10/03/2016: Sintesi dell'assemblea del 6 marzo 2016 alla Panetteria occupata di Milano sui processi in corso per il reato di “devastazione e saccheggio”


Sintesi dell'assemblea del 6 marzo 2016 alla Panetteria occupata di Milano
sui processi in corso per il reato di “devastazione e saccheggio”

Quest'assemblea, la terza tenutasi a Milano nel giro di poche settimane, aveva l'obiettivo non tanto di approfondire le informazioni giuridiche riguardo al reato di “devastazione e saccheggio” (ds), tema trattato in diverse occasioni, quanto piuttosto di capire come affrontare i processi in corso a partire dalle testimonianze dirette di chi vi è coinvolto o lo è stato.
La discussione si è aperta con la lettura di un contributo scritto da un compagno condannato per il reato di , per gli scontri avvenuti a Roma nell'ottobre del 2011, al quale sono seguiti gli interventi di un compagno processato per la manifestazione di Cremona del 24/01/2015 e aggiornamenti sulla situazione dei compagni chiusi a San Vittore per gli scontri del 1° maggio 2015 a Milano. L'intervento di un altro compagno sotto processo per il 15 ottobre romano ha completato il quadro introduttivo.

Tutti gli interventi hanno messo in evidenza le enormi difficoltà riscontrate nell'affrontare il processo in modo collettivo, sia fra imputati, sia come movimento. Le motivazioni portate all'attenzione riguardano: le divisioni, anche preesistenti, fra le aree di movimento, che si riflettono nelle distinte posizioni assunte dagli imputati; l'isolamento di altri, senza un gruppo o un'area di riferimento, tanto più se molto giovani, come spesso accade; la complessa divisione in differenti filoni processuali; l'elevato numero di anni di galera da scontare in caso di condanna anche con il minimo della pena (dagli 8 anni in su per ds); i diversi precedenti giudiziari sfavorevoli ad una derubricazione del reato di ds; le difficoltà di confronto con e fra imputati, sempre più spesso rinchiusi preventivamente in carcere o ai domiciliari “con tutte le restrizioni”; l'orientamento degli avvocati della difesa, in assenza di indicazioni chiare e collettive dei propri assistiti, verso una gestione “tecnica” del processo in cui prevalgono gli aspetti del diritto, dei ruoli processuali del rituale imposto; l'importanza attribuita agli sconti di pena dispensati nelle forme alternative al rito processuale ordinario (in particolare nel “rito abbreviato”), senza conoscere con precisione la contropartita di tale scambio; la carenza di discussione, informazione e condivisione su come affrontare la repressione, che conduce inesorabilmente ad un approccio processuale di tipo soggettivo, ben riassunto nel “si salvi chi può”, che non di rado spinge verso l'abiura e la delazione; in ultimo, la strategia processuale della controparte che, nel perseguire i propri scopi, sfrutta tutti questi elementi di divisione fin dalla costruzione dell'inchiesta giudiziaria.

