13/10/2009: Quattro articoli sulla palestina


I cocci della Palestina
La situazione della palestina si fa sempre più drammatica. Dal discorso di Obama non né è remasta una traccia, e quel ottimismo che accompagnò il suo discorso all'università del Cairo, vago e contraddittorio, è svanito con la prima folata di vento. Il vento è la resistenza israeliana ad accettare compromessi politici che allontanano lo Stato sionista dai propri progetti e disegni. Il messaggio è il solito: o si accettano i dictat israeliani o non si ne fa nulla. In Israele tutti sono concordi sul risultato di qualsiasì trattativa/accordo con i palestinesi - uno Stato palestinese monco senza continuità e/o senza sovranità ed incapace di sopravvivere per conto proprio, l'annientamento della questione del diritto al ritorno dei profughi, Gerusalemme capitale eterna di Israele, annessione dei blocchi degli insediamenti e con essi le falde acquifere, completo controllo dello spazio aereo del territorio palestinese destinato a diventare lo Stato di palestina, controllo dei valichi di frontiera, quindi, il movimento delle persone e delle merci per e dallo Stato palestinese, il mantenimento di basi militari di pronto intervento all'interno del territorio dello Stato palestinese e, soprattutto, il riconoscimento da parte palestinese dello Stato sionista quale Stato ebraico.
Tali dettami sono poi diventati la piattaforma del piano Obama che si sta preparando alla casa bianca.
E' chiaro che un piano del genere mira a liquidare la questione palestinese annullando de facto tutte le risoluzioni ONU al riguardo. Un piano destinato comunque al fallimento perché non solo non rende giustizia al popolo palestinese ma ne annulla le sue aspirazioni politiche. Quindi, non troverà consensi di nessun genere al di fuori della schiera dell'ANP.
Gli USA continuano a chiedere (si... chiedere) a Israele di congelare la costruzione negli insediamenti e non il loro smantellamento. In cambio chiedono al mondo arabo la normalizzazione dei rapporti con Israele. Una partita politica questa dal costo impressionante, non per le oligarchie arabe al potere le quali ci hanno abituato alla loro corsa di abbassamento del tetto dei requisiti per aprire allo Stato sionista, ma per le masse palestinesi ed arabe. Ciò è dovuto soprattutto alla debolezza che si registra in campo palestinese, dovuta a sua volta alla divisione e alla mancanza di una reale forza con un vero progetto di liberazione. I governi arabi, Israele e l'Occidente sfruttano questa situazione allo scopo di far passare compromessi dolorosi per il popolo palestinese e, in particolare, per il popolo dei rifugiati palestinesi.
Gli israeliani, sfruttando questa situazione di grande caos palestinese, continuano imperterriti a creare fatti sul terreno: dopo il tentativo di legare la cittadinanza al concetto di lealtà, dopo l'ennesima reiterazione della legge sui "matrimoni misti" ovvero tra palestinesi al di là e al di qua del muro dell'apartheid, di recente è stata varata la legge che permette all'agenzia ebraica custode delle proprietà e dei terreni dei rifugiati palestinesi di vendere il tutto in barba alle leggi internazionali e risoluzioni ONU che lo vietano tassativamente. In tutta l'area di Gerusalemme continua l'epopea dei palestinesi che si vedono nel giro di qualche ora confiscati i loro beni e demolite le loro case (di solito i bouldozer israeliani entrano in azione alle 3 o 4 di notte e finiscono il lavoro entro la mattinata), la mano e la voce del brigante, Israele, continua a farsi sentire con il totale silenzio di Abu Mazen e del suo branco. Certo è che Israele non ha la pur minima intenzione di ritirarsi dalla Cisgiordania, almeno non da quelle zone, ora fittamente colonizzate (540 mila coloni circa), che costituiscono un pilastro vitale nella strategia di smembramento del territorio al fine di creare delle enclave o cantoni completamente circondate da gruppi di coloni ben armati. Questo permette agli israeliani di ritirare le loro truppe dichiarando al mondo che la cosiddetta occupazione (che loro non ammettono nel momento in cui le hanno annessi per legge) è terminata, pur mantenendo una presenza de facto con gli insediamenti. E' la stessa strategia che hanno conseguito con il cosiddetto ritiro dalla Striscia di Gaza tenendo questo territorio sotto un ermetico assedio.
