21/11/2013: Opuscolo n.85 - ottobre 2013


indice n.85

La Libia fra terrorismo, CIA e militarizzazione dell'Africa
iL corno d’africa neLLa stretta deLLe muLtinazionaLi
Mare nostrum, guerra ai migranti nel Mediterraneo
Aggiornamenti della lotta dentro e contro i CIE
Lettere daL carcere di opera (MI)
Lettera daL carcere di monza
trento: e' morto un ragazzo... e non di vecchiaia
Lettera da busto arsizio (va)
Lettera daL carcere “La dozza” (bo)
Lettera dal carcere di Terni
rifLessioni daL e suL carcere di una compagna
Lettere daL carcere di spoLeto (PG)
Lettere daL carcere di rebibbia (RM)
Lettera daL carcere pagLiareLLi (PA)
Lettera daL carcere di igLesias (CA)
sentenza primo grado operazione “shadoW”
processo per iL ferimento deLL'ad ansaLdo nucLeare
genova 2001: un passato da riscattare, un presente da rovesciare
suL processo per i fatti di roma deL 15 ottobre 2011
LA CASA È UN DIRITTO, OCCUPARE È GIUSTO
daLLe udienze deL processo contro i no-tav
La devastazione deLL'ambiente non e' reato, contestarLo si
processo contro gLi operai di basiano (mi)
Lotta operaia in bangkLadesh
suL ddL per iL nuovo sistema socio sanitario Lombardo


La Libia fra terrorismo, CIA e militarizzazione dell'Africa
L'11 ottobre il Primo Ministro libico è stato brutalmente rapito, per poi essere liberato nel giro di qualche ora.
Questo sequestro è sintomatico della situazione del paese. Il 12 ottobre un'auto bomba è esplosa vicino alle ambasciate
della Svezia e della Finlandia. Una settimana prima l'ambasciata russa era stata evacuata dopo essere stata invasa da
uomini armati. Un anno fa era successo lo stesso all'ambasciata statunitense. L'ambasciatore e tre collaboratori vi
avevano trovato la morte. Altre ambasciate erano state in precedenza prese di mira.
L'intervento occidentale in Libia, come in Iraq e in Afghanistan, ha messo in piedi uno Stato debolissimo. Dopo la
destituzione e l'assassinio di Gheddafi, la situazione dell'ordine pubblico nel paese è fuori controllo. Attentati
contro politici, attivisti, giudici e servizi di sicurezza sono moneta corrente. Il governo centrale ha difficoltà a
controllare il paese. Le milizie rivali impongono la loro legge. A febbraio il governo di transizione è stato costretto
a convocarsi sotto le tende, dopo essere stato espulso dal parlamento da ribelli infuriati. Il battello colato a picco
vicino a Lampedusa, facendo annegare 300 rifugiati, veniva dalla Libia, ecc.
La Libia possiede le più importanti riserve di petrolio dell'Africa. Ma, a causa del caos che regna nel paese,
l'estrazione è quasi ferma. Siamo arrivati al punto che deve importare il petrolio necessario a soddisfare i suoi
bisogni di elettricità. A inizio settembre sono state sabotate le condutture d'acqua verso Tripoli, minacciando la
capitale di penuria.
Ma la cosa più inquietante è la jihadizzazione del paese. Gli islamisti controllano interi territori e hanno uomini
armati ai checkpoint delle citta di Bengasi e Derna. La figura di Belhadj illustra bene la situazione.
Questo ex (per così dire) membro eminente di Al Qaida era coinvolto negli attentati di Madrid del 2004. Dopo la caduta
di Gheddafi, divenne governatore di Tripoli e inviò centinaia di jihadisti libici in Siria per combattere contro Assad.
Lavora oggi alla costruzione di un partito conservatore islamista.
La jihadizzazione si estende ben al di là delle frontiere del paese. Il Ministro tunisino dell'interno descrive la Libia
come un "rifugio per i membri nordafricani di Al Qaida". Dopo il crollo del governo centrale libico, armi pesanti sono
cadute nelle mani di ogni sorta di milizie. Una di queste, il Libyan Fighting Group (LIFG), di cui Belhadj è un
dirigente, ha stretto un'alleanza con i ribelli islamisti del Mali. Questi ultimi sono riusciti, con i Tuareg, a
impossessarsi di tutto il Nord del Mali per qualche mese. L'imponente operazione di sequestro di ostaggi in una base
petrolifera algerina, in gennaio, è stata realizzata partendo dalla Libia. Oggi la ribellione siriana è controllata
dalla Libia e la macchia d'olio jihadista si estende verso il Niger e la Mauritania.
A prima vista, gli Stati Uniti e l'Occidente sembrano preoccuparsi di questa recrudescenza di attività jihadista in
Africa del Nord. Aggiungiamo anche la Nigeria, la Somalia e più recentemente il Kenya. Ma a ben vedere la situazione è
più complicata. La caduta di Gheddafi è stata resa possibile dall'alleanza tra, da una parte, le forze speciali
francesi, inglesi, giordane e del Qatar e, dall'altra, gruppi ribelli libici. Il più importante di essi era proprio il
Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), che figurava nella lista delle organizzazioni terroriste vietate. Il suo leader,
il sunnominato Belhadj, aveva due o tremila uomini ai suoi ordini. Questi ultimi furono addestrati dagli Stati Uniti
subito prima dell'inizio della ribellione in Libia.
Gli Stati Uniti non sono al loro primo tentativo in questo campo. Negli anni 1980, essi si occuparono della formazione e
dell'organizzazione dei combattenti estremisti islamisti in Afghanistan. Negli anni 1990 fecero lo stesso in Bosnia e,
dieci anni più tardi, in Kosovo. Non è poi da escludere che i servizi di informazione occidentali siano direttamente o
indirettamente coinvolti nelle attività terroriste dei Ceceni in Russia e degli Uiguri in Cina.
Gli Stati Uniti e la Francia si sono finti sorpresi quando i Tuareg e gli islamisti hanno occupato il Nord del Mali. Ma
era solo una facciata. Ci si può perfino chiedere se non siano stati loro stessi a provocarla, come avvenne nel 1990 con
l'Iraq contro il Kuwait. Tenuto conto del livello di presenza di Al Qaida nella regione, qualsiasi specialista in geo-
strategia avrebbe saputo che l'eliminazione di Gheddafi avrebbe provocato una recrudescenza della minaccia terrorista in
Maghreb e nel Sahel. E siccome la caduta di Gheddafi è stata per gran parte opera delle milizie jihadiste, che gli Stati
Uniti avevano formato e organizzato, è il caso di cominciare a porsi delle serie domande. Per maggiori dettagli, rinvio
a un mio articolo precedente.
Comunque sia, la minaccia terrorista islamista nella regione e altrove sul continente africano fa comodo agli Stati
Uniti. Costituisce la scusa perfetta per essere presente militarmente e intervenire nel continente africano. Non è
sfuggito, a Washington, che la Cina e altri paesi emergenti sono sempre più attivi sul continente mettendo in pericolo
l'egemonia degli Stati Uniti. La Cina è oggi il più importante partner commerciale dell'Africa. Secondo il Financial
Times, "la militarizzazione della politica statunitense dopo l'11 settembre è da tempo discussa perché viene
considerata, nella regione, come un tentativo degli Stati Uniti di rafforzare il loro controllo sulle materie prime e di
contrastare il ruolo commerciale esponenziale della Cina.
Nel novembre 2006 la Cina organizzò un summit straordinario sulla cooperazione economica, cui parteciparono almeno 45
capi di Stato africani. Giusto un mese più tardi, Bush approvava la costituzione di Africom. Africom è il contingente
militare statunitense (aerei, navi, truppe ecc) per le operazioni sul continente africano. L'abbiamo visto per la prima
volta in azione in Libia e in Mali. Africom è oramai operativo in 49 dei 54 paesi africani e gli Stati Uniti dispongono
in almeno dieci paesi di basi o installazioni militari permanenti. La militarizzazione degli Stati Uniti nel continente
si allarga continuamente.
Sul piano economico, i paesi del Nord perdono terreno nei confronti dei paesi emergenti del Sud, ed è così anche per
l'Africa, un continente ricco di materie prime. E' sempre più evidente che i paesi del nord intendano contrastare questo
riequilibrio con mezzi militari. La cosa promette bene per il "continente nero".

21 ottobre 2013, da resistenze.org


Il corno d’Africa nella stretta delle multinazionali
Almeno due membri di Al Schabaab sono stati uccisi il 28 ottobre nel sud-est della Somalia con un lancio di missili. Ne
ha dato notizia il quotidiano New York Times, citando un funzionario anonimo del Pentagono. L’azione è stata compiuta da
un commando per operazioni speciali delle forze armate USA. Ufficialmente non è stata fornita nessuna indicazione né
sull’azione militare né sui suoi scopi e risultati. A quanto pare i membri di Al Schabab sono stati colpiti in auto
mentre percorrevano la strada verso Baraawe. Questa città portuale controllata dai ribelli, all’inizio di questo mese è
stata teatro del tentativo di un commando USA di sequestrare dei guerriglieri islamici. L’attacco aveva costretto i
militari USA alla fuga determinata dall’inattesa resistenza immediatamente scesa in campo.
Uno dei guerriglieri uccisi dovrebbe essere Ibrahim Ali Abdi obiettivo principale del tentativo di arresto-sequestro
conclusosi in ritirata. Il ministro dell’interno della Somalia, Abdikarim Hussein, oltre a confermare la stretta
collaborazione fra il suo governo e le forze armate USA nell’operazione missilistica, ha dichiarato che Ali Abdi sarebbe
stato autore e organizzatore di azioni “suicide”; dell’altra persona uccisa dai missili non ha fornito alcun dato.
Ha confermato invece la chiusura nei giorni scorsi della rete televisiva indipendente “Shabelle”, nella cui sede ha
fatto irruzione un centinaio di poliziotti che hanno arrestato 36 giornalisti. Tutti sono stati rilasciati diverse ore
dopo in seguito alla protesta di numerosi parlamentari. Nello stesso tempo dagli studi venivano portate via tutte le
attrezzature, il materiale in archivio, le foto… con la motivazione pretestuosa che l’edificio appartiene allo stato.
“Shabelle”, seguita da un milione di persone in un paese che conta 10 milioni di abitanti, era senz’altro la più
importante rete critica del paese. A cominciare dal 2007 in Somalia sono stati uccisi diciotto giornalisti, dei quali
dieci lavoravano in Shabelle.
Sulla causa esposta dagli USA per i loro attacchi diretti e missilistici (droni) in Somalia, trova posto la collocazione
e l’esplosione di bombe, avvenuta il 21 settembre nel centro commerciale Westgate di Nairobi, capitale del confinante
(nordest) Kenia. L’esplosione è stata rivendicata dall’organizzazione El-Schabaab (che ha sue basi in Somalia).

***
IL KENIA È DIVENTATO UNA SENTINELLA DELL’IMPERIALISMO
Il Kenia è immerso nella guerra civile somala iniziata 22 anni fa (1991). Nell’ottobre 2011 il governo keniota ha
ordinato l’invasione di un ampio territorio somalo, il Giuba – comprendente l’importante porto di Kismajo, compiuta da
migliaia di soldati kenioti in collaborazione con una milizia regionale. Lì, hanno costituito lo stato-cuscinetto
Jubaland, appunto. Il governo somalo ha più volte chiesto il ritiro delle truppe del Kenia, mostrando le testimonianze
di violenze, arresti, saccheggi… sofferti dalla popolazione somala. La stessa ONU ha raccolto materiale in cui è
mostrato il commercio illegale del carbone sostenuto dalle truppe occupanti venduto ai vicini stati della penisola
arabica.
Le organizzazioni islamiche e gli attentati attribuiti loro o anche da loro rivendicati, si sono radicalizzate e sono
state sempre più represse a cominciare dall’ “aiuto di AMISOM” (Missione dell’Unione Africana in Somalia, iniziata nel
2007).
Da giugno 2013 Al Schabaab si è data una nuova direzione che conquista terreno, mettendo da parte i quadri tradizionali
del movimento fondamentalista somalo. Tanti di loro sono stati uccisi; ad altri è riuscita la fuga o sono entrati nelle
forze di sicurezza del governo centrale. Uno di loro, fra i più conosciuti, Hassan Dahir Aweys, da luglio è in carcere a
Mogadiscio. Stessa sorte potrebbe toccare a tanti altri che hanno uguali storie di vita.
L’Unione Europea nelle settimane scorse ha promesso “sussidi in denaro” per una somma complessiva di 1,8mld di euro a
sostegno della stabilizzazione e normalizzazione in atto in Somalia. Nulla è più lontano dalla realtà.
Segue un’intervista a Gacheke Gachihi avvocato per i diritti sociali e membro del gruppo di sinistra “Unga Revolution”.

Per un’intera settimana il Kenia, a causa del bagno di sangue nel centro commerciale Westgate in Nairobi, è finito in
prima pagina. Che spiegazione dà lei di questa esplosione rivendicata dalla milizia somala Al-Schabaab?
L’imperialismo ha sempre scelto la soluzione militare per indirizzare la Somalia nelle strutture tribali – questo ha
condotto all’estremismo nella sua variante religiosa. Ma i somali hanno bisogno di una soluzione politica dei loro
problemi. Il Kenia viene di nuovo adoperato dall’imperialismo come sentinella, come rampa di lancio per interventi in
questa regione – in fin dei conti in gioco ci sono le ricchezze del sottosuolo. Ancora di recente le multinazionali
britanniche in Somalia hanno sottoscritto una serie di accordi per l’estrazione di petrolio. L’esplosione al Westgate è
una reazione a questi interessi imperiali economici e di potere, per i quali Nairobi, capitale del Kenia, serve come
base anche riguardo alla finanza.

Quanto è grande in Kenia il pericolo di scontri etnici o religiosi, in particolare dopo l’assassinio compiuto il 3
ottobre del radicale islamico sceicco Ibrahim Omar e di tre suoi accompagnatori?
Esistono chiari indizi sul fatto che i metodi impiegati in Kenia da Israele e USA usualmente sono definiti: “uccisioni
extralegali”. Ciò genera collera nella popolazione e fa apparire la guerra contro il terrorismo come una guerra contro
la gioventù della minoranza musulmana che vive, in particolare nelle regioni lungo la costa in una miseria terribile,
mentre l’élite politica possiede grandi proprietà ed ha nelle proprie mani l’industria del turismo. La strada imboccata
dal nostro governo, in rapporto ai sospettati di terrorismo, è estremamente pericolosa. E’ esattamente un invito alla
milizia El Schabaab a compiere ulteriori attacchi.

Nei giorni scorsi lei ha esortato a scendere in piazza in tutto il paese contro l’aumento del costo della vita. Qual è
in Kenia la condizione della gente semplice?
Il 70 percento della popolazione non riesce a soddisfare i bisogni fondamentali: è costretto dall’élite dominante a
vivere nella povertà. Elite che in Kenia impone l’ordine neoliberale e domina tutte le sfere economiche, dalle quali il
capitale internazionale vuole ottenere la rendita. Contro la resistenza di gran parte della popolazione il parlamento ha
approvato la legge attesa dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, relativa all’introduzione di
un’imposta del 16 percento sul valore aggiunto di beni di bisogno quotidiano fino ad oggi mai tassati. La conseguenza è
stata che generi alimentari di base quali latte, pane, riso sono diventati più cari. La maggioranza della popolazione,
ad ogni modo, tira avanti con meno di 1 dollaro al giorno.

Il Kenia da tempo viene considerato “la Svizzera dell’Africa”. Com’è ripartita la ricchezza nazionale?
In nessuna parte dell’intero continente esiste ineguaglianza come in Kenia – e la situazione peggiora continuamente! Il
10 percento più in basso della popolazione già nel 2005 disponeva soltanto dell’1,8 del reddito totale del paese, mentre
il 10 percento sovrastante ne disponeva nella misura del 37,8 percento. La rivista USA Forbes di recente ha pubblicato
una lista dei 30 africani più ricchi. Fra loro ci sono otto keniani. Secondo dati dell’ufficio nazionale di statistica
i top-manager delle grandi imprese in media guadagnano 414 volte di più dei loro operai peggio pagati. Appena due anni
fa questa differenza era pari a 315 volte.

Come reagisce il governo alla protesta sociale?
Chi si adopera per i diritti umani, la giustizia sociale e contro la corruzione, va immediatamente alla repressione. La
resistenza è diventata più forte anche perché l’economia neoliberale colpisce le giovani generazioni, una realtà che
spinge continuamente verso l’alto il tasso della disoccupazione.
“Unga Revolution” dal 1990 si batte per la costruzione di un movimento di base di sinistra. La sinistra cresce e noi
lottiamo per unire le forze progressive mentre utilizziamo la protesta di massa come campo di reclutamento dei quadri
del movimento.

autunno 2013, liberamente tratto da jungewelt.de
Mare nostrum, guerra ai migranti nel Mediterraneo
[...] Il Mediterraneo [...] é un’area marittima di conflitti, stragi, naufragi causati, respingimenti, riconsegne e
deportazioni manu militari. A chi scampa ai marosi e ai mitragliamenti delle unità navali nordafricane (pagate con i
soldi italiani) spetta l’umiliazione delle schedature, delle foto segnalazioni e degli interrogatori a bordo di fregate
lanciamissili e navi anfibie e da sbarco. Poi un trasbordo, un altro trasbordo ancora, le soste interminabili su una
banchina di un porto siciliano, il tragitto su bus e pulmini super scortati da poliziotti e carabinieri sino alla
detenzione illimitata in un centrodiprimaccoglienza-CIE-CARA, un non luogo per non persone, dove annientare identità,
memoria, speranze.
L’Operazione Mare Mostrum fu annunciata dal ministro Mario Mauro dopo la strage del 3 ottobre, quando a poche miglia da
Lampedusa annegarono 364 tra donne, uomini e bambini provenienti dal continente africano e dal Medio oriente. Anche
stavolta però l’incidente fu un mero casus belli. La nuova crociata contro chi fugge dalle ingiustizie, lo sfruttamento,
gli ecocidi, era stata preparata infatti da mesi in tutti i suoi dettagli. Governo e Stato maggiore hanno rispolverato
ad hoc l’armamentario linguistico delle ultime decadi: operazione militare e umanitaria, l’hanno ipocritamente definita,
perché le guerre non devono mai essere chiamate con il loro nome per non turbare l’opinione pubblica e la Costituzione.
“Si prevede il rafforzamento del dispositivo italiano di sorveglianza e soccorso in alto mare già presente, finalizzato
ad incrementare il livello di sicurezza della vita umana ed il controllo dei flussi migratori”, recita il comunicato
ufficiale di Letta & ministri bipartisan. Un contorto giro di parole per mescolare intenti solidaristici a logiche
sicuritarie e repressive, dove volutamente restano vaghi i compiti e le istruzioni date ai militari. Niente regole
d’ingaggio, perché si possa di volta in volta sperimentare in mare se e come intervenire, se e come soccorrere, se e
come allontanare, respingere o scortare a quei “porti sicuri” che il ministro Alfano ritiene esistano pure nella Libia
dilaniata dalla guerra civile.
In compenso però, in nome del Sistema Italia, non si contano le veline per descrivere in tutti i loro dettagli i
dispositivi e le capacità tecniche dei mezzi impiegati per pattugliare il Mediterraneo. Anche perché, Mare Nostrum, è la
migliore vetrina del complesso militare-industriale-finanziario di casa nostra: aerei, elicotteri, missili, unità
navali, sommergibili, cannoni che aspiriamo a vendere ai paesi NATO e ai regimi partner della sponda sud mediterranea.
Sistemi d’arma che nulla hanno a che fare con quello che in linguaggio militare si chiama “SAR – Search and Rescue”,
ricerca e soccorso in mare, ma che invece delineano un modello di proiezione avanzata, aggressiva, di vera e propria
penetrazione sino a dentro i confini degli stati nordafricani. Se si vogliono “arrestare i flussi migratori”, come
spiegano generali, ammiragli, politici di governo e opinion maker embedded, bisogna impedire infatti a profughi e
migranti di raggiungere le coste e le città portuali. Bloccarli nel deserto, detenerli nei lager del deserto e far fare
il gioco sporco alle nuove polizie di frontiera che i Carabinieri armano e addestrano in Libia e nelle caserme in
Veneto, Lazio, Toscana. Per intercettare e inseguire i rifugiati e i migranti in transito nel Sahara abbiamo attivato i
famigerati “Predator”, aerei senza pilota in grado di volare per decine di ore in qualsiasi condizione meteorologica.
[...]
Come tutte le guerre, quella ai migranti dilapida ingenti risorse finanziarie. [...] Il Sole 24 Ore ha preso a
riferimento le “tabelle di onerosità” sul costo orario delle missioni delle unità navali, degli aerei e degli elicotteri
impegnati nel Canale di Sicilia. Aggiungendo le indennità d’imbarco dei circa 800 marinai delle unità navali coinvolte
(il personale militare destinato al “contenimento” delle migrazioni è però di non meno di 1.500 uomini), il quotidiano
di Confindustria ha calcolato una spesa media giornaliera di 300 mila euro, cioè 9 milioni al mese a cui vanno aggiunti
1,5 milioni di euro per le unità costiere già in azione da tempo: totale 10,5 milioni.
[...] In perfetto stile shock economy, dopo le armi e le guerre arriva la ricostruzione: lager e tendopoli dove stipare
corpi a cui abbiamo rubato l’anima, la cui malagestione è affidata alla misericordia di cooperative, Onlus e
associazioni del privato sociale. A loro va l’altra metà del business migranti: un affaire di milioni e milioni di euro
dove la dignità dell’uomo vale meno di nulla.