Va senz'altro approfondita e socializzata la comprensione della natura politica del processo e, nello specifico, di quei processi dove la contestazione di un reato grave come ds (o di un reato associativo), attraverso le pene previste e la deterrenza che generano, mira ad indebolire anche la sola partecipazione a manifestazioni sulle quali pende per tutti/e il reato di ds, anche mediante il “concorso”.
Sulla distinzione fra processo di connivenza e di rottura, nell'ambito del processo politico, rimandiamo al materiale diffuso di recente in diverse occasioni e che fu appunto elaborato in occasione di un altro processo per ds, quello seguito alla manifestazione dell'11 marzo 2006 a Milano, in opposizione ad un corteo fascista (*).
Basti qui ribadire che, se nel processo comune l'accertamento della responsabilità passa attraverso l'accertamento dei fatti, nel processo politico l'accertamento della responsabilità passa attraverso l'accertamento dell'identità (politica) del reo: l'identità è causa sufficiente per stabilirne la colpa, mentre i fatti costituiscono solamente il pretesto per giungere a delle condanne che si vogliono esemplari.
In quest'ottica riusciamo a comprendere, ad esempio, perché un imputato accusato per il lancio di un fumogeno durante il corteo a Cremona sia stato condannato per il reato di ds nonostante l'assenza di ulteriori elementi a suo carico. Nel corso del processo la sussistenza di tale reato sarebbe stata accertata dai giudici sulla base di un fotogramma, che lo ritrarrebbe nel momento di un presunto lancio di un fumogeno che avrebbe detenuto.
Il che vuol dire che tale reato (che al fine della sua configurazione comporta, per l’appunto, la devastazione e il saccheggio) sarebbe stato riscontrato sulla base dell’esistenza di un fumogeno e di un suo tentato o presunto lancio!
Come è evidente, si tratta dell’ennesimo capo di accusa che si pretende accertato dai giudici sulla base di una volontà chiaramente preordinata e orientata alla condanna, attesa l’assoluta mancanza di relazione e di nesso di causalità tra il predetto fotogramma e il reato di ds. Per l’ennesima volta, più che dell’accertamento di un fatto a cui dovrebbe corrispondere l’esistenza di un reato, viene accertata l’identità del reo che, come detto, nel processo politico è condizione sufficiente, causa efficiente per la sua condanna.
Attraverso la reclusione e un intero arsenale di pene accessorie, l'obiettivo dell'accusa, in un processo politico, è essenzialmente quello di indebolire la determinazione di chi lotta, farla retrocedere, separando le istanze collettive, laddove si manifestano, in diverse posizioni particolari, differenti fra loro, facendo prevalere le presunte responsabilità individuali, in merito agli specifici fatti contestati, invero mal motivati e ancor meno riscontrati. Nascondendo di conseguenza il contesto sociale e politico nel quale tali sono invece maturati.
L'accusa esige un rinnegamento di sé, delle proprie convinzioni, del carattere collettivo del proprio agire. Esige abiura e rassegnazione, da mostrare a tutti, solo così potrà dispensare perdono e clemenza agli uni e una pena esemplare per gli altri. Il terreno favorevole all'accusa è dunque quello delle nostre debolezze e contraddizioni, sul quale ha buon gioco la criminalizzazione e la differenziazione degli imputati e del movimento di lotta di cui sono espressione.
In buona sostanza, quanto più si riesce a rifiutare che lo scontro processuale avvenga sul terreno imposto dall'accusa attraverso gli strumenti punitivi e, soprattutto, premiali, di cui dispone, tanto più si riuscirà a difendere se stessi attraverso la difesa di tutti, ricomponendo nell'ambito collettivo delle ragioni della lotta ciò che l'accusa vorrebbe tenere separato in distinti ruoli specifici (imputati, avvocati, pubblico). Il terreno ideale per un processo di rottura è quello che riesce ad evidenziare, sopra ad ogni altro elemento, le debolezze e contraddizioni della controparte, trasformando la difesa in accusa.

