indice n.62

processo breve: La Libia sulla "via della democrazia"
libia: Mercenari occidentali e società di capitali
sulle elezioni in tunisia
Appello di solidarietà all’Egitto
Invasione nel nord Irak
novara: NO AGLI F-35
Dichiarazione letta in aula da Andy
Una cartolina dalla Svizzera
Lettera-appello dal carcere di Rossano (cz)
Sulle lotte nei e intorno ai CIE
Lettera dal carcere di S. Vittore (milano)
Lettera dal carcere di Prato
Lettera aperta dal carcere di Catania
La libertà non si chiede, si conquista
Lettera dal carcere di Carinola (CE)
Lettera dal carcere di Cremona
Lettera dal carcere di Imperia
Lettera dal carcere di S. Remo
Lettera dal carcere di Vigevano (PV)
Asti: Botte e vessazioni a due detenuti
giuseppe uva, vittima di stato
resoconto dell’assemblea contro l’art. 41-bis a padova
convalida perquisizioni 17 ottobre-Padova
firenze: comunicato a seguito delle perquisizioni
roma, 15 ottobre: il riesame scarcera 9 prigionieri
bologna: SQUALLIDE VELINE… OPPORTUNAMENTE ORCHESTRATE
No Tav. Vinto ricorso contro foglio di via
Genova: Primi giorni di una nuova casa occupata
milano: La lotta per la casa oggi
amburgo: Gli "affitti inghiottono, affitti sociali per la casa"
milano: Comunicato della RSU e degli operai della INNSE
Bassano del grappa (vi): 8 DENUNCE PER 8 UOVA
Solidarietà con Riccardo Antonini, licenziato dalle FFSS
Pioltello (MI): è iniziata la lotta contro Esselunga


processo breve: La Libia sulla "via della democrazia"
Alla ribellione dei disonesti è stato aggiunto un ultimo capitolo inglorioso. Con ogni probabilità il maggiore Muammar al-Gheddafi non è stato ucciso né nel corso di un attacco aereo Nato su un convoglio di auto né durante uno scontro a fuoco, ma dai suoi nemici con un colpo sparato alla testa a sangue freddo. A favore di questa supposizione parla anche il dato che dal Consiglio di transizione libico è stata rifiutata l'utopsia sul cadavere di Gheddafi richiesta dalla Corte di giustizia penale internazionale di L'Aia.
Anche negli atti finali della presa del potere i ribelli libici non hanno realizzato nulla di forza propria. C'è stato bisogno di un bombardamento Nato per catturare Gheddafi.
Che i rivoltosi abbiano trattato i prigionieri con il "processo breve", è stato motivato dal fatto che essi non volevano esporsi al rischio di un procedimento ordinario, in cui giuristi stranieri prendessero parola sulle crudeltà e sulle prove dei massacri da loro compiuti.
L'assassinio di Gheddafi deve chiaramente diventare il mito fondatore del nuovo stato libico. Secondo le parole del capo del Consiglio di Transizione, Mahmud Jibril, per sabato è prevista la proclamazione "dell'inizio della fase di transizione sulla via di uno stato democratico". Dallo "stato delle masse popolari" cui si richiamava la Libia di Gheddafi, deve nascere una democrazia secondo i modelli occidentali. Con la sovranità del popolo, incorporata nella Jamaria libica, rispetto al suo principio fondatore, sicuramente non ha nulla a che fare, sarebbe soltanto d'impedimento alla ridistribuzione della ricchezza nazionale, il petrolio, ai gruppi multinazionali.
Il nuovo "pluralismo della proprietà" lascia prevedere aspri conflitti interni. In proposito parlano i diversi orientamenti ideologici esistenti all'interno di una coalizione negativa, unicamente definita sul rifiuto del regime precedente. Da decenni ci sono sulla lista degli stipendiati dalla Cia politici in esilio, un tempo fedeli a Gheddafi poi passati nel campo occidentale, "afghani" chiamati combattenti di dio; e forse ci sono anche un paio di sinceri democratici e patrioti, che si sbarazzerebbero dell'influenza occidentale. Esiste il timore che la fase di transizione alla democrazia diventi infinita o che finisca per mano di un colpo di stato favorito dall'oligarchia (governo di pochi, cioè dittatura) filo occidentale. Una guerra civile fra coloro che hanno appena vinto un'uguale guerra sembra una variante probabile.
"La Nato e i nostri partner hanno realizzato con successo il mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu per la salvaguardia della popolazione libica", ha annunciato subito il segretario della Nato Anders Fogh Rasmussen. Un cinico messaggio conclusivo di una guerra aerea barbara contro civili, che ha dato un altro significato al mandato Onu, rimasto inascoltato, relativo alla salvaguardia della popolazione civile.

Werner Pirker, 22 ottobre 2011
da www.jungewelt.de/2011/10-22/021.php


libia: Mercenari occidentali e società di capitali
Le Compagnie di sicurezza occidentali - termine garbato per indicare agenzie di bande mercenarie - stanno riempiendo aerei verso la Libia, per mettere il paese al riparo da un'invasione di capitalisti occidentali, i veri beneficiari della guerra della NATO. Così frenetica è la ressa di capitalisti di guerra e dei loro gangster prezzolati in cerca di profitti a spese della catastrofe libica, che il New York Times riporta che una corsa in taxi da 5 dollari dall'aeroporto di Tripoli agli alberghi del centro ora ne costa 800.
Il capo della Camera di Commercio Arabo-statunitense la definisce una "corsa all'oro", mentre funzionari del governo insediati dalle forze aeree della NATO distendono il tappeto rosso alle orde straniere. I nuovi governanti nominali della Libia del Consiglio Nazionale di Transizione smaniano di svendere il diritto di nascita della nazione addirittura prima di averlo in mano.
L'ingente afflusso di mercenari occidentali corpulenti e tarchiati è terribilmente beffardo, giacché la principale giustificazione della chiamata alle armi dei cosiddetti ribelli era che Muhammar Gheddafi fosse mantenuto al potere da banditi stipendiati provenienti dall'Africa sub-sahariana. Hanno usato il falso spauracchio di una presenza mercenaria negra per trasformare la ribellione in una guerra razziale, che è costata la vita a innumerevoli migliaia di Libici neri e lavoratori immigrati, una pulizia etnica che svela senza dubbio e marchierà per sempre il nuovo regime come razzista fino al midollo. Quello stesso regime ora abbraccia una vera invasione internazionale di mercenari euro-americani. Gli uomini bianchi e i soldi davvero dettano legge nella nuova Libia.
I corpi dei defunti non erano ancora stati sepolti a Sirte, la città costiera di fatto rasa al suolo da mesi di bombardamenti NATO - e dove tutti i veicoli dei cittadini sono stati rubati dalle squadracce rivoltose dei ribelli - che già le delegazioni di affaristi dalla Francia e dalla Gran Bretagna iniziavano la calata su Tripoli.
I francesi, così impazienti d'essere i primi in una guerra d'aggressione, non provocata, si sono assicurati di essere anche i primi in lizza ad ottenere una fetta del bottino. Una delegazione di uomini d'affari di 80 società francesi è giunta ben una settimana prima che i sicari dei loro ospitanti libici macellassero il Col. Gheddafi e decine e decine di altri prigionieri. Siamo certi che i francesi hanno brindato con coppe di champagne per marcare l'occasione.
Gli stranieri ed i loro soldi naturalmente erano presenti ovunque a Tripoli, prima che europei ed americani decidessero che un assalto "Shock and Awe" (Colpisci e Terrorizza) sulla Libia, li avrebbe posti in una posizione migliore per trattare le incertezze della Primavera Araba. L'investimento straniero in Libia era aumentato di 25 volte tra il 2002 ed il 2010. Gheddafi, a detta di tutti, era giunto ad un accordo col capitale straniero. Aziende europee ed asiatiche stavano trasformando il volto di Tripoli. I loghi aziendali su innumerevoli cantieri testimoniavano la determinazione di Gheddafi di "normalizzare" le relazioni coi poteri imperiali e col mondo in generale. In anni recenti aveva scarcerato centinaia di combattenti islamici, come parte di tale "normalizzazione". Sarebbe stata la sua rovina.
Prima della guerra della NATO, non esisteva quindi alcuna controversia sull'accesso occidentale alla Libia e certamente nessuna minaccia di rifiutargli il petrolio. Non è l'accesso in sé ma i termini dell'accesso che fanno la differenza tra guerra e pace con l'imperialismo. Per gli americani, i francesi e gli inglesi il prezzo della pace è la sovranità nazionale di uno stato. Oh, e tenere alla larga i cinesi, 30.000 dei quali sono stati costretti a lasciare la Libia quando hanno cominciato a cadere le bombe. È dubbio che essi vi ritorneranno così numerosi, per lo meno finché l'attuale regime non sarà, esso stesso, rovesciato.

2 novembre 2011
da www.uruknet.de, in www.resistenze.org


sulle elezioni in tunisia
23 ottobre 2011: prima tornata delle elezioni politiche generali in Tunisia, la partecipazione stata alta. Ennhada (Rinascita) ha ottenuto una chiara maggioranza?
Secondo le prime indicazioni il 90% delle persone aventi diritto al voto (4,1milioni) si è recata a votare (la Tunisia conta in totale una popolazione di 11 milioni di persone).
Per i 217 seggi dell'assemblea parlamentare si erano candidate 11 mila persone (di cui la metà sono donne, mille indipendenti) dei rispettivi 80 partiti. I compiti dell'assemblea sono: la nomina di un governo di transizione e l'elaborazione di una costituzione. I media hanno puntato l'attenzione sulla campagna elettorale di Salem Bouazizi, fratello di Mohamed Bouazizi, condotta soprattutto nella città portuale di Sfax. L'immolazione (si dette fuoco) di Mohamed Bouazizi alla fine del 2010 scatenò la protesta delle masse, che si concluse con la fuga di Ben Alì in Arabia Saudita…
Gli osservatori calcolano che Ennhada abbia ottenuto una chiara maggioranza, raccogliendo il 30% dei voti. Ennhada, nonostante decenni di divieti, dispone nel paese di una cospicua base finanziaria e di una buona organizzazione. Come tutti i partiti dei Fratelli Musulmani attivi nel mondo arabo, anche Ennhada ha tessuto una fitta rete nella sfera sociale. Benché fosse politicamente perseguitata, lo stato ne tollerava però l'impegno sociale, che alleggeriva la propria carente politica in quest'ambito.
Le forze di sinistra non sono riuscite a formare una coalizione; Ennhada ha potuto trarre vantaggio anche da questo.
Negli stati arabi le elezioni hanno un'importanza marginale. Ovunque l'economia è a terra, la disoccupazione in crescita. Negli stati del Golfo non si rivolge alcuna attenzione agli sviluppi democratici, in Siria le persone temono l'esplosione della guerra civile, in Egitto emergono conflitti con il Comitato (o anche Consiglio) dei militari a causa delle incessanti tensioni. Tanto la popolazione egiziana che tunisina devono inoltre provvedere alle centinaia di migliaia di persone libiche profughe della guerra. Dalle televisioni internazionali è stata certamente festeggiata la "liberazione" ma la Libia è ora un paese profondamente diviso. Le migliaia di bombardamenti aerei Nato hanno distrutto gli impianti di estrazione del petrolio, ucciso cinquantamila persone.
Fra le forze progressiste e laiche del Nord Africa e del Medio Oriente c'è preoccupazione riguardo al rafforzamento dei partiti della Fratellanza Musulmana, sostenuti finanziariamente da Arabia Saudita e Qatar.
Prendendo a riferimento il Partito per la Giustizia e il Progresso (AKP) al potere da anni in Turchia, i partiti in Tunisia, Egitto e Siria si presentano all'occidente come nuova alternativa. Anche l'AKP è un partito della Fratellanza Musulmana.

Karin Leukefeld, 25 ottobre 2011
da www.jungewelt.de/2011/10-25/039.php


Appello di solidarietà all’Egitto: difendiamo la rivoluzione
Quello che segue è l'appello alla solidarietà lanciato dalla piazza rivoluzionaria egiziana. Nel testo si denunciano i gravissimi episodi repressivi e di attacco delle "autorità della transizione" contro il movimento che con tenacia e forza in questi mesi sta continuando a lottare per andare fino in fondo con gli obiettivi della rivoluzione.

Lettera dal Cairo ai movimenti delle occupazioni/per la decolonizzazione e ad altri movimenti di solidarietà
Dopo 30 anni vissuti sotto un regime di dittatura gli egiziani e le egiziane hanno cominciato una rivoluzione chiedendo pane, libertà e giustizia sociale. Dopo un’occupazione quasi utopistica di piazza Tahrir durata 18 giorni ci siamo liberati/e di Mubarak e abbiamo intrapreso la seconda e più complessa fase, con l’obiettivo di rovesciare le sue strutture di potere. Mubarak se n’è andato, ma il regime militare resta. Per questo la rivoluzione va avanti continuando a fare pressione, a riprendersi le strade, a rivendicare il diritto al controllo sulle nostre vite e al sostentamento, contro il sistema di repressione che ci ha oppresso per anni. Ma ora, a così poco tempo dal suo inizio, la rivoluzione si trova sotto attacco. Scriviamo questa lettera per comunicare al mondo ciò che stiamo vivendo, come intendiamo combattere la repressione e per lanciare un appello alla solidarietà di tutti e tutte.
Il 25 e 28 gennaio, l’11 febbraio avete seguito gli avvenimenti in televisione e li avete vissuti insieme a noi. Ma abbiamo continuato a combattere anche il 25 febbraio, il 9 marzo, il 9 aprile, il 15 maggio, il 28 giugno, il 23 luglio, l’1 agosto, il 9 settembre, il 9 ottobre. Più volte esercito e polizia ci hanno attaccato, picchiato, arrestato, ammazzato. Ma abbiamo continuato a resistere; a volte riportando una sconfitta, altre una vittoria - mai senza pagarne il prezzo. Oltre mille persone hanno perso la vita nella lotta per cacciare Mubarak; molte di più sono morte dopo la sua caduta. Andremo avanti nella lotta per far sì che queste morti non siano state vane. Nomi come Ali Maher (il manifestante quindicenne ucciso dall’esercito a piazza Tahrir il 9 aprile), Atef Yehia (ucciso con un colpo di pistola alla testa dalle forze di sicurezza nella protesta in solidarietà con la Palestina del 15 maggio), Mina Daniel (uccisa all’esercito in una protesta di fronte a Masepro, il 9 ottobre). Mina Daniel anche dopo la sua morte si trova a subire la sorte perversa di comparire nella lista degli accusati del tribunale militare.
Inoltre, da quando la giunta militare ha preso il potere, almeno 12 mila persone fra noi sono state processate da un tribunale militare, ovvero senza poter chiamare in causa testimoni e con accesso limitato ad avvocati. I e le minorenni vengono rinchiusi nelle carceri per adulti, vengono emesse condanne a morte, la tortura feroce è pratica abituale. Molte manifestanti hanno subito molestie sessuali venendo sottoposte al test della virginità da parte dell’esercito.
Il 9 ottobre l’esercito ha massacrato 28 di noi a Maspero; ci hanno caricato con carri armati e sparato per le strade, manipolando poi i media di stato perché parlassero di violenza fra diverse confessioni religiose. L’episodio è stato censurato; l’esercito sta indagando per suo conto. Stanno sistematicamente prendendo di mira chi fra noi si esprime pubblicamente. La scorsa domenica il nostro compagno blogger Alaa Abd El Fattah è stato arrestato sulla base di accuse inventate. Anche questa notte la trascorrerà in una cella buia.
Tutto questo è determinato da un potere militare che avrebbe dovuto presumibilmente accompagnare il paese nella transizione alla democrazia, che affermava di difendere la rivoluzione e che, a quanto pare, ha convinto di questo molti e molte egiziane e membri della comunità internazionale. La linea ufficiale esprimeva la volontà di assicurare “stabilità”, con rassicurazioni vuote sul fatto che l’esercito sta solo creando un ambiente consono per permettere lo svolgimento delle prossime elezioni. Ma persino quando un nuovo parlamento sarà eletto continueremo a vivere sotto una giunta che detiene il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, senza alcuna garanzia che tutto questo finirà. Coloro che osano sfidare questo paradigma vengono molestati, arrestati e torturati; i processi militari ai civili sono lo strumento primario di questa repressione. Le carceri sono piene di esempi di questa “transizione”.
Rifiutiamo di collaborare ai processi militari e nei procedimenti penali. Non ci consegneremo, non risponderemo agli interrogatori. Se ci vogliono, che vengano a prenderci nelle nostre case e nei posti di lavoro.
Dopo nove mesi di repressione militare stiamo ancora combattendo per la nostra rivoluzione. Organizziamo cortei, occupazioni, scioperi, boicottaggi. Sappiamo dalla quantità di supporto che abbiamo ricevuto in gennaio che il mondo ci stava guardando da vicino, e che stava ispirandosi alla nostra rivoluzione. Ci siamo sentiti più vicini che mai a tutti e tutte voi. Ora è venuto il vostro turno di ispirarci, mentre osserviamo le lotte che portate avanti. Abbiamo marciato fino all’ambasciata statunitense al Cairo per protestare contro lo sgombero violento dell’occupazione di Oscar Grant Square ad Oakland. La nostra forza sta nella battaglia che portiamo avanti insieme. Se soffocano la nostra resistenza l’1% vincerà – al Cairo, a New York, a Londra, Roma, ovunque. Ma finché la rivoluzione vive la nostra immaginazione non conosce limiti. Possiamo ancora creare un mondo che valga la pena di essere abitato.
Potete aiutarci a difendere la nostra rivoluzione.
G8, FMI e Stati del Golfo hanno promesso al regime prestiti per 35 miliardi di dollari. Gli Usa donano al potere militare egiziano 1,3 miliardi di dollari ogni anno. I governi di tutto il mondo continuano a fornire il proprio appoggio a lungo termine e mantengono la propria alleanza con il governo militare egiziano. I proiettili con cui ci ammazzano sono fabbricati in America. Il gas lacrimogeno che utilizzano da Oakland alla Palestina è fabbricato in Wyoming. La prima visita di David Cameron nell’Egitto post-rivoluzionario era finalizzata a concludere un accordo commerciale per la vendita di armi. E questi sono solo alcuni esempi; la vita, il futuro e la libertà delle persone non devono più essere merce di scambio per assetti strategici. Dobbiamo fare fronte comune contro i governi che non rispettano gli interessi della propria popolazione.
Lanciamo un appello ad intraprendere azioni di solidarietà per aiutarci a contrastare queste misure repressive.
Proponiamo una giornata internazionale il 12 novembre per supportare la rivoluzione egiziana, con lo slogan “Difendiamo la rivoluzione egiziana, mettiamo fine ai processi militari per la popolazione civile”. Le iniziative potrebbero comprendere: azioni presso le ambasciate o consolati egiziani che chiedano il rilascio dei/lle civili giudicati/e dai tribunali militari. Anche se Alaa verrà rilasciato chiediamo il rilascio degli altri mille arrestati/e. Azioni che chiedano al governo del vostro paese di non supportare la giunta militare egiziana. Iniziative che chiedano il rilascio dei/lle civili giudicati/e dai tribunali militari. Non solo Alaa, ma tutti/e gli altri mille arrestati/e devono tornare in libertà. Proiezioni video sulla repressione che ci troviamo ad affrontare (come i processi militari o il massacro di Maspero), e che documentino la nostra continua resistenza. Potete contattarci via email per avere materiali e link di riferimento. Videoconferenze con attivisti/e in Egitto. Qualsiasi azione creativa per mostrare il vostro supporto, e per mostrare alla popolazione egiziana che ha alleati anche all’estero.
Se state organizzando o avete intenzione di organizzare un’iniziativa contattateci all’indirizzo defendtherevolution@gmail.com. Ci piacerebbe anche avere foto e video di qualsiasi iniziativa organizzata.

