chiomonte, nel corso della giornata, poi ripreso dai No Tav in serata.

VERSO LIONE
Venerdì 30 novembre: espulsione dei No Tav dalla Francia
L’Europa non è nemmeno casa comune per chi ci è nato. Le vecchie dogane, i posti di controllo che in genere superiamo senza fermarci né essere fermati tornano a chiudersi quando i governi decidono di impedire la protesta, il dissenso, la manifestazione delle proprie idee. Gli uomini della polizia si schierano di fronte a chi nella libertà, quella vera, quella che si nutre di solidarietà, mutuo appoggio, eguaglianza, quella che si costituisce nel reale accesso di ciascuno alle decisioni, ci credono davvero.
Così capita che un minipullman carico di No Tav venga fermato all’uscita del tunnel del Frejus, sequestrato per ore, mentre buona parte degli occupanti, in maggioranza anziani, sono lasciati ad attendere al freddo. Altri tre – compreso l’autista – vengono torchiati e poi espulsi per tre giorni dalla Francia, con accuse tanto fantasiose quanto inventate.
Poco importa che quel pullman fosse diretto ad un convegno organizzato dalle componenti più moderate del movimento francese e italiano, quello che contava era dare una segnale. Nessuno deve mettersi in mezzo nell’Europa delle banche e degli affari: lunedì a Lyon si incontreranno Monti ed Hollande per discutere della nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon.

Sabato 1 dicembre: ancora espulsioni
Secondo la Prefettura della Savoia noi “rappresentiamo una minaccia per l’ordine pubblico in Francia, per esserci opposti in maniera reiterata e illegale alle autorità del nostro paese, in occasione delle manifestazioni connesse alla lotta e all’opposizione alla costruzione del collegamento ad alta velocità tra Torino e Lyon”. Questo è l’incipit del decreto che ci è stato consegnato oggi al commissariato di Modane dal capitano Stéfane Queval.
Più sotto c’è un lungo elenco di reati che avremmo commesso tra il 2009 e il 2012.
Entrambi avremmo più volte turbato l’ordine pubblico, occupato terreni, fatto danneggiamenti, bloccato pubblici servizi. Uno di noi avrebbe anche rubato e fatto violenza privata.
Bastano tanta fantasia e due righe su un fax ed il gioco è fatto.
Due righe inviate dalla polizia italiana, che bontà sua, il capitano Queval ci mostra, bastano a decretare la nostra espulsione. Il governo francese non vuole permetterci di manifestare domani a Lyon.
Sul foglio che ci danno è scritto a chiare lettere “siccome la nostra venuta coincide con l’incontro tra Monti e Hollande” e visti i “gravi eventi” accaduti in occasione delle “manifestazioni violente e non autorizzate del movimento No Tav italiano”, quali “incendio di furgoni della polizia, occupazione illegale del cantiere, il blocco di autostrade e ferrovie” noi rappresentiamo una minaccia “grave, chiara ed imminente per l’ordine pubblico”. Il nostro “comportamento è suscettibile di attentare agli interessi fondamentali dello Stato francese” e decidono quindi di espellerci.
Nevica forte quando usciamo dal commissariato scortati dalla polizia all’imbocco del tunnel autostradale dal quale eravamo usciti qualche ora prima con la prospettiva di una cena francese e della manifestazione del giorno dopo. Solo lì ci ridanno i documenti. Prima di partire nel nostro francese un po’ così gli diciamo “arrivederci, la lotta continua, ci rivedremo ancora”.
Eravamo stati fermati all’uscita del Tunnel del Frejus dalla polizia in assetto antisommossa, 130 uomini e donne in armi chiamati a blindare la frontiera, per impedire che venga attraversata dal vento di libertà che spira su quest’Europa di soldi, banche e filo spinato.
Fermavano e controllavano i documenti di tutti. Abbiamo capito che qualcosa non andava, quando ci hanno fatto accostare e poi ci hanno invitato a seguirli al commissariato di Modane. Lì siamo rimasti per quasi tre ore su una panca, mentre frotte di uomini dell’antisommossa andavano e venivano. Uno più anziano camminava su e giù dettando i turni per l’indomani. Dall’alta stanza si sentivano i nomi e le targhe dettate al telefono e poi la sentenza “négatif, négatif”. Hanno riempito la camera di sicurezza di gente schiumata sul treno, sinti e rumeni. Il momento peggiore è quando arriva un ragazzino africano magro, magro, con un giubbottino leggero e niente documenti. La sua disperazione traspare da ogni gesto. Come un pesciolino inatteso che si è impigliato nella rete tesa per i No Tav, questo ragazzo la pagherà più cara di tutti. Nell’Europa fortezza i gendarmi non guardano per il sottile e si compiacciono di questa pesca fortunata.
Noi siamo No Tav, siamo “un pericolo per l’ordine pubblico” ma siamo nati nella fortezza, al di là del tunnel abbiamo una casa che ci aspetta. Siamo dei privilegiati.
Questo non ci esime tuttavia dal venire fotografati, davanti, di profilo, di tre quarti. Ci misurano e ci prendono le impronte poi ci portano dal capitano che ci fa sentire al telefono un traduttore che legge in italiano le ragioni della nostra espulsione, ma si rifiuta di tradurre per noi. Proviamo a chiedere la ragione di un provvedimento preventivo, che impedisce di manifestare. Ci dicono esplicitamente che ci buttano fuori perché siamo No Tav. Ci dicono che è la legge e loro sono solo esecutori.
Già. È sempre la stessa storia, ovunque la si scriva, in qualsiasi epoca: i poliziotti obbediscono agli ordini. Quando diciamo che sono le stesse parole dei nazisti al processo di Norimberga, si arrabbiano e ci cacciano via. Questo ci costa un’altra mezz’ora di attesa.
Dicono che la nostra lotta “attenta agli interessi fondamentali dello Stato francese”.
Ci auguriamo sinceramente di sì, perché siamo gente di parte. Stiamo dalla parte del torto, perché stiamo con quelli che non hanno i documenti in regola, perché tagliamo le reti e blocchiamo le strade, perché non accettiamo ordini e leggi imposte, perché siamo uomini e donne liberi.
E vogliamo diventare sempre di più un pericolo per quest’ordine. Fatto di filo spinato, frontiere, espulsioni, guerra ai poveri e a chi non ci sta.

Maria Matteo ed Emilio Penna, espulsi dallo Stato francese perché No Tav

Lione, 3 dicembre: summit Monti-Hollande. Resoconto della giornata.
Ore 8,30. Il buongiorno si vede dal mattino. Dopo le espulsioni di venerdì e sabato circa 130 gendarmi e CRS attendono i No Tav all’uscita del tunnel autostradale del Frejus. Partono controlli lunghissimi ed estenuanti. Man mano che i pullman vengono lasciati andare, attendono gli altri poco dopo la frontiera. Solo intorno a mezzogiorno partono i primi dieci alla volta di Lyon. Quando minacciano di bloccare tutto anche gli ultimi due pullman vengono fatti partire da Modane. Un’auto viene fermata e gli occupanti vengono espulsi. Diversi No Tav passano dal Monginevro dove vengono controllati ma riescono a passare.
Ore 11. Lyon è blindata per il vertice, la zona rossa è guardata da centinaia di uomini in armi. Numerosi No Tav francesi vengono fermati e portati in questura.
Ore 13. Alla prefettura di Lyon dove si sono incontrati Monti e Hollande sono stati firmati sei accordi, tra cui uno sui trasporti sottoscritto dai ministri italiano e francese. Pare tuttavia che si tratti del tunnel autostradale del Frejus.
Ore 14,30. Gli autobus provenienti dall’Italia sono fermati nuovamente alla barriera di Lyon. Li attende la polizia in assetto antisommossa. La misura è colma: i No Tav scendono dai mezzi ed affrontano la polizia, ma vengono subito circondati. Gli avvocati mediano e i pullman possono ripartire. Arriveranno a Lyon quando il vertice tra Monti e Hollande è terminato da un pezzo.
Ore 15,30. In Place Brotteaux circa 400 No Tav francesi e italiani accolgono la gente che scende dai pullman dopo un’odissea durata 11 ore. La piazza è blindata: uomini in assetto antisommossa la circondano. Intorno all’area ci sono anche reti mobili e cannoni ad acqua.
Ore 16. Secondo quanto riferiscono i mezzi di informazione francesi il governo italiano hanno firmato accordi sulla cooperazione tra le polizie, sulla difesa e sull’istruzione. Per quanto riguarda la Torino-Lyon l’enfasi che caratterizza i media italiani non trova conferme. Non è stato firmato alcun nuovo accordo se non un impegno alla realizzazione dell’opera che deve essere approvato dai due parlamenti. L’impegno a quanto pare è subordinato alla richiesta all’UE di finanziare per il 40% il tunnel di base di 62 km tra Susa e S. Jean de Maurienne. Di nuova linea non si parla più. Per il “momento”, il nuovo tunnel monstre – fine lavori 2025 – si collegherà con le linee esistenti. Quasi un bluff.
Ore 16,40. I No Tav si riuniscono in assemblea. La polizia nega, nonostante il vertice sia finito da ore, ogni possibilità di muoversi in corteo. Armati di striscione i No Tav fanno un micro corteo per la piazza. La polizia impiega spray al peperoncino contro alcuni ragazzi che provano a forzare le reti.
Ore 17,30. Dopo un’assemblea i No Tav arrivati dall’Italia in pullman si accingono a ripartire, ma la polizia non vuole lasciar partire italiani (in pullman e in auto) e francesi (a piedi). La situazione è di stallo.
Ore 18. I pullman ancora bloccati in place Brotteaux
Ore19,07. Caos in place Brotteaux. La polizia impedisce ai pullman di uscire dalla piazza se non scortati a uno a uno. Lo scopo è di isolare i No Tav francesi. La polizia distribuiscemanganellate e spruzza spray al peperoncino per allontanare la gente a piedi da quella sui pullman. Su alcuni pullman è salita la polizia in assetto antisommossa.
Ore 20,24. I pullman sono tutti partiti: la polizia li ha scortati fino al casello, i gendarmi a bordo sono scesi.

