04/10/2009: Afghanistan, la guerra perduta
Lo scopo ufficiale dell’ISAF (1) (International Security Assistance Force) era di creare in Afghanistan le condizioni per lo sviluppo di una struttura statale stabile, attraverso l’addestramento dell’esercito e della polizia, dei funzionari della dogana e della polizia di frontiera, con la formazione di una moderna magistratura, e con una parallela azione di tipo sociale atta a favorire la ricostruzione. Questi obiettivi solenni sono tutti clamorosamente falliti.
Questo era inevitabile fin dall’inizio; infatti per condurre un’operazione, militare o no, occorre che gli strumenti usati siano compatibili con lo scopo che ci si propone, e qui troviamo una contraddizione insolubile: per rafforzare lo stato, è necessario spingere avanti la centralizzazione, ma si pretende di farlo con l’aiuto determinante dei massimi esponenti del potere locale, decentralizzato e antistatale, i signori della guerra, che dovrebbero rinunciare ad ogni potere e, probabilmente, alla vita, se il potere nazionale realmente si rafforzasse.
Come può, l’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito, essere inteso come un’operazione di pace, e non come sostegno a un governo famigerato per la corruzione, il traffico di droga e di armi, l’irrisione verso i diritti delle donne, pur esaltati a parole? Il carattere coloniale dell’occupazione dell’Afghanistan si evidenzia sempre più, nonostante il diluvio di mistificazioni diffuse per nasconderlo. Si appoggia un governo colto con le mani nei sacchi di schede truccate. Quegli stessi pennivendoli che fino ad ieri gridavano ai brogli e scandivano “dov’è il mio voto?” a proposito dell’Iran, ora si tacciono perché non hanno ricevuto l’imbeccata.
Il Manifesto cita un rapporto dell'International Council on Security and Development per il quale i seguaci del mullah Omar hanno “...una 'presenza permanente' nell'80% del paese, a fronte del 72% del novembre 2008 e del 54% di due anni fa, e possano esercitare 'attività sostanziali' in un altro 17% di territorio”.
Per Zbigniew Brzezinski “se nel 2001 qualche centinaio di uomini delle forze speciali americane - insieme alle truppe dell'Alleanza del Nord - ha facilmente sconfitto i talebani... oggi non ci riescono centomila soldati. E, anzi, questi soldati appaiono sempre più come invasori ...corriamo il rischio di fare la fine dei sovietici”.
E il generale Mini: “Il recente rapporto del generale Mc Chrystal dice che la guerra non si vince. Per la Nato è diverso: Obama lotta per dare un senso politico e strategico ad una guerra tatticamente perduta, la Nato lotta per tenere insieme un'alleanza stanca, e se ne frega della perdita, della vittoria e persino delle vittime che comporta. Non so se il gioco vale la candela”. (Manifesto)
Ma c’è sempre qualcuno che pensa di risolvere il problema con i caccia Tornado, che sganciano bombe a guida laser da 1 tonnellata e scavano crateri da 10 x 12 metri.
A chi, nel governo italiano, accennava a un ritiro concordato con gli alleati, il portavoce della Nato James Appathurai ha risposto: “Non possiamo permetterci di ridurre ora il nostro impegno in Afghanistan”... l'obiettivo dell'Alleanza è quello di far sì che gli afghani possano prendere in mano la loro sicurezza. “Ma questo va fatto in modo appropriato e misurato” attraverso un'opportuna strategia di transizione... ” (l'Unità.it, 19 settembre 2009)
D'Alema ha così commentato le dichiarazioni di Bossi : “Discutere del ritiro dei soldati all'indomani di un simile attacco è un segno di debolezza per un grande paese. Noi siamo lì sotto l'egida dell'Onu, in una missione internazionale e dobbiamo far sì che essa abbia successo. Non dobbiamo lasciare l'Afghanistan ai terroristi e al fanatismo islamico”.
Franceschini invita a non sperare in “divisioni interne al Pd su questo argomento”. (Manifesto 20 sett.).
Non avevamo dubbi, il PD si rivela sempre più una costola della NATO, e il presidente della guerra alla Jugoslavia è coerente. Il suo è lo stesso pensiero, basato sull’accanimento bellicista, del segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, che nel 2007 dichiarava: “Penso che entro il 2009 l'Afghanistan sarà sulla via della pace duratura, con la colonna della resistenza talebana spezzata”. (Italia PHP. 10 febbraio 2007).