The Campaign to End Military Trials of Civilians (Campagna per la fine dei processi militari alla popolazione civile), The Free Alaa Campaign (Campagna per la liberazione di Alaa), Mosireen Comrades from Cairo (compagn* dal Cairo)

6 novembre 2011
da www.infoaut.org


Invasione nel nord Irak
L'offensiva della guerriglia ha causato pesanti perdite all'esercito turco
Le truppe turche mercoledì (19 ottobre) scorso hanno invaso il nord Irak per la profondità di 8 km. L'unità dell'esercito è stata accompagnata dall'intervento degli elicotteri. Nei contemporanei bombardamenti compiuti dai caccia contro presunte posizioni dei guerriglieri del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori Kurdi), secondo indicazioni fornite dalle forze armate turche, sarebbero stati uccisi almeno 15 combattenti; il PKK parla soltanto di cinque caduti.
Nella notte precedente erano stati compiuti, da un centinaio di guerriglieri del PKK, attacchi su una caserma turca e contro sette basi militari turche disposte presso le città di Cukurka,Yusekova nella provincia di Hakkari direttamente confinanti con il nord Irak. Secondo fonti turche in quelle azioni sono rimasti uccisi 25 soldati mentre i feriti sono 18. Il PKK ha invece dichiarato che ci sono stati almeno 50 soldati uccisi ed altrettanti feriti. Queste azioni, precisa il PKK, sono ritorsioni causate dalle "operazioni di annientamento" turche contro il "territorio di Medya" nel nord Irak controllato dalla guerriglia e per gli arresti di massa di politici kurdi in Turchia.
Martedì (18 ottobre) nella provincia di Bitlis cinque poliziotti turchi chiusi in un mezzo blindato erano rimasti uccisi da una bomba lanciata dal PKK contro il mezzo. L'esplosione avrebbe causato, hanno scritto i media turchi, la morte di tre civili.
Il presidente della Turchia, Abdullah Gul, che giorni prima aveva visitato le truppe confinarie ora attaccate, ha promesso una "vendetta severa" contro gli attacchi dei ribelli più sanguinosi dagli anni Novanta a oggi. Il partito filo kurdo, Pace e Democrazia (BDP), lancia un appello sia al governo che al PKK affinché si giunga a una tregua immediata: "Stop! Ci sono già stati abbastanza morti."
Sempre martedì, nel corso di retate turche sono state arrestate 78 persone elette nei consigli delle città, attive nelle associazioni per i diritti umani, rappresentanti del sindacato degli insegnati, numerosi studenti e anche il vice-presidente del BDP. Tutte le persone arrestate sono accusate di appartenenza all' "Unione delle Comunità del Kurdistan" (KCK), ritenuta un'associazione di copertura del PKK. Il presidente del BDP, Gultan Kisanak, punta il dito contro il governo islamico conservatore (al potere in Turchia) imputandogli di aver avviato, con gli arresti di circa 4mila politici kurdi compiuti dalla primavera 2009 a oggi, un "genocidio politico".
Nel frattempo, in nord Irak, il governo regionale kurdo ha dato avvio agli sgomberi forzati del PKK dai villaggi situati nei territori di Hakurk e Kandil. Questi interventi erano stati richiesti dal governo centrale turco, poiché i militanti del PKK si nasconderebbero fra gli abitanti dei villaggi. La motivazione della deportazione di centinaia di famiglie contadine in nuovi insediamenti, portata dal presidente dal presidente del governo locale, Masud Barzani, è di tenere basso il numero delle vittime civili causate dagli attacchi aerei e dall'artiglieria turca nei territori adiacenti il confine.

Nick Brauns, 20 ottobre 2011
da www.jungewelt.de/regio/T%FCrkei


novara: NO AGLI F-35, MANIFESTAZIONE sabato 12 novembre
L'acquisto e l'assemblaggio di cacciabombardieri F-35 nello stabilimento che Lockheed Martin ed Alenia stanno facendo costruire all'interno dell'aeroporto militare di Cameri, a pochi chilometri da Novara, costituiscono l'ennesimo spreco di soldi pubblici.
La ditta vicentina Maltauro, che ha vinto l'appalto per la costruzione dei capannoni dall'inizio del 2011 ha cominciato i lavori.
Mentre si tagliano spese sociali, sanità, pensioni, scuola, ecc., si spendono venti miliardi di euro per produrre strumenti di morte e distruzione (131 sono i cacciabombardieri che saranno acquistati dall'Italia).
Scarse saranno le ricadute occupazionali sul territorio; al contrario queste risorse saranno sottratte ad altre attività socialmente utili che creerebbero posti di lavoro e benefici sociali (energie pulite e rinnovabili, servizi sociali, istruzione, ricerca, cultura, difesa del territorio, ecc.). Inderogabili ragioni morali contrarie alla guerra e a tutte le fabbriche di armi, unite alla pesante crisi economica, che viene fatta pagare ai cittadini (soprattutto ai ceti sociali più deboli) e tocca le tasche e la vita di tutti, ci costringono a prendere una posizione chiara e decisa.
Per questo continuiamo un percorso di decisa critica pubblica al progetto e proponiamo una Manifestazione di carattere nazionale da tenersi a Novara nella giornata di sabato 12 novembre 2011. Chiediamo l'apporto plurale di diverse realtà che concordino nel contrastare la costruzione e l'acquisto dei cacciabombardieri F-35 (ed il relativo spreco di almeno venti miliardi dei nostri soldi) e rivolgiamo un appello a tutte/i ad aderire e partecipare.
Sabato 12 novembre 2011
Concentramento ore 14.00 - Piazza Garibaldi (stazione F.S.)

per contatti: info@noeffe35.org


Dichiarazione letta in aula da Andy
"Non ti puniscono per quello che hai fatto o non fatto, bensì per quello che sei"
Dal 28 al 30 settembre si è svolto a Bellinzona il processo contro Andi, compagna del Soccorso Rosso e del Revolutionärer Aufbau con l'accusa di attacchi pirotecnichi contro Stato e Capitale, rivendicati "per una prospettiva rivoluzionaria".
Il procuratore, Stadler (lo stesso di Silvia, Billy e Costa), aveva chiesto 4 anni e mezzo di carcerazione. L'8 novembre c'è stata la sentenza al tribunale federale di Bellinzona: 17 mesi di carcere.

Perché siamo qui, oggi?
Certamente non per il catorcio bruciacchiato o per qualche petardo! Ma non esiste!
Il procedimento penale per questo catorcio è stato archiviato già tanti anni fa dalla procura di Zurigo. Il pm allora competente disse, e riporto le sue parole: "Non abbiamo avviato nessun procedimento d'investigazione, nemmeno contro di lei, anche se tutti pensano subito a lei, quando da qualche parte scoppia qualcosa!" E alla domanda sull'importanza della misurazione biometrica: "Non l'applichiamo, è solo un indizio, nel migliore dei casi, per escludere…".
Solo tra parentesi, ci sia concesso di chiedere, se poi il protettore dello Stato fuori servizio era tanto passabile d'attacco, come mai questa macchina se ne sta, zeppa di bagagli, nottetempo sul parcheggio aperto? Il prezioso bagaglio vacanziero, all'assicurazione costò tanto quanto la macchina stessa! Mah, sì, poco importa, ricorda semplicemente gli anni '80, dove molti con lo stesso metodo si pagavano le ferie!!!
Ma torniamo alla domanda iniziale sul perché siamo qui oggi e ci chiediamo inoltre:
Perché la protezione dello stato di Berna rovista negli archivi delle diverse procure?
Perché ordina con missive confidenziali di inviare nei suoi uffici tutti i fascicoli dei cosiddetti "delitti" politicamente motivati non risolti e impolverati da chissà quando, nei suoi uffici che lavorano in modo così misterioso e sono una cattiva miscellanea tra servizio segreto e attività di polizia?
Perché la protezione dello Stato [Bundeskriminalpolizei - polizia criminale federale] è, nei suoi rapporti più datati sulla sicurezza, quasi piena di lode per la militanza della sinistra rivoluzionaria, che sarebbe, al contrario dei fascisti, in fase di rafforzamento e premurosa di non mettere in pericolo delle vite umane? Tuttt'altro oggi: quando è nel loro interesse, si può fare la magia fino a trasformare un botto da monelli in un esplosivo molto pericoloso. Cioè secondo bisogno e utilità sia di coloro, nei servizi, che valutano la situazione, sia dei cosiddetti addetti alla strategia della sicurezza!
Il processo ora in corso ha un lungo antefatto a livello nazionale ed internazionale e riguarda, tra l'altro, anche il Soccorso Rosso Internazionale. Se è un risultato della "nuova Strategia" decisa nel 2006, che sarebbe "interrompere la lunga serie di attacchi già compiuti e gli attacchi futuri che ancora ci si deve aspettare" (Rapporto sulle investigazioni di polizia giudiziaria, H. Uhlmann BKP/protezione dello Stato 31-10 -2006), non lo sappiamo, ma poco importa.
Molto più importante è che qui si tratta solo ed esclusivamente di politica rivoluzionaria, rispettivamente della sua criminalizzazione.
Inizialmente, tuttavia, la procura federale tentava ancora di spiegare in modo esplicito che qui non si tratterebbe di un processo politico. Ma è chiaro che il pm stesso non crede davvero alle proprie esternazioni. Nella sua arringa non fa mistero di che cosa si tratti davvero. Infatti, ieri abbiamo udito ampiamente da Stadler cosa c'è da leggere sull'home page del sito internet dell'Aufbau, cosa si dice nelle rivendicazioni degli attentati, cosa formulo nell'intervista alla WOZ (Wochenzeitung, quindicinale svizzero), quali testi politici si possono trovare a casa mia, di quali contenuti politici, prigionieri rivoluzionari e prigioniere rivoluzionarie e loro organizzazioni mi occupo, che sono una marxista moderna. Diventa palese che, detto in modo un po' spinto, che a loro preme la mia stessa causa: la lotta politica! Ciò che ci divide: una barricata in mezzo.
La nostra lotta rivoluzionaria ha una lunga continuità. E' la lotta per un'alternativa Rivoluzionaria al capitalismo scosso dalla crisi e sfinito, una lotta che non si può né fermare né interrompere!
Al contrario. Sempre più persone sono stufe di un sistema, nel quale vengono buttate per strada giorno dopo giorno; persone che mettono sempre più fretta al lavoro di chi ancora ne ha e ne riduce le prestazioni sociali. Questi attacchi del capitale non diventano centrali solo in Grecia, Spagna, Italia, Israele o nell'area araba, dove la crisi capitalista porta a delle eruzioni quasi esplosive dell'ira di classe.
Anche in Svizzera la situazione di chi lavora ed è escluso/a dal processo di lavoro, per non parlare della gente immigrata o esiliata, negli ultimi anni drammaticamente peggiorata, seppur non ancora nella stessa misura, come per esempio a Londra. Ma anche qui, sotto la superficie del mondo svizzero intatto, i problemi sociali da tempo dilaniano vaste fasce sociali.
Se scoppiano gli scontri sulle strade di Zurigo, se lì le masse lottano, ci stupiamo sempre ancora della perplessità dei padroni e dei loro stravaganti tentativi d'interpretazione (a Londra erano tutti criminali, a Zurigo l'analisi è particolarmente differenziata: si classifica in Party, Secondos, turisti del tumulto e vandali da 1° Maggio!).
E' questa perplessità dei padroni che la procura federale tenta di padroneggiare. Lo tenta, per esempio, con questo processo, dove non si tratta di chiudermi per qualche anno in galera, come persona, bensì di mettere zizzania tra le rivoluzionarie e i rivoluzionari, di fatto da un lato, e la gioventù che si sta politicizzando, dall'altro.
Anche su questo punto il procuratore federale sembra essere d'accordo con noi quando dice, cito: "Punto di vista generale (…) Dalla stampata su RJZ (Revolutionaere Jugend Zuericher, Gioventù Rivoluzionaria di Zurigo) tratta da internet e messa agli atti (…) si evince che esiste un Plenum Giovanile del Revolutinaerer Aufbau denominato RJZ. Si tratta di evitare, costi quel che costi, che delle pene troppo clementi possano incitare dei rei potenziali o per esempio dei giovani della RJZ a compiere delitti simili. Questo aspetto generalmente preventivo si vede attualmente nella corrispondenza dei media dopo le cosiddette Party!". Hanno incluso l'estratto Internet dell'home page di RJZ come ultimo documento dell'ampio fascicolo.
Con questo si rispecchia solo il dilemma irrisolvibile della borghesia; o inventarsi degli scenari velocemente cangianti per superare la crisi o denominare la vera causa: il capitalismo stesso!
Il capitalismo, che non ha problemi, è il problema.
La borghesia, al contrario, non è colta da alcun dilemma quando in Libia la NATO a suon di bombe libera la strada al governo della sharia e come contraltare può mettersi in fila per stillare petrolio, prima che parta l'ultimo colpo!
Non merita una riga questa contraddizione tra l'esaltazione, da un lato, delle masse insorgenti in Tunisia che, presumibilmente, lotterebbero per una "democrazia liberale" di stampo europeo, e dall'altro, la stessa popolazione tunisina, che, se non morta annegata nella fuga dal proprio paese, inizia a rivoltarsi nei lager della Tunisia dove viene massacrata dagli sgherri del Frontex - come è accaduto la settimana scorsa.
Anche nelle metropoli, cioè in Europa, ci sono rivolte; la gente che vi prende parte viene criminalizzata, dichiarata malata, denigrata.
Chi scende in strada, spesso, compie questo passo in relazione alle condizioni oggettive, ha cioè poco da dire sulle connessioni sociali e sugli obiettivi politici.
La legittimità dello scontro con lo Stato capitalista, tanto a Zurigo, che a Londra o Atene per noi è indiscutibile.
Il collegamento concreto e permanente tra queste rivolte e quelle future, i ripetuti scontri di piazza, la resistenza e le lotte di classe con contenuti, progetti e prospettive di tipo rivoluzionario è la vera forza esplosiva temuta, a ragione, dai padroni.
Se la procura federale nella sua arringa riferendosi alla RJZ parla di "prevenzione generale", allora intende proprio questo: vuole buttare in galera, vuole mettere il cuneo esattamente su questo punto di congiunzione!
Siamo pienamente coscienti che la situazione sociale attuale non può per niente essere definita come situazione rivoluzionaria. Sarebbe temerario, idealista e lontanissimo da ogni reale analisi socialista della lotta di classe. La rivoluzione socialista non è davanti alla porta. No, si tratta della prospettiva del processo rivoluzionario - oggi e domani, concretamente!
Si tratta di uscire dalla difensiva politica, di tornare all'offensiva e di riuscire ad assumersi insieme alle altre forze le proprie responsabilità nel processo rivoluzionario della situazione storica attuale, in cui il capitalismo corre verso la bancarotta con gran fracasso e inaudita rapidità.
Bancarotta però non significa purtroppo per forza crollo, ma, spesso, guerra e miseria, come lo mette in mostra un'occhiata agli antefatti delle due guerre mondiali. Il fatto è che oggi la guerra come soluzione delle contraddizioni internazionali, è di nuovo al centro della politica imperialista.
Uscire dalla difensiva storica significa anche prosciugare il terreno sociale della tendenza di destra; entrare nell'offensiva significa sviluppare per la prima volta una forte e concreta presenza, partendo dalla quale diventa tangibile una critica fondamentale e concreta al capitalismo e la connessione di tutto ciò con l'alternativa rivoluzionaria.
Si tratta di collegare, dentro un processo concreto, ciò che è oggettivamente necessario a ciò che è soggettivamente possibile: si tratta di arrischiarsi su di un aspetto della contraddizione, dove non tutte le domande trovano una risposta, dove le soluzioni per i problemi che via via si pongono non sono sempre a portata di mano, dove gli errori sono realmente una parte del processo di realizzazione; dove si sperimenta e si conquista. Qui, ora e concretamente - insieme con altre forze rivoluzionarie in tutto il mondo.
E questa lotta di lunga durata per un processo rivoluzionario può portare anche al passaggio nei tribunali e nelle galere borghesi, che possono rappresentare passaggi appunto anche ineludibili per delle/dei militanti che avanzano coscientemente e con determinazione dentro e con questa lotta in atto a livello mondiale.
Questa è la vera ragione, per cui io, come comunista, oggi (una volta ancora), in ottobre dei militanti anarchici di Atene, poi ancora dei compagni comunisti e una compagna comunista in Belgio, compaiono davanti alla giustizia di classe.
Ognuna e ognuno, partendo da una posizione politico-ideologica propria e da una scelta degli strumenti di lotta, ma decisamente uniti nell'atteggiamento fondamentale, secondo cui a nessun tribunale borghese è concessa la legittimità di giudicare e men che mai di condannare questa lotta.
Uniti anche nella nozione: "Mi - en - leh elencò molte condizioni per il sovvertimento, ma non conosceva tempo per non lavorarci" (B. Brecht)
Chiudo la mia dichiarazione processuale con una citazione di Rosa Luxemburg, mi rivolgo alle giovani e ai giovani piene/i di rabbia, resistenti, politicamente interessate/i e specialmente alle giovani e ai giovani militanti dellaRJZ: "Coloro che non si muovono non s'accorgono delle loro catene" e vorrei aggiungere: "Chi se ne accorge, tenta invece di liberarsene".

Bellinzona, 29 settembre 2011


Una cartolina dalla Svizzera
Ciao raga, stamattina ho ricevuto l'opuscolo assieme al libretto sulle prigioni. Qua non posso ricevere libri da fuori; anche altre riviste che mi hanno mandato non me le hanno passate. Fanno un po' di problemi. Mi hanno parcheggiato qui provvisoriamente in attesa che si liberi un posto altrove, ma chissà quando si libererà. Comunque tutto a posto, spero anche a voi lì a Milanino.
Un abbraccio ribelle Billy.