8 dicembre: giornata di lotta per celebrare Venaus
A sette anni dalla presa di Venaus il popolo No Tav è ancora in marcia. Si comincia con il cibo condiviso a Venaus e a Chiomonte. C’è tanta gente, valligiani, torinesi, solidali da fuori, qualche francese. Un pullman di romani armati di trivelle di gommapiuma viene fermato al casello di Bruere, dove la polizia si vanta di aver controllato centinaia di persone.
Il giorno prima c’era stata una discreta nevicata, ma per il giorno dell’immacolata ribellione splende il sole. Il cielo è terso e bellissimo.
A Chiomonte la polizia blocca ogni accesso al sentiero No Tav che porta al fortino/cantiere della Maddalena.
A Giaglione, da dove partiranno circa 1.500 persone, ci si muove intorno alle tre. Sulla mulattiera sono stati piazzati dei jersey che vengono subito giù. C’è ghiaccio e neve ma si va. In tanti sono venuti con i figli: in questo giorno più che in altri è un gesto politico, un gesto di rivolta, la risposta ai magistrati che spediscono alle famiglie convocazioni ai servizi sociali perché i loro ragazzi distribuiscono volantini No Tav. Giovani uomini e donne che camminano verso il cantiere stringendo le manine dei loro piccoli sono il simbolo di una rivolta, che non bada alle leggi scritte da chi devasta, opprime, deruba, ma alle ragioni di chi vive un presente di lotta, per non dover sopportare un futuro senza dignità.
La polizia attende i No Tav sul ponte del Clarea: digos e antisommossa. C’è un lungo fronteggiamento, tra canti e slogan. Al tramonto si torna.
Con il buio qualcuno resta e prova a tagliare le reti. La polizia spara lacrimogeni ad altezza d’uomo, poi insegue invano i No Tav.
A Chiomonte, nel pomeriggio i No Tav fanno un’assemblea. Se l’accesso al sentiero è bloccato non resta che la via maestra delle truppe di occupazione e del turismo delle piste da sci. Proprio in questi giorni la Regione Piemonte ha deciso di finanziare con tre milioni di euro l’innevamento artificiale per garantire l’apertura degli impianti. La neve artificiale prosciuga le risorse idriche e inquina il terreno, trasformando le montagne in un parco giochi, ma quella neve la pagheranno tutti, anche di quelli che la montagna la praticano con rispetto. I No Tav occupano l’autostrada all’altezza della galleria del Cels, una barricata viene data alle fiamme, prima che gli attivisti lascino la zona. La A32 resterà chiusa per ore.

Processo No Tav: secondo filone dell’inchiesta
19 dicembre. Al tribunale di Torino c’è l’udienza preliminare per otto No Tav, sotto accusa per la giornata di lotta del 3 luglio 2011, pochi giorni dopo il violento sgombero della Libera Repubblica della Maddalena. Questi compagni, alcuni già perquisiti il 26 gennaio di quest’anno quando ci la prima grossa ondata di arresti, inizialmente non erano stati coinvolti nel processo che vede alla sbarra altri 45 compagni e compagne. Solo in primavera è scattata anche contro di loro la repressione. Questo secondo troncone del processo contro i No Tav. Dall’aula di tribunale si esce con un rinvio a giudizio per tutti gli imputati, previsto per il 1 febbraio 2012.

Milano, dicembre 2012
Fonti: anarres.info – informa-azione.info – notav.info – testimonianze dirette

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sull’inizio del processo NoTav
Anche se nel precedente opuscolo abbiamo pubblicato un resoconto della prima udienza del processone contro il movimento no tav, riportiamo di seguito le impressioni di quella stessa giornata di lotta dal punto di vista di chi era dietro le sbarre e che la censura carceraria ci ha impedito di conoscere per tempo. Una giornata di lotta che ha voluto con forza la scarcerazione di chi era ancora tenuto prigioniero, avvenuta pochi giorni dopo.
Sono appena tornato dall’aria e prima dal tribunale. E’ stata una bella mattinata di incontri, di rivedere in carne e ossa tant* compagn*. A noi ha fatto un gran bene respirare affetto, calore, reciprocità. E’ stato come vivere per qual che ora in un altro pianeta. Vedere i visi, i pugni alzati, tutt* insieme ad abbellire per una volta un’aula di tribunale con le urla: “Libertà”, “Fuori tutti dalle galere dentro nessuno solo macerie”, “Tutt* liber*”… eravamo talmente tanti e decisi da far scoppiare l’auletta predisposta per restringerci in quattro gatti compresa anche la sola intenzione di sgomberare l’aula.
Dalla gabbia abbiamo seguito il nostro corso di incontri a vista, di saluti mentre l’udienza scivolava via dimenticata, inascoltata, anche perché inascoltabile. Questo finché un avvocato a nome di tutti i suoi colleghi è esploso in un: “qui non si capisce niente, ce ne andiamo tutti”! Il presidente ha raccolto l’invito, non ha ordinato ai carabinieri di sbatterci fuori, si è ritirato in camera di consiglio con gli altri due giudici, dove hanno deciso il trasferimento immediato di tutto il baraccone in un’aula più grande. Così è stato. Ci siamo ritrovat* in tant* di più, gli incontri a distanza si sono moltiplicati. Alle parole d’ordine ora si aggiungeva “Giù le mani dalla Val Susa”, uno striscione con la scritta “Alessio e Mau liberi!” correva sopra le teste da una parte all’altra dell’aula. L’udienza si è trasformata in uno stupendo momento di coesione, continuità della lotta fra dentro e fuori; ogni intimidazione, divisione architettate, o che altro, con le retate, le carcerazioni e loro seguito è andata completamente a gambe all’aria - e lì rimarrà. Un processo d’attacco non poteva avere migliore inizio. La prossima udienza è stata fissata per il 21 gennaio 2013.
Torino, dicembre 2012
Maurizio Ferrari
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Un abbraccio di gratitudine infinita da Mau libero a tutta la valle
Oggi si ricorda, si tiene viva la memoria di una mobilitazione vittoriosa del movimento della valle. Sono passati diversi anni e quella memoria rimane un tutto, una realtà di coesione e determinazione che spezza le ambizioni intimidatrici dello stato. Così l’inizio del processo, che avrebbe dovuto nelle loro intenzioni, quanto meno mettere un freno al movimento, è divenuto un ulteriore momento di continuità del movimento No Tav che ha tirato fuori dalle carceri infine anche Alessio e me. A Juan non hanno tolto gli arresti domiciliari; possiamo e dobbiamo portarlo con noi tutti/e al più presto.
La mattina del 21 novembre quando loro non sono riusciti ad iniziare il processo nella piccola aula da tempo predisposta, quando ci siamo trovati, incontrati nell’aula tanto più grande e colma di determinazione a lottare, ho percepito una forza che si faceva beffa delle pretese del processo, che ridicolizzava l’intera loro sceneggiatura, compresa la nostra carcerazione. Un processo d’attacco non poteva avere migliore inizio. E’ stato per me un momento stupendo, indimenticabile.
Così la nostra richiesta di scarcerazione senza condizioni, l’ennesima, la quarta dopo oltre 10 mesi, dopo pochi giorni è divenuta quasi una completa realtà. Incredulo sono tornato libero di andare dove voglio; ci hanno dato “soltanto” il “divieto di dimora nella provincia di Torino”, cioè non possiamo venire in valle – dicono. Oggi perciò vi raggiungo, sono con voi con questo saluto ma con la certezza assoluta di poter presto essere presente insieme alle centinaia di compagn* colpit* da quel divieto ben prima di noi. Dunque ci vediamo presto, con affetto, gratitudine e una felicità che non potete immaginare.