A scanso di verità tutto ciò non è nuovo nelle strategie sioniste dello Stato di Israele; la stessa strategia è stata usata e sperimentata con i palestinesi del '48 con esiti fallimentare. Si ricorda qui come i vari governi israeliani hanno tentato di mantenere un basso livello di istruzione tra i palestinesi, come hanno cercato di cancellare la memoria storica e l'appartenenza socioculturale di questa importante parte del popolo palestinese e, come continuano a cercare di tenerli chiusi in villaggi e città sempre più densamente e pericolosamente popolate e strettamente controllati. Il disegno è quello di crearsi un serbatoio di mano d'opera a basso costo con gente intenta a pensare al quotidiano senza avere nessun orrizonte. Non è loro permesso di sognare ma sono costretti a vivere gli incubi della difficile quotidianità. Malgrado il fallimento di questa strategia nelle zone del '48, gli israeliani tentano di ripetersi in Cisgiordania. A questo serve il piano messo in atto con le forze dell'ANP di decapitare le forze e organizzazioni politiche palestinesi all'oppposizione. Un punto d'incontro e di interesse questo tra le forze colonialisti sioniste e le borghesie palestinesi ed arabe. Tale collaborazione ha raggiunto livelli scandalosi che gridano al tradimento, basti pensare al pattugliamento congiunto delle città palestinesi della Cisgiordania, anzi, pare che le forze della sicurezza dell'ANP scortino quelle israeliane, o agli ex detenuti in carcere israeliane e il loro arresto, una volta liberati dai primi, da parte delle forze dell'ANP. Questa collaborazione militare e la sintonia politica raggiunta tra i traditori dell'ANP e le forze di occupazione israeliane permette a queste ultime di concentrare i propri sforzi alla repressione dei palestinesi del '48 e a pianificare le sue guerre esterne con molta tranquillità.
Più di un milione di israeliani hanno già lasciato il Medioriente per ristabilirsi nei loro paesi d'origine in occidente. Più aumenta la percezione dell'insicurezza più cresce questo trend. Israele ha bisogno, perciò, di vincere una guerra in maniera netta e ristabilire il mito dell'invincibilità di Tsahal, l'esercito sionista, l'ultimo mito che crollò sulle montagne libanese nel 2006. Solo così e con l'annientamento della causa palestinese gli israeliani potranno sperare di fermare l'ondata di disaffezione e di abbandono dello stato da parte di giovani ebrei.
Oltre al pericolo per la società israeliana derivante da questo abbandono/emigrazione (il continuo spostamento a destra e la crescita della malavita), Israele dovrà risolvere la questione dei palestinesi cittadini di questo Stato. Sono oltre 1.400.000 che ricordano ai sionisti che la loro presenza testimonia l'incopiutezza del progetto sionista - creare uno stato ebraico per soli cittadini ebrei. La negazione dello status di minoranza etnica a questi cittadini è il solo modo per non offrirli condizioni di previlegio, anzi, è in progettazione da parte israeliana la costruzione di tre mega città per gli Haridim (gli ultra nazional-religiosi), una a nord di Nazareth, una seconda in Wadi A'ra al centro e, la terza, nel diserto del Naqab a sud. Questa costruzione permette l'accerchiamento totale e lo smembramento delle zone arabe.
L'isterismo dei politici e dirigenti israeliani si fa sempre più eloquente. Essi, oggi, sono chiamati a fronteggiare non solo i palestinesi e le masse arabe, ma devono dar battaglia all'opinione pubblica mondiale che si è fatta "nemica" a Israele e alle sue politiche. In molti, oggi, non hanno più paura di dichiarare i propri sentimenti ed opinioni ostili allo stato sionista, singoli cittadini ed organizzazioni civili strascinano i propri governi a prendere decisioni impensabili contro Israele fino al punto che gli stessi israeliani si sentono accerchiati, o peggio, minacciati.