16 novembre 2013, da antoniomazzeoblog.blogspot.com


Aggiornamenti della lotta dentro e contro i CIE
Cie di Gradisca d'Isonzo (Go)
31 ottobre. Rivolta scoppiata a causa di un pestaggio da parte delle forze del manganello ad un recluso che tentava di
evadere. Appena gli altri reclusi si rendono conto di quello che sta accadendo cominciano a urlare e a sbattere oggetti
contro le recinzioni. Dopo poco le urla si trasformano in fuoco e l’incendio divampa in cinque delle otto stanze
presenti nel centro: vetri spaccati, materassi e lenzuola in fiamme e sopratutto la rabbia dei detenuti fanno desistere
la polizia dall’intervenire all’interno delle aree. Gli animi si placano solo alle cinque e mezza del mattino quando,
dopo l’intervento di un idrante, i reclusi vengono fatti defluire fuori dalle camerate e vengono lasciati lì, bagnati e
al freddo, fino a metà mattina.
2 novembre. Continuano le rivolte. Le ultime quattro camerate rimaste agibili dopo gli incendi della scorsa volta, sono
state date alle fiamme, e sono inutilizzabili. Sul posto sono dovuti intervenire i vigili e il 118. I reclusi sono
rimasti ammassati all'esterno, e hanno probabilmente passato una notte all'addiaccio. I posti effettivi prima
dell'ultima protesta erano 36, mentre nel centro i reclusi sono 66. Dopo la rivolta, qualcuno dei reclusi aveva
annunciato uno sciopero della fame. Non si sa se l’iniziativa è stata portata avanti. Due reclusi vengono portati al
pronto soccorso per intossicazione dal fumo dei materassi incendiati. Tutte le stanze del Cie sono diventate inagibili
dopo due giorni di rivolte, durante le quali sono stati dati alle fiamme materassi e coperte, i reclusi dormono sui
pavimenti nei corridoi.
5 novembre. Nella mattinata 38 reclusi sono stati portati in Sicilia, ma non si sa dove. Altri 12 invece saranno
rimpatriati o allontanati. La tensione nel centro resta alta. Due reclusi hanno compiuto atti di autolesionismo. Uno ha
ingoiato vari oggetti, per la disperazione. L’altro ha sbattuto la testa contro le sbarre. I reclusi sono stati
trasferiti da Gradisca a Trapani con la compagnia aerea Mistral Air, società del gruppo poste italiane.
6 novembre. Il Cie di Gradisca è completamente vuoto, ma non ancora ufficialmente chiuso, si parla di chiusura
temporanea decisa dal Ministero dell’Interno. Non esiste una data per i lavori di ristrutturazione, e non è chiaro
neppure se l’eventuale riapertura sarà progressiva o bisognerà attendere che siano recuperate in blocco tutte e tre le
sezioni rese inagibili dalle rivolte degli ospiti degli ultimi tre anni. Intanto le proteste ed il fuoco, hanno chiuso
un altro Cie!
16 novembre. Manifestazione lanciata dal Friuli per chiudere definitivamente il Cie di Gradisca d’Isonzo, chiuso
temporaneamente dalle rivolte. Alla manifestazione c’erano circa 200 persone facenti parte di "un vasto spettro di
movimenti": antirazzisti, associazioni pacifiste, rete no global e partiti politici. Il corteo è partito dal centro
della città, alcuni manifestanti srotolano da una gru uno striscione con la scritta Basta Cie, poi parte il percorso per
arrivare davanti al lager, dove sui muri scrivono “mai più” in diverse lingue. Infine un fitto lancio di fumogeni
colorati, razzi e torce tempestano il tetto del Cie.
17 novembre. Anche la Lega Nord indice una manifestazione naturalmente per la riapertura del Cie. Nella notte la sede
della Lega Nord a Monfalcone è stata imbrattata con vernice rossa con le scritte “No Cie”, “No Lager”, “Lega merda”.

Cie di Trapani Milo
4 novembre. Tre tunisini sono riusciti ad evadere, mentre un quarto si è fratturato la gamba scavalcando la recinzione,
ed è stato ricoverato all'ospedale.
Nella mattinata 26 richiedenti asilo hanno protestato per un paio d'ore davanti alla Prefettura di Trapani.
7 novembre. Sono arrivati a Trapani i 38 reclusi trasferiti da Gradisca in Sicilia. Così la rivolta si è estesa nel Cie
siciliano con i reclusi che son saliti sui tetti urlando tutta la propria situazione di malessere, e la polizia
costretta a chiamare rinforzi. I reclusi sono scesi all’arrivo degli antisommossa.

Milano, Cie di Via Corelli
10 novembre. Nuovo incendio doloso, il quinto in poco più di due mesi. Sul posto sono dovuti accorrere i vigili del
fuoco, la polizia ha avuto bisogno di rinforzi per evitare evasioni di massa. Sessanta rinchiusi sono stati trasferiti
nei Cie di Torino e di Trapani, dieci sono stati liberati, mentre un’altra decina sono stati arrestati per le
devastazioni.
A Milano restano meno di trenta posti disponibili, ma dal momento che la direzione del Centro già da tre anni vieta
l’utilizzo dei telefoni cellulari, al momento è difficile capire quanti reclusi ci siano effettivamente. Sicuramente
pochissimi, tanto che la Croce Rossa si lamenta pubblicamente per l’enorme ammanco di soldi causato dalle ultime
rivolte.
La Croce Rossa Italiana ha denunciato perdite per cinque milioni di euro in tre anni e mezzo, da quando ha iniziato a
gestire il Centro di Identificazione ed Espulsione di Milano.
Il cambio di gestione dovrebbe poi avvenire a fine gennaio. Sempre che l'asta non vada deserta. In quel caso la
Prefettura potrebbe prorogare massimo per altri tre mesi la convenzione con la Croce Rossa, in attesa di un nuovo bando
con regole diverse o cifre superiori. L'alternativa sarebbe quella di chiudere il centro. Speriamo chiuda per sempre!
16 novembre. I dieci arrestati sono stati tutti rilasciati a piede libero. Si fa per dire, visto che tutti sono stati di
nuovo internati in un Cie. Uno a Torino, gli altri nel Centro di Trapani, ormai pieno come un uovo. Sembra infatti che
le presenze siano ormai ben oltre i 200 posti previsti. Insomma dopo Gradisca, Modena, Bologna, Crotone, Brindisi… ora
anche Milano è (quasi) senza Cie, dopo l'incendio di domenica scorsa è rimasto con 28 posti ancora utilizzabili.

Torino, Cie di Via Brunelleschi
3 novembre. Nella tarda serata un ragazzo egiziano recluso nel Cie di Torino viene portato in infermeria, probabilmente
per la somministrazione della terapia a base di calmanti. Durante il trasferimento inizia un battibecco con gli agenti
di guardia, che iniziano a pestarlo. Isolato dagli altri inizia ad invocare aiuto ad alta voce, mentre un gruppetto di
carabinieri si avventa a più riprese su di lui. La risposta degli altri reclusi del Centro non si fa attendere e in
almeno tre aree iniziano forti proteste: urla, battiture contro le reti e alcuni piccoli incendi divampano all’esterno
delle camerate. Per tenere sotto controllo la situazione l’ispettore capo di turno calma i suoi uomini e fa trasferire
in fretta e furia il ragazzo egiziano fuori dal Centro. E mentre arriva la conferma che il ragazzo è stato arrestato con
la classica accusa di resistenza a pubblico ufficiale, un gruppetto di una quindicina di solidali si ritrova fuori dalle
mura del Centro per un breve saluto rumoroso. Dieci minuti di casino, a suon di botti, battiture e fuochi d’artificio,
per far capire ai reclusi in lotta che non sono soli.
11 novembre. Una ventina di solidali si ritrova fuori dalle mura del Cie di Torino per raccontare ai reclusi la rivolta
di Milano. Per la verità nel Centro torinese la notizia era già arrivata e quindi il saluto rumoroso è stata
un’occasione per sostenere le lotte dei reclusi con cori e battiture, accompagnati dai classici lanci di torce, petardi
e palline da tennis con messaggi di solidarietà e bustine di Maalox per mitigare l’effetto dei lacrimogeni.

Lampedusa, Contrada Imbriacola
9 novembre. Un cittadino somalo è stato arrestato a Lampedusa con l'accusa di essere uno degli organizzatori della
traversata conclusasi il 3 ottobre scorso con il naufragio di fronte alle coste dell'isola, e la morte di 366 persone,
tra cui donne e bambini.
L'uomo è stato individuato in quanto vittima di un tentativo di linciaggio all'interno del centro di “accoglienza”
lampedusano.
Alcuni eritrei hanno detto di averlo riconosciuto come il capo di un gruppo di miliziani armati che li avevano
sequestrati nel deserto, tra il Sudan e la Libia.
Circa venti donne hanno detto di essere state stuprate in quell'occasione, per cui l'arrestato dovrà fronteggiare anche
l'accusa di stupro.
Sempre a Lampedusa, è finito in manette anche un cittadino palestinese, con l'accusa di favoreggiamento
dell'immigrazione clandestina. Sarebbe lo scafista di un altro sbarco, quello del 15 ottobre.

Spagna, processo per abusi sessuali
30 ottobre. Cinque poliziotti spagnoli sono finiti sotto processo con l'accusa di abusi sessuali nei confronti di alcune
recluse del centro di espulsione di Malaga. I fatti risalgono al 2006 ed esistono le riprese di alcuni poliziotti che
abbracciavano delle detenute a petto nudo. Sei donne hanno denunciato gli abusi. Quattro di loro sono state espulse già
dal 2006. In Spagna la legge stabilisce un tempo massimo di trattenimento di 60 giorni, a fronte dei 18 mesi stabiliti
dalla legge italiana sulla base della direttiva europea. Anche in Spagna all'interno dei Cie l'assistenza sanitaria è
molto insufficiente, e in alcuni casi ha portato alla morte delle recluse per assenza di cure adatte.
La morte è ciò che ha trovato Samba Martine, una 34enne congolese, nel Cie di Aluche a Madrid, il 19 dicembre del 2011.
Le autorità non avevano la sua documentazione medica, perciò Samba non ha ricevuto la terapia antiretrovirale di cui
aveva bisogno, ed è stata portata in ospedale solo il giorno della sua morte.
Il cibo è scarso e di qualità scadente, mancano informazioni ed interpreti. In qualche caso manca anche un servizio di
pulizia interno, e sarebbero le stesse recluse a dover pulire le proprie stanze. Nel Cie di Valencia, le donne si devono
pulire le camere da sole, mentre per le stanze degli uomini è previsto un servizio di pulizia.
Tornando al processo per stupro contro i poliziotti in servizio nel Cie di Malaga c'è però da registrare un ulteriore
problema: quattro delle sei donne che trovarono il coraggio di denunciare gli abusi furono espulse nel 2006, lo stesso
anno in cui si verificarono i fatti e sono quindi irreperibili; ma il presidente della Corte Adrès Rodero vorrebbe
ascoltare tutte le testimonianze ed ha fatto richiesta all'Interpol o agli "organi competenti" di rintracciare le donne
espulse. Questo comporterà altri ritardi e rinvii.

“Scusate se non siamo affogati”.
Said racconta il naufragio dell’11 ottobre 2013 nella zona SAR di Malta
12 novembre. Profughi siriani, tramite una video intervista, raccontano di essere arrivati in Italia con l’imbarcazione
che aveva fatto naufragio l’11 ottobre 2013 nella zona SAR (Search and Rescue, Ricerca e soccorso) di Malta, dal loro
racconto affiorano le cause e le responsabilità. In un intervista c’è anche la testimonianza di un dottore siriano, che
dalla stessa imbarcazione aveva fatto le telefonate di soccorso alle autorità italiane a partire dalle 11 del mattino.
Se i soccorsi fossero partiti subito, il naufragio, avvenuto verso le 17, sarebbe stato evitato e non sarebbero morte
più di 250 persone, tra cui moltissimi bambini. L’imbarcazione si trovava nella zona SAR di Malta, ma molto più vicina
all’isola di Lampedusa, ci sono stati degli spari da parte di una imbarcazione libica per fermare la nave con a bordo
450 persone, in prevalenza profughi siriani. Non si può sapere se le guardie costiere fossero libiche o no. L’Unione
europea, nell’ambito della missione EUBAM (EU Border Assistance Mission), e l’Italia addestrano poliziotti libici per
tali operazioni, tra cui quelle di blocco delle imbarcazioni dei migranti lungo le coste libiche. C’è stata un’assoluta
indifferenza da parte delle autorità italiane dopo le numerose telefonate di SOS. E’ cosa nota che da anni ci sia un
contenzioso tanto su chi debba operare nella zona SAR di Malta, quanto sull’estensione della zona che Malta vuole
mantenere e che l’Italia le vorrebbe in parte sottrarre per interessi che nulla hanno a che fare con il “soccorso” dei
migranti quanto piuttosto con ragioni economiche, doganali e di petrolio. E infine, la “farsa” delle impronte digitali,
con cui l’Italia racconta all’Europa il suo rispetto dei trattati e dei regolamenti Ue, quello di Dublino II, in questo
caso, costringendo alcuni con la forza a rilasciarle, come nel video si può vedere dalle immagini che si riferiscono a
quanto successo quest’estate a Catania, prendendo in giro altri facendo credere loro che ci sia una differenza tra
“impronte per il rifugio” e “impronte di identificazione”, lasciando che qualcuno non le dia, o, ancora, facendosi
pagare per non procedere alle identificazioni, come altri profughi stanno man mano raccontando.

Milano, novembre 2013


LetterE dal carcere di Opera (MI)
Come state? Spero bene, io me la cavo volente o nolente, se non hai speranze muori… sono sottopeso di oltre 10 chili in
quanto il pasto è più le volte che lo salto che le volte che lo prendo, è immangiabile e, per chi come me non ha santi
in paradiso è davvero dura, nessuno ti aiuta, e sei costretto a mangiare a volte per l'intera giornata solo pane e mele.
Qui davvero non funziona niente e se stai male puoi anche morire a loro non gliene frega niente… ti senti in una tomba
perché neanche tra i detenuti c'è solidarietà, ognuno tira diritto per la sua strada.
La direzione non ci aiuta per niente. Dobbiamo comprarci dalla A alla Z e se non hai niente puoi crepare. Dobbiamo
comprarci le lampadine per la cella, che costano più di 3 euro l'una; se non hai soldi resti al buio. Ci passano solo 1
lt di detersivo al mese per pulire la cella, 3 rotoli scadenti di carta igienica al mese! E basta! in altri carceri
danno tutto, sia per l'igiene personale che per le pulizie delle celle. Ultimamente hanno affisso anche una circolare:
chi vuole pitturarsi la cella deve comprarsi il kit a sue spese e pitturarsela da solo; i materassi che abbiamo sono
scaduti da più di 10 anni, sono neri e puzzolenti e non c'è ragione per poterli cambiare, dicono che di nuovi non ne
hanno. Come si fa a vivere così?
Si vocifera a radio carcere che a mesi le cose cambieranno perché per i comuni dovrebbe esserci un trattamento avanzato,
tipo Bollate. Con questo direttore secondo me non cambierà mai niente. E' uno che vuole il carcere duro e se ne frega di
quello che dicono le nuove disposizioni ministeriali.
A volte mi chiedo, dovendo fare ancora diversi anni, in che condizioni uscirò, di sicuro sarò un individuo da rottamare
e un peso per si occuperà di me. [...]

Opera, novembre 2013

***
Ciao carissimi compagni di Ampi Orizzonti, spero di trovarvi tutti in ottima forma, così vi posso dire anche di me. Oggi
giornata serena. Fino ad oggi ho ricevuto l’opuscolo nr. 80, e ho mandato una cartolina, gli opuscoli mi arrivano sempre
in ritardo, non so il perché…
Mi chiedevate come funziona l’art. 21 (avvio verso la libertà soprattutto riguardo per chi condannato all’ergastolo).
Questo art. prevede il lavoro “esterno” e “interno”. Quest’ultimo viene svolto pulendo, per 6 ore al giorno, i furgoni,
la caserma, le blindate ecc… Non fa per me…
Invece l’art. 21 “esterno” è diverso, con tante regole, insomma non è la semilibertà. Ti viene fissato un percorso,
sempre il medesimo, per andare al lavoro e rientrare; non puoi andare nei negozi né al bar. Nel luogo dove vai a
lavorare verificano loro se c’è la mensa, se non c’è vedranno il posto più vicino e quando lo trovano devi andare solo
lì; non è permesso avere il cellulare né parlare con pregiudicati…
Dopo un po’ di tempo si possono chiedere i permessi e, ancora più avanti, fare domanda di semilibertà, che è tutta
diversa. Questa, siccome è di competenza del giudice di sorveglianza, va chiesta attraverso l’avvocato; mentre l’art. 21
lo dà il direttore, a sua discrezione. Se c’è una ditta che vuole assumere uno che chiede l’art. 21 “esterno”, allora
bisogna spiegarle di specificare questa sua decisione, che è anche una responsabilità, con tutte le indicazioni
sull’indirizzo del luogo di lavoro, del mezzo pubblico per raggiungerlo ecc.. Dopo qualche mese la consegna di questa
documentazione, finalmente aprono le porte. Tutto qui.
Sull’opuscolo ho letto una lettera dove c’era scritto che c’era più solidarietà una volta che ora. Forse si riferiva
alle sezioni comuni (dove la metà sono stranieri, e non rompono) e ha ragione. Ma in AS o in sezioni simili, c’è ancora
la solidarietà: non c’è più unione fra i carcerati, ognuno pensa a sé. Dicono che la sezione comune dovrebbe diventare
come Bollate. Ci vorrà un po’ di anni prima che lo diventi.
Spero di non esserci più. Buon pomeriggio, un caro abbraccio a tutti voi, ciao amici miei.