Mau
Milano, 7 dicembre 2012
notav: comunicato sull’udienza del 19 dicembre
Mercoledì 19 dicembre alle ore 9.00 si terrà, presso il Tribunale di Torino, l'udienza preliminare del secondo filone processuale relativo ai fatti del 3 luglio. Quel giorno migliaia di NO TAV assediarono il cantiere, dove fino al 27 giugno 2011 visse la Libera Repubblica della Maddalena, in seguito occupata militarmente dalle forze dell'ordine.
La resistenza portata avanti da coloro che erano in quei giorni in Val Susa voleva difendere quei territori dalle logiche di sfruttamento e devastazione della terra che i costruttori della Torino – Lione e i loro sgherri in divisa volevano portare avanti.
Il 3 luglio 4 NO TAV furono arrestati e brutalmente pestati dalla Polizia. Il 26 gennaio partì l'attacco della Procura di Torino contro altri 52 NO TAV accusati di aver compiuto atti violenti contro la polizia ed il cantiere durante quelle due giornate di lotta. 41 fra loro furono sottoposti a misure cautelari; i restanti 11 furono perquisiti e denunciati a piede libero.
Il 25 giugno 2012 la DIGOS di Torino arrivò a casa di altri 2 NO TAV, notificando ad entrambi provvedimenti di custodia cautelare (arresti domiciliari e obbligo di dimora nel comune di residenza), sempre in merito ai fatti del 3 luglio.
Loro e altri 6 compagni, alcuni dei quali già perquisiti e denunciati il 26 gennaio, verranno chiamati a processo il 19 dicembre 2012. Le accuse avanzate, come per i 45 compagni già sotto processo, sono: minacce, violenza lesioni aggravate in concorso, danneggiamento aggravato in concorso e travisamento.
La Procura di Torino si dimostra fedele difensore della costruzione della Torino – Lione: il costante e martellante attacco giudiziario all'intero movimento NO TAV è reso palese dalle continue operazioni repressive scattate ogni qualvolta quest'ultimo abbia mostrato la sua determinazione. Ultima fra tutte l'operazione scattata la mattina del 29 novembre contro 19 attivisti per l'occupazione degli uffici della Geovalsusa e per i “diverbi” con alcuni giornalisti dopo la caduta di Luca Abbà dal traliccio lo scorso febbraio. E non finisce qui, perché se per qualcuno sono arrivati il manganello ed il carcere, altri si sono visti arrivare a casa gli assistenti sociali, giunti a minacciare coloro che avevano scelto di lottare con i propri figli in difesa della loro terra.
Per quanto nelle aule di tribunale si continui ad insistere su fatto che queste operazioni giudiziarie puntino a colpire singoli individui ritenuti violenti, sappiamo in realtà quanto sia vero il contrario. Non sono i singoli ed i loro comportamenti ad essere attaccati ma lo sono il movimento NO TAV e la sua lotta.
Ogni volta, quindi, in cui ci troveremo in quelle aule, non sarà un momento per inseguire la loro idea di giustizia, ma continuerà ad essere parte di un percorso di lotta che ci troverà uniti, così come è successo ogni volta che abbiamo lottato contro la TAV in Valle e nelle nostre città.
Con la gioia nel cuore per poter nuovamente abbracciare Maurizio e Alessio.
Con tanta rabbia per i compagni ancora sottoposti a misure cauteari.
Urliamo ancora una volta la nostra voglia di lottare.
SI PARTE E SI TORNA INSIEME
Alcuni imputati del 19 dicembre

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Resoconto di uno degli “imputati” rinviati a “giudizio” il 19 dicembre 2012
Il 19 dicembre si è aperto a Torino un altro processo che vede imputati 8 compagni/e no tav per resistenza, minaccia e violenza contro le forze dell’ordine nelle giornate del 27 giugno e del 3 luglio 2011.
Senza perdersi nei dettagli, si tratta sostanzialmente degli stessi fatti contestati ad altri 46 compagni/e nel “processone” apertosi lo scorso 21 novembre.
Durante l’udienza preliminare il pm ha motivato la scelta di rinviarci a processo in un momento successivo agli altri imputati, argomentando con la necessità di raccogliere maggiori elementi a nostro carico. Visti gli elementi prodotti in aula, l'impianto accusatorio ci è sembrato molto debole e i nostri difensori si sono dimostrati puntuali e precisi nell’evidenziarlo. Il giudice ci ha comunque rinviato tutti/e a “giudizio”. Non siamo sorpresi; conosciamo il funzionamento dell’apparato repressivo e siamo consapevoli che il diritto, lungi dall’essere arbitro superpartes, altro non è che un dispositivo posto a difesa degli interessi delle classi dominanti. Anche se ogni volta che ci trascinano nei tribunali leggiamo nelle aule che “la legge è uguale per tutti” sappiamo da che parte sta.
Un presidio di solidarietà era stato chiamato per quel giorno: la partecipazione è stata indubbiamente scarsa anche perchè c’era la convinzione generale che l’udienza sarebbe stata rinviata per difetti di notifiche; inoltre, obiettivamente, di questo procedimento se ne era parlato ben poco, tanti non ne sono a conoscenza. Del resto anche in aula era presente un solo “imputato”. Non è un problema su cui sofferfarsi più di tanto, giacché nel movimento no tav si è condiviso moltissimo negli ultmi anni ed i legami di fiducia e complicità sono molto solidi, per cui si può star sicuri che la risposta sarà, in occasione delle prossime udienze, all'altezza della situazione com'è accaduto durante l'udienza del 21 novembre.
In conclusione gli imputati sono stati rinviati a giudizio e l'udienza è stata fissata per il primo febbraio. Un solo comagno è stato rinviato a giudizio con l'accusa di danneggiamento è verrà processato da solo nel Tribunale di Susa. L’ipotesi di un accorpamento al “processone” sembra realistica.

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Quando i giudici fanno i dottori…
Scrivo in merito all’udienza che ha visto imputati 8 compagni NO TAV per i fatti del 3 luglio 2011, udienza tenutasi il 19 dicembre presso il tribunale di Torino. Di fatto ci sarebbero stati tutti gli elementi per un rinvio dell’udienza, poiché una delle compagne processate, peraltro ancora sotto misure restrittive, aveva da pochi giorni avuto un’operazione chirurgica e tramite il suo difensore aveva presentato in sede di tribunale il certificato medico che attestava la sua impossibilità a raggiungere l’aula.
In barba al certificato presentato e alle delucidazioni in merito portate dall’avvocato il giudice Serracane si è arrogato il diritto di concludere che:
- non si capiva come e perché l’operazione avesse per forza dovuto essere fatta la settimana prima del processo;
- l’imputata, in ogni caso, avrebbe potuto raggiungere l’aula trovando gli idonei mezzi per poterlo fare (un’ambulanza che la accompagnasse per 300 km pagata dal tribunale di Torino magari!!)
Che la legge non sia uguale per tutti, questo lo sapevamo già.
Che i giudici, soprattutto in questo processo in difesa della TAV, siano chiaramente dalla parte di chi ha interessi economici da difendere e da far avanzare, questo lo sapevamo già.
Che ci sia molta fretta nell’avanzare in questo processo per arrivare a condannare i “cattivi NO TAV” il prima possibile, mostrando l’efficienza della zoppicante giustizia italiana, questo lo sapevamo già.
Ma che con la laurea in legge si ricevesse in omaggio anche quella in medicina e chirurgia questa è proprio una grande novità! Che l’opinione di un giudice contasse più di un certificato medico siglato dal primario di una struttura ospedaliera per stabilire i termini di un decorso post-operatorio sembra cosa incredibile, invece è andata proprio così!
Quante volte abbiamo visto processi rimandati per certificati medici di influenza, piuttosto che per altre motivazioni sostenute dall’apposita documentazione?
L’ art. 420-ter del codice di procedura penale mostra che il legittimo impedimento è sempre rimesso alla discrezionalità del giudice. E allora ci metteremo noi a fare i giuristi e scopriremo che in diritto si parla di discrezionalità quando la norma disciplina solo alcuni aspetti del comportamento del destinatario. Esattamente il contrario di ciò che è avvenuto in questo caso, dal momento in cui si la discrezionalità si è trasformata nella più totale arbitrarietà di valutazione, senza nessuna aderenza alla realtà dei fatti!
Alla stessa imputata, per ben due volte prima dell’operazione in questione, era stata negata la possibilità di recarsi fuori dal luogo ove aveva le restrizioni di domicilio per poter fare visite specialistiche attinenti all’intervento. Anche allora la motivazione addotta scavalcava completamente i dati medici riportati sui certificati.
Caro giudice, alla prossima udienza verrò in stampelle e te le sventolerò sotto il naso, poi ti porterò uno stetoscopio in omaggio, così magari capirai chi sei e cosa ci stai a fare su quella poltrona.