25 ottobre 2011
Luca Bernasconi, GefaengnisPfaeffikon, Hoernlistr.85 - 8330 Pfaeffikon, Zuerich (Svizzera)


Lettera-appello dal carcere di Rossano (cz)
Cari membri dell'Associazione Ampi Orizzonti, mi chiamo Jarraya Khalil, risiedo in Italia, a Faenza. Attualmente mi trovo presso la casa di reclusione di Rossano Calabro, reparto isolamento nominato AS2 (alta sicurezza 2), per gli accusati del cosiddetto 270-bis, ter, quater, quinques, sixes, "terrorismo islamico"; condannato in appello a 7 anni e 2 mesi, senza prove, violando anche la stessa legge 270-bis, poiché la condanna è stata fondata su previsioni, illusioni e conclusioni che sono in grado, può darsi con l'immaginazione, di compiere in futuro un reato previsto nel 270-bis.
Però con queste supposizioni hanno distrutto la nostra vita, le nostre famiglie. Io, per esempio, ho quattro figli di età inferiore a dieci anni. Per il momento ho scontato tre anni e tre mesi. I miei figli e mia moglie abitavano con me in Italia. Quando mi hanno arrestato sono dovuti andare in Bosnia, perché sono stati cacciati di casa con la forza, per il fatto che io ero considerato un presunto "terrorista". Mia moglie non sapeva che fare con i quattro bambini in mezzo alla strada. In Bosnia si trovata di fronte a tante difficoltà, visto che là la vita è carissima, e loro sono poveri, la scuola era a pagamento ecc., per questo i miei figli non sono riusciti a frequentarla.
Siccome io non potevo ritornare in Tunisia per colpa del regime del dittatore Ben Alì, solo dopo la rivoluzione la mia famiglia è riuscita, con una grande difficoltà, ad andare in Tunisia per essere aiutata dai miei poveri genitori, comunque per vivere in miseria. Tutto questo perché sono un musulmano praticante! Non ho mai fatto o pensato di fare del male a qualcuno, per questo mi hanno ricompensato con 7 anni e 2 mesi di galera.
A Rossano siamo in otto persone accusate con il 270-bis. Siamo lontani e isolati da tutto il mondo; non abbiamo niente e nessuno che ci mandi qualcosa. Abbiamo due cambi di vestiti invernali e due estivi, consumati. Se laviamo l'uno rimaniamo senza cambio e non possiamo lavare l'altro, fino a quando non si è asciugato (il primo). Non abbiamo né shampoo né carta igienica, per colpa della crisi, almeno così ci dicono. Siamo disperati, innocenti che stanno scontando una pena senza aver fatto niente.
Chiediamo umanamente e gentilmente di essere aiutati, così potremo resistere fino a quando ritorneremo in libertà per raggiungere le nostre famiglie. Se potete aiutarci, spediteci qualche vestito o qualsiasi cosa per poter affrontare questo freddissimo inverno. Se siete disponibili ad aiutarci, scriveteci, così vi mandiamo a dire ciò di cui abbiamo bisogno. Vi ringraziamo per la vostra umanità e per il vostro impegno a far uscire la voce degli innocenti. Cordiali saluti, Khalil.

23 ottobre 2011
Khalil Jarraya, Contrada Ciminata Greco, 1 - 87067 Rossano Scalo (Cosenza)


Breve cronologia sugli avvenimenti accaduti nei e intorno ai CIE
Torino, 11 ottobre
Giusto venerdì scorso il ministero degli Interni comunicava alla stampa di avere completato, con un ultimo carico di cinquanta persone, il “piano straordinario di rimpatri” definito da Maroni a Tunisi lo scorso 12 settembre. Come sapete questo accordo italo-tunisino ha permesso di rimpatriare un numero consistente (3.850, secondo il Ministero) di ragazzi e ragazze sbarcati a Lampedusa negli ultimi mesi e poi finiti rinchiusi nei Cie o nelle navi-prigione. Per rimpatriare così tanta gente, ovviamente, Maroni ha dovuto concordare con il ministro degli Esteri tunisino come dribblare le procedure abituali: identificati sommariamente dalla polizia italiana al momento dello sbarco e poi altrettanto sommariamente dentro al Centro, i senza-documenti da rimpatriare in massa vengono caricati, infascettati e circondati di agenti, sugli aerei della Mistral Air che il Ministero affitta a 6.000 euro all'ora; durante un breve scalo a Palermo il console tunisino provvede in tutta fretta a mettere i timbri che mancano sulle loro carte, e poi via verso Tunisi.
Il meccanismo sperimentato in queste settimane è talmente comodo che il Ministero sembra proprio non volerlo abbandonare, anche se formalmente il "piano straordinario di rimpatri" è terminato con il volo di venerdì scorso che, tra gli altri, ha riportato in Tunisia un bel gruppo di reclusi di corso Brunelleschi (abbiamo saputo successivamente che uno di loro ha provato a resistere alla deportazione ed è stato riempito di botte dagli agenti, mentre un altro è stato scaricato temporaneamente nel Cie di Trapani-Milo, per essere poi rimpatriato il giorno successivo). Infatti, nella notte tra domenica 9 e lunedì 10 ottobre un'altra decina di reclusi sono stati prelevati nello stesso modo da corso Brunelleschi e altrettanti da via Corelli a Milano, mentre lunedì mattina in 13 sono stati portati via da Trapani-Milo. Checché ne dica il Ministero, insomma, i rimpatri di massa sembra proprio che stiano continuando, infatti, il Ministero, tanto per cambiare, mente. Ancora questa notte 15 tunisini sono stati portati via dal Cie, per il solito rimpatrio di massa.

Bari, 13 ottobre
Alle ore 16 di ieri presso il Cie di Bari-Palese il personale di Polizia in servizio di vigilanza, ha arrestato un cittadino tunisino, A.K. di 23 anni, rinchiuso nel centro, resosi responsabile di danneggiamento aggravato. L'uomo alle ore 15.30, subito dopo l'udienza innanzi al Giudice di Pace competente per territorio, durante la quale il tunisino ha ricevuto la proroga del trattenimento amministrativo per ulteriori 30 giorni, rientrato nel Cie, ha divelto la finestra di una stanza e, recatosi nel cortile della "zona benessere", l'ha sbattuta violentemente per terra provocando la definitiva rottura del vetro e della struttura metallica. L'uomo è stato arrestato e condotto nel carcere di Bari.

Brindisi, 16 ottobre
Due feriti - uno tra le forze dell'ordine ed uno tra i fuggitivi, che si è fratturato una gamba tentando di saltare dall'alto muro di cinta che protegge il Centro - e 18 tunisini scappati dal Cie di Restinco. E' questo il bilancio di un'altra delle tante giornate di rabbia, disperazione e violenza.

Milano, 20 ottobre
Questa mattina c'è stata una nuova udienza del processo ai due ragazzi arrestati a Milano in seguito alla rivolta all'interno del Cie di via Corelli, lo scorso 6 settembre. Sono stati ascoltati tre dei poliziotti intervenuti la notte della rivolta e il responsabile della croce rossa. Ovviamente i loro racconti non potevano che essere faziosi ma tutti concordavano sul fatto che quella sera i ragazzi rinchiusi nel Cie volevano riprendersi la libertà, queste le parole usate dai teste. La prossima udienza del processo è stata fissata per giovedì 10 novembre.

Bari, 20 ottobre
Alle ore 00.10 di ieri, in zona San Paolo, presso il Cie, Polizia e Carabinieri hanno arrestato quattro tunisini, M.B. di anni 24, N.S. di anni 23, H.N. di anni 18 e C.H. di anni 26, resisi responsabili in concorso tra loro di danneggiamento aggravato. I quattro all'interno del modulo abitativo n.5 danneggiavano una telecamera, due vetri corazzati della finestra della "zona benessere" del modulo stesso ed altri suppellettili utilizzando pezzi di cemento ricavati dal danneggiamento delle pareti. Gli arrestati sono ora rinchiusi nel carcere di Bari.
Torino, 29 ottobre
Giusto l'altro ieri sera, sul tardi, un ragazzo senegalese imprigionato dentro al Cie di Torino ha avuto un piccolo malore. Soccorso dai militari di guardia è stato portato fuori dal Centro, all'ospedale. Da lì, dicono i suoi compagni di cella, non è più tornato. E in effetti, da quel che riporta un lancio d'agenzia, quel ragazzo è stato arrestato: giusto dopo la visita all'ospedale ha tentato di fuggire, ma purtroppo senza riuscirci. E ora, anziché al Cie è alle Vallette.

Bologna, 30 ottobre
Poco dopo le 17 un gruppetto di immigrati ha rotto una cancellata che separa gli alloggi dai campi di calcio. Uno di loro, un tunisino di 26 anni, salendo su una pensilina e usando un palo è riuscito a raggiungere la cima del muro di recinzione e a scappare dopo essersi lanciato da un'altezza di cinque metri, senza riportare danni. Al Cie sono giunti polizia e carabinieri e ci sono stati tafferugli. Tre tra agenti e militari e due immigrati sono stati portati al pronto soccorso per lievi contusioni. un altro immigrato è stato medicato sul posto. I tre immigrati, dopo le medicazioni, sono stati arrestati per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale.

Aggiornamento, 1 novembre
La settimana scorsa è decollato da Palermo l'ultimo charter per Tunisi. A bordo c'erano i soliti 60 tunisini raccolti nei vari centri di identificazione e espulsione (Cie) di tutta Italia e la scorta di 120 poliziotti. Nelle stesse ore da Bari partivano i charter con i 99 egiziani sbarcati poche ore prima sulle coste calabresi e espulsi in tempo record. Dall'inizio dell'anno sono 3.592 i rimpatri coatti verso la Tunisia e 965 quelli verso l'Egitto.
Fanno 4.557 persone espulse in deroga alle leggi nazionali sull'immigrazione. Ovvero dopo un periodo di detenzione spesso non convalidato dal giudice di pace, senza aver potuto incontrare un avvocato, e senza aver potuto parlare con i funzionari di Unhcr, Oim e Save the Children, che lavorano in frontiera proprio per garantire i diritti di chi arriva in Italia senza passaporto. Lo stato d'eccezione è diventato la norma. In nome della maggiore efficienza degli accordi bilaterali in vigore con Tunisia e Egitto. E per il ministero dell'Interno il risultato è doppio. Da un lato un numero di espulsioni fino a un anno fa inimmaginabile. Dall'altro una modifica sostanziale della popolazione dei Cie, dove con la scomparsa dei tunisini inizia una sorta di tregua tra detenuti e forze dell'ordine dopo otto caldissimi mesi di rivolte, sommosse e fughe rocambolesche. Sì perché dallo scorso mese di febbraio, sono stati i tunisini i protagonisti delle più importanti sommosse nei Cie. Da un lato costituivano la maggioranza dei senza documenti detenuti. E dall'altro, essendo appena arrivati nel nostro paese, avevano altissime aspettative per il futuro, ovvero una grande determinazione a tornare in libertà e costruirsi quel futuro sognato per anni e fatto di un banale lavoro e del riscatto della propria famiglia lasciata al paese. I rimpatri di massa però hanno avuto l'effetto sperato da Maroni, e complice anche la brutta stagione, le partenze per Lampedusa si sono per il momento fermate. Da più di un mese e mezzo non si registrano sbarchi. E con il blocco degli arrivi, i Cie si sono tornati a riempire dei poveri delle nostre città. Da un lato gli ex detenuti trasferiti nei Cie a fine pena. Dall'altro i senza tetto e le prostitute oggetto delle retate della polizia nei quartieri popolari. E in mezzo tutta la gente fermata un po' a caso per un banale controllo di identità. Che sia il controllore sul tram, il posto di blocco al casello o la polfer nelle stazioni ferroviarie. Alcuni vivono in Italia da una vita. Fuori hanno moglie e figli che li aspettano. Altri in tanti anni non sono mai riusciti a ricostruirsi una vita. Condannati a una vita ai margini perché privi di quel pezzo di carta che ti permette di firmare un contratto di lavoro o di affittare una casa. E ridotti a uno straccio dalla vita in strada.

Torino, 5 Novembre
Sotto la pioggia battente, poco dopo le otto e mezza di sera, cinque reclusi provano a scappare dall'area viola del Centro. Intanto, i loro compagni dell’area gialla e di quella blu urlano e battono: "Libertà!". Il tentativo di fuga fallisce subito, ma gli animi di tutti rimangono accesi. La polizia entra nelle aree a reprimere la protesta, accanendosi in particolar modo su di un recluso, circondato e picchiato; le urla però continuano.
Intanto un gruppo di solidali si raduna sotto alle mura del Centro, dove viene intercettato dalla volante che fa la ronda fuori dal perimetro, evidentemente per acciuffare nuovi ed eventuali aspiranti evasi. Due compagni vengono portati in Questura per l'identificazione, gli altri identificati sul posto. Dentro la protesta si riaccende, ma solo nell'area viola, dove tra le altre cose alcuni reclusi chiedono la liberazione dei due solidali fermati. La nottata finisce con i cinque evasi riportati in sezione e i due compagni rilasciati.

Torino, 9 Novembre
Giusto tre giorni dopo l'ultima fuga fallita, un'altra evasione mancata in corso Brunelleschi: nella notte tra martedì e mercoledì sei ragazzi hanno provato a scavalcare il recinto dell'area gialla. Ripresi tutti subito, uno di loro è stato accusato di aver insultato un - irascibile - ispettore e quindi malmenato. Nessuno dei sei è stato arrestato.

Torino, 10 novembre
Questa notte, quattro dei sei ragazzi protagonisti del tentativo di fuga sono stati prelevati dalle loro celle e rimpatriati verso la Tunisia. Insieme a loro altri sei reclusi, sempre tunisini. Non sappiamo, ovviamente, se questa deportazione sia stata in qualche maniera una ritorsione per i fatti dell'altra notte o se fosse già programmata; è evidente, però, che stanno proseguendo i trasferimenti di massa verso la Tunisia, nonostante il Governo abbia annunciato la loro fine più di un mese fa.

Milano, 10 novembre
Il processo in corso a Milano ai due ragazzi arrestati in seguito all'ultima rivolta nel Cie, è continuato con un'udienza lampo durante la quale è stato ascoltato l'ultimo poliziotto, per ragioni di tempo non c'è stato l'esame degli imputati che è stato rinviato, insieme alla sentenza. Durante l’udienza di martedì 15 novembre sono stati ascoltati i due ragazzi arrestati per la rivolta di settembre ed entrambi hanno rivendicato il motivo del loro arresto, cioè l'aver tentato di riconquistare - attraverso la fuga dal Cie - la propria libertà. I ragazzi hanno inoltre rispedito al mittente le accuse di aver procurato lesioni a qualche poliziotto affermando invece l'esatto contrario; uno dei due ragazzi venne picchiato a tal punto da perdere i sensi e poi risvegliarsi in ospedale in stato d'arresto. L'accusa ha chiesto un anno e quattro mesi per entrambi i prigionieri; gli avvocati con le loro arringhe hanno portato in aula la vergogna dei Cie. Il processo si è concluso con la condanna per entrambi a otto mesi di carcere ma sorprendentemente hanno applicato la sospensione pena quindi i ragazzi dovranno essere scarcerati oggi stesso. Erano felicissimi, ora non sappiamo dove siano, sicuramente non in carcere ma non escludiamo che possano essere nuovamente rinchiusi in un Cie.

Milano, novembre 2011
Lettera dal carcere di S. Vittore (milano)
Vi saluto tutti, la salute va bene. Sono inquieto perché la mia famiglia è sola. Sono venuto in Italia per lavorare per guadagnare un po' di denaro per la famiglia, invece mi trovo in carcere. Da due mesi sono in prigione, non so quanto ci dovrò restare. Sono triste, non so come la mia famiglia tira; ho scritto a mia moglie, non ho ricevuto risposta, sono molto inquieto.
Quello che ci danno da mangiare non è buono, mi fa male allo stomaco. Sono molto stressato. Ho sempre fatto sport. In carcere ho smesso di correre, di allenarmi, ho iniziato a fumare. Qui fa freddo, e lo sentiamo nelle ossa. Ho solo gli abiti che mi avete portato. Vi ringrazio anche per il denaro. Le guardie ci trattano come montoni e pecore: ci urlano dietro, sbraitano, cercano di intimorirci, sempre.
Vi chiedo di continuare a scrivermi, perché nella corrispondenza trovo un buon sostegno sentimentale. Vi ho visti in tribunale, mi ha fatto tanto piacere, vi saluto tutte e tutte. Dite all'avvocato che dica in tribunale che sono padre di tre bambini piccoli, che ho bisogno di loro e che sono loro necessario; e che dica al giudice che mi condanni pure a 10 anni ma con la condizionale.