Opera, novembre 2013


LETTERA DAL CARCERE DI MONZA (MI)
Ciao a tutti i compagni/e, per prima cosa vi voglio ringraziare di aver pubblicato la nostra lettera, di poter informare
tutti voi di come si vive in questo posto e dei continui soprusi e prese in giro da tutto il sistema carcerario – da chi
lo comanda a chi apre e chiude i nostri blindi. Seconda cosa, voglio porre la mia piena solidarietà ai due compagni
anarchici arrestati a Roma con la solita accusa infamante e vecchia di decenni, del 270, la così detta associazione
sovversiva. Tenete duro ragazzi.
Mi fa molto piacere leggere che in molti carceri si sia aderito allo sciopero della fame di settembre, da questo si vede
che ancora in molti carceri c’è la voglia di lottare e, soprattutto, c’è l’unione tra i detenuti, cosa che, come scrissi
nella scorsa missiva, qui non esiste niente di tutto ciò. Ma piano piano si prova almeno a contro-informare i ragazzi
che sono nella mia sezione che piano piano stanno prendendo coscienza di che cos’è realmente il carcere e dei problemi
che ci sono qui. Ma purtroppo, come vi dissi, noi qui stiamo in questa sezione aperta e non possiamo fare nulla perché
siamo ricattati. Non appena qualcuno alza la testa non sai dove ti mandano se in isolamento o in osservazione o di nuovo
tra i comuni. E la gente ha paura.
Dalla scorsa lettera si può dire che non è cambiato nulla se non che hanno trasferito non so quante persone in quante
carceri, anche perché in questi ultimi periodi il carcere stava scoppiando. Per capirsi, in osservazione che è il posto
dove ti mettono appena arrivi, ci stai un mese e dopo ti spostano nelle varie sezioni. Come vi dicevo sono arrivati ad
essere in cinque in cella costruita invece per due. E soprattutto sono buttati lì con tre materassi per terra e due sui
letti. Niente brande come le abbiamo noi qui al 3°, solo materassi, vi rendete conto come li fanno stare? Per l’ora
d’aria li chiudono in celle che non so come descrivere: sono tutti lì schiacciati come sardine. Ragazzi vi giuro che
solo a scrivervelo mi vengono i brividi e i nervi a pensare come stanno.
In questi giorni succedono cose strane, entrano delegazioni di parlamentari con la direttrice che fa vedere com’è bello
sto cazzo di carcere di merda. E il bello è che non si sa niente, nessuno ne parla, comunque succedono cose strane. Come
qualche tempo fa quando in questo carcere nel giro di due mesi sono morti due ragazzi e solo dopo qualche mese si è
riusciti a far uscire la notizia anche grazie ai famigliari. Ma del secondo ragazzo morto non si sa nulla.
Poi in questo mese sono usciti due corsi, uno per imbianchino e uno di manutentore edile. Il bello è che su questi
avvisi c’era scritto che chi faceva i corsi sarebbe stato retribuito; invece quando siamo andati a fare i colloqui ci
hanno detto che non ci retribuivano, era volontariato. Beh, ho rifiutato. Fosse per me può anche cader giù sto posto e
se poi lo devo fare per volontariato allora se ne possono andar a fanculo. Fuoco ai carceri...
Beh, questo è tutto o quasi tutto, se continuassi a scrivere non so se mi basterebbe sto foglio. Spero un giorno di
potervi incontrare e non scrivere da questi posti infami, grazie per la solidarietà.
Vorrei dare la mia solidarietà ai due anarchici processati oggi 30 ottobre a Genova, ragazzi sono con voi, e vorrei dare
la mia solidarietà a tutti i compagni/e che sono in carcere e lottano contro il sistema. Non piegheranno mai e poi mai i
nostri ideali; e un saluto a chi è fuori e sostiene noi qui dentro. Grazie di tutto continuate ad urlare la vostra
obbiezione. GRAZIE DI TUTTO E FUOCO AI CARCERI

Buso, 30 ottobre 2013


trento: è morto un ragazzo... e non di vecchiaia
Aveva solo 28 anni Varga Zsolt (Doc per gli amici) quando la mattina del 29 ottobre viene trovato morto in una cella del
carcere di Spini di Gardolo. Le cause della sua morte non sono chiare e probabilmente vengono nascoste
dall'amministrazione penitenziaria. Noi vogliamo sapere la verità, non dai responsabili di dettore ma dai detenuti
stessi, loro che lo conoscevano Doc.
Presidio domenica 17 novembre, ore 14 al carcere di Spini di Gardolo
In una lettera di fine settembre, Doc ringraziava per il presidio di solidarietà di qualche giorno prima. E allora
torniamo a Spini, per lui e per tutti gli altri.
Con tanta rabbia nel cuore: ciao Doc!!!

novembre 2013, Assemblea amici parenti e solidali con Stefano Frapporti
frapportistefano.blogspot.it - non sipuomorirecosi@gmail.com

***
Mio figlio è entrato nel carcere di Spini di Gardolo, a Trento, a fine luglio 2013, dovendo scontare una pena a 4 mesi
di arresto per il reato di "Resistenza a pubblico ufficiale". La mattina del 29 ottobre, alle 6:00 circa, i compagni di
cella lo hanno trovato in bagno privo di sensi. Hanno chiamato gli agenti penitenziari, poi è intervenuto il 118, ma non
non sono riusciti a rianimarlo. Il medico di guardia ha certificato che le cause del decesso sono attribuibili a un
"arresto cardiaco". Mio figlio aveva solo 28 anni e avrebbe terminato la condanna a fine novembre. Soffriva di problemi
di tossicodipendenza e per curarsi aveva già trascorso 3 anni in una Comunità Terapeutica, in carcere gli è stato
somministrato del metadone con "terapia a scalare".
Non aveva altri problemi di salute. Come può essere morto, improvvisamente, per "cause naturali"? Vorrei una risposta a
questi dubbi, per questo ho chiesto tramite un avvocato che la Procura disponesse l'autopsia. Ma oggi è arrivata la
comunicazione che il pm ha respinto la nostra richiesta e allora ho deciso di rivolgermi ai media. Voglio conoscere fino
in fondo la verità: perché un ragazzo, entrato sano in una struttura preposta alla "custodia" delle persone, dopo tre
mesi ne è uscito senza vita?

6 novembre 2013, da ristretti.it

***
Segue un testo che che è stato letto nella chiesa nel carcere di Trento alla presenza del comandante in occasione della
morte di Doc.

Cari compagni, oggi ci troviamo qui nella Casa del Signore per ricordare tutte le persone che non ci sono più. lo vi
chiedo di ricordare VARCA ZSOLT, un amico, un fratello e un compagno di lotta. Come noi aveva commesso un reato e si
trovava qui tra queste mura per scontare il suo debito con lo Stato, uno Stato che non ha saputo proteggerlo, né
curarlo. Lui non doveva forse neanche stare qui; questo è il vero problema.
Adesso c'è una madre e un padre distrutti che piangono il loro unico figlio, scomparso all'interno di una prigione a
soli 28 anni. Purtroppo ormai DOC non c'è più.
La sua scomparsa ci deve far riflettere che dobbiamo combattere perché questi episodi non riaccadano più e sottolineo,
più. Basterebbe anche fare più attenzione tra di noi, tra compagni di cella. Ora leggo due parole per te, amico mio.
Caro DOC quando ci stavi tu, le giornate passavano ridendo e scherzando e si programmavano le nuove lotte da fare una
volta usciti da qui. Ora tu sei lassù in una di quelle tante stelle che brillano e vorrei tanto che tu potessi tornare
di nuovo qui con noi..
Ricordati che la mia amicizia era sincera.
Sei una grande persona. Ti voglio bene "Quattrocchi". Come ti incazzavi quando ti chiamavo così! Ora ti saluto, un
bacione. Rimarrai sempre dentro il mio cuore. Ciao FRATE MIO.

29 ottobre 2013
Davide Minelli, via Cesare Beccaria, 13 - 06132 Spini di Gardolo (TN)
Lettera da Busto Arsizio (VA)
Gentili compagni/e, vi ringrazio per avermi inviato i vostri opuscoli, informandovi che sono stato trasferito da poco a
Busto Arsizio. [...]
Questo carcere devo dire non è tra i migliori. Siamo fermi alle regole imposte dalla direzione per fare pressione
psicologica ai detenuti e alle nostre famiglie.
Regole da carceri speciali, che venivano usate tra gli anni 70 e metà degli anni 80: c’è una lista infinita di generi di
vestiti non consentiti: “felpe con cappuccio”, “giubbotti imbottiti”, la stragrande maggioranza delle “sciarpe”. I
generi alimentari che puoi ricevere dalle famiglie è davvero poca cosa. Non esiste una sala d’aspetto per i famigliari
che attendono quando vogliono venire a trovarti. La possibilità di uscire in misura alternativa è quasi nulla. Non
esiste una saletta per i bambini che vengono a fare visita ai papà detenuti e, visto che sono bambini, vogliono giocare,
e se sono vivaci, come la stragrande maggioranza dei bambino, gli sbirri ti dicono che devono stare fermi e seduti.
Abbiamo tre docce alla settimana. Abbiamo provato più volte a chiedere che vengano cambiate queste “regole” assurde, con
delle petizioni che sono finite puntualmente ignorate.
Il tempo delle rivolte dentro i carceri sono finite da anni quindi non so come e quando potrà cambiare qualche cosa.

Un prigioniero di Busto Arsizio
metà ottobre 2013


LETTERA DAL CARCERE “LA DOZZA” BOLOGNA
C’è chi lascia un vuoto... per poi tornare a riempirlo come mai aveva fatto prima... con una forza acquisita in anni di
esperienza... e in quel vuoto rimbomba la voce di chi grida per far arrivare lontano ciò che c'è di marcio nel mondo e
sto per portarvi in una di queste realtà. È facile condannare una persona, ma molto meno cercare di capire il perché
l'ha fatto... infatti ci dovremmo focalizzare bene su tutto il sistema che gira attorno alla giustizia.
"La legge è uguale per tutti" Ah sì?! Non ha senso… non lo trovate contradditorio? Io sì! Perché una persona di potere
e/o ricca e/o famosa si fa molto meno carcere di una persona cosiddetta "comune"? Attenzione: può essere che nemmeno ci
metta piede! Il punto è che colpevoli o no, poco importa... non ci dobbiamo abbassare mai a chi detiene il potere e ne
abusa!
Ma vorrei riflettere con te che stai leggendo in questo momento, seguimi...
REATO: cos'è un reato? è l'infrazione di una legge...
LEGGE: cos'è una legge? Ogni statuazione di norma espressa da parte degli organi cui, secondo la costituzione dello
stato, è demandata la potestà di emanare precetti politici.
OK, tralasciando il fatto che siamo nel 2013 e ancora seguiamo il complesso delle leggi che stanno a base
dell'ordinamento giuridico dello stato fondato nel 1948. La famosa "Costituzione".
Negli anni tutto cambia, la tecnologia, le idee, l'abbigliamento, la scienza e quant'altro, ma per quanto riguarda le
leggi siamo fermi a 65 anni fa.
Reato, reato, reato... cos'è giusto e cos'è sbagliato... ma in fondo chi è che decide e può definire concretamente cos'è
giusto e cosa non lo è? Lo stato? E chi sono loro? Persone, persone come me che scrivo a te che stai leggendo.
Niente di più e niente di meno.
Ma ciò che non capisco è perché loro hanno il potere di imporre ad altre persone il loro concetto di giusto e sbagliato.
Forse loro sono in grado di farlo meglio di me? O di te? No, non credo... Anche io ho un concetto di giusto e sbagliato,
non è da me imporlo, ma di condividerlo sì...
Ipotizziamo che in questo momento ho un potere decisionale... sicuramente non perderei del tempo, non sprecherei energie
per creare reati e poi far apparire magicamente una soluzione geniale per risolverli. Come posso evitare che vengano
commessi reati?! Io non provo piacere nello sbattere "il problema" in prigione e dimenticarmene.
No! Io vado a fondo e mi chiedo perché quella precisa persona si è comportata in quel determinato modo. Rubare... eh, al
giorno d'oggi lo si ritiene un reato, ma possiamo anche essere onesti... perché molto spesso è una necssità.
Perché una persona ruba?... Ruba perché lo stato la spinge a farlo... Salari miseri, tasse carissime e chi più ne ha più
ne metta... paghiamo l'acqua che è un bene primario, è necessaria e non mi stupirei se arriveranno a farci pagare
l'aria che respiriamo.
Allora, qual è il problema? Che c'è troppa differenza tra il ricco e il povero, chi ha troppo e chi non ha niente.
Perché chi trovandosi in condizioni di povertà ruba e commette un reato e chi sta comodamente sulla sua poltrona della
sua reggia, con la pancia è piena e resta a guardare chi vive per strada e muore di fame senza far niente non commette
un reato? A te valutare...
DETENZIONE A FINE DI SPACCIO: la droga sia, esiste da sempre... arrestare chi spaccia non ha mai fermato nessuno, né chi
spaccia né chi ne fa uso...
Perché una persona spaccia? Perché lo stato ci spinge a farlo! Chi ha deciso di far uso di sostanze (prendiamo come
esempio la marijuana) non può piantarsela e riprodurla, Perché? Perché è illegale. Allora è costretto ad acquistarla...
e per acquistarla ci vuole qualcuno che la venda. E attorno a questo mondo ci sono sistemi che hanno il loro proficuo
guadagno sulle vite altrui. Allora qual è il problema? che sempre più persone muoiono per la droga tagliata male, le
persone spesso prendono i cosiddetti "pacchi" e scoppiano guerre per quantità, qualità e denaro.
Se fosse liberalizzata tutto questo non succederebbe. Autoproducendosela nessuno andrebbe ad acquistarla dagli
spacciatori, che diventerebbero delle figure inutili. Si saprebbe cosa si sta consumando perché è stata fatta con le
proprie mani e non ci sarebbero più morti per i tagli con sostanze nocive. E i sistemi che ci guadagnavano sopra,
perderebbero il potere sulle vite altrui.
E chi si preoccupa di arrestare, giudicare, di fare nuovi decreti e leggi, ma non combatte il problema dalle fondamenta,
pur sapendo che c'è, non sta commettendo un REATO? A te valutare... E potrei andare avanti così ancora per molto!
Per me che in questo momento sono piena di rabbia e di dolore i veri reati sono di coloro che non fanno nulla per
aiutare tutti i bambini che muoiono di fame ogni giorno nel mondo, coloro che si impadroniscono delle ricchezze di terre
che non gli appartengono, solo perché ne hanno il potere e non il diritto, rendendo i terreni incoltivabili, l'ambiente
invivibile e povero e spingono le persone che ci vivono ad abbandonare la loro terra.
Le guerre… chi fa ancora le guerre nel 21° secolo, le guerre distruggono tutto, emanando nell'ambiente gas tossici,
sprecando denaro e risorse per costruire armi di tutti i tipi è l'atto più grave... togliere la vita. Questi sono i veri
"criminali", come si usa definire chi sbaglia ed ecco cos'è per me giusto e sbagliato.
Allora mi chiedo: quanti siamo a pensarla così? Quanti come me non si girano dall'altra parte di fronte a qualcosa che
fa male, che costa fatica o che non si riesce a comprendere?
Con la perseveranza, la convinzione in ciò in cui si crede, la forza di volontà, ma soprattutto la solidarietà, possiamo
insieme fare qualcosa per cambiare la parte del mondo che è marcia e infame e valorizzare tutte le meraviglie della
parte del mondo che ancora ci dà la speranza di poter vivere un domani migliore. Vanessa.

13 ottobre 2013
Vanessa Bevitori, via del Gomito, 2 - 40127 Bologna


Lettera dal carcere di Terni
Mi chiamo Mauro Rossetti Busa e scrivo questa lettera dal carcere di Terni dove sono sottoposto al regime AS2 dal 2009,
cioè da cinque anni. Sto scontando una condanna di anni undici per vari reati di cui alcuni “con finalità di terrorismo
ed eversione dell’ordine democratico”. La maggior parte di questi reati l’ho commessa nelle precedenti carcerazioni
all’interno di alcuni carceri, e vanno dal danneggiamento alle minacce contro corpi politici e magistrati che mi hanno
giudicato. È tutta una classe politica di ciarlatani, e di conseguenza di merde, nessuno escluso!
Come ben sapete sono stato più volte indagato da varie procure perché fortemente sospettato di aderire ai gruppi
antagonisti dell’estrema sinistra e fortemente sospettato oggi di far parte dell’anarco-insurrezionalismo per il mio
avvicinamento di condivisione ideali, e se non altro per i fatti che avvennero a Firenze nel 2001, dove fui indagato per
avere lanciato la molotov all’interno della banca toscana, e di aver fatto recapitare un plico esplosivo all’ex prefetto
Achille Serra. Morale della favola ero indagato con altre persone ignote per associazione sovversiva. Reati che poi sono
stati archiviati dopo cinque anni.
Beh, come vedete miei cari/e compagni non siete gli unici di essere perseguitati dall’intero regime fascista. Però come
ho sempre detto, e lo riconfermo, me ne fotto delle loro leggi repressive, della loro classe politica e dello Stato.
Ora, se me lo permettete vorrei esprimere tutta la mia solidarietà e vicinanza al movimento NOTAV e verso tutto quel
movimento antagonista e anarchico che è impegnati in quella lotta. La mia solidarietà vale anche per un ribelle
prigioniero, Davide Delogu, a cui è stato applicato il 14bis ed è stato deportato via dalla sua terra e trasferito al
carcere Pagliarelli di Palermo. La situazione per Davide si è aggravata perché come è arrivato al carcere Pagliarelli è
stato messo in regime AS1 nonostante non abbia nessun reato associativo, reati di mafia o condanne di quello stampo. Ha
solo condanne per reati comuni, e per questi reati non è prevista la reclusione in regime AS1. Si capisce però che è una
vendetta compiuta da quegli infami solo perché ha aderito alla mobilitazione promossa dal coordinamento detenuti.
Davide, io sono al tuo fianco, e devi sapere che non sarai solo. Faccio appello a tutti/e compagni/e a scrivere a Davide
Delogu (Davide Delogu, C.C. Pagliarelli, Via Bachelet 32 - 90129 Palermo)
Vi mando il mio più grande abbraccio e un saluto ribelle anarchico

Terni, fine ottobre 2013
Mauro Rossetti Busa, Via Delle Campore 32 - 05100 Terni


Riflessioni dal e sul carcere di una compagna
[…] la permanenza all’interno del perimetro delle mura detentive prosegue. I padroni decidono in un modo o nell’altro
come farci trascorrere la nostra vita, o nell’inettitudine o nella sudditanza al loro dominio, o nella restrizione di
una galera e nel rispetto dell’illogicità della sua disciplina. Questo finché la rivoluzione non ci libererà dal
supplizio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo nel mondo organico e inorganico.
Intanto la fallocrazia ha imposto con la forza dell’esercito e della polizia lo stupro di un’altra montagna delle nostre
adorate Alpi.
[…] a proposito di lavoro in carcere sento e vedo, le contraddizioni sono tante e somigliano sempre di più a quelle
esterne. La cosiddetta società galera che prende forma…
I prezzi del sopravitto sono altissimi. In diverse carceri ci sono stati degli scioperi dell’acquisto. Ci sono ditte,
come la SAEP che lo gestiscono in tante galere, speculando notevolmente…
Nei femminili in genere c’è il “nido”, un reparto in cui le mamme stanno assieme alle loro creature. Nelle carceri di
Milano non c’è. La maggior parte delle donne hanno figlie/i che le attendono fuori. Le più fortunate possono vederli a
colloquio tutte le settimane. Per quanto concerne le numerose donne straniere i cui figli vivono nel paese di origine
con i propri parenti, dispongono di una telefonata settimanale di 10 min. – sempre che ci siano i presupposti giuridici
necessari all’autorizzazione. Qualora mancassero tali requisiti, tipo: telefono fisso intestato ad un parente, non
rimangono che le telefonate straordinarie, ovvero, due telefonate mensili d 10 minuti ciascuna.
Quindi, il rapporto affettivo tra madre e figli/e si riduce a pochi brevi minuti di una telefonata che, molto
frequentemente ha l’unica finzione di aggravare le ansie e l’apprensione determinate dalla dolorosa separazione.
Purtroppo questi stati d’animo non scompaiono neppure con i colloqui visivi. L’attimo della separazione è vissuto in
maniera lacerante, lasciando ferite difficili da guarire che si manifesteranno sottoforma di disagi psichici prontamente
curati con la psichiatria.
Nevrosi riconducibili alla situazione affettiva/sociale, ma che non trova rimedio e soluzione se non con il cambiamento
del contesto di vita. “E se la scarcerazione non arriva, giù medicine.” Infatti, un altro degli aspetti della sofferenza
delle donne-madri prigioniere è rappresentato dalla somatizzazione del disagio emotivo anch’esso curato con dosi
massicce di farmaci, che non hanno a che vedere con l’eziologia (la causa) del disturbo, cioè la galera. Anche in questo
carcere, per il mantenimento del rapporto tra bambini e genitori detenuti, esiste il supporto dell’associazione “bambini
senza sbarre”, che si occupa appunto di curare gli incontri tra genitori e figli in un luogo protetto e adeguato, per
rendere gli incontri ai piccoli più piacevoli e meno traumatici. L’impegno di operatori e volontari è lodevole, ma
purtroppo ha come unico esito di edulcorare il dramma degli asettici incontri e l’amaro di una crudele separazione.
Le madri con bambini al di sotto di 3 anni vengono recluse presso l’ICAM, che non è la famosa fabbrica di cioccolato,
bensì l’Istituto di Custodia Attenuata per Mamme e bambini, collocato negli spazi del Policlinico. Lì le guardie vestono
in borghese, allo scopo di mistificare a, bambino, dal punto di vista ambientale, lo stato di reclusione che sta vivendo
la madre. A mio avviso, tale condizione non risolve il problema, casomai attenua il malessere provocato dalle tensioni,
dagli stress e dagli stati d’animo ansiosi che si verificano nell’adulto sottoposto a misure detentive e a condizioni di
vita coercitiva.
Al penale (femminile) di S.Vittore ci sono un paio di celle destinate a rinchiudere le donne che al loro ingresso si
trovano in stato di gravidanza fino al momento del parto che avviene in ospedale. Tendenzialmente l’ospedale di
riferimento è il S.Paolo, ma possono essere portate in qualsiasi altro ospedale della città. Dopo il parto vengono
trasferite all’ICAM.
Ho notato l’aumento dell’interessamento da parte della società civile verso le problematiche carcerarie, specie quelle
legate alla condizione femminile e soprattutto affettiva, appunto riguardo al rapporto con i cuccioli.