LA RIVOLTA NON SI ARRESTA!
Segue il testo di un volantino distribuito a Savona durante un presidio in solidarietà con i compagni colpiti dalla repressione per la manifestazione del 15 ottobre 2011.

Il 15 ottobre 2011 viene indetta a Roma un'imponente manifestazione internazionale contro la finanza mondiale, i governi delle banche ed in generale le misure di austerità. Siamo agli sgoccioli del governo Berlusconi e, mentre nelle altre principali città dei Paesi colpiti dalla crisi economica e finanziaria come Grecia e Spagna le folle già da tempo avevano infuocato le piazze mettendo a dura prova la tenuta dei governi di turno, in qualche modo tutti si aspettavano il turno dell'Italia.
Ecco che man mano che la data si avvicinava, l'annunciato assedio ai cosiddetti palazzi del potere nel cuore della capitale verso cui il corteo sarebbe dovuto confluire sembrava acquisire sempre meno il carattere di un'azione simbolica. Non essendo, questa volta, in grado di gestire la situazione, i vari autoproclamatosi organizzatori di masse scelsero all'ultimo di far terminare la manifestazione nella periferica Piazza San Giovanni con relativi comizi di capi sindacalisti, politici ed aspiranti tali.
In Piazza San Giovanni nel tardo pomeriggio non accadde nulla di tutto ciò.
Nonostante l'ennesimo tentativo di indirizzamento politico e di mediazione col potere da parte di pochi, la rabbia che covava da tempo nelle vite di molti esplose senza poter essere rimandata. Dopo aver attaccato luoghi e simboli del potere politico ed economico, causa delle disgrazie lamentate da tutti i partecipanti alla giornata, come banche, agenzie interinali, agenzie immobiliari, assicurazioni, caserme dell'esercito e della Guardia di Finanza, una folla eterogenea di migliaia di persone trasformò la piazza, che doveva essere la sede della solita passerella pre-elettorare in vista della prevista caduta del governo Berlusconi, in un campo di battaglia.
Per ore migliaia di individui tra i più disparati, ma uniti da un comune sentimento di esasperazione e un condiviso desiderio di rivalsa, ormai incontrollabili, resistettero e contrattaccarono le cariche di Polizia e Carabinieri, utilizzando tutto il materiale improvvisato che le strade di un città può fornire. Quando una rivolta assume connotati e proporzioni di questo tipo, non essendo recuperabile, ma più facilmente riproducibile (come dimostrano i numerosi recenti episodi in occasione dello scorso sciopero degli studenti) è storicamente compito dello Stato reprimerli.
Dove non arriva il manganello tocca alla legge intervenire.
Una volta preparata la forca dai giornalisti, magistrati e governanti si possono sbizzarrire con arresti, perquisizioni, avvisi di garanzia, decreti e leggi speciali. Senza la classica retata in grande stile che avrebbe riportato troppo l'attenzione sull'evento e magari avvicinato fra loro gli inquisiti, i provvedimenti sono arrivati col contagocce.
La parziale cronologia repressiva vede 5 ragazzi minorenni fermati in piazza il giorno stesso ancora soggetti a misure cautelari, un ragazzo romano raggiunto il 9 novembre 2011 da un provvedimento di arresto domiciliare, 20 persone coinvolte da un'operazione poliziesca in varie città del 20 aprile 2012 e infine la scorsa ondata di perquisizioni del 22 novembre che ha portato a 2 arresti domiciliari e 3 obblighi di dimora. Senza dimenticare le decine di indagati e i due ragazzi già processati e condannati a 4 e 5 anni di carcere per resistenza pluriaggravata e danneggiamento.
L'aspetto più inquietante, meritevole di un successivo approfondimento, riguarda il tipo di reato maggiormente contestato. Il famoso “devastazione e saccheggio” tornato, non casualmente, in auge lo scorso luglio in occasione della sentenza della Corte di Cassazione ai danni degli imputati per la rivolta contro il G8 di Genova del 2001. La pena prevede dagli 8 ai 15 anni di reclusione, concede poche attenuanti e copre una vasta gamma di possibili comportamenti di piazza in occasione di agitazioni. Una volta creato il precedente sulla pelle dei 10 di Genova, sembra un ghiotta formula per annichilire prima e ammonire poi chiunque osi ribellarsi all'ordine costituito. Il tutto condito da ministri, ufficiali o ombra che siano, che invocano leggi speciali, leggi “Reali”, DASPO applicato ai cortei, arresti in differita e chi più ne ha più ne metta.
Ma sono loro stessi ad averci portato verso il baratro.
Nelle attuali condizioni sociali, materiali e umane, che politici e padroni stessi hanno creato, moniti e persecuzioni cadranno nel vuoto. La legge dello Stato funziona quando, anche solo apparentemente, il rispettarne i suoi dettami da qualcosa in cambio. Se l'alternativa è soccombere e la prospettiva soffrire per il resto dei nostri giorni, non pare possibile una circoscrizione delle rivolte. La favola del black bloc e dei professionisti della violenza non è più credibile per nessuno. Non ci sono parole per dimostrarlo, ma la testimonianza dei fatti: quasi giorno le strade e le piazze d'Italia si riempono, la delega e la mediazione non garantisce più nulla, se mai lo avesse fatto, ai desideri di emancipazione, soprattutto a partire dai più giovani, gli studenti; non vi sono più luoghi proibiti a cui non è conveniente tentare di accedere anche con la forza; i responsabili del disastro sono stati da tempo abbondantemente individuati e colpiti. Non ultima la lotta contro il TAV, dove lo Stato e le lobbies hanno dato sfoggio senza ritegno del loro apparato militare e le distinzioni appartengono ormai solo ai giornalisti più reazionari, rappresenta uno spauracchio da arginare al più presto.
Diamo un seguito a giornate come quella del 15 ottobre 2011, perché non diventino momenti effimeri ed estemporanei, per non lasciare che la repressione ci frammenti laddove noi ci siamo trovati uniti. E' dove loro non potranno mai arrivare che nasce la nostra sete di rivolta: nei nostri cuori e nelle nostre coscienze.
Per chiunque ritenga insopportabile lo stato delle cose, non disperiamoci alla ricerca di improbabili strategie in attesa di muovere un primo passo. In questi ultimi anni qualche assaggio lo abbiamo avuto. Continuiamo a creare posti dove incontrarci e soddisfare i nostri bisogni, rompiamo vecchi schemi e paure, mettiamo da parte protagonismi e rivendicazioni specifiche, continuiamo a scendere in piazza, a trovarci nelle strade, sospendiamo la quotidianità a cui ci costringono e viviamo le città a nostro piacimento, mettiamo il fiato sul collo dei potenti e dei loro aguzzini, assediamo i loro palazzi, difendiamoci e contrattacchiamo la violenza delle forze dell'ordine, blocchiamo i flussi economici, sabotiamo i tentacoli delle nocività imposte.
Non sono grandi ideali o ideologie ad essere in gioco, ma semplicemente le nostre esistenze e un concetto tanto abusato quanto attuale e dipendente solo dalla nostra volontà e dalle nostre mani: la libertà.
Che tutti gli inquisiti per le lotte e le rivolte di questi anni non restino soli.
Che il fuoco che arde dentro di noi si propaghi nelle nostre città.
Solidarietà a FRA! Solidarietà a tutti gli arrestati per la rivolta del 15 ottobre!
Solidarietà a tutti gli uomini e le donne sotto processo per la lotta contro il TAV!
Solidarietà a MARINA ed ALBERTO attualmente in carcere per scontare la pesantissima e definitiva pena per la sommossa contro il G8 di Genova del 2001!
Con il cuore vicino a chi riesce a fuggire dalle grinfie della repressione!
Forza VINCENZO! forza JIMMY!