In mancanza di una leadership avveduta e longimerante, la goffagine degli israeliani li spinge in questa spirale senza una via d'uscita. Così hanno sepolto la possibilità di "pace" basata sull'equazione due stati due popoli, essi stanno spingendo, loro malgrado, verso la soluzione dello Stato unico e, la loro politica dell'apartheid si sta rivelando un boomerang contro di loro: coltivare il razzismo porterà Israele a compiere atti ostili e violenti i quali, negli equilibri militari regionali e quelli politici mondiali, secondo un capo maggiore dell'esercito sionista israele non riuscirà a vincere più le sue guerre in maniera netta e senza pagare un prezzo altissimo, porterà Israele alla dissoluzione.
Non è forse questo è quello che teorizzano i teocon mondiali? Non è questo il bagno di sangue che loro desiderano ardentemente per spianare la strada al "ritorno del loro messia"?

24 set. '09
Kutaiba YOUNIS

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La Palestina esiste ancora
Il primo ottobre di quest’anno ha segnato due avvenimenti di estrema importanza, anche se sono di segno opposto: nella Palestina storica del ’48 uno sciopero generale dei palestinesi cittadini dello stato di apartheid israeliano ha segnato un punto importante di svolta spostando l’asse della vera e coerente rappresentanza della questione palestinese nei territori palestinesi occupati nel ’48. In commemorazione del massacro dei 13 palestinesi nel 2000 nei primi giorni dello scoppio dell’Intifada di Al-Aqsa ad opera della polizia dell’entità razzista israeliana, il primo ottobre “i cittadini palestinesi di Israele” hanno scioperato in massa con punti che raggiungono il 90% di astensione dal lavoro. Una risposta questa che proviene dal cuore della Palestina ed è indirizzata non solo a Israele ed a chi in occidente sostenga le politiche di quest’entità e copre i crimini dei suoi organi militari, ma è indirizzata a chi nel capo palestinese ed arabo si rende connivente del annientamento e della liquidazione della questione palestinese.
Lo sciopero è stato proclamato per ribadire con forza l’appartenenza dei palestinesi in “Israele” al resto del popolo palestinese e alla nazione araba, non solo dal punto di vista etnico-culturale, ma soprattutto politico.
Il diritto al ritorno viene impugnato e portato avanti con forza, la difesa di Gerusalemme quale capitale araba-palestinese costituisce un perno centrale della lotta di questa fetta del popolo palestinese. Non dimentichiamo la loro lotta contro il razzismo e l’apartheid sioniste che mina alla base l’ideologia fondante “lo stato di Israele”.
L’attacco della macchina sionista, militare e politica, a cui sono soggetti i palestinesi del ’48 ha lo scopo dell’intimidazione al fine della loro completa assimilazione/assoggettamento al progetto sionista. Dopo 61 anni di occupazione piene di soprusi, in “Israele” si sono resi conto di aver fallito nel loro progetto di costituzione di uno Stato ebraico puro e purificato dagli abitanti autoctoni. Si sono resi conto di aver fallito nel tentativo di cancellare la memoria storica e, quindi, di creare una nuova popolazione assimilata e servile. Questo sciopero costituisce l’ennesima conferma, la solidarietà dimostrata da tutti i palestinesi del ’48 alla popolazione aggredita di Gaza, quella decisa contrarietà alla guerre contro il Libano, il viscerale saldamento e sostegno ai palestinesi del ’67 durante tutta la fase cruenta dell’intifada Al-Aqsa e tante altre, non sono altro che palesi prove di quanto il legame patriottico e nazionale sia viscerale.
