06/11/2009: COLLABORAZIONE O MORTE. In merito alla morte di Diana Blefari


Apprendiamo oggi che ieri sera nel carcere di Roma Rebibbia è stata trovata morta Diana Blefari.
Le agenzie stampa nel darne notizia hanno trovato le ragioni del suicidio di Diana nella sentenza della Corte di Cassazione del 27 ottobre scorso con cui le era stata confermata la condanna all’ergastolo, fine pena mai.
Nemmeno una parola è stata spesa sulla recente operazione “anti-terrorismo” che all’inizio di ottobre ha portato all’arresto di Massimo Papini, l’unico compagno con cui Diana, da un po’ di tempo a questa parte, faceva i colloqui in carcere. Era l’unica persona che Diana – da anni sepolta viva in regime di 41-bis e solo da poco uscita da questo infame circuito – riusciva ad incontrare, oltre alle guardie carcerarie. Il suo arresto, ordinato dal Pm Enrico Cieri, ha di fatto tranciato a Diana la possibilità di avere rapporti affettivi.
La vacuità del teorema accusatorio – propria delle tante inchieste per reati associativi per cui con il “decreto antistupri” é negata anche la possibilità degli arresti domiciliari – doveva servire quale ulteriore elemento di pressione e di ricatto per ottenere la collaborazione di Diana.
La collaborazione con lo stato è infatti l’unico modo per vedersi attenuare le condizioni di isolamento e di tortura alle quali si è sottoposti nel regime carcerario applicato con l’art. 41-bis e nei tre circuiti speciali, definiti di Alta Sicurezza, istitutiti l’aprile scorso con circolare del DAP n.3619/6069. Una logica che viene perseguita anche in via informale nel circuito dei detenuti “comuni” dove il meccanismo del premio/punizione opera impunemente regolando sia l’accesso ai benefici e al lavoro che il passaggio a sezioni o carceri punitive, lontane dal luogo di residenza. Un sistema carcerario sempre più differenziato e individualizzato sulla base della presunta “pericolosità sociale” della persona e della sua partecipazione e collaborazione al “trattamento rieducativo”.
Attraverso il carcere lo stato pretende la più completa sottomissione altrimenti sono torture, vessazioni e botte. Alla mente di tutti noi torna l’assassinio di Marcello Lonzi avvenuto nel carcere di Livorno nel luglio del 2003, quello di Aldo Bianzino nel carcere di Perugia nell’ottobre del 2007, di Stefano Frapporti ucciso nel carcere di Rovereto nel luglio 2009 e l’ultimo, purtroppo solo in ordine cronologico, di Stefano Cucchi, ucciso nel carcere di Regina Coeli a Roma il 22 di ottobre.
Da gennaio ad oggi sono 146 i detenuti morti in carcere dei quali 61 per “suicidio” ma al di là delle statistiche, dell’elenco di tutti i morti ammazzati quotidianamente nelle carceri o di coloro che, come Diana, vengono indotti ad ammazzarsi da soli per sfuggire al ricatto dello stato, quello che ci interessa ribadire è che non esistono suicidi in carcere ma precise colpe e responsabilità.
Diana è stata uccisa dallo stato italiano perché in quasi sei anni di carcere speciale non ha mai rinnegato se stessa, la propria identità comunista e le ragioni delle sue scelte.
Diana è vittima del 41-bis perché questo infame regime torturatorio le ha tolto la voglia di vivere e di lottare. Da quasi un anno, proprio in ragione del grave disagio psicologico prodotto dalla tortura, le era stato sospeso il 41-bis ma è sempre stata sottoposta all’isolamento carcerario e alla pressione dello stato. Diana è morta combattendo lo stato che voleva annientarla nell’intimo, Diana ha scelto di morire per non dover soccombere. Ha dovuto difendere la sua dignità con la morte.
Ci auguriamo che la rabbia che oggi in molti sentiamo saprà essere un ulteriore stimolo a rafforzare la lotta contro il carcere, la tortura dell’isolamento, il 41-bis.

1 novembre 2009
OLGa – Milano

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