30 novembre 2012
da informa-azione.info

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Il 7 gennaio apprendiamo che sei persone arrestate lo scorso aprile per gli scontri del 14 ottobre 2011 sono stati condannati in primo grado a 6 anni e a pagare 30mila euro ciascuno per il carabiniere aggredito e il ministero della Difesa, con l’accusa di devastazione e saccheggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale pluriaggravata. Si trovano tutti agli arresti domiciliari. A loro va tutta la nostra solidarietà.
Segue la lettera di uno dei sei condannati.

Quando sono stato arrestato il 20 aprile scorso, dissi che ero sereno; ciò che mi portava ad esserlo era la fiducia che riponevo nella giustizia, la consapevolezza che gli inquirenti non avessero in mano niente di compromettente e la percezione che, nonostante il grande clamore creato ad hoc dai mass-media, il processo fosse equo ed imparziale, così come previsto dalla legge.
Mi sbagliavo! Ieri ho visto la vera faccia della giustizia italiana, quella manipolata dai poteri forti dello stato, quella che si potrebbe tranquillamente definire sommaria. Una giustizia che mi condanna a pene pesantissime, leggete bene, solo per esser stato fotografato nei pressi dei luoghi dove avvenivano gli scontri. Avete capito bene, ieri sono stato punito non perché immortalato nel compiere atti di violenza o per aver fatto qualcosa vietato dalla legge, ma per il semplice fatto che io fossi presente vicino al blindato che prende fuoco. Non tiro una pietra, non rompo nulla, non mi scaglio contro niente di niente. Mi limito a guardare il mezzo in fiamme in alcune scene, e in un’altre ridere di spalle al suddetto. Tali “pericolosi” atteggiamenti, mi hanno dapprima fatto guadagnare gli arresti domiciliari (8 mesi) ed ora anche una condanna (6 anni) che definirla sproporzionata sarebbe un eufemismo.
Permettetemi allora di dire che la giustizia fa schifo, così come fa schifo questo “sistema” che, a distanza di anni e anni, dopo una lotta di liberazione, concede ancora la possibilità ai giudici di condannare gente utilizzando leggi fasciste. Si, devastazione e saccheggio è una legge di matrice fascista introdotta dal codice Rocco nel 1930, che viene sempre più spesso riesumata per punire dissidenti e oppositori politici solo perché ritenuti scomodi e quindi da annientare.
Basta! Non chiedetemi di starmi zitto e accettare in silenzio tutto ciò, consentitemi di sfogarmi contro questo sistema marcio, che adotta la mano pesante contro noi poveri cristi e che invece chiude gli occhi dinanzi a fatti ben più gravi come il massacro della Diaz a Genova e i vari omicidi compiuti dalle forze dell’ordine nei confronti di persone inermi come Cucchi, Aldrovandi, Uva e molti altri ancora.
Non posso accettarlo! Grido con tutta la voce che ho in corpo la mia rabbia a questo nuovo regime fascista che mi condanna ora a Roma per aver osservato un blindato andare in fiamme e che ora mi accusa di associazione a delinquere a Teramo, solo per non aver mai piegato la testa.
Non mi resta altro che percorrere la via più estrema per far sì che nessun’altro subisca quello che ho dovuto subire io e pertanto così come fece Antonio Gramsci, durante la prigionia fascista, anche io resisterò fino allo stremo per chiedere l’abolizione della legge di devastazione e saccheggio, la revisione del codice Rocco e che questo sistema repressivo venga arginato.
Comunico pertanto che da oggi intraprenderò lo sciopero della fame e della sete ad oltranza fino a quando non si scorgerà un po’ di luce in fondo a questo tunnel eretto e protetto dai soliti noti.
Concludo nel ringraziare i mie fratelli Antifascisti, i splendidi ragazzi della Est, i firmatari del Comitato Civile, i tantissimi che mi hanno dimostrato solidarietà in questi mesi e soprattutto quanti appoggeranno questa battaglia.
Quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un dovere!

Rosci Davide
8 gennaio 201
da infoaut.org


LIVORNO NON SI PIEGA
Accade a Livorno. Città dall’animo libertario, città “rossa” per il fatto che qui, nel 1921, nacque il partito comunista e che qui, da allora – tranne che durante il ventennio fascista – fu sempre al potere nell’amministrazione comunale. Ma anche durante il fascismo la città mostrò tutto il suo animo di insofferenza verso ogni forma di autoritarismo. Qui furono attivissimi gli Arditi del Popolo (organizzazione militante antifascista nata sempre nel 1921) e qui si svolsero sempre manifestazioni contro quel regime nonostante la repressione e tutti i divieti posti dalla dittatura di allora.
Cade il fascismo e il partito comunista torna al potere in comune con le elezioni locali. È da allora che non viene più sconfitto nelle varie tornate elettorali. Ancora oggi, il Partito Democratico (erede del vecchio pci) detiene un potere quasi assoluto nella provincia di Livorno. Sono loro che amministrano la città da sempre, sono del loro partito questori e prefetti, sono loro le fabbriche e le imprese della zona, sono in mano loro il porto e l'autorità portuale, come le cooperative di lavoro che forniscono la manodopera per il carico/scarico delle navi, come le dirigenze pubbliche di ospedali, provveditorati etc etc.
Opporsi al PD a Livorno non vuol dire quindi solo attaccare le sinistre riformiste e i socialdemocratici, bensì si tratta di portare l’attacco più diretto contro quella parte di borghesia che domina la zona.
Alcuni compagni/e, durante la scorsa estate hanno deciso di iniziare una campagna politica contro il PD a Livorno, in occasione della visita nella città del presidente della regione Toscana, Enrico Rossi. Già allora, la questura rispose alle manifestazioni programmate militarizzando la città, esattamente come avviene quotidianamente in altri parti d’Italia, come in Valsusa.
Ma se lorsignori del PD pensavano di poter continuare a considerare Livorno un proprio feudo dove poter continuare a fare passerella politica, come anche in occasione delle primarie per le elezioni di primavera, si sbagliavano di grosso. Durante tutto l’autunno, su tutto il territorio nazionale, si sono sempre più sviluppate situazioni di lotta autorganizzate di tanti soggetti, dagli studenti, ai lavoratori, ai disoccupati.
Anche Livorno si vede attraversata da cortei studenteschi e di lavoratori precari e disoccupati. La crisi avanza, e sempre più si diffondono momenti di protesta contro il carovita, contro la precarietà, contro la disoccupazione (che in città si attesta al 40% tra i giovani). È l’assenza di un futuro a portare in piazza sempre più gente.
Il 16 novembre arriva in città il sindaco di Firenze Matteo Renzi, candidato alle primarie. Per dare continuità al quel percorso di contestazione del PD, al fine di fare emergere agli occhi della gente le contraddizioni di un partito che si dichiara di sinistra, ma che in realtà rappresenta solo la parte più sinistra della borghesia italiana, viene organizzato un presidio di protesta. Ma Renzi è un uomo abbastanza osteggiato a Livorno; la città, infatti, è in mano ai bersaniani, suoi avversari nella gare delle primarie. Quando i compagni dell’Ex Caserma Occupata (la realtà cittadina che più si è spesa in questa campagna contro il PD) arrivano davanti alla stazione marittima dove si stava svolgendo il suo comizio, la polizia non fa storie e lascia entrare i manifestanti che espongono uno striscione che dice: “Né Renzi né Bersani, né del PD gli altri cani”.
Durante il mese di Novembre, nella vicina città di Pisa, 90 lavoratori della Sodexo (multinazionale francese che ha in appalto il servizio igienico e di pulizia dell’azienda ospedaliera) vengono minacciati di licenziamento a causa di presunti esuberi. È il 23 novembre. Il 30 Novembre a Livorno arriva Bersani. A tutti sembra giusto andare ad accoglierlo nel giusto modo. Il PD, infatti, tanto si riempie la bocca con il problema della precarietà da risolvere, quando poi invece non fa niente sul territorio quando ne ha la possibilità, come in questo caso. (Ricordate? La Toscana è una regione “rossa” qua sono loro che governano!) Si decide di organizzare un presidio come la scorsa volta, quando è venuto Renzi.
Ma la scena che si presenta in questa occasione è ben diversa. Il comizio è difeso da polizia e carabinieri in tenuta antisommossa che non si peritano a caricare il piccolo corteo di lavoratori e compagni – totalmente inermi – appena si presenta davanti alla stazione marittima.
Livorno è una città poco abituata a una repressione del genere. Gli spazi di agibilità politica sono sempre stati mantenuti senza troppi problemi. Evidentemente, in questura e in comune, il fatto che realtà autorganizzate andassero a contestare il loro capo – Bersani – non dev’essere piaciuto. A maggior ragione se si pensa che il PD è candidato a vincere le elezione e qualche poltrona in più può sempre uscir fuori per chi – come un bravo servo cane da guardia – ha difeso il suo padrone.
La risposta, quindi, non si fa attendere. Il giorno immediatamente successivo, Sabato 1 Dicembre si decide di organizzare un corteo per informare la città dell’accaduto, attraversando le vie del centro, che di sabato pomeriggio brulicano di gente.
La risposta della questura è chiara e si riassume nelle parole di un funzionario della DIGOS che, avvicinatosi a uno dei manifestanti, dice: “o andate via o vi si ammazza”.
Il corteo, partito da Piazza Cavour e raggiunto il comune, decide di tornare nella piazza di partenza e lì sciogliersi dopo aver speakerato ancora un po’ l’accaduto del giorno prima.
Ma la polizia la pensa diversamente. Appena il corteo raggiunge Piazza Cavour arrivano a tutta birra le camionette della celere. I poliziotti scendono dai mezzi con la bava alla bocca. Insultano i manifestanti. Ovviamente gli animi si surriscaldano di fronte a tanta arroganza. Le fila dei manifestanti si ingrossano e molti passanti solidarizzano vedendo scene da ventennio. Invece in quel momento dai dirigenti della polizia parte l'ordine di caricare 50 persone in mezzo allo "struscio" del sabato pomeriggio, di fronte a mamme con i bambini. Il pestaggio è brutale, alcuni i feriti, tra cui una signora che ha la tremenda colpa di essere madre di uno dei contestatori che nel vedere il figlio di fronte a tanta violenza si mette nel mezzo, beccandosi una manganellata sulla schiena e una sul volto. Alla scena surreale e tragica assiste mezza città e molti solidarizzano con gli aggrediti.
Di fronte a due giorni di soprusi e violenze viste da mezza Livorno, parte un tam tam in rete; e non solo per rivendicare l'agibilità di certe posizioni politiche in città. Anche se il sindaco continua a mentire in proposito, nei giorni precedenti i manifestanti sono stati provocati a parole e picchiati nei fatti.
Il luogo prescelto per la nuova manifestazione è Piazza Cavour, teatro dell'egocentrismo del questore di Livorno, Dott. Cardona, e dei suoi uomini, e del pestaggio del giorno prima.
Livorno risponde. Si presentano più di mille persone (altro che pochi "teppisti" come dicono i giornali!). Il corteo parte deciso e parecchio incazzato! Tutto fila liscio, vecchietti per la strada che solidarizzano, gente che si unisce, ingrandendo ancora di più la mobilitazione. Di fronte alla prefettura succede l'irreparabile. Alla vista del reparto celere, la rabbia prende il sopravvento e si scaglia contro il palazzo simbolo del governo dove la polizia, di fronte a tanta determinazione, si è presto rintanata.
Chi credeva che Livorno si sarebbe piegata alla repressione si sbagliava. Chi credeva che sarebbe bastato intimidire con delle vili cariche della polizia i manifestanti alla stazione marittima e in piazza Cavour per piegare il dissenso, si è dovuto ricredere. Un migliaio di persone, gente di tutte le età, sono scese in piazza nella giornata di domenica 2 dicembre contro la violenza e l'arroganza della polizia dimostrata per due giorni consecutivi nelle due giornate precedenti. E' questa la vittoria di quella giornata.