Da anni ormai e di fronte alla crisi della storica sinistra palestinese, il centro del barometro e dell’elaborazione politica e culturale della sinistra palestinese ha trovato dimora vivace e prontamente presente nei territori palestinesi del ’48. Ciò è dovuto grazie allo stato di coma profondo in cui si trova l’Olp da quando ebbe inizio il famigerato processo di “pace” ad Oslo e la creazione dell’agenzia di liquidazione della causa palestinese chiamata ANP. Non è bastato ai paria palestinesi dell’ANP collaborare attivamente con le forze di occupazione sioniste prima e durante l’aggressione a Gaza, non gli è bastato soffocare ogni forma di lotta all’occupazione in Cisgiordania, proprio nel giorno in cui si celebrava lo sciopero generale l’ANP decide di ritirare il proprio appoggio alla discussione del rapporto “goldstone” alla Commissione Diritti Umani dell’ONU a Ginevra, il quale accusa “Israele” di crimini di guerra e contro l’umanità. Tale atto ha abortito il tentativo di processare i criminali israeliani prestando loro, anche se momentaneamente, un soccorso assolutorio. Questo e tutte le politiche precedenti dell’ANP sono la dimostrazione inequivocabile del legame viscerale tra il colonialismo sionista e la borghesia palestinese ed araba. Ciò ci obbliga, tutti, a collocare gli scagnozzi dell’ANP nel campo avverso alla lotta del popolo palestinese, alla pari dei sionisti sia israeliani che occidentali o arabi, sono tutti massacratori del popolo palestinese, tutti sono il pericolo maggiore per la pace mondiale.

Torino, 5 ott. ’09
Kutaiba YOUNIS

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Il riavvio del processo di pace sembra essere l’obiettivo dichiarato dell’amministrazione Obama, e molti ritengono che sarà il punto centrale del discorso che il presidente americano terrà a giugno dall’Egitto. Tuttavia – come del resto l’incontro tra Obama e Netanyahu ha appena dimostrato – il percorso per giungere a una soluzione a due Stati sarà irto di ostacoli e di insidie, perfino se esistesse da parte di tutti i protagonisti coinvolti la volontà politica di giungere ad una qualche forma di compromesso.

I commentatori arabi ed israeliani hanno entro una certa misura tratteggiato a grandi linee il discorso che Barack Obama terrà in Egitto durante la sua visita di giugno, sebbene egli ancora si stia incontrando con i leader della regione a Washington. Se alcuni sono ottimisti, molti invece nutrono timori.
Gli israeliani temono che Obama voglia spingerli a riconoscere i diritti dei palestinesi e obbligarli a restituire i territori palestinesi e siriani che essi sono stati impegnati a colonizzare fin dal 1967.
Gli arabi temono che Obama annuncerà che i loro leader stanno progettando ulteriori concessioni, sotto forma di un’estesa normalizzazione dei rapporti con Israele, prima di un completo ritiro e di una pace complessiva.
Temono anche che il suo discorso porrà il veto sul diritto al ritorno dei palestinesi, che è sia un diritto individuale che collettivo in base alla legalità internazionale, ed appoggerà Israele in qualità di “Stato ebraico” invece che di Stato di tutti i cittadini che lo compongono.
Su una cosa vi è accordo: l’amministrazione Obama vuole vedere una pace complessiva incentrata su una soluzione a due Stati entro la fine del suo mandato.
Se è davvero così, i palestinesi e gli israeliani si trovano di fronte ad un quesito esistenziale: che tipo di Stato sia gli uni che gli altri potranno ottenere?
Sembra che la “Palestina” che si sta delineando avrà un territorio sottodimensionato con una sovradimensionata forza di sicurezza interna. Le dimensioni del territorio dipenderanno da quanto la leadership palestinese riuscirà a restringere la definizione israeliana dei principali blocchi di insediamenti (illegali) che vuole conservare, i cui confini si estendono ben al di là delle costruzioni esistenti.
Le dimensioni della popolazione dipenderanno dall’eventualità che i leader palestinesi continuino o meno ad appoggiare il diritto al ritorno dei palestinesi all’interno di quello che attualmente è Israele, e da quanti profughi ed esiliati essi riporteranno all’interno del nascente Stato palestinese.