21 ottobre 2011
Nahed Ferchichi, p.zza Filangieri, 2 - 20123 Milano


Lettera dal carcere di Prato
Carissimi compagni/e di Ampi Orizzonti, ho ricevuto l'opuscolo, mi ha fatto piacere avere notizie sul pianeta carcere e sul movimento No Tav.
Per noi prigionieri aggiornarsi su questi due fronti è difficile, se non impossibile, date le manovre e contromanovre che il regime e i suoi media focalizzano sull'unico mezzo di comunicazione di massa a nostra disposizione, la televisione. I giornali sono un optional di cui non tutti possiamo beneficiare, vista la nostra precaria situazione economica. Ma anche lì primeggiano le squallide vicende del Berlusca oppure dei suoi burattini, quindi non ci perdiamo un gran che.
Ero abituato a seguire i No Tav dal tg, tutte le mattine alle 8 prima di andare alla consueta ora d'aria. Qui nel carcere di Prato, come nel resto del mondo, ci sono simpatizzanti No Tav, della loro lotta all'arroganza e alla prepotenza dell'ordine marcio dei padroni della terra. Ci sono prigionieri che non si fermerebbero alla sola simpatia, ma, volentieri, abbraccerebbero la causa.
Il 10 settembre scorso Maroni ha dichiarato pubblicamente che alcuni componenti No Tav hanno intenzione di uccidere rappresentanti dell'ordine e della legge. Sinceramente il sarcasmo della Litizzetto mi fa ridere meno di quell'affermazione. I No Tav non sono degli assassini; sono persone oneste che lavorano e vivono con il sudore della loro fronte. Sono padri e madri di famiglia, come Nina (prigioniera di un regime che della ferocia ha fatto l'arma contro la libertà), a lei va la mia solidarietà.
Sono ragazzi che vanno a scuola luogo dove, se si vuole, si incontra la realtà e la verità su un sistema che affonda le fondamenta sulle menzogne e sugli intrighi. E forse l'affermazione di Maroni è stato uno dei tanti intrighi che il sistema usa come tassello, per reggersi, per evitare il suo ormai inevitabile sgretolamento nonché per giustificare le proprie azioni repressive e sanguinarie degne di uno stato infame. Maroni ha un esercito ben equipaggiato, al quale però manca la cosa fondamentale: la libertà! Devono stare agli ordini come dei burattini che attendono il burattinaio che ne tira i fili. Inoltre, mi domando e dico, ma questi che stanno ai comandi non hanno una famiglia? Non hanno fratelli e sorelle, non hanno figli?
Con la caduta del muro di Berlino cadde pure l'ultimo baluardo stalinista, il mio paese, l'Albania. L'esercito è sceso nelle strade con l'ordine di far scorrere fiumi di sangue pur di difendere il regime dalla folla decisa a farlo cadere. I soldati sparavano ad altezza d'uomo, ma la folla non fece marcia indietro. Avevo poco più di 12 anni. Assieme ad altri ragazzini ci misero in prima fila e dietro di noi marciava la folla. Una madre alla quale avevano ucciso il figlio e il marito gridò: avete un cuore? Avete una coscienza? State sparando contro i vostri fratelli, contro i vostri figli! I soldati si ritirarono, alcuni si dileguarono, altri si tolsero la divisa, alcuni si dileguarono assieme alla folla armata solo di coraggio e volontà.
Evidentemente i servi dello stato italiano, ormai appannati di superbia e di desiderio di carriera, sparano lacrimogeni e proiettili di gomma contro i No Tav, inconsapevoli che dall'altra parte della barricata c'è la più temibile arma di tutti i tempi: il coraggio e la volontà! Forse per questi miserabili è giunto il momento di riflettere (troppo difficile per loro, sono pieni di sé) così la finiscono con il prezioso ruolo dell' "utile idiota" che il sistema li ha condotti ad assumere per portare a termine i suoi fini, che, con il bene della collettività, non hanno nulla a che vedere.
Un saluto ai gladiatori No Tav e a tutti coloro che lottano.
A testa alta, fino alla fine. Mirgen Krepi

fine settembre 2011

***
Carissimi/e compagni/e, ricevo mensilmente l'opuscolo e, nel leggerlo mi rendo conto che anche per NOI c'è un angolo pulito, dove incontrarsi, in un contesto di melma putrida, qual è il mass-media d'oggi, che ci assorda col suo ribollire di voci, che ci acceca con le sue immagini funeste.
Nell'opuscolo del mese di agosto avevo letto la lettera di un compagno segregato nel carcere di Nuoro, e, dopo aver visto e sentito la reazione dei compagni prigionieri qui a Prato al precipitare della speranza, date le conclusioni del Senato in merito alla drammatica situazione in cui sprofondano i lager italiani, ho preso la penna.
Innanzitutto, mi associo completamente al pensiero espresso dal compagno che si trova a Nuoro. La mia intenzione, tuttavia, è di condividere riflessioni con i compagni che lottano nelle carceri italiane, soffermandomi su due punti della lista che il compagno di Nuoro ha esteso: 1) sciopero dei lavoranti; 2) sciopero dell'acquisto di prodotti alla spesa.
Sul primo punto dico solo che gli scopini e i cuochi che vengono da una ditta esterna (in un eventuale sciopero dei lavoranti prigionieri) allo stato non costeranno rispettivamente 100 e 400 euro, ma molto di più.
Sul secondo punto, invece, c'è da dire tanto. Un giorno, mentre un prigioniero spesino distribuiva la spesa in sezione, ho scrutato furtivamente nel tabulato la somma che i prigionieri della sezione in cui mi trovo avevano complessivamente speso. Ammontava a più di 2 mila euro, in una settimana. Qui a Prato ci sono 8 sezioni MS (media sicurezza), due sezioni AS (alta sicurezza), una sezione collaboratori di giustizia e una sezione semiliberi. Ho fatto sbrigativamente i conti: per la spesa effettuata nel carcere di Prato, in un mese, sono venuti fuori più o meno 100 mila euro. Non ho bisogno di dire ad altri prigionieri come me, chi mette le mani sul ricco piatto che ogni lager possiede, tra l'altro a spese della nostra vita! Ciò che voglio dire, però, è come far vibrare, e con quanta forza, il colpo per raggiungere il cuore del potere che ci tiene segregati, e schiantarlo.
Ricordo a tutti che, chi in un modo e chi nell'altro ha tentato di sfuggire al marchio della miseria che i ricchi e i padroni tentano di stamparcelo a fuoco, si trova qui. Ricordo soprattutto che ad ogni modo siamo uomini diversi dagli altri, da tutti quelli che rimangono a testa bassa, ingoiando merda fino all'ultimo dei loro giorni in una rassegnazione muta, che rende quei giorni uguali e le notti inesistenti!
Si dice che con le illusioni, in questo contesto pieno di bastardi e traditori, si ottiene solo di scontare l'intera pena, se non di allungarla. Beh, già usciamo alla fine della pena e la mia non illusione, ma speranza, ed intatta!
Ribelliamoci senza pensare alle conseguenze che ne potranno derivare!
Un saluto a voi e ai prigionieri che lottano.
A testa alta fino alla fine! Mirgen

21 ottobre 2011
Mirgen Krepi, via La Montagnola, 76 - 59100 Prato


Lettera aperta dal carcere di Catania
Carissimi/e compagni/e, come sicuramente molti di voi hanno già appreso dalla tv e dai giornali, si stanno pian piano scoperchiando i tombini da dove sta venendo fuori tutta la melma che lo stato italiano e in particolare la giustizia italiana ha accumulato da decenni. L'opinione pubblica sta venendo a conoscenza dello stato di frustrazione, degrado, umiliazione, persecuzione, violenza a cui è sottoposta tutta la popolazione carceraria.
All'esterno delle mura, le famiglie dei detenuti stanno portando avanti già da molti mesi una battaglia non-violenta, pur se impari, al fine di ottenere amnistia e indulto. Da mesi ovunque si susseguono manifestazioni davanti a molte carceri, al fine di denunciare il degrado e le condizioni disumane a cui i detenuti sono sottoposti.
La protesta in modo energico, si è estesa anche sul web, in Internet si sono costituiti tantissimi gruppi di cui fanno parte, oltre ai familiari dei detenuti, anche ex detenuti, avvocati, giornalisti, opinionisti e gente comune…
Come avrete saputo giorni addietro, c'è stata una convocazione straordinaria del senato, voluta dai radicali, per discutere la urgente questione carceraria.
In quell'occasione il neo ministro Nitto Palma ha accampato una serie di enormi minchiate (almeno così io le definisco) al solo fine di prendere tempo e placare gli animi.
Fortunatamente non è stato così, fuori gli animi non si sono placati, anzi, i commenti, gli eventi e il grido di "amnistia subito" si sono triplicati.
In alcune carceri è stato attuato per qualche giorno lo sciopero della fame, il vitto è tornato indietro nelle cucine; in altre hanno boicottato la spesa, in altre ancora è stata fatta la propria parte in altro modo.
Queste carceri purtroppo le contiamo sulle dita di una mano. Chi è fuori e rivendica i diritti dei detenuti, ha anche bisogno dell'aiuto di chi sta dentro.
Ormai il sistema giustizia è in difficoltà non ci sono i soldi per comprare nemmeno la carta igienica, e in alcuni posti hanno denunciato carenza di denaro per comprare il vitto: da questo bisogna dedurre che lo stato è in ginocchio, per cui tocca a voi dare il colpo di grazia. Invitate tutti i lavoranti a chiudersi, a rinunciare alo lavoro; in questo modo lo stato sarà costretto ad ingaggiare ditte di pulizie esterne, che si fanno pagare a suon di quattrini, non con quei pochi soldi che vengono dati (in carcere) ai lavoranti sfruttati… utilizzate la battitura, fatevi sentire giornalmente, insomma cercate di dare il vostro contributo dall'interno nella maniera in cui ritenete opportuno…
Lo stato invece di avere cura dei ristretti li porta costantemente al suicidio… in quest'ultimo mese sono morte ben quattro persone, gli ultimi due suicidi avvenuti a Palermo e Castrovillari, erano preannunciati, potevano essere evitati se soltanto coloro che giudicano avessero avuto delle coscienze, ma così non è.
Lo stato e chi lo rappresenta adesso non può più nascondere le sue malefatte, all'appello manca soltanto di far venir fuori le squadre di picchiatori, quegli sporchi agenti che senza scrupoli giornalmente si rendono responsabili di pestaggi nelle segrete della carceri, che agiscono a volto coperto… pestaggi che fino ad oggi, in molte occasioni, sono sfociati in omicidi con la benedizione e la copertura dei nostri governanti, dei direttori e dei signori magistrati…
Chiudo allegando una lettera che la dott.ssa Ada Salmonella, psicologa presso il tribunale penale e civile di Roma e le carceri di Regina Coeli e Rebibbia, ha inviato al presidente della repubblica.

Chi fosse interessato alla lettera della psicologa, essenzialmente una descrizione circostanziata del degrado sanitario, igienico e dell'abbandono culturale-sociale vissuto dalle persone imprigionate, può richiederla a noi che provvederemo a spedirgliela.


La libertà non si chiede, si conquista
Volantino distribuito a milano sotto il carcere di san vittore
Nelle carceri italiane l'estate non è stata molto diversa dagli anni passati, ci sono state lotte un po' in tutta Italia, soprattutto nelle carceri delle grandi città.
In modo più o meno organizzato i detenuti hanno strutturato orari di battitura, scioperi del carrello, della spesa e della fame. In alcuni casi i detenuti hanno firmato un esposto, indirizzato al Ministero di giustizia, col quale denunciavano le condizioni di vita disumane nelle carceri, sottolineando l'assenza delle équipe educative e mediche.
Le risposte che il DAP e il Ministero daranno a questi esposti non saranno diverse da quelle date fino ad ora, ovvero:
- aggravamento delle pene per le persone recidive;
- aumento ed estensione del regime punitivo dell'art. 14-bis dell'o.p., che colpisce con l'isolamento per 6 mesi, rinnovabili, tutti coloro che in galera non accettano di sottomettersi ai soprusi;
- aumento del numero dei "suicidi" e delle morti per "cause naturali", fra le quali vengono spesso annoverati i decessi avvenuti a seguito di pestaggi da parte delle guardie (nei primi 6 mesi del 2011 nelle carceri italiane hanno perso la vita 100 detenuti);
- intensificazione della censura sulla posta;
- aumento dei prezzi dei beni acquistabili all'interno delle carceri, costringendo in questo modo i detenuti a gravare sui familiari o, per i meno fortunati, sui compagni di cella. A questo si aggiunge la diminuzione dei cibi che possono essere portati dai familiari con regolamenti che variano da carcere a carcere nonché dalla discrezionalità della guardia di turno. I detenuti sono costretti a comprare persino la carta igienica e le lampadine, i medicinali e i prodotti per l'igiene della cella perché la direzione carceraria ormai non fornisce pressoché nulla;
- reintroduzione della pena per oltraggio a pubblico ufficiale;
- ridefinizione in modo discrezionale dei limiti della "modica quantità" per la detenzione e la coltivazione di sostanze stupefacenti;
- prolungamento da 6 a 18 mesi del tempo di reclusione nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) per gli immigrati.
Si capisce quindi che non c'è alcuna volontà di risolvere i problemi né tanto meno le cause. L'esito della recente discussione al Senato conferma invece che l'unica forte volontà è quella di costruire nuove strutture carcerarie, nella convinzione che l'elevato numero dei detenuti sarà inevitabilmente destinato a salire, così come accade da almeno un decennio. Una realtà tanto drammatica ed esplosiva da giustificare lo "stato di emergenza", dichiarato dal governo fin dal gennaio 2010. Un'emergenza che però non riguarda le condizioni di vita dei quasi 70 mila detenuti nelle carceri italiane, più qualche migliaio nei centri di espulsione. E' certo che l'ampliamento del numero delle celle non servirà a distribuire in più spazio lo stesso numero di detenuti ma a rinchiudere un numero crescente di persone.
La sola urgenza del governo è quella di indirizzare i fondi pubblici nelle tasche dei padroni, sempre più preoccupati dagli imprevisti della crisi economica globale. Una soluzione che - come per l'Alta Velocità (TAV), le "grandi opere" e la privatizzazione dei servizi pubblici essenziali - va bene un po' a tutti, perché accontenta imprenditori e politici sia di destra che di sinistra.
La gravità della situazione nelle carceri non solo non costituisce il problema ma è del tutto utile alla realizzazione di queste scelte. L'emergenza permette, come è stato per L'Aquila post-terremoto, di derogare dalle leggi vigenti in materia di appalti pubblici, di tutela ambientale e di sicurezza del lavoro. Mentre si taglia e si privatizza ciò che resta della sanità, dell'istruzione e dei trasporti pubblici, aumentandone i costi, si trovano i fondi per costruire 11 nuove carceri e 20 padiglioni, opere dichiarate dal governo di "pubblica utilità".
Vista la situazione, come si può pensare ad amnistia, indulto o ad un qualsiasi provvedimento di liberazione anticipata?
Nel 2006 un provvedimento di indulto permise la scarcerazione di 22 mila persone ma, nel giro di due anni, non solo si tornò al sovraffollamento iniziale ma in situazione interna ben più aspra, dovuta ai tagli alla spesa pubblica intercorsi in quel periodo.
La legge sull'applicazione dei domiciliari, del dicembre 2010, ha portato fuori dal carcere soltanto 3 mila persone in quasi un anno, lasciando completamente inalterata la situazione, nonostante fosse in vigore lo "stato di emergenza" già dall'inizio dell'anno.
Crediamo che un provvedimento di liberazione anticipata non possa cambiare la realtà all'interno delle carceri in modo concreto e stabile. Anzi, questa potrebbe anche peggiorare se la liberazione venisse concessa sulla base dei criteri premiali e punitivi definiti dallo stato, perché avrebbe l'effetto di indebolire la solidarietà e l'unità che sono la vera forza di ogni lotta.
Per questo noi siamo senz'altro contro la premialità e la differenziazione che creano l'individualismo del "si salvi chi può"; la liberazione anticipata é un obiettivo immediato e irrinunciabile ma dev'essere ottenuta in modo generalizzato ed egualitario. La lotta deve servire a rafforzare la solidarietà e l'organizzazione all'interno e con l'esterno perché le proteste estive hanno espresso rivendicazioni più ampie della sola amnistia, che necessitano di forza, coraggio e intelligenza per poter essere sostenute efficacemente.
Una piccola parentesi per capire meglio alcuni termini.
L'amnistia è una mela buona, prende il reato e lo cancella. Ma, proprio perché è buona, la distribuiscono poco ovvero la applicano (se mai la applicheranno) a quei reati cosiddetti ordinari, come ad esempio quelli contro il patrimonio ma se vi è una qualsiasi aggravante non si ha più diritto all'amnistia: il furto semplice viene amnistiato ma non se vi è un'aggravante ma si sa che quasi nessuno è dentro per furto semplice.
Va anche detto che se intervenisse un'amnistia, uno dei pochi vantaggi che se ne potrebbe trarre sarebbe quello che verrebbero amnistiate un po' di multe, cioè quelle "pene pecuniarie" che accompagnano sempre una condanna penale. Questo non è assolutamente secondario perché, se non pagate dopo la condanna, queste multe impediscono di avere accesso ad alcune semplici cose come ad esempio il passaporto oppure se viene disposto il blocco anagrafico la carta d'identità non è più valida per l'espatrio; se la multa non viene pagata si può essere sottoposti a misure di sicurezza e di conseguenza al ritiro della patente. La gran parte delle persone uscite dal carcere non paga le multe e quindi, di fatto, sono sempre costrette a restrizioni, non c'è scampo. Non tutte le multe comunque verrebbero amnistiate ma solo alcune, la ragione, se c'è, come spesso in questi casi, è difficile afferrarla.
L'indulto fa uscire anche detenuti con pene più lunghe, reati quindi più gravi, ma è una mela meno appetitosa dell'amnistia. Infatti é implicita nell'indulto l'applicazione della "reiterazione specifica infraquinquennale", cioé la recidiva sullo stesso tipo di reato: se si é beneficiato dell'indulto e si viene riarrestati entro 5 anni e si prende una condanna superiore ai 2 anni, si torna dentro con l'aggiunta della pena che era stata "scontata" con l'indulto.
Oltre alle due mele, buona e meno buona, c'è poi la possibilità, per chi ha raggiunto gli ultimi tre anni di pena, di poter uscire ma, come ben sappiamo, pochissimi possono godere di questa possibilità (per mancanza di un alloggio considerato idoneo, per mancanza di sintesi, ecc). Esclusi a priori da tutto ciò sono i "reati ostativi" ("associazione sovversiva", "terrorismo internazionale", "associazione di stampo mafioso" ecc.) ai quali vogliono aggiungere anche il "reato" di rapina.
Ottobre 2011
OLGa, Milano - olga2005@autistici.org
CP 10241 intestata ad "Ampi Orizzonti", 20122 Milano


Lettera dal carcere di Carinola (CE)
Per prima cosa vengo ad esprimere tutto il mio appoggio, la solidarietà e complicità ai compagni Black Block arrestati per i fatti di Roma del 15 ottobre […].
Il sindaco di Roma Alemanno, che condanna gli incendi avvenuti durante gli scontri, si è forse dimenticato degli incendi dei campi Rom messi in atto dai suoi "nipotini" fasci? Eppure nessuno, compresi Alemanno, opposizione e il vescovo di Roma, hanno avuto i "coglioni" di condannare gli atti di razzismo, perché i Rom, come i Sinti, come gli extracomunitari devono essere cacciati dalle città metropolitane e periferiche per garantire la tranquillità della società borghese e razziale.
Vergognatevi, pagliacci da teatrini di piazza. Come anarchico vi dico: la vostra democrazia mascherata la userò come carta da cesso, mentre le banche, le galere, i Centri di Permanenza = carceri, saranno i nostri obiettivi da attaccare.
Non sono le vostre galere, né le vostre condanne di morte, né i vostri tribunali a fermare quello che voi chiamate: teppismo. Pensate al vostro terrorismo di stato e il vescovo pensi alla pedofilia dei preti […].
Un anarchico arrabbiato, Mauro