gennaio 2013
un compagno livornese


Art. 129 e co.: la situazione a Dresda
Dall’aprile 2010 la procura e la polizia del land della Sassonia dell’est stanno conducendo, sulla base dell’art. 129 e co. [il corrispettivo dell’art. 270 ecc. in Italia, ndt] un’ampia indagine sulla formazione di una presunta associazione criminale entro l’ambito della sinistra. Questa associazione dovrebbe essere sostanzialmente localizzata in Dresda, pur se ad essa fanno riferimento anche compagn* di Lipsia, Brandeburgo e Finsterwalde. Nelle ultime settimane e mesi su questa indagine è corsa l’informazione, si è ampliato allo stesso tempo l’interesse, al punto che la gran parte della gente ora conosce che cos’è quell’indagine - che ha soprattutto a che fare con quanto accaduto il 19 febbraio 2011 [anniversario del bombardamento di Dresda avvenuto nel 1945, ndt].
In quella giornata ai nazi ogni anno viene impedito ufficialmente di celebrare la cerimonia funebre commemorativa di quel massacro. Sia chiaro: l’adunata dei nazi è impedita dalla mobilitazione in tutto il paese, che fisicamente si porta a Dresda. Infatti, siccome gli apparati dello stato non sono minimamente capaci a scalfire la mobilitazione generale, hanno cercato di prendersi una rivincita, colpendo con il 129b l’assalto alla “Casa dell’incontro” in cui si erano dati appuntamento i nazi. Da allora l’indagine non si è mai fermata, come dice il pm Alexander Keller: “Sappiamo che dall’edificio vicino sono stati diretti assalti violenti sui partecipanti all’assemblea (nazi). Non riusciamo però a dimostrare chi sia esattamente stato”.
Nell’aprile-maggio 2011sono state compiute numerose perquisizioni domiciliari; in ogni mandato di perquisizione si poteva leggere che nell’aprile 2010 era stata “accertata la formazione di un’associazione criminale”. L’indagine descrive a modo suo gran parte di azioni riuscite contro i nazi, che, da parte dello stato e dalle vie legali non vengono tollerate. Le, gli “associati criminali” sono circa venti. Lo spettro è talmente ampio così che alla fine risulta spiato, per lo meno a Dresda, l’intero ambito della sinistra radicale, della sinistra in generale. Come è risaputo, l’art. 129 è semplicemente il mezzo che consente a procura e polizia di ficcare il naso dove gli pare.
Un altro avvenimento accaduto però nella pasqua 2009 è stato accorpato all’indagine. Ci riferiamo all’attacco incendiario al parco rotabile della Bundeswehr (forze armate) di Dresda. Gli inquirenti brancolano totalmente nel buio, lo si capisce quando nel corso delle perquisizioni dettate dall’art. 129 hanno trovato una foto in cui si poteva vedere il luogo dell’incendio, incluse due ombre. In queste gli inquirenti hanno voluto vedere una coppia, una ragazza e suo fratello di Finsterwalde. Sembra di essere di fronte allo psicologo, dove si deve associare le foto alle macchie, ma, come si dice, meglio quello che si ha di quello che potrebbe aver avuto.
Le abitazioni della compagna e del compagno, compresa quella dei loro genitori, sono state perquisite due volte; quella dei genitori è stata esplicitamente perquisita “in quanto tra figlia, figlio, madre e padre esiste un legame stretto”, sostengono con idiota noncuranza sbirri e co. Inclusioni di membri famigliari, il sottoporli a continui controlli, nella Germania dell’est era già pratica rituale. In ogni caso, la polizia morde il ferro, poiché non è riuscita ad addossare a nessuno l’incendio, neppure ai genitori, minacciati di essere portati in carcere, tormentati fino a sbattergli fuori di casa i mobili per perquisirli, caricarli su un camion e portarli, mobili e altre masserizie, in caserma. Vedendo però che non venivano a capo di nulla, masserizie e mobili li hanno lasciati infine davanti a casa.
A Dresda circola un aneddoto. La mattina dell’incendio un uomo avrebbe chiamato il pompiere del suo quartiere perché vedeva un fumo grosso e il suo forte puzzo, ma non ne scorgeva la fiamma. Il pompiere sollecitato, già a conoscenza dell’incendio, chiede all’uomo preoccupato di guardare più a fondo e di sapergli dire. Quando poco il pompiere con la sua bici giunge sul luogo incappa in un posto di blocco della polizia. Non basta: nei giorni successivi gli viene perquisita la casa, in quanto sospettato di aver appiccato l’incendio. Il pompiere nel 2003! Aveva preso parte a una manifestazione.
Dall’inizio dell’ondata repressiva noi (Soccorso Rosso di Dresda) siamo diventati una realtà pubblica, conosciuta. Abbiamo messo in piedi manifestazioni, anche di carattere nazionale, articoli, trasmissioni radio, attacchinaggi; assemblee per organizzare gli avvocati. Lo abbiamo già detto, il ventaglio delle posizioni è molto ampio, non è perciò semplice, per es., far sedere tuttx allo stesso tavolo. Su questo c’è molto da fare.
I media, sull’incendio dei camion della Bundeswehr, dell’indagine condotta in nome del 129 e co. avevano ripescato con compiacenza le considerazioni, la raccolta di dati e le analisi messi in circolazione dagli inquirenti. E’ stata così creata tanta eccitazione e forse anche un certo risveglio nelle persone sinceramente democratiche. L’ “efficacia dell’inchiesta” articolata sul par. 129 tuttavia la stampa locale non l’ha ben curata o addirittura non ne ha proprio parlato. E’ parso così di trovarsi di fronte a una sorta di divieto di informazione.