Una questione di importanza cruciale sarà quale grado di sovranità riuscirà ad ottenere il futuro Stato palestinese. Esso avrà il pieno controllo sui suoi confini? Recentemente, ad esempio, Israele ha impedito all’inviato di Mahmoud Abbas di recarsi in Sudafrica per presenziare all’insediamento del nuovo presidente del paese. Ha anche introdotto una legge che rende ancora più difficile ai palestinesi della Cisgiordania entrare a Gerusalemme.
E se il nuovo Stato palestinese controllerà i propri confini, sarà costretto ad accettare il monitoraggio israeliano dietro le quinte di tutti i viaggiatori – un approccio inizialmente adottato a Gaza prima che Israele sigillasse i suoi confini?
Altre questioni riguardanti la sovranità includono il controllo dei registri della popolazione, delle risorse idriche, e dell’economia – tutti aspetti attualmente controllati da Israele.
In effetti, la realizzazione di uno Stato palestinese sovrano richiederebbe la rottura con gli accordi di Oslo, in cui i negoziatori palestinesi rinunciarono alla maggior parte degli aspetti della sovranità in quello che si supponeva fosse un periodo transitorio.
Siccome molti dei leader che negoziarono gli accordi di Oslo sono ancora al potere, le prospettive non sono promettenti – a meno che o Hamas o la società civile palestinese non bloccheranno uno Stato minimalista spingendo invece per una piena indipendenza.
Tuttavia, mentre Hamas è a favore di una soluzione a due Stati e potrebbe essere disposto ad accettare un compromesso pragmatico, molti leader della società civile palestinese – soprattutto nei sempre più influenti movimenti per il boicottaggio e per il diritto al ritorno – ora credono in una soluzione ad uno Stato, e non sembrano invece disposti ad investire energie nel progetto dei due Stati. A meno che non vi sarà un cambiamento nella strategia, uno Stato incompiuto potrebbe essere un esito prevedibile.
Quanto a Israele, il suo territorio coprirebbe oltre tre quarti del territorio della Palestina mandataria, molto più di quanto previsto dal piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947. Israele avrebbe dei confini definiti per la prima volta nella sua storia – cosa che significherebbe la fine del progetto sionista di riunire gli ebrei del mondo in quella che era una volta la Palestina.
L’insistenza di Israele affinché venga riconosciuto come “Stato ebraico” ha l’obiettivo di mantenere vivo il sogno sionista nell’eventualità di una soluzione a due Stati. Uno Stato ebraico continuerebbe a dare la priorità ai propri cittadini ebrei oltre che a qualunque ebreo, ovunque nel mondo, che volesse la cittadinanza israeliana in base alla legge sul ritorno.
A questo progetto si oppongono ovviamente il milione e 450 mila palestinesi che sono cittadini di Israele, i quali sono tuttora cittadini di seconda classe. Essi godono inoltre dell’appoggio di un numero crescente di ebrei israeliani che credono in uguali diritti per tutti i cittadini di Israele.
Numerose questioni rappresenterebbero una sfida per uno Stato di Israele in pace. Vi sono divergenze fra gli ebrei stessi riguardo alla pretesa secondo cui la nazionalità israeliana equivarrebbe alla nazionalità ebraica. Molti ebrei continuano a considerare il giudaismo come una fede, e non come un’identità nazionale. E molti ebrei che mantengono legami familiari o culturali con Israele non si considerano come israeliani potenziali, ma piuttosto come cittadini del paese in cui vivono. Nel frattempo il dibattito su “chi sia un ebreo” riaffiora ripetutamente in Israele ed all’estero.
Fino a quando Israele poteva puntare il dito contro minacce esterne, era possibile porre queste questioni in secondo piano. Tuttavia, se e quando il processo di pace ora guidato dall’amministrazione Obama si avvicinerà ad un accordo finale, esse diventeranno questioni sempre più spinose e generatrici di divisioni per Israele.