Ottobre 2013
LETTERE DAL CARCERE DI SPOLETO (PG)
Cari compagni, dovete perdonarmi per il mio silenzio prolungato, ovviamente ogni cosa ha un senso, ed una punizione. In
questo caso in particolare la punizione (l'ennesima) che subisco è stata per via di quella evasione che fu fatta in
dicembre 2012 da Bellizzi Irpino, ovviamente essendo stato recidivo di "tentata evasione". Ero al penale primo piano e
lavoravo serenamente in sartoria (dove ero al di là di tutto ben remunerato).
Comunque fu fatta un'evasione di massa (quattro persone) da un camerone sopra il mio piano, il che, siccome conoscevo
alcuni di loro, non potendomi affibbiare un altro 14bis, decisero di sospendermi dal lavoro, nella speranza che io
raccontassi cose di cui non ero minimamente a conoscenza.
Mi ributtarono nella massa privandomi del lavoro e dei miei scritti... te capii?
In sintesi mi portarono in isolamento in attesa di trasferimento in un altro istituto. Sinceramente pensavo che mi
avrebbero avvicinato al Nord, ovvero Milano, invece per punizione sono atterrato a Spoleto. Al centro d'Italia con
moglie e figli a Milano ed altri parenti al sud Italia vicino Bari.
Questa è la storia del mio silenzio per non raccontarvi ancora dei miei figli che reclamano un mio avvicinamento su a
Milano. Ormai sono passati cinque anni dal mio tentativo nonostante all'epoca avessi tutte le ragioni di questo mondo
per evadere. In quanto mia moglie stava morendo di cancro e i miei due gemelli di quattro anni sarebbero rimasti soli o
chissà in quale casa famiglia ma lasciamo stare pensiamo all'oggi!
Mi chiedete se mi arrivano ancora gli opuscoli? Certo con un po' di ritardo. Ma arrivano. Vi dirò di più, qui ho
incontrato l'amico-fratello-compagno Maurizio Alfieri e di tanto in tanto abbiamo l’occasione di incontrarci in palestra
visto che lui è ancora in infermeria [...] Va bene ora vi lascio abbraccio tutto il vostro collettivo Olga e tutti i
nostri compagni che lottano [...] Con affetto, Nicola

Spoleto, 15 ottobre 2013
Nicola Amoruso, via Maiano, 10 - 06049 Spoleto (PG)

***
Carissimi/e compagni/e, come sempre il mio primo pensiero è quello di sapere che tutti/e voi stiate bene. Vi sto
scrivendo per comunicarvi che poco fa, e cioè oggigiorno 4 novembre con immensa gioia sono riuscito a salvare la vita ad
un mio compagno di sventura che in un attimo di disperazione si era impiccato alla finestra del bagno della sua cella…
Ho sentito l’agente che continuava a chiamarlo, non ricevendo risposta ha aperto la cella e la porta del bagno, subito è
uscito di corsa dalla cella urlando in sezione a chi aveva qualcosa per tagliare la corda, ho gridato di aprirmi che
avevo la forbicina, così dopo avermi aperto sono corso nella cella trovandolo sul pavimento, aveva il laccio delle
scarpe talmente stretto che ho avuto difficoltà a tagliarlo. Subito gli ho praticato la respirazione e il massaggio
cardiaco, appena ho visto che aveva iniziato a respirare ho provato una gioia immensa; ho adagiato con delicatezza la
sua testa sopra un cuscino, facendo attenzione a non toccargli il collo, perché il problema in quei casi è che si rompa
l’osso del collo…
I soccorsi sono arrivati subito. Quello che mi fa rabbia è che questo povero cristo era stato scarcerato dalla corte
d’appello per incompatibilità dati i tentativi di suicidio, gli atti di autolesionismo attuati in passato. Dopo due mesi
gli arriva il definitivo e lo riportano in carcere, e il tribunale di sorveglianza respinge la sospensione della pena,
dicendo che la sua patologia poteva essere curata in carcere!!! Certo, può curarsi in carcere suicidandosi. Così
risolvono il problema vero?
L’ennesimo omicidio di stato stavolta non è riuscito. Sono felice di aver contribuito a salvare un mio compagno di
sventura, felice per sua moglie e i suoi figli, felice di lottare contro il sistema barbaro e assassino. In carcere si
muore nella più totale indifferenza, ai mass media interessa solo parlare di “papi”, di certezza della pena. Non parlano
di chi è senza casa, di chi si suicida, di chi viene sfruttato con il lavoro salariato, di chi percepisce 500 euro di
pensione al mese, di chi non può comperarsi neanche le medicine… ecc
Solidarietà a tutti/e i compagni/e che nelle strade, nelle piazze e nelle valli lottano per la libertà di tutti/e,
mettendo a repentaglio la propria libertà contro chi emana le sue leggi a discapito di tanti, per la gioia della casta,
dei politici e delle lobby che con i loro malaffare stanno dissanguando un’intera nazione.
Solidarietà a tutti/e coloro che scendono in strada a lottare per il diritto alla vita contro le sedi del potere… Lotta
alla repressione per il diritto ad una vita dignitosa.
Un abbraccio ribelle, Maurizio.
P:S: Un pensiero a “Ciccio” che torni presto dall’ospedale perché tutti lo aspettiamo con affetto e amore. I tuoi
compagni di sezione

4 novembre 2013
Maurizio Alfieri, via Maiano, 10 – 06049 Spoleto (Perugia)


LETTERE DAL CARCERE DI REBIBBIA (RM)
Carissimi amici di "Ampi Orizzonti", scusatemi sono due mesi che non ricevo l'opuscolo, della vostra associazione,
l'ultimo che ho letto è quello di giugno 2013, il n. 81.
Ma veniamo al motivo principale di questa mia lettera, in questo paese tutti sono autorizzati a parlare di giustizia, e
si riempiono la bocca con una sola parola "legalità", ma non tutti sanno il vero significato in poche parole
significherebbe che nessuna persona può essere punita oltre ogni limite stabilito dalla legge stessa. Qui la retorica
sarebbe molto facile, parlare di legalità in un luogo come il carcere che ogni giorno c'è l'illegalità. Ecco noi
dobbiamo combattere questa illegalità, con la stessa arma di questi illustri signori, la legalità. In questi giorni
siamo tutti in attesa di un atto di clemenza da parte dello stato, che consapevole di tutte le sue nefandezze, continua
ostinatamente nelle patrie galere ad agire illegalmente, non rispettando i principi fondamentali della Costituzione per
i diritti dell'uomo.
Perciò compagni e compagne detenute di tutta Italia, prepariamoci tutti a combattere con la stessa arma "legalità'", non
dobbiamo farci trovare impreparati, usiamo il passaparola, aiutiamo tutti i nostri compagni che non sanno preparare le
distanze, in tutte le carceri, tutti pronti per maggio 2014. Se questa sarà ancora la situazione nelle carceri, tutti e
ripeto tutti, nessuno escluso, dobbiamo presentare il ricorso alla Corte di Giustizia dei Diritti dell'Uomo di
Strasburgo, questo sarebbe un segnale forte di legalità, fatto da persone che stanno pagando un debito verso la società.
Non facciamoci prendere di sorpresa, abbiamo il tempo per organizzarci. Per qualsiasi informazione potete contattarmi vi
manderò il modulo da presentare. [...]

Roma, 13 ottobre 2013
Marco Costantini, via Majetti, 70 - 00156 Roma



LETTERA DAL CARCERE PAGLIARELLI (PA)
Carissimi amici e compagni di sventura, vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che ci sono e che, insieme a voi,
vivo e sopravvivo alla realtà del sistema carcerario, impotente di fronte al potere, pur se discusso, delle istituzioni
e degli aguzzini che lo amministrano, lasciandomi quale unico sfogo, quello di usare la penna quale strumento di
protesta e di contrasto contro le angherie e gli abusi di potere. Mi riferisco in particolare all’ultimo abuso subito, o
meglio estorsione subita, da parte dell’amministrazione penitenziaria del Pagliarelli, consistente nell’addebitarci sul
conto corrente personale euro 10 per la pulizia del cortile all’esterno del carcere che, moltiplicati per 1.400 detenuti
fa la bellezza di 14.000 euro, aggiunti ai 5 euro per la fognatura, pulizia periodica, quindi altri 7.000 euro per una
somma totale di 21.000 euro ai quali vanno aggiunti ancora 30cts settimanali sotto la voce “oneri di cancelleria” che,
moltiplicati per un mese, diventano 1.680 euro. Pertanto alla fine ci hanno fatto un’estorsione di 22.680 euro.
La si potrebbe intendere anche rapina ai sensi dell’art. 628 comma 3 nr. 2 cp e art, 629 sempre del cp. Praticamente
hanno legalizzato i precedenti articoli penali, però limitatamente all’amministrazione penitenziaria.
Come dire: “Chiodo batte chiodo”. Ironia della sorte.
A tutto questo, com’è ovvio, va aggiunto il continuo disagio del sovraffollamento, là dove i cubicoli destinati ad una
sola persona in realtà ne ospitano tre, così come i cameroni destinati a quattro ne ospitano otto. Il vitto è stato
ridotto a un terzo del totale che ci spetterebbe, mentre il sopravitto (cibo ecc. acquistato) è stato maggiorato di un
terzo, minimo.
Insomma, cari amici, dicono che noi siamo le pecore nere della società, ma non dicono chi sono i “lupi” di questa
società. Se ne guardano bene le nostre istituzioni e i nostri governanti. Che si facessero un bel dentifricio alla
nitroglicerina prima di parlare delle pecore nere, che sono sempre quelle che perdono la lana, restando in balia degli
eventi. Se trovate una risposta a tanta ingiustizia sarei ben lieto di conoscerla. Nell’attesa di una sincera risposta,
con stima a voi di Ampi Orizzonti porgo un sincero saluto. Un forte abbraccio a tutti gli amici/che.
PS: un caro abbraccio e sul col morale al mio caro amico Davide

Palermo, 31 ottobre 2013
Salvatore Quattrocchi, via Bachelet, 32 - 90129 Palermo


LETTERA DAL CARCERE DI IGLESIAS (CA)
Carissimi compagni e compagne di Olga, Un abbraccio a voi tutti detenuti e non, in particolare a Davide Delogu rinchiuso
a Palermo in regime di 14bis.
La situazione in quest'Isola va peggiorando di giorno in giorno. Detenuti provenienti da tutte le carceri italiane in
regime di 41bis – AS1 – AS2 – vengono esiliati e allontanati dai propri familiari, mentre i detenuti sardi, per la
maggior parte comuni, vengono allontanati dall'Isola. La strategia studiata a Roma sembra prendere forma, con le
quattro nuove strutture, più Tempio cinque, tutte studiate per stipare detenuti "pericolosi". Si parla tanto del
sovraffollamento delle carceri italiane, ma non si tende a un miglioramento. Se si fanno due calcoli: Sassari, Cagliari,
Oristano, Tempio e un'ala dentro il carcere di Nuoro Bade Carros – adibita esclusivamente per i 41bis – in totale la
capienza dovrebbe sfiorare i 2mila detenuti. Però c'è da considerare che chiudono i vecchio istituti di Cagliari,
Sassari, Oristano già chiuso, Tempio anch'esso già chiuso, adesso entro dicembre chiuderanno anche Iglesias, Macomer,
Lanusei, alla fine praticamente non hanno creato nuovi posti letto, li hanno diminuiti mirando esclusivamente a creare
una nuova Caienna… in Sardegna.
Pensando ai grandi disagi che incontreranno i familiari dei detenuti per potergli fare visita, si può definire una nuova
forma di tortura. Essendo del posto, posso assicurarvi che queste nuove strutture sono state edificate in mezzo alle
campagne, senza alcun servizio dove poter ospitare i visitatori. Non esistono navette per raggiungere questi bunker e
tutto questo a discapito dei familiari. Non posso fare altro che augurare buona fortuna sia ai compagni di sventura che
ai loro cari familiari.
Vi faccio sapere che non ho ricevuto l'opuscolo di settembre e, se è possibile, inviatemi qualche libro per ammazzare
questo tempo infinito. Davide

Iglesias, novembre 2013
Davide Matta, Località Sa Stoia, 16 - 09016 Iglesias (Cagliari)


SENTENZA PRIMO GRADO OPERAZIONE “SHADOW”
Il 22 ottobre, presso il tribunale di Perugia, è stata emessa la sentenza di primo grado in merito alla "operazione
Shadow", operazione che vide l'arresto di due anarchici, Alessandro e Sergio (quest'ultimo ancora nel carcere di Ferrara
a seguito di un altro arresto a seguito di un'ennesima inchiesta imbastita dalla pm Comodi), con l'accusa di tentato
sabotaggio alla linea ferroviaria Orte-Ancona condita del solito 270 bis.
L'impianto accusatorio è miseramente crollato con l'assoluzione di tutte/i. Sergio è stato però condannato a tre anni e
tre mesi per furto d'auto. Sergio, che durante l'ultima udienza, ha voluto contrastare le evidenti menzogne della pm
Comodi, è stato inoltre denunciato per oltraggio.
23 ottobre 2013
liberamente tratto da informa-azione.info