campagne 129 ev Rote Hilfe Dresden; www.129-ev.tk; sachsens-demokratie.net
fonte: Gefangenen Info nr. 370 agosto-settembre 2012


Gran Natale a Padova: sgomberi, barriere e sequestri preventivi!
Lo scorso 5 dicembre abbiamo occupato un edificio in via Jacopo Corrado 3 a Padova, abbandonato da anni e di proprietà del comune, ma dato in cessione al C.U.S. (Centro Universitario Sportivo) per l’ampliamento dei propri impianti sportivi. Di fatto, però, a giudicare dalle condizioni di degrado in cui abbiamo trovato lo spazio, questo non è neanche lontanamente avvenuto! L'ennesimo esempio di spazio pubblico abbandonato e lasciato in balia di eroina e degrado (moltissime erano le siringhe presenti). L’occupazione è durata poco meno di venti giorni, poiché, a seguito di una serie di tentativi di chiusura dell’edificio da parte delle forze dell’ordine, ai quali è stato sistematicamente risposto con la riapertura del posto, il 24 dicembre lo stabile è stato messo sotto sequestro preventivo e quindi definitivamente sgomberato.
Significativo è il fatto che l’accesso sia stato impedito attraverso due grossi “new jersey”, ovvero blocchi in cemento armato, sul modello di quelli utilizzati in Val Susa per fare in modo che i NO TAV non varchino l’ingresso dei cantieri dell’Alta Velocità.
Quello che è avvenuto con lo sgombero del Gramigna non mostra nulla di nuovo, se non il fatto che la giunta comunale del Partito Democratico di Zanonato, e i suoi servi della questura, sono sempre pronti a stroncare sul nascere qualsiasi realtà che osi soltanto porsi fuori dalla compatibilità istituzionale. Ciò che non si allinea con le istituzioni ed esce dagli schemi precostituiti del sistema, ciò che non può essere controllato dai canali dell’ideologia dominante deve essere isolato e abbattuto.
Tutto questo avviene con maggiore forza in un contesto di crisi economica e strutturale del capitale, che si manifesta quotidianamente sulla pelle di tutte quelle categorie subordinate e sfruttate come i lavoratori, gli studenti e i proletari, giovani o adulti che siano, creando disoccupazione e precarietà dilagante.
In questa situazione il rischio che tra la popolazione aumenti la rabbia e la perdita di credibilità istituzionale è molto alto, ed è altrettanto temuto da chi sta al potere. Per questo motivo ogni preambolo di lotta deve essere represso il prima possibile, ovvero prima che anche il più misero fuoco di ribellione possa infiammare la piazza. Di conseguenza anche una piccola realtà politica come il Gramigna, che ha l'obbiettivo di contrastare le politiche prodotte da questo sistema marcio e corrotto e organizzare la lotta, proponendo un’alternativa attraverso pratiche di occupazione, risulta scomoda e pericolosa e non le deve essere concesso alcun tipo di agibilità politica.
Ancora una volta si è ripetuto lo schema già visto in tante altre occupazioni: quella di Torre, nel 2011, quando l’ex scuola Zanella-Davila dopo essere stata messa sotto sequestro, è stata completamente rasa al suolo e il futuro dell’area consegnato nelle mani degli speculatori; così come l’ex scuola fratelli Bandiera, a Forcellini, sgomberata dopo quattro mesi di occupazione la scorsa estate e abbattuta nell’arco di pochi giorni. E non ci dimentichiamo neppure della scuola Vecellio di Via Retrone, occupata per 8 anni, e ora, dopo essere stata resa inagibile, è diventata uno scheletro di cemento abbandonata ai rovi.
Quello che è certo è che la giunta di Zanonato preferisce lasciare gli spazi vuoti alla mercè dell’eroina e della speculazione, piuttosto che farli vivere consegnandoli alla collettività. Se la giunta di Zanonato e suoi amici della questura pensano di aver risolto il problema con l'ennesimo sgombero si sbagliano di grosso! Fintanto che lor signori siederanno sulle loro poltrone e vivranno sulle nostre spalle, ci sarà sempre chi si organizzerà per riprendersi il proprio futuro con la lotta!
Ad ogni sgombero una nuova occupazione! L’erba cattiva non muore mai!

1 gennaio 2013
Collettivo politico Gramigna
www.cpogramigna.org

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PADOVA: SGOMBERATA LA BARACCA OCCUPATA
Cari amici e compagni, vi informiamo che ieri mattina[3 gennaio] ha avuto luogo lo sgombero della Baracca Occupata ad opera di digos e polizia. Lo sgombero è iniziato alla mattina presto, nessuno dei compagni era all'interno o comunque presente sul posto, ci si è accorti del fatto solo nel momento in cui ci siamo recati in Baracca per l'apertura. Lo stabile è stato sigillato, le cose che c'erano dentro sono state portate via.
Fin da subito è partita la campagna denigratoria sulla stampa locale, che come al solito funge da megafono alle posizioni dei mandanti dello sgombero (l'università) e degli esecutori (polizia). Crediamo sia da riflettere sul fatto che nuovamente lo sgombero sia stato eseguito in un periodo in cui l'università è chiusa e la città è vuota a causa delle festività. A Padova questa pratica sta diventando una costante, che non riguarda solo la realtà studentesca, ma tocca anche altre esperienze di occupazione, come è avvenuto lo scorso 24 dicembre a danno dei compagni del Gramigna. Dal nostro punto di vista, credendo che il discorso possa essere generalizzato, sappiamo che la scelta di sgomberare in questi momenti risponde all'esigenza dell'università, da un lato di impedire forme di solidarietà da parte di altri studenti, dall'altro di "salvarsi la faccia" nel momento in cui sceglie di sgomberare uno spazio in università impiegando un numero sproporzionato di forze dell'ordine.
Invitiamo chi potesse partecipare a venire sabato 5 alle ore 15.00 all'assemblea che si terrà in via marzolo 9, per parlare di questo sgombero ma anche degli altri avvenuti in questo periodo a padova, e delle future iniziative che abbiamo in programma.

gennaio 2013, collettivo universitario 808


Aggressione fascista a Milano
Sono quasi passati dieci anni dalla tragica notte del 16 marzo 2003 e oggi ci ritroviamo in una situazione umana e giudiziaria simile a quella passata.
Fortunatamente l’aggressione ha avuto un esito meno grave, anche se potenzialmente poteva essere mortale.
Per noi la dinamica dei fatti è molto chiara oggi, come chiara lo era il giorno dopo l’uccisione di Davide Cesare nel 2003.
Allora, con tenacia ferrea, riuscimmo a smascherare le menzogne di Stato subito incentrate sulla de-politicizzazione dell’accaduto sminuito in concerto anche dai media in una “rissa tra punk” e riuscimmo ad abbattere la grave falsità di “sequestro di salma da parte degli amici e amiche del deceduto Davide Cesare Dax”, che giustificava le cariche nei riguardi dei compagni e compagne presenti presso l’ospedale San Paolo di Milano.
Perchè questo parallelismo?
Perchè la ferita aperta dieci anni fa nell’antifascismo militante ancora sanguina e la nostra determinazione insieme alla ricerca delle responsabilità di coloro che inneggiano a violenza, razzismo, omofobia e squadrismo sono diventate perentorie.
La cultura dei coltelli porta morte e i luoghi che la diffondono sono sempre più numerosi e chiari. Nonostante gli appoggi della destra istituzionale milanese e lombarda, non riusciranno a spogliarsi delle responsabilità politiche che hanno avuto in questa vicenda. Le sedi squadriste dei fascisti devono essere chiuse, senza se e senza ma, senza la minima tolleranza.
Oggi non piangiamo un compagno come dieci anni fa solo per il “caso”. Il nostro compagno è fisicamente imponente; la sua “pellaccia” ha resistito e solo la fortuna non ha portato al peggio.
Vogliamo chiarire qualche punto rispetto all’accaduto di domenica 2 dicembre nella metro della Stazione Centrale alle ore 16:15 circa, tra i due boneheads e il militante antifascista. Senza scendere nei dettagli, lavoro che lasciamo agli inquirenti (verso cui la fiducia è limitata), riteniamo altresì fondamentale dire due parole agli amici, amiche, compagni, compagne e a tutti coloro che in questi anni abbiamo conosciuto e con cui abbiamo coltivato forti legami.
I nazifascisti erano due, hanno ingaggiato un corpo a corpo sulla banchina della metro verde, accoltellando con 3 colpi d’arma bianca il nostro compagno, fendenti che hanno causato lacerazioni di fasce muscolari addominali e sfiorato per pochi millimetri l’arteria aorta.
I due hanno inseguito il ferito fino alla banchina della metro gialla, sempre nella Stazione Centrale, rimostrando le armi e cercando di infliggere altri colpi, il tutto verosimilmente sotto le telecamere di videosorveglianza. Per fortuna, il nostro compagno ha trovato riparo in un bar.
Lasciamo a voi altre interpretazioni legate alle documentazioni reali di medici e prove video che andranno a incidere sulla lealtà e l’azione di questi due individui.
Il punto che sottolineiamo è che non ci interessa catalogare questi personaggi in una o in un’altra squadraccia milanese: restano membri della stessa servitù fascista.
SENZA MEMORIA NON C’E’ FUTURO, CONTRO IL FASCISMO TOLLERANZA ZERO