Se Obama otterrà i due Stati, potrebbe scoprire di trovarsi all’inizio, invece che alla fine del percorso.

20/05/2009
Nadia Hijab è Senior Fellow presso l’Institute for Palestine Studies, con sede a Washington
Titolo originale: What Kind of State?

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Il tentativo infruttuoso di convocare il proprio VI congresso, dopo che sono trascorsi oltre vent’anni dal congresso precedente, mette drammaticamente a nudo la grave crisi che sta attraversando Fatah, un movimento che incarna la storia della lotta palestinese per l’indipendenza. Ma la crisi di Fatah, che rischia di andare verso una vera e propria scissione, testimonia in realtà qualcosa di più ampio – sostiene l’analista palestinese Bilal al-Hassan – ovvero la crisi dell’ANP nel suo complesso, e dell’intero movimento di liberazione palestinese

La crisi di Fatah è ormai una crisi conclamata, di cui parlano tutti i mezzi di informazione. Se a prima vista sembra una crisi che riguarda esclusivamente il movimento, in realtà essa riguarda l’intera Autorità Palestinese, e le scelte del presidente Mahmoud Abbas. Se a prima vista tale crisi sembra essere legata alla questione del congresso di Fatah, in realtà essa investe il destino palestinese nel suo complesso.
Se cominciamo dalla crisi organizzativa di Fatah, scopriamo che il movimento è alle prese da mesi con la necessità di convocare il suo VI congresso, tuttavia senza giungere ad alcun risultato. E’ un problema il numero dei membri del congresso: si comincia a parlare di 500 membri, e quasi non ci si ferma quando si arriva a 2.000. E’ un problema la sede in cui tenere il congresso: esso si terrà all’interno dei territori dell’autonomia palestinese o all’estero? Sono un problema i documenti che verranno presentati ai membri del congresso per essere sottoposti al dibattito: saranno documenti riguardanti la costruzione dell’Autorità e della società palestinese, o documenti riguardanti il movimento di liberazione nazionale? I quadri e i dirigenti di Fatah hanno opinioni divergenti su tutti questi temi, ed infatti si sono formati blocchi contrapposti – tre o quattro almeno – fra i membri del congresso, i quali si confrontano aspramente, al punto da venire quasi alle mani. I leader storici intervengono per porre fine ai contrasti, ma anche i loro discorsi finiscono in uno scambio di insulti e di accuse reciproche.
Non si tratta semplicemente di una crisi, ma di una incapacità a dialogare. Questa incapacità nasce da questioni nascoste che nessuno vuol riconoscere, perché riconoscerle si tradurrebbe in uno scontro, in una frattura. Vi è chi afferma – fra coloro che sono più vicini alla presidenza palestinese – che vi sono tre questioni che la presidenza non vuole veder giungere ad un esito conclusivo: il congresso di Fatah, la presidenza non vuole tenerlo. Il dialogo con Hamas, la presidenza non vuole che si traduca in un accordo. Le elezioni, la presidenza non vuole convocarle. E sono in corso manovre per giungere a questo obiettivo non dichiarato. Per impedire che si tenga il congresso, si chiede un rinvio per conoscere l’opinione dei paesi arabi sulla possibilità di ospitare tale congresso. Quando, dopo diverse settimane, giunge in risposta il rifiuto arabo, e non resta che riconoscere la necessità di tenere il congresso nei territori amministrati dall’ANP, la parte avversa si rifiuta di tenere il congresso di Fatah sotto l’occupazione israeliana. E’ stato anche detto che la consultazione delle capitali arabe era stata un’operazione volta a guadagnare tempo. Allo stesso modo, per sabotare il dialogo con Hamas, si pone quest’ultimo di fronte a condizioni inaccettabili. Nabil Shaath [già ministro degli esteri dell’ANP, dal 2003 al 2005 - N.d.T.] ha rivelato, nel corso dei dibattiti sul congresso, che non è giusto accusare Hamas di boicottare il dialogo poiché il movimento islamico – secondo lui – si è detto d’accordo su tutte le questioni discusse ad eccezione di un punto, il riconoscimento di Israele. Intorno a questo chiarimento è divampata la polemica interna, e da ciascuna parte sono emersi reciproci sospetti sulle reali intenzioni della parte avversa.