PROCESSO per il FERIMENTO DELL'AD ANSALDO NUCLEARE
Il 30 ottobre 2013, si è tenuta presso il tribunale di Genova, l'udienza del processo per il ferimento di Roberto
Adinolfi, AD della Analdo Nucleare.
Più di 200 solidali sono arrivati a Genova per sostenere i due compagni anarchici imputati. Ingenti le forze di polizia,
tribunale blindato (con ingresso preferenziale sul retro), lunghi controlli per chi vuole assistere.
All'ingresso della gub Giacaloni, i compagni non si alzano ed Alfredo inizia a leggere un comunicato senza attendere "il
suo turno", per questo motivo lui e poi Nicola vengono allontanati dall'aula, abbandonata anche dai solidali.
Il 15 novembre sono state emesse le condanne: 10 anni ed 8 mesi ad Alfredo, 9 anni e 4 mesi a Nicola per attentato con
finalità di terrorismo, art. 280 , con reato ostativo (impossibilità di avere accesso a benefici, domiciliari,
semilibertà, ecc. viste riconosciute le finalità di terrorismo ). La valutazione del risarcimento richiesto dalle parti
civili (Stato Italiano, Ansaldo Nucleare ed Adinolfi stesso) è stata rimandata ad una eventuale causa civile. La gup
Giacalone si è dimostrata completamente asservita alle tesi della procura secondo cui sussistono le finalita di
terrorismo ed eversione dell'ordine democratico visto che, nella persona di Adinolfi, amministratore delegato Ansaldo
Nucleare, è stata colpita la Finmeccanica, azienda di stato, con interessi mondiali nella produzione di sistemi di
controllo e difesa. Di seguito le dichiarazioni rese in aula.
DICHIARAZIONE ALFREDO COSPITO
Dal ventre del Leviatano
«... i sogni sono da realizzarsi qui nel presente e non in un ipotetico futuro, dato che l’avvenire l’hanno sempre
venduto i preti di qualsiasi religione o ideologia per poterci impunemente derubare. Vogliamo un presente che meriti di
essere vissuto e non semplicemente sacrificato ad attesa messianica di un futuro paradiso terrestre. Abbiamo per questo
voluto parlare in concreto di un’anarchia da realizzare ora, non domani. Il “tutto e subito” è una scommessa, una
partita che ci giochiamo dove la posta in gioco è la nostra vita, la vita di tutti, la nostra morte, la morte di
tutti...» (Pierleone Mario Porcu)
«La scienza è l’eterno olocausto della vita fugace, effimera, ma reale, sull’altare delle eterne astrazioni. Ciò che
predico è quindi, la rivolta della vita contro il governo della scienza» (Michail Bakunin)
«Mentre l’uomo si pavoneggiava e faceva il dio, un’imbecillità si abbatteva su di lui. Le tecniche erano innalzate al
supremo rango e, un volta ispallate sul trono gettavano le loro catene sulle intelligenze che le avevano create» (Edgar
Allan Poe)
«L’impero fondato sul niente nel quale regni sovrano sta crollando.
Non riesce a sorreggere il peso della verità.
Ti consiglio una dose massiccia di vita. Ti consiglio una dose massiccia di vita!
Almeno così potrai dire di averla vissuta» (Congegno)
«Bastardi... so chi vi manda!!!» (Roberto Adinolfi)
In una splendida mattina di maggio ho agito ed in quelle poche ore ho goduto a pieno della vita. Per una volta mi sono
lasciato alle spalle paura e autogiustificazioni e ho sfidato l’ignoto. In una Europa costellata di centrali nucleari,
uno dei maggiori responsabili del disastro nucleare che verrà è caduto ai miei piedi. Voglio essere molto chiaro: il
nucleo Olga FAI/FRI siamo solo io e Nicola. Nessun altro ha partecipato, collaborato, progettato tale azione; nessuno
era a conoscenza del nostro progetto. Non permetterò che il mio agire, per distogliere l’attenzione dal vero obiettivo
dell’azione venga messo in un osceno assurdo calderone massmediatico e giuridico fatto di “eversione dell’ordine
democratico”, “associazione sovversiva”, “banda armata”, “terrorismo”; frasi vuote in bocca a giudici e giornalisti.
Sono anarchico anti-organizzatore perché contrario ad ogni forma di autorità e costrizione organizzativa. Sono
nichilista perché vivo la mia anarchia oggi e non nell’attesa di una rivoluzione che, se pure verrà, creerà solo nuova
autorità, nuova tecnologia, nuova civiltà. Vivo la mia anarchia con naturalezza, gioia, piacere, senza alcuno spirito di
martirio, opponendo tutto me stesso a questo esistente civilizzato che mi è insopportabile. Sono antisociale perché
convinto che la società esiste solo sotto il segno della divisione tra dominanti e dominati. Non aspiro ad alcuna futura
“paradisiaca” alchimia socialista, non ripongo fiducia in nessuna classe sociale; la mia rivolta senza rivoluzione è
individuale, esistenziale, totalizzante, assoluta, armata. In me non vi è alcuna traccia di superomismo, nessun
disprezzo nei confronti degli oppressi, del “popolo”, convinto che, come dice un detto orientale: “non bisogna
disprezzare il serpente perché non ha le corna; un giorno potrebbe trasformarsi in drago!” Allo stesso modo uno schiavo
può trasformarsi in un ribelle, un solo uomo, una sola donna farsi incendio devastante. Con tutte le mie forze disprezzo
i potenti della terra, siano essi politici, scienziati, tecnocrati, capipopolo, leader di ogni risma, burocrati, capi
militari e religiosi. L’ordine che voglio abbattere è quello della civilizzazione che giorno dopo giorno distrugge tutto
ciò per il quale vale la pena vivere. Stato, democrazia, classi sociali, ideologie, religioni, polizia, eserciti, il
vostro stesso tribunale sono ombre, chimere, ingranaggi, tutti sostituibili, di una megamacchina che tutto comprende. La
tecnologia un giorno farà a meno di noi trasformandoci tutti in automi sperduti in un panorama di morte e desolazione.
Quel sette maggio del 2012 per un momento ho gettato sabbia nell’ingranaggio di questa megamacchina, per un momento ho
vissuto a pieno facendo la differenza. Quel giorno non era una vecchia Tokaref la mia arma migliore, ma l’odio profondo,
feroce che provo contro la società tecno-industriale. Ho firmato l’azione come FAI/FRI perché mi sono innamorato di
questa lucida “follia” fattasi concreta poesia, a volte brezza, a volte tempesta, che soffia caotica per mezzo mondo,
imperterrita, improbabile, contro ogni legge, contro ogni “buon senso”, contro ogni ideologia, contro ogni politica,
contro scienza e civilizzazione, contro ogni autorità, organizzazione e gerarchia. Una visione dell’anarchia concreta
che non prevede teorici, dirigenti, leader, quadri, soldati, eroi, martiri, organigrammi, militanti e tanto meno
spettatori. Per anni ho assistito all’evoluzione di questa nuova anarchia rimanendo di fatto solo spettatore. Per troppo
tempo sono rimasto a guardare. L’anarchia se non si fà azione rigetta la vita diventando ideologia, merda o poco più,
nel migliore dei casi sfogo impotente per uomini e donne frustrati.
Decisi di passare all’azione dopo il disastro nucleare di Fukushima. Davanti a fatti così grossi troppo spesso ci si
sente inadeguati. L’uomo primitivo fronteggiava i pericoli, sapeva come difendersi. L’uomo moderno, civilizzato davanti
alle costruzioni-costrizioni della tecnologia è inerme. Come pecore che cercano protezione nel pastore che le macellerà,
così noi civilizzati ci affidiamo ai sacerdoti laici della scienza, gli stessi che ci stanno lentamente scavando la
fossa. Adinolfi lo abbiamo visto sorridere sornione dagli schermi televisivi atteggiandosi a vittima. Lo abbiamo visto
dare lezioni nelle scuole contro il “terrorismo”. Ma io mi chiedo cos’è il terrorismo? Un colpo sparato, un dolore
intenso, una ferita aperta o la minaccia incessante continua, di una morte lenta che ti divora da dentro. Il terrore
continuo, incessante, che una delle sue centrali nucleari ci vomiti addosso da un momento all’altro morte e desolazione.
L’Ansaldo Nucleare e Finmeccanica hanno enormi responsabilità. I loro progetti continuano a seminare morte dappertutto,
ultimamente si parla di possibili investimenti nel raddoppio della centrale di Kryko in Slovenia a due passi
dall’Italia, zona a grande rischio sismico. In Cernadova, Romania, dal 2000 ad oggi, diversi sono stati gli incidenti
procurati della dabbenaggine dell’Ansaldo durante la costruzione di una loro centrale. Quante vite spezzate? Quanto
sangue versato? Tecnocrati di Ansaldo e di Finmeccanica dal sorriso facile, dalla coscienza “pulita”, il vostro
“progresso” puzza di carogna, la morte che seminate per il mondo grida vendetta. Sono tanti i modi di opporsi
concretamente al nucleare, blocchi dei treni che trasportano scorie, sabotaggi ai tralicci che trasportano energia
elettrica prodotta dall’atomo. A me venne in mente di colpire il maggiore responsabile di questo scempio in Italia:
Roberto Adinolfi amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Ci volle poco a scoprire dove abitava, cinque appostamenti
bastavano. Non c’è bisogno di una struttura militare, di un’associazione sovversiva o di una banda armata per colpire,
chiunque, armato di una salda volontà può pensare l’impensabile e agire di conseguenza. Avrei fatto tutto da solo,
sfortunatamente avevo bisogno di aiuto per la moto; chiesi a Nicola, feci appello alla sua amicizia, non si tirò
indietro. La pistola la comprai al mercato nero, trecento euro. Non servono infrastrutture clandestine o grandi capitali
per armarsi. Partimmo in auto da Torino la notte prima. Tutto filò liscio o quasi, Nicola alla guida, io colpii
esattamente dove avevamo deciso di colpire. Un colpo preciso, la mia corsa verso la moto e poi l’imprevisto, l’urlo
pieno di rabbia di Adinolfi, la frase urlata che mi immobilizzò facendomi perdere preziosi secondi: “bastardi! ...so chi
vi manda!!!” in quel preciso momento ebbi la certezza assoluta di aver colpito nel segno, pienamente cosciente del
letamaio in cui avevo messo le mani; interessi milionari, finanzia internazionale, la politica e il potere, fango e
letame. Quei secondi “rubati” permisero ad Adinolfi di leggere una parte della targa, che per inesperienza non avevamo
coperto. Grazie a quei numeri risalirono alla moto e dalla moto alla telecamera.
Non basterà certo la condanna di questo tribunale a fare di noi i cattivi terroristi e di Adinolfi e Finmeccanica i
benefattori dell’umanità. È arrivato il momento del grande rifiuto, rifiuto fatto di pluralità di resistenze, ognuna
delle quali è un caso speciale; alcune sono possibili, necessarie, improbabili; altre sono spontanee, selvagge,
solitarie, concertate, prorompenti o violente. La nostra è stata solitaria e violenta. Ne è valsa la pena? Si! Fosse
solo per la gioia che abbiamo provato nell’apprendere del sorriso di sfida che Olga Ikonomidou, coraggiosa sorella della
Cospirazione delle Cellule di Fuoco, in una cella di isolamento di un carcere greco, alla notizia della nostra azione ha
gettato in faccia ai suoi carcerieri. Sono felice di essere quel che sono, un uomo libero, anche se “momentaneamente” in
catene. Non posso lamentarmi più di tanto visto che la stragrande maggioranza della “gente” le catene le ha ben piantate
nel cervello. Nella mia vita ho sempre cercato di fare quello che reputavo giusto e mai quello che conveniva. Le mezze
misure non mi hanno mai convinto. Ho amato molto. Ho odiato molto. Proprio per questo non mi arrenderò alle vostre
sbarre, divise, armi. Mi avrete sempre come irriducibile, fiero nemico. Non sono solo. Gli anarchici non sono mai soli,
solitari a volte, ma mai soli. Mille progetti nella testa, una speranza nel cuore che continua a vivere sempre più,
salda e sempre più condivisa; concreta prospettiva che “rischia” di cambiare la faccia dell’anarchia nel mondo. Piccoli,
grandi smottamenti che un giorno scateneranno un cataclisma, ci vorrà tempo, non importa, per adesso mi godo il
terremoto scatenato in me da tutta questa voglia di gioire e lottare.
Concludo con una citazione di Martino (Marco Camenish) guerriero mai piegato, per il suo profondo amore per la vita da
più di vent’anni prigioniero, rinchiuso oggi in un asettico carcere svizzero, faccio mie queste sue parole:
«... il coraggio di pensare le cose fino in fondo, trasgredire il divieto di polizia tecnologica del “impossibile” o
“dell’inconcepibile”, di pensare altro e in altro modo agendo di conseguenza. Solo questo può condurci fuori dalla
tiepida brodaglia tossica della modernità nei luoghi dove niente e nessuno ci guiderà nel luogo senza sicurezze, nel
luogo della responsabilità in prima persona per la non-sottomissione con tutte le sue conseguenze. La libertà è dura e
pericolosa e non c’è vita senza la morte. Per timore della vita spesso ci rassegniamo in schiavitù all’annientamento.»
Morte alla civilizzazione. Morte alla società tecnologica. Lunga vita alle CCF. Lunga vita alla FAI/FRI. Viva
l’internazionale nera! Viva l’anarchia!!

Alfredo Cospito, via Arginone 327- 44100 Ferrara

DICHIARAZIONE NICOLA GAI
«Nessuno, mi può giudicare
Nemmeno tu. La verità ti fa male lo so» (Caterina Caselli)

Poche parole per affermare alcuni semplici dati di fatto prima che la “verità” venga stabilita in sede processuale; nel
caso non fosse chiaro il termine “verità” l'ho usato con un'accezione ironica, infatti non riconosco altro tribunale al
di fuori della mia coscienza. Gli unici responsabili di quanto avvenuto a Genova, il 7 maggio 2012, siamo io ed Alfredo.
Nessun altro, tra amici e compagni, era al corrente di quanto stavamo progettando e poi abbiamo realizzato. Per quanto
scaviate nelle nostre vite e nelle nostre relazioni per cercare altri complici del “misfatto” non potrete dimostrare il
contrario, certamente ci proverete, ma in tal caso non si tratterà che di falsità e del tentativo di incastrare qualche
nemico dell'esistente. Capisco che per chi ha dedicato la sua vita a servire l'autorità non sia facile arrendersi
all'idea che due individui, armati solo della propria determinazione, possano decidere di provare ad inceppare gli
ingranaggi del sistema tecno-industriale invece di contribuire, disciplinatamente, a farli girare, ma le cose stanno
semplicemente così. Dopo anni passati ad assistere alla sistematica distruzione della natura e di tutti gli aspetti che
rendono la vita degna di essere vissuta ad opera del mai troppo decantato sviluppo tecnologico. Anni trascorsi a seguire
con interesse, ma sempre da spettatore, le esperienze di quei ribelli che, anche in questo mondo che sembra pacificato
continuano ad alzare la testa per affermare la possibilità di una vita libera e selvaggia. Dopo il disastro di
Fukushima, quando Alfredo mi ha proposto di aiutarlo nella realizzazione dell'azione contro l'ing. Adinolfi, ho
accettato senza esitazione. Finalmente potevo manifestare concretamente il mio rifiuto per il sistema tecno-industriale,
smetterla di partecipare a proteste simboliche che troppo spesso non sono altro che manifestazioni di impotenza. Nessuno
con un minimo di ragionevolezza può illudersi che l'esito di un referendum o le cialtronerie di qualche guru della green
economy possano cancellare, anche solo, gli aspetti intrinsecamente più nefasti del mondo in cui siamo costretti a
vivere. È sotto gli occhi di chiunque voglia vedere che Finmeccanica, con la sua controllata continua a produrre armi di
distruzione di massa; semplicemente lo fa fuori dai confini italiani, come se le radiazioni rispettassero quelle infami
barriere. In Romania (Cernadova, sfortunata località, nota principalmente per gli innumerevoli incidenti accorsi alla
centrale), Slovacchia ed Ucraina, solo per citare gli investimenti più recenti e diretti, Ansaldo Nucleare continua a
seminare morte ed a contribuire alla distruzione della natura. Come dovrebbe essere evidente a tutti, con altre 190
centrali nucleari solo in Europa, il problema non è chiedersi se possa avvenire un'altra Chernobyl, ma solamente quando
questo accadrà. E come se ciò non bastasse, non dobbiamo dimenticare che tali mostruosità non uccidono solo quando sono
in funzione, ma pure con le loro scorie. Queste vengono trasportate avanti e indietro attraverso l'Europa senza che
nessuno sappia realmente cosa farne. Quelle delle centrali italiane, spente da decenni, vengono a tutt'oggi trasportate
in Francia per essere messe in “sicurezza”: ne ricavano combustibile per alimentare altri reattori e anche qualche
chiletto di plutonio che può essere utilizzato solamente per costruire bombe (tanto per ricordarci che quando si parla
di nucleare non vi è differenza tra uso civile e militare), poi ce le rimandano pericolose, pressoché, quanto prima. A
questo proposito chissà mai cosa se ne faranno gli americani dell'uranio trasferito negli USA quest'estate, in gran
segreto, da un deposito di scorie in Basilicata. Potrei stare ore a parlare dei danni e delle distruzioni causate dal
nucleare, fare innumerevoli esempi, ricordare quello che sta succedendo a Fukushima (dove a detta di qualcuno, nessun
morto era imputabile alla centrale...), ma non sono qui a cercare giustificazioni. Il nucleare è forse l'elemento di
questo mondo civilizzato dove l'insensatezza e la mostruosità del sistema tecno-industriale può essere comprensibile a
chiunque, ma dobbiamo renderci conto che sull'altare dello sviluppo tecnologico stiamo immolando ogni presidio della
nostra libertà individuale e della possibilità di vivere una vita realmente degna di essere vissuta. Ora sta solamente
ad ognuno di noi decidere se essere sudditi obbedienti o provare a vivere, qui ed ora, il rifiuto dell'esistente. Io la
mia scelta l'ho fatta, con gioia e senza rimorsi.
Noi usciremo di qui bollati come terroristi, la cosa divertente è che potrete affermarlo senza sentirvi ridicoli: lo
dice il codice penale. Quello che è certo, è che le parole non hanno più alcun significato; se noi siamo terroristi,
come definireste chi produce armi, sistemi di puntamento per missili, droni, cacciabombardieri, equipaggiamenti per
cacciare uomini che tentano di varcare un confine, centrali nucleari, che tratta alla pari con assassini in divisa e
rinomati dittatori, insomma, come definireste Finmeccanica? Certo nemmeno i vostri mandanti brillano per fantasia, tanto
che, per fugare eventuali dubbi sulle reali funzioni di questa azienda, recentemente ne hanno messo a capo l'ex-
poliziotto Gianni De Gennaro: vista la sua responsabilità nelle torture di Bolzaneto e nel massacro della Diaz, in
quanto capo della polizia, durante il G8 del 2001, hanno logicamente pensato che fosse l'uomo giusto al posto giusto.
Tornando al motivo di questa mia dichiarazione vorrei fare qualche precisazione in merito alla “brillante” operazione
che ha portato al nostro arresto. Chissà quante strette di mano e pacche sulle spalle si sono prese gli astuti segugi
che sono riusciti a mettere a frutto un nostro unico quanto fatale errore, dettato dall'inesperienza e dall'urgenza di
fare qualcosa dopo il disastro di Fukushima, infatti, non ci siamo accorti di una telecamerina piazzata dallo zelante
padrone di un bar a protezione dei suoi tramezzini. Purtroppo, per noi, non l'abbiamo vista mentre studiavamo il
percorso che dal punto in cui abbiamo lasciato il motorino portava alla fermata dei bus che, dopo un cambio, ci
avrebbero portato alla periferia della città nella direzione di Arenzano, dove era parcheggiata la mia macchina che
abbiamo usato per raggiungere e lasciare Genova. A dir tutta la verità, quello della telecamera non è stato l'unico
errore commesso, abbiamo anche perso istanti preziosi al momento di allontanarci dal luogo dell'azione, il grido
rabbioso dell'apprendista stregone dell'atomo: «Bastardi, so chi manda!» ci ha paralizzati. Non sta certo a me avanzare
ipotesi sul significato di quella frase, il momento non favoriva pacati ragionamenti e, tanto meno, è mio costume
costruire castelli in aria sulle parole pronunciate da un'altra persona, ma personalmente ne ho tratto la conclusione
che avevamo affondato le mani in una montagna di merda. Tutti gli altri elementi che hanno giustificato la nostra
detenzione o sono distorti o, semplicemente, falsi. La famosa intercettazione del “pistolone”, in cui avrei affermato di
aver sparato è assolutamente incomprensibile, ora è inutile coinvolgere periti per smontarla, ma essendo stato alla
guida del motorino è impossibile che possa aver impugnato anche la pistola, e oltre tutto mi pare logicamente assurdo
che mi sia messo a raccontarlo proprio a chi aveva partecipato con me all'azione, cioè Alfredo. Sulla stampante,
sequestrata a casa dei miei genitori, che la polizia scientifica affermava essere quella usata per stampare il
volantino, c'è poco da dire, perché il computer e la stampante li ho comprati io e li abbiamo distrutti dopo l'uso (la
cosa da notare è che una volta che il riesame aveva confermato i nostri arresti, gli stessi scienziati dei RIS si sono
accorti che probabilmente non era la stessa). Per quanto riguarda il furto del motorino, per il quale procedete contro
di noi e fantomatici ignoti, le cose sono meno complicate di quanto vi sforzerete di ricostruirle. Abbiamo girato per la
città cercando di risolvere il problema, visto che non avevamo alcuna esperienza con tale pratica. La fortuna, come si
sa, aiuta gli audaci, infatti nell'amena località di Bolzaneto ci siamo imbattuti in uno scooter con le chiavi
dimenticate inserite nel quadro, le abbiamo prese ed abbiamo deciso di tornare dopo qualche giorno con un casco. La moto
era ancora parcheggiata nello stesso posto, mi è bastato salire in sella, accendere e portarla dalle parti del cimitero
di Staglieno dove è rimasta fino a quindici giorni prima dell'azione quando l'ho spostata nei pressi dell'abitazione
dell'ing. Adinolfi. Mi scuso con il proprietario per averla svuotata dai caschi e dagli altri oggetti che c'erano sotto
il sellino e per aver buttato il bauletto posteriore, purtroppo erano di impiccio e, decisamente non era salutare l'idea
di cercare di restituirli. Un altro elemento su cui gli investigatori hanno ricamato e, temo, cercheranno di utilizzare
da bravi inquisitori in futuro, è un'intercettazione realizzata al C.S.L. di Napoli, in cui alcuni compagni
commenterebbero il volantino che avrebbero ricevuto, in anteprima mondiale, via posta elettronica. Non ho idea di cosa
parlassero, non sto a spiegare come il dialogo sia di difficile comprensione, a dir poco, e neppure è il caso di
soffermarsi sull'evidente assonanza tra “Valentino” e “volantino”, ma so per certo che il comunicato è stato spedito
solamente per posta ordinaria (abbiamo imbucato le lettere durante il cambio bus sulla via del ritorno, in una cassetta
postale, sul lungomare, nei pressi del terminal traghetti), quindi è semplicemente impossibile che l'abbiano ricevuto
tramite e-mail.
So per certo che userete il nostro caso per dare l'esempio, che la vendetta sarà draconiana, che farete di tutto per
isolarci (basti dire che è più di un anno che la nostra corrispondenza è sottoposta a censura), ma voglio darvi una
cattiva notizia: si tratta di sforzi inutili. Sono perlomeno 150 anni che giudici, anche più feroci di voi, cercano di
cancellare l'idea della possibilità di una vita libera dall'autorità, ma con scarsi risultati. Posso tranquillamente
assicurarvi che le vostre azioni repressive, per quanto ad ampio spettro, per quanto indiscriminate, non potranno
disarticolare o debellare alcunché. Se pensate di arrivare, grazie a noi, ad altri anarchici che abbiano deciso di
sperimentare la possibilità caotica, spontanea ed informale della FAI vi sbagliate di grosso e non potrete che fare
l'ennesimo buco nell'acqua; né io né Alfredo conosciamo alcuno che abbia fatto questa scelta. State dando la caccia ad
un fantasma che non potete rinchiudere nelle anguste caselle dei vostri codici. Questo perché esso si manifesta
nell'istante in cui le tensioni distruttive di coloro che l'animano si uniscono per agire, nel momento in cui donne e
uomini liberi decidono di sperimentare concretamente l'anarchia. Ora che l'esperienza del Nucleo Olga si è conclusa,
posso solamente assicurarvi che ho trovato nuove ragioni per alimentare il mio odio e motivi per desiderare la
distruzione dell'esistente, fatto di autorità, sfruttamento e distruzione della natura.
Amore a complicità per le sorelle e i fratelli che con le loro azioni, in ogni parte del mondo, rendono reale il folle
sogno della FAI/FRI.
Amore e complicità per le compagne e i compagni che, anonimamente o meno, continuano ad attaccare in nome della
possibilità di una vita libera dall'autorità.
Amore e libertà per tutti i prigionieri anarchici.
Viva l'internazionale nera dei refrattari all'ordine mortifero della civilizzazione.
Viva l'anarchia!