Milano, 5 dicembre 2012
I compagni e le compagne di Dax


UPS di Bologna: uno sciopero esemplare
Inviamo questo resoconto non tanto per raccontare dell'ennesimo sciopero (evviva!) che attraversa il mondo operaio della logistica con il rischio di far torto alle lotte non sempre menzionate con la puntualità che meriterebbero. Parliamo dell'UPS di Bologna e dello sciopero esploso contemporaneamente al blocco all'SDA di Roma del 3 gennaio 2013 e lo facciamo per riportare quello che rappresenta, a nostro avviso un piccolo importante passo in avanti rispetto ad uno degli obiettivi strategici del movimento che si sta conformando e che vede gli operai immigrati protagonisti indiscussi.
Se non è una novità il fatto che gli operai concentrino, praticamente sempre, la loro attenzione contro la gerarchia che attenta alla loro dignità di operai, è senz'altro una novità il fatto che lo sciopero punti dritto al numero due dell'azienda (cooperativa N.C.V., cooperativa dalla lunga storia con 500 dipendenti) e che in meno di mezz'ora di sciopero ne ottenga l'allontanamento.
Un segno di possibili tempi nuovi in cui la paura comincia direttamente ad attanagliare il campo avverso? Per una volta ci affidiamo anche al buon augurio, ma siamo certi che a quattro anni dall'inizio reale di questo percorso di lotta sia necessario introdurre un elemento di riflessione rispetto al movimento di lotta nelle cooperative che comincia ad allargarsi a livello nazionale: è evidente cioè che lotta economica e lotta politica siano palesemente inscindibili; se qualcuno (da qualunque parte della barricata si collochi) pensa che la lotta degli immigrati possa progredire solo grazie alla coscienza politica innestata dalla cosiddetta “avanguardia politica esterna”, avrà senz'altro modo di ricredersi. Tale coscienza è senz'altro elemento decisivo per le sorti del movimento in questione (e non solo); ma essa, lungi dal provenire fondamentalmente dall'esterno, matura incessanemente all'interno dello scontro di classe che, a sua volta, è un dato permanente nella società contemporanea. E, in particolare, matura quando settori di massa manifestano, coi fatti, la precisa volontà di ingaggiare questo scontro. Forse, allora, è proprio nella volonta della sedicente avanguardia politica di organizzarsi con questi settori operai e proletari, e non viceversa, che si misura il reale grado di coscienza politica di tale avanguardia, peraltro decisiva per fornire uno sbocco di prospettiva al movimento in atto.

7 gennaio 2013
un compagno del SI Cobas

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bologna: Entrano in sciopero i facchini della S.E.I.
Quaranta attivisti sindacali provenienti dal polo logistico di Bologna, dove il SI.Cobas ha sso recentemente importanti radici (UPS, SDA, TNT, GLS, Susa, e altre ancora) stanno intervenendo in questo momento a sostegno dei dieci operai della S.E.I (servizi espressi italiani) entrati in lotta contro i l proprio allontanamento coatto dopo che avevano animato, qualche mese fa, uno sciopero contro il mancato pagamento degli ultimi due stipendi e di tutte le altre spettanze ad essi correlate (13^ ferie non godute, ecc)
E' evidente che i padroni, soprattutto se di "piccolo taglio " (come in questo caso) non tollerano intralci: se non ci sono soldi... non si pagano gli stipendi perchè l'attività deve andare abanti. Non è questione di cattiveria, ma di sopravvivenza dei padroni stessi in quanto tali; la crisi non perdona e se si vuole rimanere a galla, nella giungla del mercato, l'unico margine concesso è legato allo stritolamento degli operai, cercando al contempo di alimentarne la concorrenza all'interno (i delegati, tutti nordafricani, allontanati pretestuosamente, sono stati sostituti da una quindicina di operai pakistani, portati alla disperazione dall'emarignazione da cui provengono e in cui sono rimasti una volta giunti in Italia.
I cattolici, o i catto-comunisti in tutte le salse nostrane, non mancheranno di tuonare contro la violenza del picchetto che impedisce a degli onesti operai di andare a lavorare. Ma tutto ciò poco importa. Nessuno ce l'ha con questi operai pakistani pronti a vendersi sul mercato per 3,5 € all'ora: ma laddove il movimento si organizza e si coalizza... tutto ciò non sarà loro consentito.
Faremo sapere dell'evolversi di questa ennesima battaglia nelle prossime ore.

Milano, 8 gennaio 2013


IKEA: LA LOTTA NON SI FERMA
Giovedì 3 gennaio 2013, la lotta è tornata puntuale all'alba con l'ennesimo blocco dei cancelli di ingresso che ha impedito per ore l'accesso dei camion allo stabilimento. I danni sono stati notevoli e il colpo politico ancora di più: niente piegherà la dignità dei lavoratori. Al loro fianco i compagni e le compagne di molte realtà di Milano (Si Cobas,
Collettivo La Sciloria, Csa Vittoria), Piacenza e Bologna (Crash, Nap...), Torino (Comitato disoccupati), ma soprattutto la solidarietà dei lavoratori degli altri magazzini della logistica di Piacenza e della Lombardia (Tnt, Gls Executive, DHL, Ortofin...)
Tanti lavoratori e compagni a presidiare gli accessi e a resistere e a nulla è servita la presenza delle forze dell'ordine.
Di fronte a questo l'Ikea e le cooperative hanno dovuto per forza di cose intavolare un confronto informale davanti ad uno dei cancelli dell'azienda. In particolare l'amministratore delegato Ikea ha preso atto della determinazione di chi lotta e ha dichiarato che prenderà in considerazione le nostre ragioni, per appianare questo duro confronto con le cooperative e di voler intermediare tra le parti per far reintegrare i lavoratori. (A parte questi buon propositi, oggi apprendiamo che, sotto ricatto, le cooperative e l'Ikea stanno raccogliendo le firme di qualche lavoratore per sostenere che non vogliono far entrare all'interno dell'azienda i lavoratori che illegalmente tengono fuori)
Questa giornata di lotta è un altro passo importante in vista dell'incontro di lunedì in Comune nel quale saranno presenti alcuni rappresentati istituzionali, le cooperative, sindacati e soprattutto lavoratori in lotta che presidieranno la piazza antistante.
Ma la lotta dell'IKEA è parte integrante di una lotta complessiva che i lavoratori della logistica, organizzati nel Sindacati intercategoriale Cobas e sostenuto da forze sociali e politiche, stanno portando avanti da anni senza delegare a nessuno il loro protagonismo. Tutti con le stesse rivendicazioni: dignità, un più giusto salario e migliori condizioni di lavoro. Una lotta che si unisce necessariamente a chi come in altri settori combatte la crisi non accettando passivamente i diktat di governo, sindacati concertativi e padroni, mettendo in campo la propria forza di classe.
Una lotta che non vuole essere la solita vertenza sindacale, ma un altro passo in avanti per costruire una nuova società senza classi e senza più sfruttamento.

4 gennaio 2013
Coordinamento sostegno delle lotte nelle cooperative

Ricordiamo anche che l'udienza contro i lavoratori e i solidali per le lotte ai magazzini Bennet di Origgio ci sarà il 21 gennaio 2013 alle ore 9 presso il Palazzo di giustizia di Saronno. Invitiamo a portare la propria solidarietà.