Dopo quanto detto, va precisato infine che la definizione di processo “tecnico” finisce per creare molta confusione e anche ambiguità. Sembra infatti che il processo, in quanto semplicemente tecnico, sia neutro ovvero privo di quegli elementi che caratterizzano invece il processo politico. Abbiamo invece avuto modo di approfondire, in questa come nelle precedenti discussioni, come, ad esempio, la scelta del rito processuale, nonché la scelta tecnico-processuale, non possano separarsi dalle valutazioni più complessive, di carattere politico, che le hanno motivate. Se sul patteggiare la pena sembra esservi sufficiente chiarezza, sull' “abbreviato” occorre avere ben presente che lo sconto di un terzo della pena si baratta con la drastica riduzione dei tempi del processo, aggravata ulteriormente dall'interdizione dell'ingresso in aula di un pubblico coinvolto e solidale. Inoltre, una supposta neutralità degli aspetti tecnici della difesa giuridica, come se fossero indipendenti dall'agire politico, induce alla falsa credenza che sia conveniente ridurre il potenziale danno, contrattando a priori il prezzo di una probabile sconfitta e rinunciando così alle possibilità tecniche di una difesa politica più ambiziosa. Più specificatamente, riguardo alla scelta del rito abbreviato, anche in relazione ai processi dove l’imputazione è quella di ds, occorrerebbe prendere in considerazione rilievi critici, che sinteticamente si possono riassumere nel seguente modo.
Tale rito, come già detto, viene celebrato con maggiore celerità rispetto a quello ordinario. Il che significa che riguardo ai processi politici, in molti casi, il potere mediatico in linea con quelli politici e giudiziari, ha già provveduto ad agitare una grossa campagna di disinformazione e strumentalizzazione dei fatti accaduti e delle relative imputazioni contestate ai compagni indagati o imputati. Con la conseguenza, di creare un clima idoneo per la preparazione, l’emissione e la legittimazione pubblica di una pesante sentenza di condanna nel processo che sarà celebrato o che si sta celebrando. In poche parole, si tratta di pubblicizzare una sentenza già decisa e scritta. In ogni caso l’influenza dei media sul clima processuale rende la giuria sempre più incline al più cruento giustizialismo. Inoltre, in tale contesto, le condanne che seguiranno andranno a formare un corpo giurisprudenziale che sarà sempre più difficile scardinare nei processi a seguire per il suddetto reato di ds e non solo. Infatti, l’uso di precedenti, in diffuso aumento in diverse sedi giudiziarie, formerà una giurisprudenza via via più costante e univoca che, grazie all’opera sempre più asservita dei media, tenderà a legittimare pubblicamente i giudici ad adoperarla, come fosse una sorta di legge inderogabile. Con la scelta del rito ordinario, vista la dilatazione dei tempi processuali, il clima del predetto furore giustizialista potrebbe quantomeno diminuire nell’attesa del processo e della sentenza finale, fermo restando che le influenze mediatiche sui giudici certamente non cesseranno mai del tutto.
Tutto ciò consentirebbe ai compagni di riflettere maggiormente sull’arresto, la detenzione, la linea processuale da adottare, permettendo anche un orientamento sempre più deciso al confronto e allo scambio di opinioni tra i coimputati, nonché alla verifica di tutte le posizioni presenti nell’inchiesta e nel processo che seguirà. Il che darebbe ulteriore possibilità a tutti di valutare l’importanza di una difesa più coesa e collegiale, rinunciando a dannosi personalismi e divisioni.
In secondo luogo, come è già stato sottolineato da un compagno coinvolto nel processo per i fatti accaduti a Roma nell’ottobre 2011, con il rito abbreviato si rischia molto spesso di andare a giudizio in stato di detenzione, visto che i termini di custodia cautelare per reati come quelli contestati nei processi politici, difficilmente scadranno prima dell’inizio del processo. Con l'abbreviato quindi, si corre il rischio di rimanere in carcere ininterrottamente anche dopo la condanna di primo grado. Con il rito ordinario, invece, si potrebbe arrivare al processo anche a "piede libero", visto il maggior tempo che occorre per la sua istruzione e celebrazione, che potrà quindi superare i termini previsti dalla legge per la custodia cautelare. Senza tralasciare, nello stesso tempo l’opportunità per la difesa di ricercare e produrre tutti quegli elementi utili per individuare il giusto contrasto alle accuse e per dare il giusto risalto alle ragioni degli imputati. Per quanto attiene invece il computo della pena, se è vero che con il rito abbreviato essa potrà essere ridotta di un terzo, è altrettanto vero che tale computo dipende sempre dai giudici e dalla base di valutazione anche minima, da cui essi partono per conteggiarla. In proposito, occorre tenere nella debita considerazione il fatto che il minimo della pena solitamente dovrebbe essere conteggiato per coloro che risulteranno incensurati, indipendentemente dal rito scelto per il processo. Mentre per coloro che risultano recidivi, la pena sarà calcolata a partire da un minimo di anni maggiore rispetto alla pena-base. In ogni caso, anche nel rito abbreviato, come in quello ordinario, il calcolo della pena effettuato dai giudici dipende sempre dall’atteggiamento processuale e dalla personalità dei compagni processati.

Che la migliore solidarietà esista nella continuazione della lotta è certamente vero, ma non scontato, poiché i processi e le carceri hanno il principale scopo di spezzarne la continuità. La repressione non è dunque un momento separato dalle lotte ma un imprescindibile momento di verifica delle stesse, come il movimento No Tav ha saputo dimostrare.
E' necessario che questo tipo di valutazioni (degli imputati, degli avvocati, delle aree di movimento, circa la strategia e la tattica processuale) siano rese esplicite e socializzate perché senza di esse manca la base concreta del necessario confronto politico.
Avendo ben presenti le concrete difficoltà poste all'inizio, occorre non ridursi alla condanna delle posizioni più deboli o anche a volte opportuniste, che comunque sempre si presenteranno, né affidarsi ad interpretazioni rigide e schematiche di quelle che dovrebbero essere le scelte corrette, ma concentrarsi nel ricomporre e sostenere le istanze collettive di lotta che, ad oggi, siamo in grado di esprimere.
Milano, marzo 2016
OLGa – Milano

(*) www.autprol.org/public/allegati/all000344310062006.doc

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