Nicola Gai, via Arginone, 327 - 44100 Ferrara

***
Saluto col botto al carcere di Ferrara
Apprendiamo dai media locali che nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, una bomba carta è stata gettata nel cortile del
carcere di Ferrara in prossimità della sezione AS2 dove sono rinchiusi Sergio Stefani (prigioniero op. Ardire), Adriano
Antonacci (operazione del Ros nei Castelli Romani), Nicola Gai e Alfredo Cospito (operazione per il ferimento dell'AD di
Ansaldo Nucleare). Probabilmente un saluto ai compagni anarchici prigionieri e per Nicola e Alfredo che il 30 ottobre
affronteranno la prima udienza del processo.

tratto da informa-azione.info

GENOVA 2001
Un passato da riscattare, Un presente da rovesciare
Il 13 novembre prossimo a Genova si terrà l’atto finale del processo per il G8 del 2001, la pietra tombale messa dallo
Stato su quelle giornate. Alla sbarra ancora i manifestanti del G8 2001 che dopo la sentenza definitiva di Cassazione
dello scorso 13 luglio sono stati condannati per i reati di devastazione e saccheggio. Per 5 di loro infatti, la Corte
d’Appello di Genova dovrà valutare la concedibilità o meno dell’attenuante di pena dell’aver agito per «suggestione
della folla in tumulto».
Dodici anni da quel luglio del 2001, dieci condannati, dieci anni di processo, cento anni di condanne. Tre compagni in
carcere condannati in via definitiva tra i dieci e quindi anni di detenzione, una compagna agli arresti domiciliari
condannata a 6 anni. Un compagno che continua a correre libero. Altri cinque attendono solo le ultime correzioni
formali. Non saranno un paio di mesi di condanne in più o meno a cambiare le carte in tavole, tanto meno a cambiare il
segno all’andamento di questo processo.
Quella sommossa che rompeva una pacificazione sociale di decenni ha spinto il potere a punire in modo esemplare ed a
cercare di estirpare la minaccia che essa rappresentava per l’avvenire; così dieci capri espiatori sono stati chiamati a
pagare per tutti con condanne fino ai quindici anni di carcere; così il reato di devastazione e saccheggio è stato
sdoganato ed esteso a qualsiasi altra giornata di rabbia e sollevazione. A ottobre, al Tribunale di Roma, è ripartito,
più spedito che mai, il più corposo dei processi per i fatti del 15 ottobre 2011: 18 imputati dovranno rispondere di
reati tra i quali devastazione e saccheggio e tentato omicidio; sempre per i fatti del 15 ottobre 2011 altre 7 persone
sono già state condannate in primo grado per devastazione a 6 anni. Lo Stato porta avanti la sua guerra interna giorno
dopo giorno, momento dopo momento, dichiaratamente. I suoi nemici siamo sostanzialmente noi. Noi tutti.
È nella logica delle cose che i tribunali dello Stato oggi si pronuncino così su quegli eventi, come lo è che la storia
scritta dai vincitori ne dia una visione accomodata e travisata; ma lo spirito di quanto accaduto in quelle giornate
appartiene appieno alla tradizione delle lotte degli oppressi di sempre e soltanto chi si riconosce in essa può
custodirlo, mantenerlo vivo e tramandarlo.
Da Genova, da quel luglio 2001, una nuova epoca di incendi si è propagata, e quelle istanze che allora sembravano
proprie di una piccola minoranza, oggi sono nelle strade di mezzo mondo.
È tempo di dire che se nella testa e nelle lotte di tanti c’è la consapevolezza che chi devasta e saccheggia il
pianeta e le nostre vite è il capitalismo, è anche grazie a chi si è battuto per le strade in quei giorni. Il 13
novembre è un’occasione per farlo; è per stare su questa linea di demarcazione, tra un passato da riscattare e un
presente da rovesciare, che quel giorno sarà fondamentale stare al fianco dei compagni imputati. Lo spirito continua.
PRESENZA SOLIDALE IN AULA E FUORI
MERCOLEDI’ 13 NOVEMBRE H 10.30 - TRIBUNALE DI GENOVA

***
Udienza lampo quella di oggi al Tribunale di Genova. Alla sbarra, ancora quattro compagni già condannati per
devastazione e saccheggio per i fatti del g8 2001 in Cassazione a Roma a luglio scorso. La corte d'appello genovese
doveva soltanto valutare l'applicabilità o meno dell'attenuante di “aver agito in suggestione della folla in tumulto”.
Uno dei compagni sotto processo oggi, è stato arrestato la settimana scorsa in Trentino per una condanna definitiva a 5
anni, ritenuto responsabile di aver incendiato l'automobile del suo datore di lavoro. Trovandosi già in galera, ha
deciso di presenziare all'udienza di oggi. Portato in aula in manette, è stato accolto calorosamente da un nutrito
gruppo di solidali che gli sono stati affianco fino alla lettura della sentenza.
Esito della sentenza: una condanna a 8 anni confermata senza attenuanti, una condanna ridotta da 10 a 8 anni con
attenuante, due condanne ridotte a 6 anni con attenuante. Lo Stato, oggi, ha messo la sua pietra tombale su quella
giornate di rivolta del luglio 2001 a Genova. Noi, invece, no. Continuiamo a bruciare per una vita libera in un mondo
libero. Il fuoco della rivolta scalda i nostri cuori, e il miglior pensiero che possiamo rivolgere ai compagni
condannati è far sì che quel fuoco divampi ancora e sempre più. Continueremo a batterci, continueremo a lottare, e lo
continueremo a fare anche per tutti coloro che per la rivolta di Genova 2001 stanno pagando caro il prezzo della
Giustizia di Stato.
A Ines, Marina, Alberto, Francesco, Vincenzo, Luca, Dario, Carlo, Carlo, ai compagni sotto processo per la rivolta del
15 ottobre 2001 a Roma; và tutto il nostro affetto la nostra solidarietà e complicità .
A Vincenzo: che continui a correre libero e selvaggio! Lo spirito continua.

Genova, 13 novembre 2013
tratto da informa-azione.info

Seguono gli indirizzi dei compagn* in carcere:
Marina Cugnaschi: Via Cristina Belgioioso, 120 -20157 Miilano-Bollate (MI)
Alberto Funaro: Via Pievaiola 252 - 06132 Perugia
Francesco Puglisi: Via Raffaele Majetti, 70 - 00156 Roma
Luca Finotti: Via Beccaria, 13, Loc. Spini di Gardolo - 38014 Gardolo TN


sul processo per i fatti di roma del 15 ottobre 2011
Continuano a gran ritmo le udienze per "devastazione e saccheggio" e "tentato omicidio" a carico dei 18 compagn@
indagati per i fatti del 15/10/2011. In entrambe le giornate fuori dal tribunale é presente un presidio di solidali
particolarmente imponente, colorato e rumoroso il 17 vista le tre giornate di lotta indette in solidarietà con gli
imputati. In aula in entrambe le giornate sono presente oltre a qualche solidale e imputati/e il solito massiccio
schieramento di polizia, carabinieri e digos.
Nella giornata del 14 l'udienza inizia quasi a mezzogiorno con un'ora di ritardo. Anche per questa ragione vengono
ascoltati solo due dei tre teste fissati per la giornata. L'altra ragione é la lunga deposizione del primo teste
Giannini Lamberti capo della digos di Roma all'epoca dei fatti contestati ora promosso all'ufficio centrale della
polizia di stato in veste di capo dell'ufficio prevenzione terrorismo (promozione conquistata dopo una dubbia posizione
nel controverso caso dell'espulsione della moglie del dissidente Kazako Alma Shalapayeva). La sua lunga testimonianza
esporrà la panoramica generale dei fatti, gli orari e le modalità di intervento dei suoi agenti nella giornata. La sua
testimonianza viene interrotta spesso dagli interventi degli avvocati delle parti civili che chiedono continue
precisazioni su come sono stati danneggiati i beni dei loro assistiti. Banche,
multinazionali, agenzie interinali, ministeri e munipalizzate invece di stare sul banco degli imputati per i danni
economici, civili e ambientali che quotidianamente fanno all'Italia e al Mondo in questo processo sono rappresentati da
costosi avvocati che affiancano l'accusa contro i 18 presunti ribelli di Roma.
I nostri avvocati danno battaglia a colpi di richieste di chiarimenti sulle tante contraddizioni presenti nel racconto
del teste. Purtroppo le loro domande sono spesso e in modo sgarbato interrotti dal pubblico ministero che spalleggiato
dal presidente difende il suo teste con tutte le sue contraddizioni. Dopo una breve pausa si riprende con il nuovo teste
il dott. Antonini capitano dei ros di Roma che riferisce sulle tecniche di di intercettazioni telefoniche che ha portato
alla dubbia identificazione di alcuni compagni. Per noi l'ennesima prova sul pericolo dei cellulari a un compagno é
bastato l'aggancio
dal suo apparecchio alle celle nei luoghi degli scontri e un messaggio a portarlo tra gli indagati. Dopo questa
testimonianza l'udienza è rinviata al 17.
Giorno 17, ore 9: l'udienza inizia dopo che il presidente da indicazione alla polizia penitenziaria di dividere gli
indagati ai domiciliari presenti con le solite scorte dai solidali e di non farli comunicare tra loro. Francesco il
compagno arrestato il 28 settembre, non per una vera motivazione giuridica se non quella punitiva, viene scortato in
aula da 4 agenti della polizia penitenziaria che si danno un gran da fare per tutta l'udienza per non farlo comunicare
con nessuno e impedire anche solo una stretta di mano con un solidale, parente, coimputato. L'udienza inizia con il
teste agente Armeni che dichiara di aver subito una "grave distorsione alla gamba" (5gg di prognosi?!) in seguito a
degli scontri con un gruppo di "facinorosi vestiti di nero" prima di arrivare a San Giovanni. Niente di particolare
l'ennesimo mastino del potere che cerca facili guadagni alle spalle dei compagn@. Dopo e' il turno dell'agente scelto
Fabio Tartaglione autista della camionetta data alle fiamme nella giornata di Ottobre. In una straziante deposizione in
cui evoca la sua paura di morire, "temevo di non tornare da mio figlio", "ancora adesso non riesco a dormire per il
trauma" ecc. Oltre alla recita l'accusa supportata dal presidente di giuria tenta con questa deposizione di rendere
l'irreale reale: la camionetta é stata data alle fiamme non come simbolo ma con la volontà di nuocere all'autista quindi
l'agente Tartaglione era in pericolo di vita e i compagni devono essere condannati pure per tentato omicidio. I nostri
legali danno battaglia mettendo agli atti fotografie ufficiali in cui si vede l'agente scendere e scappare dalla
camionetta senza la presenza di fumo e facendo presente che ne' nella sua relazione di servizio ne' nella sommaria
dichiarazione il teste non ha mai dichiarato di vedere del fumo nella camionetta. Pure il suo resoconto in aula non é
tanto coerente l'agente dichiara che per colpa di una botta non poteva vedere bene é quello che all'inizio é un fuoco
poi potrebbe essere un fumogeno che l'ha spaventato. Pure il terzo teste é chiamato a confermare la versione dell'accusa
L'agente Pasquali Renzo conducente della camionetta affiancata a quella di Tartaglione dichiara di avere visto "lampo
tipo di una bomba carta mentre Fabio era ancora a bordo" e rincara la dose dichiarando che pure la sua camionetta é
stata aperta con un piede di porco é lui é stato colpito da dei san pietrini. Pure nel suo caso le domande dell'accusa
fanno notare come ne la bomba carta che il piede di porco sono nominate nel suo verbale di servizio. Le incalzanti
domande dei nostri difensori fanno più volte irritare il pubblico ministero che corregge lui stesso le dichiarazioni dei
teste senza la minima opposizione da parte del presidente. Dopo il terzo teste il presidente decide di calendarizzare
altre 12 udienze nel periodo che va da Gennaio ad Aprile nonostante le obbiezioni degli avvocati che fanno notare come
in questa maniera non hanno il tempo neanche a ricevere le trascrizioni.
Ormai ogni udienza sembra confermare la volontà della corte di andar dritta per la sua strada con l'unico obbiettivo di
arrivare velocemente a una condanna. Pure le restrizioni dei compagni ai domiciliari(ancora non possono comunicare,
molti neanche uscire per l'ora d'aria al giorno) e la carcerazione di Francesco non hanno nessuna motivazione giuridica
solamente una volontà punitiva . Nonostante questo basta guardare gli occhi dei compagn@ in aula per capire che nessun
giudice ha la forza di fermare la loro determinazione. Prossimo appuntamento il 4 Novembre: stessa aula, stesso
tribunale, stessa ingiustizia!
***
lettera dal carcere di rebibbia (roma)
Ciao ragazzi, ho ricevuto oggi con immenso piacere l’opuscolo speditomi. Come avete anche scritto, mi trovo a Rebibbia
dal 12 ottobre ormai. Novità però è che dal 18 sono stato messo in isolamento. Non ne so la ragione né so per quanto
durerà ancora questo trattamento. A oggi non ho ancora ricevuto notizia del fatto che fuori abbiano appreso del mio
isolamento. Secondini e ispettori fino ad ora continuano a dire che non sanno neanche loro il perché del mio isolamento;
sanno solo che sono in attesa di disposizioni dalla direzione. Comunque non mi fido neanche di queste non-risposte. Sto
cercando di mettermi in contatto con altri compagni purtroppo detenuti anche loro qui a Rebibbia, purtroppo
dall’isolamento non è facile, specialmente non conoscendo nessuno. Ho potuto però apprendere dal vostro opuscolo almeno
un nome. Cercherò…
Vi mando un grosso abbraccio e vi bacio! NON SI MOLLA UN CAZZO, VIVA L’ANARCHIA
Francesco, cella 5, sez. B G12 Isolamento

Roma, 28 ottobre 2013
Francesco Carrieri via Majetti, 70 00156 Roma


LA CASA È UN DIRITTO, OCCUPARE È GIUSTO
Ormai in tutta Italia si susseguono le occupazioni di stabili lasciati all’abbandono nonostante la grande necessità di
case e luoghi di aggregazione fuori dalla logica del profitto. Quando l’affitto diventa una rapina, occupare diventa un
diritto. Di seguito una breve panoramica di alcune occupazioni avvenute nel mese di ottobre, riprendendo stralci dei
comunicati fatti via via fatti circolare.

Roma
12 ottobre. È stata occupata una palazzina abbandonata in via Giusti 13, a Roma. Un’occupazione a scopo abitativo, la
sola natura politica era in realtà nella scelta di classe di dare una casa ai tanti senzatetto del quartiere Esquilino,
ma non si proponeva dichiaratamente altre intenzioni. Una occupazione nata nel contesto del movimento del 19 ottobre per
la casa. Ma a Piazza Vittorio i proletari che non sono "musi bianchi" devono dormire per strada, perché è il quartiere
di Casapound. Che i cagasotto del terzo millennio non avessero gradito si era capito subito, dalle minacce e
provocazioni quotidiane.
1 novembre. I fascisti hanno alzato il tiro, occupando un edificio a pochi metri di distanza. Un modo per costringere
la polizia ad intervenire per problemi di ordine pubblico. Alla faccia dell'Onore e della Gloria di cui queste merde
fanno vanto, una vera e propria supplica alla polizia per liberare il quartiere loro, loro perché Alemanno glie lo ha
regalato. Che la loro fosse una occupazione kamikaze si è visto il 4 novembre: quando sono arrivati gli sbirri se ne
sono andati via pacifici a braccetto con le guardie.
4 novembre. La polizia non ha nemmeno annunciato lo sfratto: ha svegliato tutti con i colpi di accetta alla porta e con
i lacrimogeni alle finestre. Entrata ha sfasciato tutto. Ha persino ammazzato un cane a calci. La "proprietaria" del
cane era una ragazzina figlia di migranti che viveva anche lei con la sua famiglia nell'occupazione. Anche lei è stata
portata in questura, disperata come possiamo solo immaginare, non è stata trattata da minorenne ma come tutti gli altri.
Il bilancio duro è di 19 compagni fermati per tutta la giornata e denunciati per resistenza, lancio di oggetti,
occupazione e lesioni. Due di questi arrestati. Sono stati liberati il giorno dopo e rinviati a processo per
direttissima
16 novembre. Alle ore 11.30, il gruppo “Sherkhan cerca casa” ha occupato uno stabile abbandonato da anni, appartenente
al demanio pubblico laziale, in via Salaria. Dal momento in cui il primo vigilantes privato ha notificato l’occupazione
vi è stato, immediatamente, un ingente dispiego delle forze del disordine; nell’arco di venti minuti 3 camionette
blindate sono state inviate sul posto per dare manforte alle 4 volanti della polizia lì, già presenti La sbirraglia,
incurante della presenza di circa una sessantina di persone, compresi bambini/e, ha manifestato il chiaro interesse ad
intervenire subito e duramente rendendo impraticabile qualunque soluzione diversa dall’andarsene spontaneamente.
Un’altra occupazione a Centocelle è stata, lo stesso giorno, sgomberata.
Palese è l’intento politico, sia del governo che dell’amministrazione romana, di non tollerare più tutti quei movimenti
che non riconfluiscano nella già stabilita dinamica concertativa. È necessaria una risposta contro la repressione che in
questi anni ha colpito tanto le occupazioni abitative quanto chiunque si ribelli all’attuale sistema economico
capitalista.

Gruppo “Sherkhan cerca casa” (*)

(*) Sher Khan era un rifugiato pakistano protagonista di numerose lotte che le prime associazioni di migranti a Roma
avevano portato avanti negli anni ‘90 sul lavoro, sul diritto alla casa e sull’asilo politico. Morì di freddo su una
panchina in pieno centro a Roma, nell’indifferenza, nel dicembre 2009.