Ma perché queste manovre? Che cosa nascondono?
1) Nascondono una controversia per stabilire la natura della fase che stiamo attraversando. Questa controversia emerge dai documenti che sono stati preparati per il dibattimento al congresso. Fino a questo momento sono stati preparati quattro programmi politici, ciascuno dei quali si sofferma su due punti: a) confermare o cancellare la frase “proseguire la lotta armata per porre fine all’occupazione”; b) concentrare o meno gli sforzi sulla costruzione e lo sviluppo perché “ci troviamo nella fase di costruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese”. Il solo fatto che esistono quattro programmi politici, ciascuno dei quali è stato proposto in un ben determinato momento, tradisce la gravità della crisi all’interno del movimento, fra una corrente che ritiene che la rivoluzione sia finita, che sia stata vinta ed abbia realizzato i propri obiettivi, ed una corrente che ritiene che l’occupazione sia tuttora presente, e che la lotta contro l’occupazione sia un obbligo.
2) Sulla base di questo conflitto fondamentale e sostanziale, è iniziato fin dal primo giorno lo scontro per stabilire i criteri volti a identificare i membri del movimento. Quali membri di Fatah hanno il diritto di partecipare all’elezione dei delegati al congresso? Il blocco che vuole proseguire la resistenza all’occupazione ha posto delle condizioni che garantiscono la vittoria di coloro che sostengono il suo punto di vista. Lo stesso ha fatto la parte avversa. Non essendo stato raggiunto l’obiettivo in questo modo, hanno avuto inizio le contrattazioni e gli scontri. I criteri più restrittivi per definire il diritto di voto sono accusati di essere uno strumento per garantire la continuità dell’egemonia della leadership storica, mentre i criteri più inclusivi sono accusati di essere uno strumento per favorire una leadership giovane che prenda il posto della leadership storica.
3) All’ombra di questo conflitto politico nascosto, vi è chi ritiene che tenere il congresso all’interno dei territori dell’autonomia palestinese permetterebbe all’ANP di avere il controllo sui lavori del congresso, di approvare il programma politico che preferisce (quello della rinuncia alla resistenza contro l’occupazione), e di eleggere una leadership politica che sia in linea con il suo punto di vista (Mohammed Dahlan, Hussein al-Sheikh ed altri). Se invece il congresso si tenesse all’estero, i risultati potrebbero essere differenti a livello politico ed organizzativo.
4) Questo scontro sulla sede in cui tenere il congresso ne nasconde un altro, che potrebbe diventare estremamente grave: lo scontro fra “l’interno” e “l’estero”. Se dovesse vincere l’idea di tenere il congresso all’interno dei territori dell’autonomia palestinese, tuttora sottoposti all’occupazione, Fatah diventerebbe un movimento dell’ “interno”, e non il movimento del popolo palestinese. Esso diventerebbe il movimento di un’unica corrente politica, e non un movimento che racchiude diverse correnti, come è sempre accaduto nel corso della sua storia.
5) E’ evidente che questi contrasti (tutti o alcuni di essi) potrebbero risolversi in una scissione in occasione del congresso. Se il congresso si terrà all’estero, dove sussistono le condizioni per un dibattito libero, i contrasti sul programma e sulla natura della fase che stiamo attraversando potrebbero realmente condurre a una scissione. D’altra parte, se il congresso dovesse tenersi all’interno dei territori, i membri e i militanti dei campi profughi all’estero e della diaspora non riterranno che il congresso li rappresenti, e dunque potrebbe verificarsi una scissione su questa base. In tutto ciò, è necessario tener presente che Fatah si formò storicamente nei campi profughi, al punto che qualcuno definì la sua nascita “la rivoluzione dei profughi”.