17 ottobre 2011
Mauro Rossetti Busa , via S. Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)
Lettera dal carcere di Cremona
Ciao ragazzi, sono Stefano di Bergamo […]. Purtroppo per una serie di problemi personali sono ricaduto nell'uso delle sostanze, mi sono ritrovato a commettere dei furti, in uno di questi mi hanno preso, in flagranza, qui a Cremona; ed eccomi qui da questa parte delle mura a raccontarvi com'è qui nel lager di Cà del Ferro…
Ho scritto fuori già due lettere, spero siano arrivate. Qui me l'hanno messa giù a modo loro, riservandomi, fra l'altro battute sui volantinaggi, sui presidi, facendomi capire che non me ne faranno passare una. Appena sgarro e creo problemi, mi faranno rapporto disciplinare e mi manderanno in isolamento. A me le minacce non hanno mai fatto, non fanno e non faranno paura.
Mi hanno messo nell'infermeria, dove la situazione scoppia. Qui dovrebbero esserci solo persone con problemi di salute, e invece non è così. In infermeria non ci danno i fornelli per poter cucinare e neppure si possono comprare cibi […].
Adesso (4 giorni dopo) sono in sezione normale in cella con Angelo. Vi saluta e ripete che si sente la mancanza dei presidi, della forza che danno. Il momento è più importante che mai, soprattutto data la situazione creata dal sovraffollamento. I detenuti hanno bisogno di non sentirsi soli. C'è bisogno di presenza, vicinanza, lotta; se i detenuti non si sentono appoggiati la paura la fa da padrona; paura dei rapporti, dell'isolamento, della perdita della liberazione anticipata, o peggio, della perdita delle pene alternative; paura dei trasferimenti lontani, o addirittura, dell'art. 14-bis (istigazione alla rivolta ecc.).
Dai ragazzi è il momento di farci sentire, compagni non ce ne sono molti, ma tanti vicini, pur non sbilanciandosi, sì. Dai, spezziamo le catene del silenzio.
L'altro giorno c'è stato un tentativo di suicidio proprio in infermeria; per fortuna ci si é accorti di quel che accadeva, è stato salvato in tempo e portato in ospedale. La situazione in infermeria è allucinante, la conosco bene. Sono sieropositivo: per 34 giorni non ho potuto prendere i farmaci, perché non c'erano, che servono a stabilizzare gli anticorpi e a fermare la viremia, insomma a salvarmi la vita. Gli antidolorifici, tipo l'Aulin, se li vuoi, te li devi comprare mentre i carrello dei farmaci è pieno di calmanti, sonniferi, antidepressivi, psicofarmaci spesso distribuiti senza prescrizione sotto spinta delle guardie che dicono: "sì sì almeno sta tranquillo"; e quando c'è la prescrizione viene pure aumentata la dose con tutte le controindicazioni che ci possono essere quando uno, ad esempio, è messo male con il cuore e con la pressione.
Attraverso i pacchi postali non è più possibile far entrare dei cibi, solo vestiti e "a grande concessione" libri. A proposito, mandatemene qualcuno, non tanti, perché li contano nel peso totale di quel che possiamo ricevere (20 kg al mese). Se potete, ma con tranquillità, ci sarebbe bisogno anche di sostegno economico.
Un grosso saluto da un anarkico nel cuore e nell'anima che non smetterà mai di lottare, neanche qui dentro; al saluto si unisce Angelo (gli hanno bloccato la corrispondenza in entrata, se non da persone autorizzate al colloquio, lo possono fare?)

***
Ciao ragazzi, allora? Com'è? Grazie mille per il presidio-concerto fatto ieri qua fuori.
In sezione era un po' che vi aspettavamo e, a dirla tutta, c'era qualcuno che era un po' deluso. Ma ieri avete dimostrato di esserci. Io ne ero certo. Io, Stefano, forse passerò qualche piccolo guaio, perché in sezione, in seguito alla vostra presenza, sapendo tutti che fino a qualche mese fa anch'io ero tra voi, urlavano il mio nome chiedendomi un discorso. Appena ho iniziato il discorso è arrivato in sezione l'ispettore. Si è fatto il giro delle celle dicendo ironicamente "bravi, bravi, fate bene", così molti hanno tolto l'attenzione per non subire conseguenze; poi si è rivolto a me con "bravo, continua a fare quello che stavi facendo"… non ho continuato il discorso.
Qui la gente è contenta, mi chiede informazioni, mi dicono di stare attento perché mi sballano (trasferiscono); ma va beh continuerò in altre carceri.

10 ottobre 2011
Stefano Agazzi, v. Palosca, 2 - 26100 Cremona

***
Ciao cari compagni, sono lieto che dopo tanti mesi di mancanza dei vostri presidi, vi siete movimentati e siete finalmente venuti, i carcerati si sentivano "abbandonati", e quello di ieri ha già avuto effetti positivi su tutti noi; ha infatti ridato il sorriso e la fiducia nell'apprendere che al di fuori delle mura c'è chi lotta assieme a noi.
Ieri quando siete andati via, c'è stata una battitura e veniva sollecitato il compagno Stefano a tenere un discorso in sezione, ma subito sono intervenuti i responsabili della sorveglianza, che si sono immediatamente diretti nella nostra cella, chiedendo a lui "Stefano", come si chiamava, come se non erano già al corrente.
Il giorno 17 ottobre 2011 verrò scarcerato, dopo 2 anni, di cui 18 mesi, come sapete, trascorsi in questo lager di Cà del Ferro…
Vi chiedo di continuare almeno ogni due mesi massimo, a presidiare questo lager di merda, a portare solidarietà a tutti i reclusi rinchiusi.
Un caro saluto da Angelo.

Angelo Margiotto, v. Palosca 2 - 26100 Cremona


Lettera dal carcere di Imperia
Ciao amici miei, sono Fabio […] vi scrivo questa poesia e mi farebbe molto piacere che venisse pubblicata sul libretto:
"Quel grosso portone di ferro si chiude di nuovo dietro alle mie spalle.
Ecco ci risiamo dopo che ti eri riproposto tante belle cose.
I corridoi, le celle, gli odori, la gente, mi sembra tutto così familiare,
mentre il tintinnìo delle chiavi alle cinture delle guardie
inizia già a picchiarmi in testa,
eccoci amico, di nuovo qua pronto per un'altra battaglia...".

17 ottobre 2011
Fabio Parodi, v. G. Agnesi, 2 - 18100 Imperia


Lettera dal carcere di S. Remo
Cari compagni/e, mi avete meravigliato, sono rimasto esterrefatto da come mi avete preso in considerazione.
Voglio subito rispondere sulla "modica quantità". La detenzione di modica quantità per uso personale non esiste. Esempio: se una persona è incensurata ed è in possesso di 2-3 gr. di hascisch, può succedere questo: se gli sbirri sono di buon umore si mettono in tasca il "fumo", risalgono in macchina e ne vanno. Questo vale anche se il ragazzo, la ragazza fermati e trovati in possesso di stupefacenti sono figli del sindaco, del dottore, di gente di potere; ok questo vale anche per chi è figlii di carabinieri. Se invece gli sbirri sono di cattivo umore, di solito i carabinieri "ligi al dovere", "veri" soldati dello stato italiano, portano in caserma la persona incensurata, eseguono la procedura d'arresto dopodiché la portano in carcere. Il giudice ha 5 giorni di tempo per interrogarla; se non viene interrogata in quello spazio di tempo deve essere rimessa in libertà. Ma per il 99 percento delle volte il giudice arriva sempre ad interrogarti.
Se sei una persona scaltra, quando il giudice ti chiede dove hai acquistato gli stupefacenti, gli devi rispondere: ho paura di collaborare causa eventuali ritorsioni nei miei confronti e della mia famiglia. Ma c'è da dire che i giudici risono "evoluti", glielo puoi dire in maniera informale/confidenziale, che rimane tra il giudice e l'imputato, senza nessuna firma d'accusa, in modo tale che il giudice componga il puzzle, la mappatura dello spaccio. Sta' di fatto che un incensurato al massimo entro 10 giorni lo si scarcera, libertà assoluta, freedom. Questo la prima volta. La seconda volta, ti possono tenere in carcere un paio di mesi, però bisogna essere consapevoli che una/o accumula tre-quattro "reati" piccolissimi diventa pluripregiudicato: a questo punto l'individuo diventa vulnerabile a livello giuridico, così, anche nel caso di un eventuale reatuccio può prendere condanne pesanti, ripeto può, il magistrato ha una discrezionalità pari a "dio". Qui sto riferendomi a tutte le opzioni, compresa quella che anche da pluripregiudicato, dopo l'interrogatorio, esci, quasi subito senza lasciare nessuna traccia di collaborazione con la magistratura.
Quando all'interrogatorio ti trovi di fronte al giudice sai che hai la possibilità di decidere di uscire o di rimanere all'interno dell'inferno carcerario. In quei momenti bisogna essere uomini/donne. Non condanno chi collabora o chi se la "canta", però, dopo codesti/codeste devono levarsi di torno, diventare "regolari" muratori, commesse, ecc.,ma distanti dal "giro" di qualsiasi cosa. Non sono un boss, ma sono un ex eroinomane che iniziò a farsi le pere a 14 anni… conosco l'ambiente. Quando ho smesso di fare uso di eroina non mi sono mai più permesso di venderla, per principio. So cos'è. Non ci crederete, ma nel rifiutarmi di venderla la "malavita" che "conta" mi assorbì…
Cambiando discorso… il mio ultimo ricorso a Strasburgo riguarda la discarica di Vado Ligure, il depuratore di Savona, perché da anni stanno combinando danni ambientali gravi. Nella prossima lettera spiegherò meglio.
Ora compagni/e vi abbraccio come si abbraccia un fratello o una sorella… per gli ideali che abbiamo in comune, Adriano.

Fine ottobre 2011
Adriano Levratto, via Valle Armea, 144 -18038 Sanremo (Imperia)


Lettera dal carcere di Vigevano (PV)
[…] chi vi scrive è un ragazzo, Paolo, in carcere dal novembre 2010, con una condanna abbastanza lunga, purtroppo.
Ho qui il catalogo dei libri che inviate dentro. Leggo abbastanza, più che altro per uscire dalla monotonia della quotidianità carceraria e anche perché leggere mi rilassa; quando leggo a volte mi dimentico del posto ove mi trovo. Posto, come voi sapete, di sofferenza specialmente accentuata dal sovraffollamento che ha colpito un po' tutte le carceri d'Italia.
Oltre ai libri che vi segnalo, vedete se potete inviarmi materiale informativo sugli altri istituti italiani e le storie di altri detenuti. Tutto ciò mi interessa per non rimanere nell'indifferenza… per non rimanere abbandonati. Perché quando sei qua è bello sapere che qualcuno fuori ti pensa: ti dà la sensazione di sentirti meno solo…

Vigevano, 31 ottobre 2011


Asti: Botte e vessazioni a due detenuti, 5 agenti rinviati a giudizio
Cinque agenti della polizia penitenziaria, in servizio nella casa circondariale di Asti, sono stati rinviati a giudizio con l'accusa di aver picchiato e sottoposto a vessazioni due detenuti: entrambi sono stati lasciati per alcuni giorni, in isolamento, completamente nudi in una cella priva di vetri alla finestra, di materasso, di lavandino e di sedie; per vitto è stato fornito loro solo pane ed acqua.
Ai due, inoltre - secondo l' accusa - veniva impedito di dormire. Il processo contro i cinque agenti penitenziari comincerà tra tre giorni, il 27 ottobre, ad Asti. Le vittime, Claudio Renne e Andrea Cirino, hanno denunciato maltrattamenti da carcere "turco" da parte della "squadretta" di agenti che avevano instaurato all'interno della struttura carceraria "un tormentoso e vessatorio regime di vita", si legge nell'imputazione.
Claudio Renne, nel dicembre del 2004 - secondo quanto emerge dagli atti dell'inchiesta - viene portato in una cella di isolamento, come punizione per aver cercato di placare un diverbio tra un agente e un altro detenuto. La cella è priva di materasso, sgabelli e acqua. La finestra è priva di vetri e Renne ci rimarrà per due mesi, i primi due giorni completamente nudo.
Il cibo, racconta il detenuto, è limitato a pane e acqua, ma a volte gli agenti gli lasciano dietro la porta della cella il vitto del carcere che lui può vedere ma non prendere. Le botte si ripetono più volte al giorno, calci e pugni su tutto il corpo, tanto che gli sarà riscontrata la frattura di una costola oltre ad una grossa bruciatura sul volto causata da un ferro rovente. Il più feroce dei suoi carcerieri, uno dei cinque agenti rinviati a giudizio, che agiva spesso sotto effetto di alcol e droga, nel corso di un pestaggio gli strappa con le mani i capelli che Renne aveva raccolti in un codino sulla nuca.
Tra il dicembre 2004 e il febbraio 2005 anche Andrea Cirino viene tenuto in isolamento, per 20 giorni, e gli viene negata l'acqua. La notte, racconta, gli agenti gli impediscono di dormire battendo le grate della cella, il giorno viene picchiato ripetutamente. Cirino, in seguito, tenterà il suicidio per impiccagione.
"Dalle intercettazioni e dalla relazione di polizia giudiziaria emergono particolari inquietanti", afferma Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, che ha chiesto di costituirsi parte civile al processo. "Nel carcere di Asti - aggiunge - vigeva una cultura diffusa di violenza da parte dei poliziotti e di indifferenza da parte di medici e direttore".
un assistente di polizia penitenziaria dello stesso carcere nel 2006 testimonia: "nel caso in cui i detenuti risultino avere segni esterni delle lesioni, spesso i medici di turno evitano di refertarli e mandano via il detenuto dicendogli che non si è fatto niente o comunque chissà come si è procurato le lesioni. Inoltre lo convincono a non fare la denuncia dicendogli che poi vengono portati in isolamento e picchiati nuovamente". In una intercettazione ambientale tra uno degli imputati e un altro agente del carcere, il primo afferma: "Ma che uomo sei... devi avere pure le palle... lo devi picchiare... lo becchi da solo e lo picchi... io la maggior parte di quelli che ho picchiato li ho picchiati da solo...". [...]

25 ottobre 2011
da www.osservatoriorepressione.org
giuseppe uva, vittima di stato
Il 14 giugno 2008 Giuseppe Uva e l'amico Alberto Biggioggero vengono fermati intorno alle tre di notte da una pattuglia dei carabinieri in via Dandolo a Varese mentre erano intenti a movimentare delle transenne in strada .Vengono immediatamente posti in stato di fermo e trasportati in caserma dove saranno in un secondo momento separati per essere presumibilmente interrogati. Giuseppe difatti viene portato negli uffici mentre Alberto rimane nella sala d'aspetto ad attendere il suo turno. Alberto racconta però che durante le ore di fermo sente le urla dell'amico Giuseppe ed assiste ad un via vai sospetto di carabinieri e poliziotti verso l'ufficio in cui si trova l'amico. Preoccupatosi chiama con il suo cellulare il 118 chiedendo un intervento da parte dell'ambulanza per salvare dal pestaggio il povero Giuseppe. L'operatore del 118 richiama in caserma subito dopo chiedendo al carabiniere conferma dell'effettiva necessità d'intervento da parte di un'ambulanza ma il carabiniere risponde che si tratta soltanto della segnalazione di un ubriaco rassicurando lo stesso operatore che non sta avvenendo alcun atto di violenza. Ad Alberto viene poco dopo requisito il cellulare, anche se fortunatamente fa comunque in tempo a chiamare il padre ed avvertirlo di ciò che sta succedendo. All'arrivo del padre, accompagnato dall'avvocato di famiglia, Alberto viene subito rilasciato. Giuseppe invece rimane in caserma fino alle sei del mattino, ora in cui i carabinieri chiamano il 118 per un Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O). L'operatore è lo stesso che aveva risposto alla chiamata di Alberto. Di queste chiamate si hanno infatti le registrazioni, trasmesse anche da un noto programma televisivo (Le Iene).
Secondo le dichiarazioni delle forze dell'ordine Giuseppe viene poi trasportato nel reparto psichiatrico dell'Ospedale di Circolo dove gli viene conseguentemente somministrata una terapia sedativa. L'ospedale avvisa in seguito Carmela, una delle sorelle di Giuseppe, chiedendole in particolar modo e con una certa insistenza se il fratello facesse uso o meno di sostanze stupefacenti e, alla domanda, la sorella esclude categoricamente questa possibilità. Carmela si precipita subito dopo all'ospedale dove trova Giuseppe che sembra stia dormendo: i medici non la fanno avvicinare per evitare di svegliarlo, o almeno così le dicono. Dopo un paio d'ore gli stessi medici chiamano Carmela e Lucia (l'altra sorella), che nel frattempo attendevano in corsia il risveglio di Giuseppe, dando loro la triste notizia: Giuseppe sarebbe morto per un arresto cardiaco. Le due sorelle, rimaste sole con il corpo, si accorgono che Giuseppe è completamente ricoperto di ecchimosi ed ematomi, e riporta anche bruciature di sigarette ed inoltre è chiaramente visibile una macchia di sangue sul lenzuolo in corrispondenza della zona rettale. Lucia fortunatamente porta con se una macchina fotografica e riesce a documentare l'orrore.
Dal 2008 l'unico indagato è il medico Carlo Fraticelli, responsabile quella notte dell'unità di psichiatria di Varese. Per quel che riguarda invece le numerose ecchimosi presenti sul corpo i carabinieri hanno sempre dichiarato trattarsi di autolesionismo da parte dello stesso Uva.
Il caso è stato però lo stesso riaperto su insistenza della sorella Lucia , supportata dall'associazione "vittime dello stato", che si è occupata in questi ultimi anni delle violenze impunite da parte delle forze dell'ordine, portando alla ribalta anche questa vicenda a livello nazionale in modo che alcuni tra giornalisti e politici se ne interessassero.
Dopo la riapertura dei fascicoli, nonostante il pm Abate abbia a più riprese tentato di screditare la tesi dei periti secondo cui Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, la parte civile rappresentata dall'avvocato Fabio Anselmo ha ottenuto, con il beneplacito del giudice Orazio Muscato, la riesumazione del cadavere per ricavarne ulteriori accertamenti che possano stabilire con minor approssimazione le cause del decesso, che comunque pare essere l'ennesimo episodio di brutale violenza da parte delle cosidette "forze dell'ordine".
Di recente Alberto Bigioggero é stato vittima di numerose telefonate intimidatorie ad opera di "ignoti"culminate con atti di vandalismo all'interno della sua abitazione nella notte tra venerdì 4 e sabato 5 novembre.