Bologna
25 ottobre. È stato occupato un stabile in via saliceto 47. L’abbiamo occupato perché siamo senza una casa e con
centinaia di edifici e appartamenti vuoti a Bologna non vogliamo più continuare a dover dare le nostre magre entrate
(ottenute barcamenandoci tra lavori in nero e contratti di una settimana a paghe da fame) a proprietari strozzini a cui
i nostri soldi servono per pagarsi il suv, pellicce e settimane bianche mentre per noi ci sono solo camere ammuffite.
L’abbiamo occupato perché in questo quartiere vediamo la “riqualificazione” e la speculazione dei soliti potenti che
avanza, che vogliono rendere una zona popolare il nuovo centro amministrativo della città, cacciando poco a poco i suoi
abitanti, con retate, sfratti, aumento dei prezzi di beni di ogni tipo, in nome di una sicurezza che è solo quella del
portafogli dei ricchi, mentre riteniamo fondamentale opporci alle decisioni prese sulla base di interessi economici
sulle nostre vite, su come e dove dovremmo incontrarci, su come dovremmo gestire le nostre amicizie, i nostri sogni, le
nostre vite. Abbiamo occupato per poter vivere in un posto fuori dalle logiche e dalle gerarchie della competizione, del
lucro, per dare vita ad un luogo di incontro libero, per poterci conoscere ed organizzare contro i meccanismi soffocanti
della metropoli che ci vuole muti al posto che hanno riservato per noi.
31 ottobre. Alle 8 del mattino, gli sbirri si sono presentati in massa allo stabile che avevamo occupato da una
settimana in via Saliceto 47 per procedere allo sgombero. Ne è nata una resistenza durata dieci ore che ha tenuto
impegnata la polizia sia all’interno dello stabile che per le strade del quartiere: compagni sul tetto, compagni
barricati all’interno della palazzina e una vivace presenza solidale in strada che ha effettuato più volte blocchi
stradali e azioni di disturbo. In serata si contano 14 denunciati per occupazione e 7 procedimenti per foglio di via
inflitti a tutti gli occupanti non residenti a Bologna, ma nessun fermo.
Occupare è stato bello, resistere allo sgombero ancora di più. In strada abbiamo ritrovato la gioia e il piacere che in
decine di persone abbiamo provato attraversando il posto nelle sue sei intense giornate di vita. Dalla palazzina abbiamo
visto un centinaio di poliziotti che non sapevano che cazzo fare, bloccati per ore da una barricata che proprio non
voleva venire giù. Sul tetto abbiamo trovato la consapevolezza che è possibile resistere senza compromessi. Dalla
mattina abbiamo detto che ce ne saremmo andati solo sulle nostre gambe e con la nostra roba e così abbiamo fatto,
incuranti di minacce e vuote promesse per farci scendere.
Alla fine il posto è stato sgomberato, ma la giornata del 31 è stata per noi molto importante. A Bologna occupare non è
una pratica consolidata, men che meno per chi non ha termini di mediazione con le autorità o santi in paradiso.
Più che la crisi, è la volontà politica di riqualificare e plastificare i quartieri per inserirvi le classi più danarose
e meno pericolose ad accrescere prezzi e affitti, buttando sempre più sfrattati in mezzo alla strada. Risolvere la
necessità di una casa non può prescindere da una lotta contro la pianificazione urbanistica calata dall’alto,
soprattutto in Bolognina, ed è proprio in quest’ottica che abbiamo occupato un posto appartenente ad una ditta di
recupero immobili, tentando di inceppare il meccanismo della speculazione edilizia.
Che quanti hanno bisogno della casa se la prendano, che quanti vogliono opporsi alla riqualificazione del quartiere si
organizzino. Di posti vuoti, di metodi di lotta ce ne sono per tutti.
9 novembre. Nella mattinata è stata annunciata l’occupazione di uno stabile in via Spada 54. Nel primo pomeriggio, il
proprietario e un paio di volanti si presentano davanti alla palazzina di quattro piani, per reclamare la decina di
appartamenti vuoti e abbandonati. Verso le 19 iniziano le operazioni di sgombero che impiegano una sessantina di sbirri
antisommossa; subito un paio di compagni riesce a salire sul tetto. Le barricate reggono per un paio d’ore, ma alla fine
cedono e chi si trovava all’interno dello stabile viene portato in questura e denunciato per occupazione e
danneggiamento in concorso; a tre occupanti viene notificato il foglio di via da Bologna. Nel frattempo due compagni
resistono sul tetto, i pompieri non si accollano il rischio di tirarli giù, mentre in strada si raduna un gruppo di
solidali per presidiare la situazione nel corso della nottata.
Nella tarda serata di domenica i due compagni ancora sul tetto sono scesi e tratti in questura, dove oltre alle denunce
del caso hanno ricevuto il foglio di via.

Como
26 ottobre. Abbiamo inaugurato l’occupazione di uno stabile abbandonato e in disuso ormai da 30 anni, situato in via
Napoleona 82. Il nostro progetto mira alla creazione di uno spazio dove far interagire le persone al di fuori della
logica DIVERTIMENTO=DENARO. Uno spazio che risponda concretamente sia all’esigenza abitativa che di aggregazione, uno
spazio dove conoscenza e saperi vengano condivisi in un’ottica di autogestione. Il bisogno di liberare spazi e
restituirli alla città nasce dalla volontà di dare una risposta alla mancanza di luoghi in cui vi siano forme di
socializzazione al di fuori delle logiche consumistiche che avvelenano la quotidianità. La partecipazione numerosa alle
iniziative ci ha confermato che il bisogno di spazi è realmente esistente nella nostra città. Nei primi giorni di
occupazione il supporto di molti, vicini compresi, ha permesso il recupero di un luogo morto, permettendoci di
beneficiare del lavoro di squadra autogestito e di dimostrare concretamente la determinazione delle nostre idee.
29 ottobre. Nella mattina verso le 5:20 la nostra sentinella vede arrivare davanti al cancello una camionetta della
polizia. Lo stabile in questione è situato sulla “tangenziale” di Como, una strada a traffico intenso anche durante la
notte. L’unico accesso dà sulla strada, e l’unico modo che avevano per tirarci fuori era bloccare completamente il
traffico della via Napoleona. Non appena la sentinella ha visto la camionetta si è voltato per correre nel cortile ad
avvisarci, ma tra il voltarsi e il trovarseli nel giardino è stato un tutt’uno. Un compagno si è messo a correre per
imboccare le scale, ma è stato placcato contro il muro. Noi al piano di sopra ci siamo ritrovati una quantità
spropositata di forze dell’ordine nelle camere da letto che, alcuni brandendo manganelli, intimavano di scendere e
raggiungere gli altri. Erano coinvolti tutti: 1 camionetta polizia, 1 camionetta carabinieri, almeno 6 macchine polizia
e un paio carabinieri, 5/6 macchine digos e altre 6 macchine dei vigili per bloccare il traffico, nonché l’autopompa dei
pompieri che però vista sfumare la possibilità tetto si è allontanata subito. Una volta radunati abbiamo contrattato
almeno per riprenderci le nostre cose, e abbiamo portato avanti il blocco stradale per due ore buone, portando fuori con
molta calma gli effetti personali.
Detto questo ci hanno sbattuti fuori del tutto verso le 7:30 e alcuni di noi sono stati seguiti a vista per diversi
giorni dopo lo sgombero.

Milano
12 ottobre. “Associazione di malfattori” - così si intitolava l’articolo del codice penale con cui l’Italia umbertina,
alla fine dell’Ottocento, tentava di cancellare ogni attività sovversiva. Ancora oggi - a 150 di distanza - i
“malfattori” rendono vivo un luoghi annichiliti dalla crisi e dalla speculazione per costruire un futuro migliore e
rendere il presente degno di essere vissuto. È per questo che sabato 12 ottobre siamo entrati all’interno dello stabile
di Ripa di Porta Ticinese 83, applicando uno dei metodi che stanno alla base del nostro operare: l’azione diretta. Fino
al giugno del 2013 ci siamo riuniti presso il Circolo dei Malfattori, in via Torricelli 19, e andandocene ci siamo
voluti portare dietro il nome; per cui abbiamo “battezzato” la nuova occupazione: Circolo anarchico - Ripa dei
Malfattori. Circolo anarchico perché d’ora in poi la vita interna dello spazio sarà regolata da principi antiautoritari
sintetizzabili nella vecchia formula, ma a noi ancora cara: “né servi, né padroni”. Siamo aperti a chiunque, tramite
l’autogestione, abbia voglia di sperimentare uno spazio politico basato sul consenso e la democrazia diretta. L’unica
differenza rispetto al passato è che potremo permetterci di stiracchiare di più gli orari e i decibel, visto che non
abbiamo vicini a portata d’orecchio.
Qualche parola va spesa per lo spazio che ci siamo scelti. Lo stabile di Ripa di Porta Ticinese 83 è un edificio
popolare della prima metà del Novecento affacciato sul Naviglio Grande, di proprietà del comune di Milano. Gli inquilini
originari sono stati allontanati nel 2009 per decisione comunale, e gli occupanti che gli erano subentrati sono stati
sgomberati nel giugno 2010 su mandato di un detestabile vicesindaco-sceriffo che si distingueva per le tendenze fasciste
e l’ascella pezzata. Da allora la casa è stata lasciata a marcire, divenendo un precario rifugio per senza casa e
tossicodipendenti, e ghiotta occasione di imbosco per gli spacciatori. L’edificio è sottoposto a vincolo storico-
artistico (in pratica il comune non può abbattere e ricostruire, come senz’altro preferirebbe fare), e quindi le
istituzioni hanno tentato di trovargli una destinazione nell’avvilente farsa di Expo 2015; nel caso specifico, sarebbe
dovuto diventare un albergo low-cost per il turismo giovanile. Nell’attesa di trovare investitori, per contrastare
eventuali nuove occupazioni l’amministrazione comunale si è impegnata a distruggere le scale interne, tagliare i
servizi, murare le finestre, saldare le porte; oltre a questo, bisogna aggiunge la quantità di schifo accumulato in un
triennio di abbandono e il deterioramento delle strutture. Dal canto nostro, ritenendo inutile spreco l’abbandono dello
stabile, aborrendo qualunque scelta speculativa e senza aver alcuna fiducia in chi governa la città, abbiamo cominciato
i lavori.
Chi governa ama riempirsi la bocca di parole come degrado e sicurezza. E in questo caso, come in molti altri, proprio i
corifei della legge e dell’ordine si sono dimostrati la causa prima del degrado e della mancanza di sicurezza. Dallo
sgombero del giugno 2010, nello stabile e nel parco adiacente si sono avuti due stupri, mentre una persona
tossicodipendente è morta in un incendio. Non possiamo avere la certezza che certe brutture non si verificheranno più
grazie alla nostra presenza, ma non c’è dubbio che saremo un forte disincentivo.

stralci dei comunicati apparsi su informa-azione.info e anarchaos.org


DALLE UDIENZE DEL PROCESSO CONTRO I NO-TAV
Udienza del 26 ottobre 2013, aula-bunker carcere Le Vallette (Torino)
Questa è la prima udienza dopo la pausa estiva, poiché l’udienza fissata l’11 ottobre è saltata dato che per diversi
compagne/i sotto accusa in questo processo oggi inizia un altro processo (“Fuoriluogo” a Bologna); per “legittimo
impedimento” gli avvocati impegnati nei due processi hanno chiesto e ottenuta la sospensione dell’udienza del processone
a Torino.
In aula è venuto anche Lollo in carcere a S. Vittore dal 3 settembre accusato di aver preso parte a una rissa scoppiata
all’università statale di Milano la notte di carnevale (ora agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni). Subito
lo hanno rinchiuso nelle gabbie, lontano e fuori vista. Solo dopo una protesta dei suoi “coimputati” che hanno respinto
questo ennesimo tentativo di essere divisi, strumentalizzati in operazioni mediatiche incessantemente ordite da procure,
apparati polizieschi contro il movimento No Tav e non soltanto, Lollo è stato tirato fuori dalla gabbia. Ha potuto di
sedersi accanto all’avvocato dove è divenuto visibile al “pubblico”, dove i “coimputati” sono riusciti ad abbracciarlo,
a scambiare direttamente opinioni, racconti. In questo senso è stata una bella mattinata.
L’udienza è andata avanti oltre cinque ore in cui sono stati ascoltati-interrogati dagli avvocati della difesa i
principali “testi dell’accusa”, i dirigenti della digos di Torino, cioè i diretti responsabili delle operazioni di
polizia condotte a Chiomonte nelle giornate di lotta del 27 giugno e 3 luglio 2011. Loro hanno tentato di nascondere con
linguaggio formale, molto generico, offensivo (in tutti i sensi) il proprio agire, in ciò consapevolmente aiutati dalla
corte che ha respinto ogni richiesta di chiarificazioni avanzata dagli avvocati: soprattutto se dirette a conoscere
dove, decisi e compiuti da chi sono avvenuti i pestaggi riservati a diversi manifestanti arrestati nel corso di quegli
scontri. La prossima udienza è fissata per l’8 novembre.

Udienza dell’8 ottobre 2013, aula-bunker carcere Le Vallette (Torino)
È stata un’udienza eguale a quelle ultime: di ascolto di altri “testi” poliziotti, carabinieri, per ora i dirigenti, poi
seguiranno oltre cento testi di sbirri feriti ecc. Oggi sono stati ascoltati altri dirigenti della digos di Torino e un
ufficiale dei carabinieri comandante a Susa-Bussoleno.
Vengono ascoltati dai pm, dalla parte “civile” poi dalla difesa. Il tema sono sempre le giornate del 27 giugno e del 3
luglio 2011: cioè lo sgombero ordinato dalla prefettura di Torino della “Libera Repubblica della Maddalena” nata il 24
maggio protetta da sei barricate - costruite con balle di fieno, casse di pneumatici da incendiare, chiodi a tre punte,
cancelli di ferro… e, soprattutto da tante compagne/i che le hanno innalzate - dall’area dove doveva essere fissato,
come poi avviene, il “cantiere diagnostico”; l’impedimento ai cortei della manifestazione generale di riprendere
quell’area, quella del museo archeologico di Chiomonte. L’ “ordinanza prefettizia” appunto ordinava lo sgombero per fare
di quell’area una “zona rossa”, un territorio cioè completamente sottoposto ai voleri dello stato, così voluto “per
impedire si ripetesse quanto accaduto a Venaus, dove per nostra impreparazione abbiamo dovuto cedere ai manifestanti”,
così uno sbirro, riferendosi alla cacciata da loro subita nel dicembre 2005. Lo stato memorizza e reagisce di
conseguenza.
Dell’attendamento messo in piedi da chi ha voluto opporre resistenza a questo atto di forza, divelto e lerciato dagli
sbirri fino a cagare nelle tende e a far scritte fasciste/sessiste, non è stato ammesso dal tribunale alcun chiarimento.
Agli sbirri è stato chiesto, dai pm che li considerano “vittime dei facinorosi” (quando va bene), con assoluta
accondiscendenza e armonia, nelle premesse e nelle conclusioni del loro agire: come hanno svolto il loro comando, perché
hanno agito con lancio di gas e con quali “parabole” (o “tiro curvo” che comunque deve risultare “efficace” cioè colpire
anche teste, occhi...)… loro ripetono che sono state rispettate le “regole d’ingaggio” conosciute specificatamente dai
lanciatori… sulla base di quali “ordinanze”… le “ragioni” dello sgombero, che ostacoli/resistenze hanno incontrato… se
hanno visto o ricordano qualcuno/a che fra i manifestanti (che loro chiamano “facinorosi” e anche peggio) lanciava sassi
o che altro contro le truppe armate concentrate… gli elicotteri sarebbero stati impiegati “per contare i manifestanti”
non per disporre le truppe sul campo di battaglia…
Quando viceversa le domande della difesa si precisano per snidare cause, “motivi”, modi dei ripetuti lanci di gas ad
“alzo zero”, prima intervengono i pm con “l’opposizione” alla quale il tribunale regolarmente si allinea con un “non
ammessa, respinta” la domanda avanzata. Diversi avvocati hanno puntato il dito contro questa comunella; un avvocato,
vista respinta una sua domanda ha interrotto il suo intervento, dichiarando di ritenere completamente inutile proseguire
l’ascolto dei testi.
Un teatrino sì, ma profondamente idiota, canagliesco e offensivo: per esempio alle domande sugli arresti, sulle botte a
arrestati/e-fermate/i in quelle giornate non viene risposto, c’è sempre aperta elusione assecondata dal tribunale.
Agli sbirri sono concesse espressioni tipo: “Askatasuna motore e forza del movimento No Tav”, “dovevamo contrastare
gruppi anarchici facinorosi”… come a giustificazione dei pestaggi eseguiti su le compagne/i arrestate/i nel corso della
battaglia.
La lotta contro il processone, contro la criminalizzazione del movimento No Tav non c’è dubbio si complica e va
affrontata per quello che è, cioè una strategia che riguarda tutti i procedimenti penali, “amministrativi” (fogli di
via, divieti e obblighi di dimora…), che colpiscono ormai migliaia di compagne/i. Insomma va ben oltre il processone. Ne
abbiamo parlato anche in questa giornata fra “imputat*” nel processone e di altri processi aperti contro il movimento No
Tav. Ci siamo lasciati, dandoci appuntamento per proseguire la discussione alla manifestazione a Susa di sabato 16
novembre. Prossima udienza martedì 19 novembre ore 9.
Milano, novembre 2013


LA DEVASTAZIONE DELL'AMBIENTE NON E' REATO, CONTESTARLO SI
In Spagna assolti i responsabili del disastro della Prestige, intanto gli attivisti di Greenpeace rimangono in carcere
in Russia.
Il 13 novembre 2002 la petroliera Prestige (fabbricata 26 anni prima in Giappone, battente bandiera delle Bahamas, di
proprietà liberiana e armatore greco, con certificato di navigazione statunitense (Abs), affittata da una società
svizzera e assicurata da una compagnia britannica) che trasportava 77 mila tonnellate di greggio da San Pietroburgo a
Gibilterra, durante un forte temporale di fronte alla Costa da Morte, si aprì un’enorme falla dalla quale cominciò a
tracimare petrolio in mare.
Il governo spagnolo ordinò che la nave venisse rimorchiata in alto mare. Dopo sei giorni in balia delle onde, prima in
direzione nord e poi rimorchiata verso sud, il Prestige si spezzò in due a 250 km dalla costa galiziana, inabissandosi a
3.600 metri di profondità. L'enorme macchia di petrolio si riversò sulle coste vergini della Galizia. Le immagini di
delfini spiaggiati, uccelli invischiati nel veleno nero e interi banchi di pesci morti, assieme alle migliaia di
volontari che lottavano con le mani contro il “chapapote” (la mistura di sabbia e petrolio) fecero il giro del mondo.
Migliaia di volontari ambientalisti, provenienti non solo dall'europa, accorsero per cercare di salvare il salvabile.
Oltre duemila spiagge su 1.700 km di costa, dal Portogallo al sud della Francia, inondate dalla marea nera di 77mila
tonnellate di greggio riversate in mare, 17.000 uccelli morti, intere coltivazioni di mitili distrutte, oltre 4 miliardi
di euro di danni economici ed ambientali accertati. Un danno ambientale incalcolabile, irreversibile, dovuto alla solita
mania di profitto che porta vere e proprie carrette a trasportare il loro carico di morte negli oceani. Ma nessun
colpevole, nè penale nè civile.
Dopo 11 anni ed un processo durato 9 mesi, il Tribunale di La Coruna (Galizia) ha assolto dall'accusa di reato contro
l'ambiente il capitano della petroliera, il greco Apostolos Mangouras, 78 anni, condannato a nove mesi per il solo reato
di disobbedienza, "per essersi rifiutato in un primo tempo di far rimorchiare la nave" al largo (ma non li sconterà per
raggiunti limiti di età). Assolti anche il capo macchine Argyropoulos Nikolaos e l'allora direttore generale della
Marina Mercantile, José Luis Lopez-Sors. Per i tre maggiori imputati la Procura aveva chiesto pene tra i cinque e i 12
anni di reclusione per "crimini contro l'ambiente, danni alle aree naturali protette e danni causati dal naufragio"
della petroliera.
Ritenuto non responsabile anche l'allora governo spagnolo, i giudici hanno ritenuto che la decisione presa dalle
autorità "in una situazione di urgenza" di allontanare la petroliera dalle coste "fu giustificata".
Distruggere il mare non è quindi reato... lo è invece difendere l'ambiente (almeno quando ciò si scontra con la sete di
profitto delle solite multinazionali), come dimostrano le attività repressive contro gli attivisti ecologisti in tutto
il mondo.
Dal 19 settembre 30 attivisti, equipaggio dell'Artic Sunrise di Greenpeace (fra cui l'italiano Cristian D'Alessandro),
sono in carcere in Russia per un'azione pacifica contro la compagnia petrolifera Gazprom. Il giorno prima avevano
tentato di scalare la piattaforma per appendere uno striscione, venendo però fermati dalla guardia costiera russa. Il
giorno dopo la guardia costiera russa abborda illegalmente la nave Arctic Sunrise in acque internazionali, arrestando i
componenti dell'equipaggio.
In un primo momento, fino a che la pressione internazionale (sopratutto delle persone più che dei loro governi non si è
fatta sentire, l'accusa è stata di pirateria reato ascrivibile a chi aggredisce con violenza una nave e che prevede fino
a 15 anni di pena. Da poco l'ipotesi di accusa si è trasformata in teppismo, reato che prevede fino a 7 anni di pena.
Ma gli Arctic30 (Free Artic30 è lo slogan di richiesta di liberazione degli attivisti) erano lì per testimoniare la
distruzione di un delicato ecosistema: le compagnie petrolifere approfittano dello scioglimento dei ghiacci dell'Artico
per perforare alla ricerca di petrolio. L'Artico è un posto meraviglioso, habitat di specie uniche come orsi polari
evolpi artiche. Le trivellazioni minacciano la loro casa e il clima dell'intero Pianeta, minacciano la vita ed il futuro
di tutti e tutte noi.