Ciò che emerge dai cinque punti che abbiamo elencato è che la crisi all’interno di Fatah non è qualcosa che può essere osservata da lontano. E non è qualcosa che può essere considerata un affare riguardante un gruppo o una corrente, per cui l’azione politica può essere portata avanti a dispetto di tale crisi. L’esito di questo scontro avrà infatti delle conseguenze per tutti. Dunque, occuparsene è un dovere da parte di tutti. E sbaglia di grosso chi è in contrapposizione con Fatah, e di conseguenza si rallegra per la crisi che questo movimento attualmente sta attraversando. Infatti, la scissione di Fatah significherebbe la scomparsa di un protagonista essenziale nella lotta nazionale palestinese contro l’occupazione. La scissione di Fatah significherebbe, per altro verso, che il fronte del compromesso ad ogni costo potrebbe impadronirsi del movimento e dell’ANP. Nascerebbe di conseguenza un’Autorità Palestinese di tipo diverso, che non godrebbe di alcun riconoscimento nazionale palestinese, e che col tempo diventerebbe un’autorità isolata e non accettata.
A causa della gravità di questa crisi, vi è chi suggerisce al movimento di smettere di cercare di convocare il VI congresso. Questo congresso si tiene a vent’anni dal precedente (il V congresso). Si tratta dunque un periodo di tempo estremamente lungo. Il VI congresso si terrebbe dopo la firma degli accordi di Oslo e la loro sperimentazione sul terreno. Si terrebbe dopo il passaggio di Fatah dalla fase della gestione della rivoluzione a quella della gestione dell’autorità e della società. Si tratta di questioni che hanno bisogno di uno studio e di una valutazione approfondita. E che richiedono cambiamenti sostanziali ed essenziali nella struttura del movimento, perché esso possa adeguarsi ai cambiamenti temporali e politici.
Dopo gli sforzi per convocare il congresso, si è passati al tentativo di convocare una conferenza (ovvero un’assemblea ristretta) che discuta le questioni senza prendere decisioni, e senza pressioni temporali. Il dibattito in una sede di questo genere potrebbe essere più obiettivo ed approfondito poiché non sarebbe necessario prendere decisioni, ma solo creare un clima intellettuale e politico nel quale i membri della conferenza trovino un punto di incontro. Svolta questa conferenza, nell’arco di uno o due mesi, sarebbe possibile fare un nuovo appello per la convocazione del congresso, nel quale i membri della suddetta conferenza – dopo il loro lavoro di studio e di approfondimento, ed il loro sforzo per giungere a un’intesa – giocherebbero un ruolo di guida e di orientamento nelle discussioni del congresso. Questa è la strada da seguire se vogliamo trovare una via d’uscita per far emergere Fatah dalla grave crisi attuale. Se invece vi sono alcuni che si rallegrano della crisi, ritenendo che essa spingerà le cose in un vicolo cieco, accelerando gli eventi verso l’obiettivo nascosto che essi stanno tramando, allora si può anche proseguire sulla strada attuale, che porterà inevitabilmente alla scissione.
Tra i membri di Fatah circola una particolare analisi della situazione, che afferma: dopo la morte di Arafat abbiamo perso le elezioni, abbiamo perso il governo, abbiamo perso la Striscia di Gaza, ed ecco che siamo sul punto di perdere il nostro stesso movimento. A quali ambienti politici possiamo attribuire la colpa, alla luce di questi risultati?

19/05/2009
Bilal al-Hassan è un giornalista ed editorialista palestinese; è stato membro del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP), e del Consiglio Nazionale dell’OLP; attualmente risiede a Parigi
Titolo originale: ﺍﻟﻜﺒﻴﺭ ﺍﻻﻨﺸﻘﺎﻕ ﺍﺤﺘﻤﺎل ﺃﻤﺎﻡ ﺤﺭﻜﺔ ﻓﺘﺢ

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