11 novembre 2011
Collettivo Autonomo Varesino

***
GRAVE ATTO INTIMIDATORIO A VARESE
Nella notte fra il 4 e il 5 novembre, l’appartamento in cui abita Alberto Biggioggero è stato devastato da ignoti che, dopo essere entrati rompendo una finestra, hanno aperto tutti i cassetti e danneggiato mobili e soprammobili. Inoltre in questi anni Alberto ha ricevuto anche minacce telefoniche.
Alberto Biggioggero da anni denuncia pubblicamente quanto successo a Varese nella notte del 14 giugno del 2008, ovvero che il suo amico Giuseppe Uva è morto in seguito al pestaggio subito nella caserma dei Carabinieri Via Saffi (erano presenti anche degli agenti di Polizia) ed alla complicità del personale coinvolto del Reparto di Psichiatria dell’Ospedale di Circolo che, dopo averlo sedato, ne ha semplicemente dichiarato la morte per embolia nonostante le evidentissime lesioni su tutto il corpo e la copiosa emorragia dal retto.
Soltanto grazie al coraggio e alla ostinazione di Alberto e di Lucia Uva (sorella di Giuseppe), questa terribile vicenda è potuta uscire dal silenzio spudoratamente complice delle persone coinvolte.
In tutta Italia casi del genere vengono alla luce giorno dopo giorno e certamente ve ne sono molti altri che passano sotto silenzio. É evidente che non si può in alcun modo parlare di “mele marce”, poiché ovunque le violenze delle forze dell’ordine sono quotidiane e sistematiche.
Solidarietà a tutte le vittime della violenza dello stato e a coloro che in tutta Italia, come Alberto e Lucia, invece che nascondersi nel silenzio o nell’indifferenza, invece di cedere di fronte a minacce e intimidazioni, continuano a denunciare pubblicamente e a lottare per la verità.

10 novembre 2011
Kinesis Tradate, Collettivo Autonomo Varesino, TeLOS Squat Saronno, Redazione di “Cenere”, Anarchici del Varesotto, Collettivo Ultimi Mohicani Gallarate, Collettivo Dintorni Reattivi Como


resoconto dell’assemblea contro l’art. 41-bis a padova
Sabato 18 giugno 2011 si era tenuta una mobilitazione a L'Aquila, con presidio davanti al carcere di Costarelle di Preturo (L'Aquila), in solidarietà ai compagni sotto processo e condannati, nella stessa città, in seguito alla loro presenza al corteo del 2007 contro il carcere e il 41 bis o.p.. Le parole d'ordine erano: contro il carcere, l'articolo 41 bis e la differenziazione! In sostegno ai prigionieri rivoluzionari e alle lotte di tutti i detenuti! In solidarietà a chi porta avanti pratiche di resistenza nel territorio! Non facciamo passare in silenzio le 22 condanne emesse dal tribunale di L'Aquila. Trasformiamo il processo alle lotte in un processo di lotta: Torniamo con più forza a L'Aquila!
Sabato 5 novembre, a Padova, si è tenuta l'assemblea di bilancio/rilancio dopo la mobilitazione di L'Aquila del 18 giugno 2011. Vi hanno partecipato diverse realtà da tutta Italia, la maggior parte delle quali aveva lavorato alla costruzione della mobilitazione e partecipato alla giornata di lotta dello scorso giugno. Ogni realtà presente ha portato il proprio contributo con un intervento. In ordine vi sono stati:
intervento di apertura sul senso dell'assemblea di bilancio/rilancio, da parte di un'imputata di Padova del processo di L'Aquila; intervento degli imputati del processo di L'Aquila del filone dei condannati per danneggiamento, invasione di terreno e imbrattamento (Bologna); intervento degli imputati del processo di L'Aquila del filone dei condannati per l'apologia di reato (Padova); intervento del Collettivo Universitario 808 di Padova;
- intervento del Cccpsri (Compagni e compagne per la costruzione del soccorso rosso in Italia); intervento dell'Associazione Parenti e Amici degli arrestati il 12/02/07; intervento del collettivo "Olga" di Milano; intervento del Centro di Documentazione "Filorosso" di Foggia; intervento del Collettivo Politico Studentesco di Foggia; intervento di "Antifaresistance" di Napoli e da parte degli studenti della Federico II di Napoli; intervento del Collettivo Politico "Gramigna" di Padova; intervento del Circolo "Pedro" di Trieste; intervento del Collettivo "Tazebao" - per la propaganda comunista; intervento di Radio Blackout di Torino; intervento di alcuni compagni del collettivo Operai e Studenti Autorganizzati di Bassano del Grappa (Vicenza).
Erano anche presenti compagni da Crema, L'Aquila e Trento.
Quasi tutti gli interventi hanno relazionato sul bilancio relativo alla giornata di mobilitazione a L'Aquila, trovando una concordanza nella valutazione complessivamente positiva, soprattutto in termini qualitativi, rispetto ad obiettivi e contenuti chiari e di spessore, piuttosto che in termini quantitativi. Positiva è stata anche la capacità di conquistarsi spazi di agibilità politica, nonostante i tentativi di boicottaggio da parte della Questura, sia nel percorso del corteo la mattina, che nel presidio sotto al carcere il pomeriggio. Sono stati espresse le riflessioni anche su alcuni limiti organizzativi (riscontrati soprattutto nella gestione della piazza davanti al carcere), ma questi serviranno sicuramente a imparare e a migliorare per le prossime volte.
Si è, di fatto, elaborato un bilancio comune di quella mobilitazione, ma non tanto fine a se stesso o incentrato solo sulla giornata del 18/06 e sul lungo e importante lavoro preparatorio fatto in molte situazioni locali ed anche nella stessa città di L'Aquila, ma piuttosto, nell'ottica di capire come proseguire questo percorso intrapreso, anche al di là del processo in corso presso il tribunale di L'Aquila. Di fatto, tutti gli interventi sono stati costruttivi, ponendo diversi spunti di riflessione e presentando diverse proposte concrete e specifiche sui cui ragionare.
In particolar modo il dibattito ha posto al centro la necessità di trovare una forma continuativa per riuscire a coordinare tra di loro diverse realtà al fine di fare fronte comune contro la repressione, per la solidarietà attorno ai processi e verso i compagni in carcere e per rilanciare il percorso di lotta contro l'articolo 41 bis o.p. ritenendolo interno alla più generale lotta contro il carcere.
Lotta, questa, che deve trovare un'ulteriore sua generalizzazione, anche di fronte alla continua criminalizzazione dello scontro di classe, di cui gli arresti dei disoccupati di Brindisi, gli operai della Tricom trascinati a processo, gli sgomberi in tutte le città fortemente intimidatori, la militarizzazione del territorio (dalle città alla Val Susa), le operazioni di polizia a danni dei compagni (Bologna, Firenze ecc.) ne sono una manifestazione evidente.
Le proposte comuni emerse dall'assemblea per quanto riguarda i contenuti sono:
- il contenuto principale, che è stato condiviso dalle varie realtà, è quello di riprendere il percorso di lotta contro l'articolo 41 bis o.p. e di denunciare la sua applicazione ad alcuni prigionieri politici rivoluzionari (con metodi, forme e proposte da elaborare). Si è proposto di cominciare con un ciclo di iniziative di controinformazione sul tema del 41 bis, invitando alcuni avvocati. Un'altra proposta è stata quella di rilanciare una manifestazione sotto un carcere con sezioni a 41 bis. Si è sottolineata l'importanza di collegare questo contenuto alla più generale attività anticarceraria che quotidianamente le varie realtà portano avanti, compresa la lotta contro i Cie, di cui alcuni interventi ne hanno sottolineato l'importanza;
- è emersa la necessità di provare a coordinare l'informazione e lo sviluppo della solidarietà attorno ai vari processi che attualmente, sempre più numerosi, sono in corso, in modo da costruire una "rete di solidarietà" che si consolidi, renda collettive e rafforzi le singole esperienze, che non faccia sentire soli i compagni e riproponga una "cultura" e una pratica su come affrontare la repressione, i tribunali e le galere;
- una proposta ricorrente che è uscita dal dibattito, in base alla riflessione sulla grande partecipazione di giovani e studenti alle lotte che spesso vengono repressi, è quella di dotarsi di strumenti per imparare come comportarsi e come difendersi di fronte a fermi, perquisizioni, denunce, arresti, carcere, processi.... Come inizio è stato proposto di promuovere iniziative di informazione e dibattito invitando anche avvocati per approfondire questo tema e di pensare alla possibilità di produrre manuali per imparare a difendersi.
Sono state fatte alcune proposte di campagne/iniziative (alcune anche di carattere solo propagandistico) contro le recenti dichiarazioni di inasprimento della macchina repressiva dello Stato (soprattutto dopo i fatti di Roma del 15 ottobre), tra cui una contro il Daspo politico, "No al Daspo, si al casco!", e una di denuncia contro l'apparato poliziesco e gli strumenti usati (spesso proibiti dalla loro stessa legge e da quella internazionale, come per i lacrimogeni CS) in caso di problemi di "ordine pubblico". Motivazione quest'ultima con cui spesso viene giustificata ogni azione da parte delle forze dell'ordine.
È stato proposto, inoltre, di tenerci aggiornati anche sull'evoluzione degli arresti e delle perquisizioni avvenute durante e dopo la giornata del 15 ottobre a Roma, per capire come proseguirà la repressione messa in campo e per cercare di creare una "rete di collegamento" tra le varie realtà colpite.
Radio Black Out darà il suo contributo come radio indipendente, cercando di fare informazione e trovare uno spazio adeguato durante le trasmissioni, per far discutere di lotta contro la repressione, il carcere e per la solidarietà.
È stata rilanciata la proposta di tornare con un presidio di solidarietà sotto al tribunale di L'Aquila in occasione delle udienze di secondo grado del processo, invitando i compagni comunque a tenersi pronti per costruire questa tappa, non appena si sappiano le date.
Sono state presentate tre iniziative in preparazione:
12/12/2011: presenza davanti al tribunale di Trento per il processo a 8 lavoratori con l'accusa di aver tirato delle uova in occasione della sentenza, il 24 maggio scorso, che ha assolto tre padroni assassini della Tricom Pm Galvanica di Tezze sul Brenta;
12/12/2011: tribunale di Bologna, udienza preliminare del processo ai compagni del "Fuoriluogo" (Bologna) arrestati il 6 aprile 2011;
9/3/2012: iniziativa a Trieste in occasione dell'anniversario dell'assassinio del compagno "Pedro" (proposta del Circolo "Pedro" di TS).
In generale la forma proposta per dare continuità al percorso è quella di Assemblea nazionale dei vari comitati e realtà che partecipano al percorso, assemblea che si ritrova sia per sviluppare la discussione, ma anche per promuovere iniziative. Le iniziative possono essere sia locali, che l'assemblea sostiene sia nazionali (tipo quella di L'Aquila), che tutte le realtà costruiscono assieme. Nel procedere del lavoro ci si potrà dotare delle forme organizzative necessarie come ad esempio si è fatto per l'iniziativa di L'Aquila in cui si è costituito un "gruppo di lavoro".
È stata messa tanta "carne al fuoco". Questo è positivo perché darà modo alle realtà presenti di riflettere sulle varie proposte emerse in modo da poterne trarre una sintesi comune per trasformarle in pratica. Per farlo al meglio verrà fatta una raccolta degli interventi da far girare tra i partecipanti.
Orientativamente si è pensato di ritrovarsi tra fine gennaio e/o inizio febbraio 2012.
Infine è stato posto il problema di quale nome dare all'assemblea.

Padova, 5 novembre 2011
Le realtà presenti in assemblea


convalida perquisizioni 17 ottobre-Padova
Cari compagni/e, informiamo che ieri, 9 novembre, a Padova sono stati notificati i decreti di convalida delle perquisizioni, ed eventuali sequestri, ed è stata fatta comunicazione dell'apertura delle indagini, per tutti i compagni e le compagne perquisiti/e il 17 ottobre scorso in seguito ai fatti di Roma.
Rinnoviamo l'invito a tutti di comunicare eventuali altre notifiche dei decreti a compagni di altre città. A pugno chiuso. Saluti!

10 novembre 2011
Collettivo Politico Gramigna
da informa-azione.info


firenze: comunicato a seguito delle perquisizioni
“Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
In tutta Italia si susseguono perquisizioni nei confronti di appartenenti a varie realtà (dai centri sociali al sindacalismo di base e conflittuale...) che hanno partecipato alla manifestazione di Roma di sabato scorso. Anche nella nostra città, sia lunedì che mercoledì,
carabinieri e polizia sono intervenuti di buona mattina svegliando, tra gli altri, alcuni militanti del Centro Popolare Autogestito Fi-Sud. Tali perquisizioni hanno interessato anche soggetti che non erano neppure presenti a Roma e non pensiamo che ciò sia dovuto assolutamente ad una mancanza di informazioni da parte degli investigatori, figuriamoci se non sono a conoscenza di chi ha partecipato o meno, ma bensì alla volontà di accentuare il livello di pressione repressiva su singoli e realtà a cui appartengono, per cominciare a creare un alone di sospetto attorno al “nemico da colpire”.
Questo meccanismo trova legittimità e forza grazie alla vergognosa campagna mediatica, e non solo, che invita, di fatto, ad una delazione di massa, che cerca di creare un clima tale da rendere “legittima” un'accelerazione nella definizione di nuove norme repressive, nello stabilire ciò che è legittimo o meno, a chi è consentito o meno di manifestare. Come in passato in troppi stanno cadendo in questo tranello. Chi ha consegnato compagni/e nelle mani di polizia e carabinieri sappia che li ha consegnati in mano agli stessi che dieci anni fa a Genova pestava e torturava a Bolzaneto in quella che, forse ha dimenticato, è stata la Mattanza di Genova.
Respingendo al mittente questo clima non possiamo non dire che più la crisi accentuerà le sue nefaste conseguenze, più si manifesteranno dissensi e proteste, a prescindere dalle forme che potranno prendere, più la repressione colpirà chi si dimostra incompatibile con l'ordine costituito. Non è il primo e non sarà l'ultimo attacco con cui abbiamo e dovremo fare i conti, così come altre migliaia di compagni/e, lavoratori, studenti e disoccupati che intendono proseguire la loro battaglia, senza cedere di un passo al tentativo di svilire e circoscrivere nel terreno della compatibilità le nostre lotte. Continueremo la nostra battaglia per denunciare il clima di caccia alle streghe, dare la nostra solidarietà a coloro che, singoli o realtà, continueranno a lottare contro le conseguenze di una crisi determinata da un sistema marcio dalle sue radici fino a ciò che chiamano democrazia, nel denunciare e contrastare le manovre di coloro che tentano di strumentalizzare le giuste rivendicazioni di migliaia di proletari per poi invocare nuove misure repressive, nel contrastare le manovre “lacrime e sangue” di ogni governo che si piegherà agli interessi del capitale.

19 ottobre 2011
Centro Popolare Autogestito Firenze-Sud
www.cpafisud.org - cpa@ecn.org


roma, 15 ottobre: il riesame scarcera 9 prigionieri
Il 27 ottobre cinque minorenni sono finiti agli arresti domiciliari. I ragazzi, già identificati e denunciati lo stesso giorno degli scontri in piazza San Giovanni, sono tutti incensurati e sono accusati di resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale e di danneggiamento, seguito da incendio.
L’8 novembre, sono usciti da Regina Coeli e posti agli arresti domiciliari anche Giuseppe Ciurleo, Alessandro e Giovanni Venuto, Lorenzo Giuliani, Robert Scarlet, Stefano Conigliaro, Ilaria Ciancamerla. Obbligo di firma per Alessia Catarinozzi e Alessandra Orchi. Rimane in carcere invece Giovanni Caputi. Nei prossimi giorni il tribunale prenderà in esame le posizioni di Valerio Pascali (fermato il 15 ottobre assieme agli altri e ancora in carcere) e di Fabrizio Filippi, detto “er pelliccia”, accusato di aver lanciato un estintore durante i disordini. Poi sarà la volta di Leonardo Vecchiolla, accusato di tentato omicidio per l’assalto al blindato dei carabinieri, per il quale il gip di Roma ha reiterato la misura cautelare emessa dal tribunale di Chieti.
Un ragazzo romano di 19 anni è stato invece arrestato, nella mattina del 9 novembre, sempre per gli scontri avvenuti a Roma il 15 ottobre. Attualmente agli arresti domiciliari è accusato di devastazione, saccheggio e resistenza pluriaggravata.

Fabrizio Filippi, Giovanni Caputi, Valerio Pascali
c/o Casa Circondariale “Regina Coeli” , via della Lungara, 29 - 00165 Roma

Leonardo Vecchiolla
Casa circondariale di Chieti, via E. Ianni, 30 - 66100 Chieti

***
CHUCKY LIBERO SUBITO!
E' stato arrestato a Chieti con la ridicola accusa di tentato omicidio un compagno di Ariano Irpino (AV), accusato di aver partecipato all'incendio della camionetta in Piazza San Giovanni durante gli scontri del 15 ottobre a Roma.
Chucky ha partecipato sempre alle vertenze che interessavano il territorio irpino: dalle battaglie contro le discariche alle ultime lotte al fianco dei lavoratori Irisbus. Ed ora è vittima anche lui della solita procedura poliziesca: di fronte alle lotte di massa che mettono in discussione il loro dominio, il capitale e lo stato rispondono con la violenza, con la repressione, con gli arresti.
Noi esprimiamo solidarietà a Chucky ed a tutti gli altri compagni arrestati, nella consapevolezza che gli arresti non possono fermare una lotta di massa. Come diceva Neruda "potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera"

22 ottobre 2011
Giovani Comunisti Ariano Irpino (AV), Collettivo studentesco Virus, Ariano in Movimento

da informa-azione.info


bologna: SQUALLIDE VELINE… OPPORTUNAMENTE ORCHESTRATE
Da terroristi a individui ripugnanti, cambiano i termini con i quali gli anarchici vengono presentati dalla stampa ma non il senso di queste operazioni. In un tempo in cui il crescente malessere sociale oscilla tra la possibilità di alimentare conflitti contro i responsabili del comune sfruttamento e il rischio di generare tante piccole guerre tra poveri, è importante per i politici e i padroni diffondere l'idea che quanti si oppongono alla miseria presente siano degli scriteriati senza valore che minacciano la "sicurezza" di tutti.
Per lungo tempo l'uso del termine terrorista ha svolto questa funzione mistificando il senso delle lotte. Nonostante l'ossessività con cui questo epiteto è stato utilizzato, non è stato molto difficile rispedire l'accusa al mittente e indicare quali sono i principali produttori di terrore su larga scala. Forse però l'abuso di questo termine ne ha ridotto la forza evocativa e la conseguente capacità di distogliere lo sguardo dalle responsabilità dei potenti, occultando le ragioni di chi ne attacca gli interessi. Sarà per questo che negli ultimi tempi il ritratto di chi lotta contro gli orrori del capitalismo sta assumendo contorni diversi.
Dopo gli scontri di Roma del 15 ottobre, l'idea che chi si oppone con la violenza alla violenza delle autorità sia portatore di una rabbia cieca e senza idee sembra essere il nuovo leit-motiv che accompagnerà l'operato dei giornalisti di regime d'ora in avanti. Il tentativo più evidente e sfacciato in questo senso è l'articolo apparso recentemente sul settimanale "l'Espresso", a firma di Lirio Abbate, prontamente ripreso dalla trasmissione "I fatti vostri" (appunto!!) di Rai2.
Alcuni anarchici di Bologna, accusati di un'associazione a delinquere e per questo preventivamente incarcerati per alcuni mesi, vengono presentati come individui con squallide pulsioni squadriste che progettano assalti contro omosessuali o pachistani indifesi dichiarandosi al contempo pronti a lanciare acidi sul volto di donne musulmane. Poco importa che gran parte delle accuse mosse loro dagli inquirenti siano dovute a iniziative contro i Cie e in solidarietà agli immigrati che vi sono rinchiusi.
Piuttosto che evidenziare una contraddizione che potrebbe indebolire il ritratto costruito dai pennivendoli, questo contrasto viene utilizzato come rafforzativo per rappresentare individui che compiono azioni senza senso, mossi da sentimenti ripugnanti e per questo completamente inaffidabili. I legami "pericolosi" con gli immigrati intrecciati attraverso anni di lotte e iniziative devono essere spezzati. Ancora, in tempi gravidi di tensioni che potrebbero scoppiare da un momento all'altro anche qui da noi, le idee e le pratiche degli anarchici corrono il rischio di diventare pericolosamente comprensibili e allettanti.
I guardiani dell'ordine rispondono quindi istillando l'idea che l'unica alternativa possibile a questa miseria sociale imposta sia una reazionaria guerra di tutti contro tutti.
Far credere che anche gli anarchici, da sempre al fianco di tutti gli sfruttati che si ribellano e con un'evidente disponibilità al conflitto mostrata nel corso degli anni, siano individui mossi dai peggiori sentimenti razzisti serve per alimentare l'idea dell'ineluttabilità di questo mondo.
Le autorità sono convinte di avere a che fare con degli uomini e delle donne idioti, cui è possibile far credere tutto e il contrario di tutto.
Al di là del disgusto che ci provoca riportare tali nefandezze giornalistiche degne di prestigiose onorificenze, pensiamo che sia necessario riflettere su queste derive repressive per poi decidere un momento di confronto comune.
Mentre il fiume è in piena, stanno cercando di interrare le acque di un furioso rivolo.