liberamente tratto dai quotidiani nazionali e da greenpeace.org
PROCESSO CONTRO GLI OPERAI DI BASIANO (mi)
È passato ormai un anno e mezzo da quel 11 giugno 2012, quando la santa alleanza filo-padronale concentrava la sua
mattanza sociale in un'azione politico-militare finalizzata a stroncare la resistenza di un'ottantina di operai delle
cooperative Bergamasca e Alma, che cercavano di difendere posto di lavoro e minimi salariali davanti ai cancelli del
"Gigante" a Basiano, nella cintura nord-est di Milano
60 licenziamenti, 20 feriti e altrettanti arrestati fu il responso del bollettino della guerra scatenata dal fronte
padronale
Si trattò indubbiamente di una sconfitta del neonato movimento dei facchini che da allora, per 17 mesi, non ha più
smesso di espandersi, di proseguire sulla strada offensiva degli scioperi e dell'autorganizzazione dal basso,
dimostrando a scettici e manichei che, certe sconfitte, sono fondamentali affinché il movimento operaio riesca a
costruire la sua forza reale.
Lontana da ogni tipo di riflettore si è chiusa, questa mattina, la fase degli interrogatori nel processo a Mohamed
Hesham (per chi avesse dimenticato, o non avesse mai saputo prima qui il video trasmesso dai TG nazionali, in cui si
vede chiaramente come Mohammed sia effettivamente colpevole di aver danneggiato a testate una proprietà pubblica come
sono i manganelli dei carabinieri).
Poco ci interessa adesso ripercorrere le tappe sindacali (forzatissime) che produssero i tentativi di resistenza di
Basiano.
Molto di più invece ci pare opportuno, attrezzarci per trasformare, anche le aule della giustizia borghese, in terreni
di battaglia politica contro un sistema intero di sfruttamento che, giunto forse ad uno dei suoi apici storici di crisi
economica, pare incapace di trovare risposte politiche adeguate e che, anche nel ricorso alla repressione, non sembra
mostrare quella decisione e capacità di intervento che appartiene al suo passato più o meno recente.
E così, come è stato per le lotte contro i Cie, come avvenuto nelle ultime udienze del processo Origgio, e come si è
ripetuto stamattina a Milano, le istanze delle lotte cominciano a entrare nelle aule del tribunale e, in qualche modo,
mettere in discussione il tecnicismo burocratico statale che finisce (praticamente sempre) per dare ragione all'operato
delle forze dell'ordine e degli apparati repressivi, ligi difensori dell'ordine costituto, garanti armati della
sicurezza e dell'ordine così voluto dai padroni e da tutti i loro accoliti piccolo-borghesi (che purtroppo permeano
ancora anche le fila operaie e proletarie).
Si arriverà così, il 6 dicembre, alle 13 alla discussione finale (le arringhe del PM e degli avvocati del SI.Cobas) da
cui prenderà poi corpo la sentenza finale.
Coscienti che senza memoria non c'è futuro e che, come già in altre occasioni, l'arma della solidarietà ha potuto
svolgere il suo ruolo attivo, si ritiene più che opportuna una presenza "di massa" a cercare di segnare il necessario
"isolamento" del fronte padronale di fronte alle lotte proletarie che si sviluppano.
A differenza di altre volte le premesse, anche giuridiche, sembrano buone.
Il video della mattanza ha evidentemente inciso, così come le nefandezze che portarono al licenziamento di massa del
giugno 2012. Con un pizzico di enfasi ci permettiamo di dire: cerchiamo di dare una spallata vincente e di portare a
casa un'assoluzione piena nel primo dei 19 processi che si dovranno affrontare sulla vicenda Basiano. Appuntamento
all'aula 11 del tribunale di Milano.

9 novembre 2013
S.I. Cobas

***
Nuovo intervento repressivo contro le lotte della logistica
Come da tempo sosteniamo, è dal primo sciopero ad Origgio (VA), che gli apparati repressivi dello Stato sono davanti ai
cancelli dei magazzini della logistica a tutelare gli interessi delle aziende ed a reprimere gli scioperanti quando
questi osano mettere in discussione la condizione lavorativa, la mancata applicazione dei contratti, le buste paga
false, il sistema ricattatorio e violento con il quale le cooperative "rosse", "bianche", e "gialle", sfruttano i
lavoratori, che nella stragrande maggioranza sono immigrati.
Per i fatti di Origgio è stato aperto, quattro anni dopo, un processo farsa dove poliziotti e Digos, i primi testi
sentiti, non si ricordano altro che di aver redatto i verbali dai loro uffici della caserma.
Per l'Ikea di Piacenza (dove dopo tre mesi di lotta i lavoratori hanno fatto rientrare i compagni licenziati), il
Prefetto ha emanato un foglio di via per il coordinatore nazionale del S.I.Cobas e per due giovani militanti che avevano
sostenuto il picchetto davanti all'azienda.
Decine di denunce hanno anche colpito sindacalisti, operai e solidali, per gli scioperi che si sono propagati a macchia
d'olio in tutto il paese.
In questi giorni 179 denunce sono state emesse e rese note a carico degli scioperanti e solidali per la lotta della
Granarolo di Bologna.
Oggi, la condanna agli arresti domiciliari del giovane compagno del laboratorio Crash di Bologna accusato di aver
sostenuto un presidio davanti ad un negozio Ikea di Bologna durante la campagna di boicottaggio di quell'azienda
organizzata in solidarietà alla lotta in corso a Piacenza.
Un'enorme sfilza di atti repressivi che non fermeranno la lotta dei facchini, in particolar modo alla Granarolo di
Bologna (gestita dal presidente della Lega Coop) che ha visto in prima fila il nostro sindacato, i lavoratori da noi
organizzati, i compagni del Crash, con tanti altri militanti e solidali.
I domiciliari, come ogni altro intervento repressivo, non fermeranno le lotte; altri prenderanno il posto del compagno
arrestato, per continuare la battaglia contro lo sfruttamento nei magazzini della logistica e per allargare il fronte
delle lotte che si sta sviluppando nel paese.
Altri compagni, porteranno avanti la bandiera della lotta degli oppressi e lo faranno grazie anche alla determinazione
ed il sacrificio mostrato da Vincenzo.
Il potere non potrà fermare l'anelito di libertà che ha spinto nella lotta centinaia di giovani immigrati che lavorano
nei magazzini della logistica, i giovani precari, gli studenti, i militanti politici accorsi a sostenerli.
Un caloroso saluto ed un ringraziamento a Vincenzo, a nome di tutti i compagni del Sindacato Intercategoriale Cobas.
Avanti sempre fino alla vittoria.

5 novembre 2013
da infoaut.org


Lotta operaia in Bangkladesh
In Bangladesh la lotta per migliori condizioni di lavoro e per un aumento dei salari è entrata in una nuova dimensione.
Dopo un incontro di due settimane (inizio settembre 2013) a Ginevra con diverse aziende tessili internazionali,
terminato senza conclusioni palpabili, operai/e dell’industria tessile in Bangladesh sono entrati/e in sciopero.
Dal 21 settembre le azioni di protesta si sono estese dalle fabbriche situate attorno alla capitale Dacca a tutto il
paese. Dopo pochi giorni il governo ha risposto alla lotta operaia inviando la polizia. Ci sono stati scontri. Per oltre
tre giorni migliaia di operai/e sono scese nelle strade, le hanno occupate, messo a ferro e fuoco alcune fabbriche,
delle quali almeno cento ora sono chiuse. Il giornale locale Dayli Star ha scritto che le persone ferite fra i
manifestanti sono almeno 150, le auto, i mezzi pubblici incendiati sono circa 120.
Alla base dello scontro c’è la rivendicazione di un aumento generalizzato dei salari fermi dal 2010 a 3mila taka mensili
(circa 30 euro). Le proprietà aziendali offrono un aumento del 20% cioé 600 taka; i sindacati per contro chiedono 8mila
taka, cioè un aumento del 170%, ciò sulla base, documentata, dei costi dell’affitto, dell’approvvigionamento alimentare,
dell’assistenza medica e di altre spese. Entro dicembre lo stato si è impegnato a presentare un nuovo regolamento
sull’intera materia assieme a un comitato di crisi composto da aziende, sindacati e rappresentanti politici.
Delle 4mila aziende tessili attive nel paese solo la metà sono di piccole e medie dimensioni; queste ultime se si
realizzassero le rivendicazioni operaie non riuscirebbero a tenere testa ai costi, a rimanere competitive.
Secondo una ricerca combinata BBC-Dayli Star è emerso che i turni di lavoro in numerose aziende sono di 17 ore al
giorno. Operai/e lavorano chiusi/e in altri aperti, ciò reso evidente a tutto il mondo dal crollo nell’aprile scorso di
un edificio di nove piani, il “Rana Place”, situato nella periferia di Dacca, dove morirono 1.100 operai/e; nel novembre
2012 in un’altra fabbrica crollata, della stessa azienda, sono morte 112 persone. In quella fabbrica venivano prodotti
merci tessili acquistate e vendute dalla Lidl.
Le aziende tessili bengalesi rifiutano di pagare i danni anche mortali causati a operai/e, stimati dal sindacato
industria mondiale in 58 mln di euro. Delle 29 aziende invitate in settembre all’incontro di Ginevra con i sindacati si
sono presentate nemmeno la metà. Vista la latitanza delle aziende e il silenzio dello stato a metà novembre è ripartita
la lotta.
Dopo scontri fra operai/e tessili in sciopero e polizia, nei giorni precedenti, mercoledì 13 novembre 2013 circa 250
fabbriche nei pressi della capitale Dacca sono rimaste chiuse. La polizia ha sparato contro lavoratrici e lavoratori
proiettili di gomma e gas lacrimogeni; le persone ferite sono almeno un centinaio. Le, gli operai/e non rinunciano a
nessuna richiesta.
autunno 2013, liberamente tratto da jungewelt.de


Sul DDL per il nuovo Sistema Socio Sanitario Lombardo
Il Testo Unico del Disegno di Legge Regionale impartisce disposizioni per il nuovo Sistema Socio Sanitario Lombardo,
sulla dignità della persona e la centralità della famiglia. Già nelle disposizioni generali del DDL presentato dalla
Giunta Maroni viene rimarcato il ruolo che la famiglia deve assumere, con funzioni neo-confessionali (e regressive) nel
nuovo Sistema socio sanitario lombardo (rispetto ad una concezione più aperta ed evoluta della società), in omaggio ad
una impostazione ciellina e clericale dell’azione politica regionale.
Fin dal primo articolo (ma anche in articoli successivi) viene proclamata e programmata la costituzione della
Macroregione del Nord, in attuazione della politica federalista (e secessionista) della Lega.
Il disegno di legge, oltre a far nominare dall'alto (presidente della regione), secondo una investitura di tipo feudale,
i rappresentanti “graditi” delle Associazioni di categoria, di singoli esperti o di rappresentanze specifiche, non fa
neppure cenno alle organizzazioni sindacali degli operatori e degli utenti della sanità.
In nome della sinergia, le strutture pubbliche delle ASL e delle AO sono obbligate ad integrarsi non già come in passato
con la sola sanità privata, ma anche con le attività economiche mercantili e speculative del privato commerciale
(negozi, boutiques, ristoranti, supermercati, centri commerciali, ecc.) sia locali, che transfrontaliere (svizzere o
altro), che internazionali.
Vengono ulteriormente sponsorizzati i rapporti economici, commerciali e d'affari che le ASL della Lombardia devono
intrattenere con le realtà produttive e di servizi esistenti nelle varie dimensioni locali, nazionali e internazionali.
Tre sono i livelli assistenziali del modello organizzativo: l'Ospedale Specialistico, l'Ospedale Territoriale e il
Country Hospital. Le ultime due strutture coordineranno i Presìdi Ambulatoriali Periferici, utilizzando strutture
sanitarie, sociosanitarie e sociali pubbliche o private convenzionate.
Il disegno di legge ripropone e rilancia il principio dell'utilizzo congiunto e della commistione delle strutture
pubbliche e private convenzionate, esaltando la tesi per cui il mescolamento dei due regimi porta a un risultato
ottimale di efficienza ed efficacia nel funzionamento dei servizi e nell'erogazione delle prestazioni. In realtà,
l'esperienza ha dimostrato che la commistione di pubblico e privato porta ad un aumento dei costi delle prestazioni e
della spesa, causato dalla volontà di lucro e di speculazione dei privati, provoca la decadenza e la chiusura delle
strutture pubbliche ed il dominio del privato sul sistema di welfare socio-sanitario e sociale pubblico, destinato a
scomparire.
Nella “Rete Socio Sanitaria Territoriale” deve rientrare un'organizzazione diagnostica e terapeutica, a partire dalle
RSA, dalle Farmacie e dai Poliambulatori Specialistici e per arrivare all' Infermiere di Famiglia e alla
Telediagnostica. Le prestazioni urgenti erogate dall' Ospedale Territoriale e dal Country Hospital sarebbero esenti da
compartecipazione economica dei cittadini, diversamente da quelle dell' Ospedale Specialistico, stabilita in 25 e 50
euro rispettivamente per Codici Verdi e Codici Bianchi, da versarsi preventivamente, pena la decadenza del diritto.
Fanno eccezione le prestazioni erogate gratuitamente dall'Ospedale Specialistico ai cittadini residenti nel territorio
di competenza, assimilate a quelle dell'Ospedale Territoriale e del Country Hospital. Analoga compartecipazione del
cittadino è prevista per le prestazioni erogate a seguito di prescrizione redatta da soggetti non afferenti all'Ospedale
Territoriale o al Country Hospital.
E' evidente la discriminazione attuata per le prestazioni erogate dall'Ospedale Specialistico nei confronti dei
cittadini non residenti nel territorio di competenza, rispetto a quelli residenti. E' chiaro altresì l'inganno
dell'abolizione delle compartecipazioni dei cittadini per le prestazioni erogate dall'Ospedale Specialistico e dal
Country Hospital, qualora le prescrizioni siano fatte da soggetti non afferenti agli stessi ospedali.
I risparmi economici risultanti dalla riorganizzazione della “Rete Territoriale” rimarranno a disposizione delle ASL e
AO e una somma non inferiore al 50 % di tale cifra verrà ridistribuita tra gli Operatori sanitari e non sanitari, di
tutti i livelli, secondo una graduazione meritocratica.
La graduatoria meritocratica, anche se basata a parole su parametri oggettivi, si presta alle peggiori valutazioni
soggettive e discrezionali ed è fonte di favoritismi, clientele e ingiustizie nei confronti dei lavoratori.
Viene inoltre stabilito che le ASL, le AO e le altre Realtà Socio Sanitarie attivino Servizi di Telemedicina e di
Diagnostica Territoriale e Domiciliare, attraverso strutturazione propria ovvero esteriorizzazione del Servizio in
convenzione.
Si apre e si allarga così a macchia d’olio la pratica di un secondo livello di esternalizzazioni, trattandosi di un
ulteriore e secondo grado di appalti e sub-appalti di servizi dati in concessione ai privati rispetto a quelli già dati
in convenzione. L’informatizzazione nella sanità è un altro pretesto per esternalizzare e privatizzare i servizi.
E’ sicuro che anche il Servizio di Odontoiatria Sociale verrà attuato attraverso un Servizio in convenzione e massicce
esternalizzazioni e privatizzazioni (che procureranno affari e profitti ai privati), mentre assai limitata sarà la
strutturazione di quel Servizio da parte delle Aziende Ospedaliere.
Con l’istituzione e la gestione in house di un Sistema di Assicurazioni per il rischio professionale dei singoli
professionisti delle strutture pubbliche e private accreditate e NON convenzionate, la Regione intraprende un’attività
che è tipica delle Società Assicuratrici e delle Banche.
Anche se il linguaggio “sindacalese” e “politichese” è oscuro e pieno di doppi sensi, la Giunta non riesce a nascondere
una sua precisa volontà: tagliare la spesa e sopprimere i servizi dividendo e contrapponendo categorie di operatori e
singoli lavoratori gli uni agli altri.

Milano, ottobre 2013
Liberamente estratto da materiali sulla lista coordinamentosanita@googlegroups.com

***
Milano: A fine mese parte la Città della Salute
Ci sarà anche il governatore Roberto Maroni al brindisi fissato per il primo colpo di ruspa che darà il via ai lavori di
bonifica delle aree ex Falck (oggi Milanosesto), che ospiteranno la Città della Salute. Le attività di bonifica che
dureranno due anni, prenderanno il via proprio dalle aree accanto ai capannoni del laminatoio e del T3.
La Città della Salute sarà la prima delle opere da realizzare sulle aree dismesse di proprietà di Sesto Immobiliare.
La Città della Salute è un progetto faraonico dove verranno costruite le nuovi sedi dell'Istituto Nazionale dei Tumori e
dell'Istituto Neurologico Besta per un costo previsto di 450 milioni di euro e un cantiere che durerà 5 anni. Tale
progetto è significativo dell'idea formigoniana della sanità: una commistione tra eccellenza scientifica, business
edilizio e oscure connivenze politiche. La condizione di stazione appaltante è stata assegnata a Infrastrutture
Lombarde.
I 450 milioni non saranno elargiti dalla Regione, al contrario saranno messi a debito sui bilanci degli istituti che
quindi potranno fare meno investimenti, alla fine l'operazione si tradurrà in una ferita alla sanità. Al posto di un
parco verde sorgeranno quattro torri di un progetto futuristico senza nessuna attinenza alle necessità reali.

Milano, novembre 2013

olga2005@autistici.org

http://www.autprol.org/