9 novembre 2011
da Bologna


No Tav. Vinto ricorso contro foglio di via
Giovedì 3 novembre il Tar del Piemonte ha esaminato il ricorso presentato da una No Tav di Torino, Maria Teresa, cui era stato proibito di andare per un anno nei comuni di Avigliana, Chiomonte, Gravere, Giaglione, Susa, Exilles. L’avvocato di Maria Teresa, Roberto Lamacchia, ci ha informato che foglio di via è stato annullato.
In questi cinque mesi di resistenza No Tav sono stati decine e decine i fogli di via inflitti a piene mani dalla questura torinese.
L’auspicio è che la decisione del TAR induca a maggior prudenza i responsabili della questura, probabilmente convinti che i 700 euro necessari per questo tipo di ricorsi facessero desistere tanti dal farlo. Anche il timore che i tempi lunghi del tribunale amministrativo rendessero inutili i ricorsi si è rivelato del tutto infondato.
Il foglio di via è una condanna extragiudiziale: chi vi è sottoposto è privato della libertà di circolare liberamente sulla base di una decisione presa direttamente dalla polizia. Eredità mai cancellata della dittatura fascista.
Sottovalutare questi fogli, ritenerli semplici pezzi di carta senza valore, è un errore: se si minimizza sulle limitazioni della libertà ci si ritrova presto a fare i conti con altri, più gravi, soprusi. In questi mesi la procura torinese ha inviato centinaia di denunce ai No
Tav per le iniziative di resistenza alle trivelle e per la baita Clarea. Numerosi No Tav sono stati arrestati e privati della libertà: alcuni devono sottostare a restrizioni sin dal 3 luglio.
Non si contano più gli episodi di intimidazione e i fermi immotivati con perquisizioni personali e sequestro di oggetti che nessuna legge vieta.
A tre mesi dal cacerolazo davanti all’hotel Ninfa di Avigliana, dove erano ospitati alcuni poliziotti impegnati nella sorveglianza del fortino della Maddalena, finalmente Maria Teresa potrà andare nel luoghi della resistenza No Tav, senza rischiare di essere fermata e denunciata. Una boccata d’aria.
Vale la pensa ricordare la giornata del 3 agosto ad Avigliana. Di seguito la cronaca che facemmo girare nei giorni successivi.

5 novembre 2011
No Tav Autogestione - Torino
notavautogestione@yahoo.it - 338 6594361

***
Il 27 di ottobre sono stati tolti gli arresti domiciliari a Nina e l'obbligo di dimora a Marianna, le due compagne No Tav arrestate nella notte tra il 9 e il 10 settembre.
Libertà anche per Marta, Roby e Sabbo!!


Genova: Primi giorni di una nuova casa occupata
29 ottobre 2011. Abbiamo occupato uno stabile in via dei Giustiniani 19.
Abbiamo occupato perché abbiamo bisogno di case, di luoghi in cui vivere dignitosamente, perché siamo stanchi di buttare i nostri miseri stipendi in affitti indecenti. Perché il modo in cui ci costringono a inseguire la nostra sopravvivenza, soli e isolati, è la maniera migliore per impedirci di essere solidali, di organizzarci per rendere le nostre vite qualcosa di bello. Siamo uomini e donne diversi per età e percorsi di vita, ma uniti da bisogni concreti molto simili e dalla comune volontà di organizzarsi per soddisfarli. Abbiamo occupato perché abbiamo bisogno di spazi in cui costruire ciò che non abbiamo: un luogo di incontro dove costruire rapporti di mutuo appoggio, un ambito in cui discutere e divertirsi, uno spazio per noi e per il quartiere, per mangiare e per studiare, per adulti e per bambini, uno spazio di tutti coloro che lo vivono e lo sentono proprio. Vogliamo uscire dagli ambiti classici della “politica”, dai suoi linguaggi ideologici, dai suoi dogmatismi. Siamo qui perché vogliamo opporci al richiamo costante alla guerra tra poveri, all’erosione continua della comunità umana, quella comunità che è l’unico soggetto in grado di resistere e porre le basi di un’esistenza “altra”, viva, solidale, quella comunità che si crea quando gli uomini e le donne si occupano direttamente di ogni ambito della loro vita, quando provano a vivere liberi. Insieme.
Siamo qui per provarci ancora una volta, per ricominciare da quello che siamo e da quello che vorremmo essere. Lo spazio è aperto da subito, siete tutti invitati, portate quello che pensate possa essere utile.
Per tutte/i coloro interessate/i a sviluppare progetti comuni dentro la casa occupata l’appuntamento è mercoledì 2 novembre alle ore 18 in via dei Giustiniani 19.

29 otobre 2011
da informa-azione.info


milano: La lotta per la casa oggi
Brevi considerazioni generali e antefatti
La mattina del 25 ottobre verso le 7,30 un centinaio fra poliziotti, carabinieri, pompieri, funzionari e operai Aler (l'ente regionale che gestisce gran parte del patrimonio abitativo pubblico anche del comune di Milano) hanno accerchiato di forza via Borsi nel quartiere Ticinese. La zona è compresa in un quartiere composto, inoltre, dai condomini delle vie Gola e Pichi, dove gli appartamenti occupati negli ultimi anni da famiglie immigrate e italiane, da compagne e compagni sono oltre un centinaio.
La gran parte dei condomini, costruiti 80-60 anni fa, da tempo non conosce la più piccola manutenzione interna o esterna che sia. L'Aler, man mano che le abitazioni vengono abbandonate, rompe sistematicamente lavandini, cessi, piattaforme delle docce, taglia il gas e la corrente elettrica. Insomma, le abitazioni vengono lasciate andare in malora, per poter abbattere i loro edifici; per costruire così al loro posto abitazioni di lusso, centri commerciali conseguenti. Gli attuali condomini devono lasciare il posto a aree per la speculazione edilizia dei Berlusconi, Caltagirone, Impregilo e co. Le occupazioni per questi pescicani, è ovvio, sono una maledizione, una pratica da spazzare via, da cancellare. Questo non solo perché impediscono fisicamente l'espansione speculativa, ma anche perché rappresentano una mina riguardo all'impiccagione del mutuo, degli affitti stellari. Sgomberare chi occupa, anche se ha bambini, che gli vengono tolti di forza per essere portati in "comunità" (affidati a suore, istituti...), dunque con l'impiego di un grado e una qualità di violenza affettivamente devastanti, per le "società immobiliari" è assolutamente essenziale. L'Aler, il cui consiglio d'amministrazione è composto in vario modo da soci di quelle società, è parte di questa combriccola. Questa le ha affidato il compito di affermare a piene lettere che occupare è e deve rimanere "reato"; che l'occupazione deve essere risolta sempre con lo sgombero o lo sfratto, costi quel che costi. Una funzione posta all'ordine del giorno con una certa urgenza, in seguito alle prime timide decisioni, sul punto, espresse dalla neonata giunta del comune di Milano, che ha bloccato per tre mesi gli sfratti, più che altro a parole, e affermato che "l'occupazione per necessità non è reato". Ribadire che non è così, anche alla luce di recenti scontri che descriviamo più avanti, "dare una lezione" a chi occupa e resiste allo sgombero, per la coppia fissa Aler-polizia è ormai divenuta una questione di identità criminale.
Il precedente cui si è accennato. Nello stesso condominio di via Borsi due settimane prima alcuni funzionari Aler accompagnati da alcune pattuglie della polizia erano entrati nella casa occupata da un invalido; lo hanno ammanettato e pestato, perché si opponeva allo sgombero, rivendicando nei fatti la necessità-bisogno di avere un'abitazione. L'accorrere dei vicini, di compagne, compagni ha impedito la continuazione del pestaggio doppiamente vile. Solo l'arrivo di loro rinforzi ha consentito l'uscita da quella casa dei funzionari dell'Aler e della polizia. Il ragazzo occupante è rimasto nell'abitazione in cui si trovava; portato all'ospedale è stato dimesso però con una prognosi di 10 giorni.

Le giornate del 25 e del 26 ottobre
Carabinieri, poliziotti con equipaggiamento di guerra hanno occupato oltre al marciapiede di via Borsi, il giardino interno al numero 10 antistante le sei scale del condominio, ciascuna abitata da una quindicina di famiglie; hanno preso d'assalto cinque appartamenti occupati da anni, da cui hanno cacciato fuori chi li abitava, cioè, non famiglie con bambini, ma piuttosto persone singole, delle quali una sola è una compagna militante, lavoratrici immigrate e anche no, qualcuna con precedenti penali, altre che abitavano in subaffitto. Persone con un bisogno piuttosto vivo dell'abitazione, ma allo stesso tempo più ricattabili. La casa, per chi è dentro, è necessaria anche per ottenere la libertà anticipata. Ma chi non ce l'ha come fa? Si rivolge al comune, come raccontava Adriano da Imperia in una lettera del mese scorso, che fa scena muta. Si pensi, ad esempio, cosa succede a una persona con pena sospesa, colta in un'occupazione. Insomma, hanno compilato una lista selezionando le persone da attaccare con una certa cura, per cercare di intimidire la pratica delle occupazioni senza suscitare la solidarietà. Come vedremo accadrà proprio il contrario.
A quell'ora solo in una delle quattro abitazioni prese di mira sono ancora presenti le persone che le abitano, ciononostante gli sgomberi sono eseguiti, con l'aiuto delle scale mobili dei pompieri, lo sfondamento delle porte o delle finestre che danno su ballatoi. Il solo presente in casa, un operaio edile immigrato, viene messo alla porta; solo a fatica e con l'aiuto di alcuni abitanti riuscirà a portare fuori le sue cose. Una compagna, occupante e abitante in una di quelle scale, mentre all'interno del condominio si preoccupa di parlare con le famiglie, di contrastare le prepotenze degli sbirri, questi la prendono di mira; con i funzionari Aler a disposizione la inseriscono al volo nella lista e mettono sulla strada anche lei. Contemporaneamente finestre e porte delle abitazioni sgomberate vengono lamierate, staccate dalla corrente e dal gas.
Per compiere l'agguato con annessa rappresaglia sono occorse 6 ore. Per tutto quel tempo una quarantina di persone è sempre stata presente sui marciapiedi vicini. Non si sono mosse per la lentezza della comunicazione; tante, tanti apprendono dello sgombero solo alle 10-11; mancano idee comuni, l'azione collettiva rimane così un'astrazione. Si riesce a convocare un'assemblea per il tardo pomeriggio.
L'assemblea c'è, vi prendono parte un centinaio di persone, fra le quali molte abitanti nel territorio attaccato. E' necessaria qualche ora, ma alla fine l'assemblea riesce a prendere alcune decisioni riguardanti la sera stessa e i giorni successivi: il rientro nelle case sgomberate; il volantinaggio e il corteo in quartiere; la difesa delle occupazioni; la definizione di metodi comunicativi anche per tenere d'occhio i movimenti degli sbirri e dell'Aler; un presidio davanti al comune…
Tutto questo prende forma subito dopo l'assemblea con la cooperazione fra chi abita, occupa nel Ticinese e con chi viene da altri quartieri. E si impone nella manifestazione della sera del giorno successivo. Chi doveva essere zittito, messo nella cuccia, esce invece allo scoperto, arrivano le donne, i bambini, le e i giovani entrano nel corteo, mancano invece, e si vede, polizia, carabinieri. L'aria è di festa, al microfono intervengono le madri di famiglia con "basta sfratti, non abbiamo lavoro né soldi, vogliamo la regolarizzazione" per uscire dall'incubo dello sfratto. Il corteo si ingrossa strada facendo, si è in 300, il terrorismo di stato non è passato. Si attraversano le strade del quartiere, davanti a tutto c'è lo striscione portato da bambini e bambine, su cui è scritto: Resistere agli sfratti - Case per tutti/e. Su altri striscioni si può leggere: STOP alla guerra tra poveri, al degrado, alle case vuote. Via libera alla solidarietà. Antirazzismo. Organizzazione dal basso. Più cultura meno paura.

Milano, novembre 2011


amburgo: Gli "affitti inghiottono, affitti sociali per la casa"
Oltre 5 mila persone che si riconoscono nelle parole d'ordine "Diritto alla città" e "Stoppare l'impazzimento degli affitti" si sono riunite nella manifestazione di sabato 29 ottobre "Gli affitti inghiottono, affitti sociali per la casa". Fatta eccezione per un paio di scontri con gli sbirri, che cercavano di dividere il lungo corteo, la manifestazione è stata caratterizzata da una forte spinta e da molteplici iniziative.
Le/i manifestanti si sono ritrovati verso le 13 nella piazza di Porta Millern per criticare pubblicamente, in parte con molta creatività, la situazione del costante aumento degli affitti ad Amburgo.
Nelle vicinanze della stazione metro St. Pauli è in costruzione un edificio per uffici, chiamato Torre danzante, che per tante e tanti amburghesi è, tenendo presente l'esistenza di 1,7 milioni di metri quadri ancora vuoti adibiti ad uffici, una spina negli occhi.
La Torre è composta da tredici piani di cui tre occupati dalla polizia, che ne ha accerchiato il perimetro e sbarrato l'ingresso al corteo. La gente del corteo, riappropriandosi direttamente della strada, è comunque riuscita a vedere i parecchi metri quadri vuoti, ma anche case riconquistate da cittadine e cittadini, così salvate, almeno per il momento, dall'impazzimento degli affitti. La manifestazione è stata il culmine di una serie di azioni contro la "gentryfication" (imborghesimento o espulsione dal centro delle e degli abitanti proletari). Per prepararla nei giorni precedenti si sono svolte assemblee nei quartieri Wilhelsburg, Altona e St. Pauli.
La manifestazione ha voluto far guadagnare spazio alla protesta contro il rincaro degli affitti e le espulsioni; allo stesso tempo ha sottolineato che per un altro sviluppo della città e necessario lottare ed essere sabbia negli ingranaggi dell' "impresa Amburgo". Diversi gruppi hanno già lanciato l'appello a scendere in strada il giorno successivo la pubblicazione ufficiale del nuovo specchio degli affitti.
La solidarietà è una bella esperienza, vale la pena averne cura. Avanti così

30 ottobre 2011
da de.indymedia.org/2011/10/319012.shtml


milano: Comunicato della RSU e degli operai della INNSE
Sono arrivate, dopo due anni, le richieste di rinvio a giudizio per sedici manifestanti che il giorno 2 Agosto 2009 parteciparono alla protesta, che gli operai della INNSE misero in atto, per cercare di bloccare lo smontaggio delle macchine della fabbrica. La scelta, a caldo, fu quella di manifestare sulla tangenziale. Il mattino la fabbrica era circondata dalla forza pubblica, all'interno squadre di operai avevano iniziato a smontare le macchine, il presidio era stato rimosso all'alba: fu in quella situazione che un corteo spontaneo, ancora poco numeroso, si diresse verso la tangenziale per attirare l'opinione pubblica su ciò che stava accadendo. Un sito produttivo stava per essere demolito senza appello.
La protesta sulla tangenziale durò pochi minuti, si decise di tornare in Via Rubattino raccogliendosi davanti ai cancelli e chiedendo alle istituzioni di intervenire per bloccare lo smontaggio. Non successe niente. Per bloccare lo smontaggio quattro operai e un sindacalista dovettero finire su un carro ponte della fabbrica e vi restarono per nove giorni. La conclusione si conosce bene, la fabbrica venne comprata da un nuovo imprenditore e sta funzionando normalmente, ci sono state nel frattempo nuove assunzioni.
I sedici manifestanti, rinviati a giudizio, sono fra i primi che accorsero quella tragica mattina e manifestarono con noi operai della INNSE affinchè la fabbrica non venisse smantellata. Una scelta che fa loro onore, sostenevano una lotta operaia che andava avanti da oltre quattordici mesi.
Vengono rinviati in giudizio giovani operai, lavoratori precari e studenti che avevano capito fin dall'inizio che la lotta per non far chiudere la INNSE riguardava direttamente anche loro, le loro condizioni di lavoro, il loro futuro. Fin dall'inizio avevano sostenuto il presidio, erano stati solidali con noi anche quando sembrava che la fabbrica fosse morta e sepolta.
Gli operai della INNSE non dimenticheranno mai il ruolo dei sostenitori, diventati centinaia, accampati in Via Rubattino nei giorni cruciali della gru, restituiremo ai sedici sostenitori, che oggi si vogliono processare, la stessa solidarietà che abbiamo ricevuto.
Il messaggio che si vuol mandare è quello di ergere un muro fra gli operai in lotta contro la chiusura delle fabbriche e i militanti che le sostengono: i primi, sopportati a malapena, i secondi denunciati alla magistratura.
Dopo la conclusione della vicenda INNSE tanti, fra istituzioni e partiti, si sono attribuiti meriti che non avevano, tanti hanno speso parole di elogio per aver salvato una fabbrica che ha fatto la storia di Milano, chi invece ha contribuito, con la sua presenza insieme agli operai, a rendere possibile questo risultato deve finire in tribunale.
Come operai della INNSE non possiamo accettarlo e saremo sempre al loro fianco.

Milano, 25 ottobre 2011


Bassano del grappa (vi): 8 DENUNCE PER 8 UOVA
Così lo stato borghese italiano reprime i lavoratori.
La doppia manovra estiva varata in tempi rapidissimi dal governo, ci ha dato la conferma, l'ennesima, di come questa casta politica di mafiosi e piduisti abbia a cuore esclusivamente gli interessi di borghesi, banche e padronato. Questo non ci meraviglia di certo: purtroppo a pagare lo scotto della crisi, lo fanno da sempre i proletari, classe utile solo per essere spremuta e sfruttata dai padroni del mondo.
Il loro intento di fatto è chiarissimo: distruggere lo stato sociale a suon di privatizzazioni e tagli ad istruzione, sanità e trasporti. Il futuro vogliono relegarlo solo ai loro "amici" di interessi, rendendoci, a noi lavoratori e studenti proletari, la vita più precaria e ricattabile possibile.
Non è un caso che la crisi venga usata come scusante per accanirsi su di noi, togliendoci diritti, dignità e futuro: l'articolo 8 della manovra bis, a tal proposito, ne è la prova schiacciante. Per i lavoratori il futuro riserverà esclusivamente sfruttamento, ricattabilità e diritto a venire licenziati con il beneplacito di "opposizione" e delle tre sigle sindacali filopadronali CISL, UIL e CGIL. E tutto questo mentre si continua ad ammalarsi e a morire nei posti di lavoro, nel silenzio assordante delle istituzioni: patetico infatti, l'atteggiamento dei nostri politici dopo la tragedia di Barletta dello scorso 3 ottobre, dove sono morte cinque operaie. Tanto bravi a spendere parole di sdegno contro lavoro nero e mancanza di sicurezza, quando ne sono i primi finanziatori e promotori.
Ma non occorre andare fino in Puglia o a Torino (Thyssenkrupp) per toccare con mano la nuda e cruda realtà della precarietà e dell'insicurezza del lavoro: anche qui nella borghese Bassano e nel ricco nordest si muore sul lavoro e di lavoro. Lo sanno bene i famigliari dei sette operai assassinati dal cromo della ex Tricom Pm Galvanica di Tezze sul Brenta: un caso tristemente noto alla cittadinanza soprattutto per l'egregio lavoro svolto in questi anni dal Comitato per la salute nei luoghi di lavoro e nell'ambiente di Bassano del Grappa e Tezze sul Brenta che, presidio dopo presidio, ha accompagnato fino ad oggi con la lotta, l'intero iter giudiziario. Purtroppo, nonostante perizie tecniche e prove schiaccianti che dimostrano inequivocabilmente la causa dei decessi, il tribunale di Bassano, rappresentato nell'atto finale dal giudice Deborah De Stefano, ha mandato assolti i tre imputati perché "il fatto non sussiste", giustificando di fatto le morti per la condotta individuale di ciascuno di loro (fumavano sigarette!).
Il 24 maggio scorso, la giustizia borghese ha assolto tre padroni assassini!Lo stato ha assassinato, per la seconda volta, sette lavoratori!
Lo ribadiamo, non ci stupisce. Anche se la doccia fredda fa sempre il suo effetto: ecco perché riteniamo sana e giustificata la reazione di rabbia del comitato e di tutte le persone che in solidarietà quel 24 maggio stavano davanti ai cancelli del tribunale e che, alla notizia dell'assoluzione, hanno lanciato uova e slogan contro lavergognosa sentenza.
La risposta dello stato e dei suoi servi in divisa blu non si è fatta attendere: un mese dopo sono piovute otto denunce (per imbrattamento e minacce) a carico di otto lavoratori descritti dai giornali come sovversivi, autonomi e facinorosi. Il loro processo inizierà il 12 dicembre prossimo a Trento.
Ancora una volta, lo stato si è dimostrato per quello che è veramente: denunce e processi non ci spaventano ne, tantomeno, fermeranno la lotta del comitato.
Il 12 dicembre saremo a Trento davanti al tribunale a gridare il nostro rifiuto e il nostro dissenso neiconfronti di questa giustizia di classe che assolve i padroni assassini e reprime chi lotta e alza la testa.
Massima solidarietà ai famigliari degli operai morti alla ex Tricom Pm Galvanica!
Massima solidarietà agli otto lavoratori denunciati!

novembre 2011
O.S.A. - Operai Studenti Autorganizzati
osa.bassano@libero.it


Solidarietà con Riccardo Antonini, licenziato dalle FFSS
Il Sindacato Intercategoriale COBAS esprime la sua solidarietà al ferroviere Riccardo Antonini, colpito da licenziamento politico da parte della RFI [Rete Ferroviaria Italiana].
Le Ferrovie hanno voluto colpire Riccardo per il suo impegno politico e sociale, che negli ultimi anni lo ha visto particolarmente attivo contro i licenziamenti politici dei suoi compagni di lavoro (come il macchinista e RLS Dante De Angelis ed i quattro ferrovieri "rei" di aver collaborato alla realizzazione della trasmissione Report che denunciava la carenza di sicurezza delle ferrovie italiane andata in onda su Rai Tre il 7 ottobre 2003) e nella lotta per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Successivamente alla strage di Viareggio del 29 giugno 2009, che ha provocato 32 vittime, Riccardo è stato in prima fila nella battaglia per la verità e la giustizia, ed è stato promotore della nascita dell’Assemblea 29 giugno che, insieme ad altre associazioni, ha impugnato e rafforzato questa battaglia, svolgendo anche il ruolo di consulente tecnico di parte per alcuni familiari delle vittime della strage e per la FILT-CGIL.
Insieme ad altri lavoratori e cittadini di Viareggio ha seguito ogni singolo sviluppo di questa battaglia denunciando le responsabilità di RFI e del suo amministratore delegato Mauro Moretti.
Per questo Riccardo è stato prima sospeso senza retribuzione e poi licenziato con la formula del "licenziamento senza preavviso per giusta causa" per essersi definitivamente compromesso il rapporto fiduciario.
Questo licenziamento politico avviene a pochi giorni dalla conclusione dell'incidente probatorio relativo alla strage di Viareggio, dove uno dei due periti del GIP, l’ing. Licciardello, risulta retribuito da RFI e stila una perizia a favore della stessa. Tutto regolare: “non sussiste sudditanza psicologica”, anche se quella economica e più che palese.
L’affermazione della giustizia si dimostra quindi essere una battaglia che va ben oltre le aule di tribunale.
A Riccardo va tutto il nostro sostegno politico ed umano e a quella moltitudine di persone che in questi anni hanno stretto con lui il loro rapporto fiduciario va il nostro saluto più fraterno e l’invito a rafforzare la lotta e la mobilitazione.
Per l’immediato reintegro di RICCARDO ANTONINI!
Verità e giustizia per la strage di Viareggio!
10 novembre 2011
Sindacato Intercategoriale Cobas
Pioltello (MI): è iniziata la lotta contro Esselunga
Di seguito riportiamo una sintesi delle giornate di sciopero e di lotta che si sono susseguite a cavallo di ottobre e novembre presso i magazzini centrali di Esselunga a Limito di Pioltello. Le ragioni che hanno spinto molti operai ad intraprendere questo percorso di lotta sono comuni a molti altri magazzini della logistica: irregolarità delle buste paga, licenziamenti politici, carichi di lavoro insostenibili, totale arbitrio dei capi sulla turnistica. La lotta è partita dagli operai della SAFRA, un consorzio di cooperative che opera nei magazzini Esselunga e che raggruppa alcune cooperative. I tentativi di allargare lo sciopero alle altre cooperative (RAT) o consorzi (ALMA) operanti nei medesimi magazzini non ha prodotto fino ad ora risultati significativi al punto che il lavoro svolto dagli operai SAFRA, verso la fine di questa prima tornata di scioperi, è stato in parte rimpiazzato da quello degli operai in forza ad altre cooperative e consorzi, provocando non poche difficoltà alla prosecuzione dello sciopero. Circa quindici anni fa, la lotta che si era sviluppata presso gli stessi magazzini da parte di circa 80 lavoratori, in maggioranza asiatici, fu stroncata dai licenziamenti. Nonostante queste difficoltà un nucleo di lavoratori oggi presenti nel sito ha deciso di aprire un nuovo percorso di lotta.

Dopo un primo sciopero nel mese di ottobre, una seconda giornata di sciopero è stata silenziosamente convocata per venerdì il 7 ottobre ed ha visto la presenza di svariati operai, anche provenienti da altre esperienze di lotta guidate dal Sindacato Intercategoriale Cobas nel settore della logistica (Fiege-Borruso, Ortofin, Ceva, TnT, Otil, Sgt, AF), oltre che da svariati militanti di diverse strutture dell'area milanese.
Lo sciopero è cominciato nel turno del pomeriggio e sono stati bloccati per tre ore i camion sia in entrata che in uscita, fino all'arrivo di ingenti rinforzi di polizia, risoluti a caricare il presidio se non si fossero lasciati transitare i camion. La decisione di sospendere il blocco è stata presa a seguito della valutazione che un'azione di forza da parte della polizia avrebbe avuto come probabile conseguenza quella di spezzare il coraggio del gruppo di operai promotori di queste prime giornate di lotta. Lo sciopero è comunque proseguito fino a tarda notte al fine di intercettare gli operai durante il cambio turno di mezzanotte.
A seguito di questo sciopero, nelle giornate successive, Esselunga ha comunicato ai 15 delegati del S.I. Cobas, promotori dello sciopero, l'indisponibilità del consorzio SAFRA a farli entrare a lavorare. Ciò è avvenuto in un primo momento senza specificarne le ragioni, poi giustificando questa scelta attraverso l'imposizione di giornate di ferie e solo successivamente comunicando la loro definitiva estromissione per "scarso rendmento".
Da subito la lotta ha dovuto includere tra gli obiettivi immediati il ritiro di tale provvedimento percepito a ragione come un'azione di rappresaglia da parte di SAFRA-Esselunga.
Lunedì 31 ottobre è indetta una terza giornata di sciopero a partire dal turno notturno che ha visto una grossa adesione degli operai del consorzio SAFRA. Si comincia ad allestire un presidio permanente nello spiazzo alberato antistante il magazzino principale (sono infatti presenti a poca distanza anche altri due magazzini, quello della salumeria e dell'ortofrutta) che costituirà nei giorni a seguire il punto organizzativo per uno sciopero ad oltranza. Presidi, scioperi e blocchi sono proseguiti per tutta la giornata successiva. La mattina del 2 novembre SAFRA ed Esselunga hanno tentato un contrattacco, organizzando una piccola truppa di una ventina di crumiri, capeggiati dai caporali SAFRA e sostenuti dalle guardie private, che si è scontrata fisicamente col picchetto. Una decina di lavoratori sono stati letteralmente spinti all'interno dei cancelli mentre gli altri decidevano di abbandonare il terreno di scontro. La reazione del picchetto è stata quella di mettere immediatamente in atto il blocco dei camion (che fino ad allora, per decisione collettiva, avevano potuto transitare), costringendo le forze dell'ordine ad una mossa alquanto inconsueta: far uscire i crumiri per discutere col presidio. Alla fine solo quattro di essi decidevano di rientrare, ancora illusi che ci fosse una possibilità di aprire una discussione con l'azienda senza dover passare per lo sciopero.
Venerdì 4 novembre, lo sciopero continua e si è ormai allargato a tutti i turni di lavoro (siamo ormai all'85% dei lavoratori in forza a SAFRA) e il presidio permanente, pur tra varie difficoltà organizzative, si conferma un punto di riferimento della lotta ma arrivano anche le prime sostanziose provocazione: prima Longo in persona (presidente di SAFRA) provoca, anche fisicamente un dirigente del S.I. Cobas nell'incontro di chiarimento sui 40 provvedimenti disciplinari (fra cui quello che estromette momentaneamente i 15 delegati) ribadendo il suo potere assoluto sulle relazioni sindacali, poi l'odiato capo De Siena aggredisce un lavoratore che rientrava a casa dopo il suo turno di presidio.
Lunedì 7 novembre, anche in risposta alle svariate provocazioni degli ultimi giorni, vengono bloccati dalle 15.30 all'una di notte i magazzini del fresco, ovvero salumeria e ortofrutta, con una grossa probabilità di danno ingente all'azienda a causa della deperibilità delle merci trattate e dei tempi di consegna ai punti-vendita necessariamente rapidi.
Esselunga risponde organizzando un crumiraggio in grande stile attraverso l'allargamento dell'appalto alle altre cooperative consorziate o meno già presenti nei magazzini, nel chiaro intento di svuotare lo sciopero e minacciare gli operai. Una strategia che colpisce nel segno dal momento che ad alcune decine di operai SAFRA viene negato l'accesso ai magazzini in quanto ritenuti superflui. Da questo punto in poi la lotta cerca di fare reintegrare gli operai posti volontariamente in esubero e di conseguenza lo sciopero rientra. Il presidio permanente, che nel frattempo è stato reso più attrezzato e confortevole, resta come punto di incontro, informazione ed organizzazione.
Venerdì 11 novembre è stato organizzato un concerto davanti ai magazzini e la domenica successiva un pranzo per cominciare a raccogliere fondi per una cassa comune di resistenza per sostenere gli operai in sciopero. Sabato 12 invece sono stati fatti svariati presidi e volantinaggi davanti ad alcuni punti vendita di Esselunga in diverse città di Italia. La partita non è sicuramente chiusa.
Milano, novembre 2011

***
Seguono alcune considerazioni di un lavoratore dopo tre mesi di lavoro per una Cooperativa di carico-scarico merci ai magazzini centrali di Esselunga.

Le condizioni di lavoro sono abbastanza massacranti, sembrano quelle descritte nei libri di storia: nessun diritto. Disponibilità massima (4 turni 24 ore su 24). Orari imposti la sera per la mattina, ... o la mattina per il giorno stesso (o la notte). La "produttività", misurata in numero di “colli” prelevati e caricati, è ultra controllata e se non raggiungi obiettivi giornalieri minimi ti riprendono chiedendo spiegazioni. Ti inducono così a mantenere ritmi di lavoro sempre al limite della sopportabilità (almeno all'inizio).
La paga, formalmente oraria, è praticamente a cottimo, in base a quanta merce riesci a caricare sui bancali in un turno di lavoro di 6 ore.
La timbratura di entrata deve avvenire 10 minuti prima di inizio turno, quella di uscita nei 10 minuti successivi. Timbratura che avviene con il riconoscimento delle impronte digitali. Il cartellino per timbrare è pagato da me. E' pagata da me anche la chiave per il "papalino" (muletto, cioè "attrezzo da lavoro")... se la perdo pago 5 euro per averne un'altra.
Non c'è né mensa né si ha diritto a buoni pasto: i turni sono infatti formalmente di 6 ore, non prevedono quindi la pausa pranzo. Di fatto però, quando c'è molto lavoro, si fanno anche doppi turni (12 ore consecutive) senza ovviamente fermarsi per mangiare. Nonostante questo c'è però una piccola stanza vetrata in cui vi sono alcuni tavoli e sedie in cui si può precariamente consumare qualcosa. Chi poi nella pausa esce a fumare deve stare rigorosamente in piedi in un piccolo spazio ben definito.
Tutto il tempo di lavoro è regolato da un terminale che ti indica l'inizio del lavoro, la pausa e il fine turno, attraverso delle cuffie personali (con microfono, tipo call center) che il lavoratore deve tenere in dosso per tutta la durata del turno. La pausa, unica sulle sei o più ore, è comandata dal computer (attraverso le cuffie indossate) ed è rigorosamente di 15 minuti a rotazione tra le varie cooperative.
Attraverso queste cuffie inoltre, il computer ti “guida” nel lavoro dicendoti dove andare (in quale delle 35 corsie), cosa e quanto prelevare dai bancali, in quale ribalta scaricare, etc... attraverso tutto un sistema di codici e conferme vocali attraverso “contro-codici”. Se fai tardi, rischi di far partire un camion senza alcuni bancali.
Si lavora quindi con cuffie e microfono: un terminale ti elenca (e ti conta) i codici dei prodotti da prelevare dagli scaffali e caricare sui bancali trasportati dal “papalino”. Tu rispondi al microfono e confermi. E' tutto codificato, tutto registrato.
Ad ogni bancale che invii devi attaccare uno stampato che indica il tuo nome, quello della tua cooperativa, numero di colli prelevati, data e ora di invio, data e ora di partenza del camion, etc...
La forma contrattuale è quella di “socio lavoratore” di cooperativa. Questo implica che, a discrezione del capo turno, se c'è lavoro ti fermi ore in più (senza neanche chiedere, te lo dicono e basta), se non c'è lavoro vai a casa prima (perdendo così delle ore di paga).
In questo tipo di lavoro il ricambio degli operai della cooperativa è altissimo: i lavoratori, per lo più migranti, rimangono in media qualche mese, poi scappano o vengono “indotti” a lasciare... ma per loro la questione principale è quella legata al permesso di soggiorno, che diventa quasi un'arma di ricatto implicita per far accettare qualsiasi condizione.
Per quanto riguarda il modo di lavorare, infatti, da un lato pretendono velocità e produttività massima nel lavoro (e ti pongono per questo obiettivi ben precisi), dall'altro vogliono che il lavoro sia preciso ed accurato per evitare rotture e danneggiamenti della merce.
Quando si riempiono 2 bancali alti due metri (con un peso che non riesce ad alzare neanche il "papalino" – diversi quintali) è facile ribaltare o far cadere la merce impilata sui bancali se non si carica con criterio e precisione. Anche la legatura va fatta frequentemente man mano che si alza il livello del bancale, bisogna “nastrare” spesso , ma questo comporta una perdita di tempo...
La sicurezza è pari a zero, pura formalità: ci sono bancali vecchi e mezzi rotti sospesi a 7 metri di altezza, che i carrellisti caricano col muletto ad una velocità impressionante col rischio di farli cadere su altri lavoratori. Le regole di circolazione all'interno del magazzino sono come quelle della strada, bisogna dare precedenze, le corsie sono “a senso unico”, etc., ma la fretta spesso porta le persone a non seguire queste regole, con la conseguenza di un elevato rischio di incidenti e infortuni.
Anche la disciplina nel lavoro è rigorosa: se ti sorprendono con addosso qualsiasi merce del magazzino ti mandano a casa istantaneamente e senza troppe formalità.
L'ambiente di lavoro è costituito per lo più da persone migranti, provenienti da tutti i paesi del terzo mondo, ma ci sono anche alcuni nuovi e “vecchi” immigrati dal sud Italia.
Ovviamente entrambe le categorie fanno parimenti la fame con salari intorno ai 6,99 euro/ora lordi. [...]
dicembre 2010, da www.sicobas.org