Tutti costoro sostengono che questa guerra può essere vinta dagli USA e dalla Nato. Esiste una parola francese, che rende bene l’idea: jusqu’au-boutiste. Grosso modo, si può tradurre con “oltranzista”, ed era molto usata al tempo della Prima guerra mondiale, per indicare chi voleva portare la guerra fino all’estremo, incurante delle conseguenze. I fautori della Nato, dirigenti del PD e del PDL in testa, capiscono che in Afghanistan è in gioco il ruolo dell’Alleanza Atlantica, che dagli inizi degli anni novanta, e forse anche prima, ha perso la sua ragion d’essere, e deve per forza trovare un nuovo collante. Probabilmente molti dirigenti politici negli Stati Uniti stanno riflettendo se questo organismo è ancora utile agli USA, o è diventato un ferrovecchio da buttare. Senza la Nato, cosa sarebbero i D’Alema, i Franceschini, i Fini, i La Russa, i Frattini? Se gli USA rivedessero la loro politica militare e cercassero di mantenere l’egemonia con soluzioni diverse, meno impegnative per loro (Es. patti bilaterali con i singoli paesi), probabilmente al personale politico ligio alla Nato si darebbe il benservito, e si utilizzerebbero, non più uomini di derivazione DC, PCI e PSI riciclati, ma giovani che hanno studiato in America, a conoscenza di tutte le tecniche di pressioni psicologiche e di disinformazione elaborate dalla CIA.
Sostenendo l’oltranzismo Nato, i “grandi uomini” della politica italiana difendono la loro fetta di potere “octroyée” (graziosamente concessa). D’altra parte, quando hanno contribuito a demolire i grandi partiti di massa (DC, PCI, ecc.) questi geni politici hanno tagliato i rami su cui erano seduti, e si sono dovuti accontentare di un potere preso a nolo, dalle banche, dalla Confindustria, dalla Nato. E non hanno capito la lezione, anzi, cercano di fare lo stesso gioco con la CGIL.
Una guerra può essere vinta quando la popolazione crede che sia una guerra giusta, o perché “la patria è in pericolo”, o perlomeno che si possano ottenere risultati utili, vantaggi. Molte guerre coloniali furono accettate perché buona parte delle popolazione era convinta di trarne vantaggi economici, e l’opportunismo nel movimento operaio fu solidale con l’imperialismo. Questa guerra, invece, da tempo è sentita in Europa e in America come inutile sacrificio di sangue e di risorse, perciò non ha nessuna possibilità di essere vinta.
L’Italia è un caso limite. Partecipa a ben 33 missioni militari in 21 paesi, e di queste attività quasi nessuno sa niente. Fino a non molto tempo fa, la maggior parte degli italiani neppure sapeva di essere in guerra. Nel conflitto – pensavano – c’erano gli americani e gli inglesi, con la “Enduring Freedom”, l'Isaf era considerata una missione multilaterale ONU “di pace”. Una missione militare in un paese occupato non può essere mai pacifica, e l’ONU copre con la sua bandiera le peggiori violazioni del diritto internazionale. Gli Stati Uniti, in seguito, imposero all’ISAF il comando NATO, per cui anche la finzione giuridica venne meno. Ma i nostri politicanti si guardarono bene dallo spiegare alla popolazione la differenza. Si seppe dalla stampa spagnola che i militari erano da tempo effettivamente coinvolti in combattimenti, mentre le facce di bronzo governative smentivano. Anche dopo la morte dei sei soldati italiani, la maggior parte dei media continua a parlare di missione pacifiche, persino il Papa ha detto che i militari operano per promuovere la pace. (ANSA 20 settembre). A smentirli, indirettamente, ci ha pensato La Russa, che ha detto che siamo in guerra, anche se per lui il nemico sarebbe “il terrorismo”. Nella mistificazione più generale di tanti “democratici”, le mezze verità siamo costretti a sentirle dai “nipoti” di Mussolini.
Per vincere una guerra, poi, ci vogliono politici in grado di condurla.
Governo e opposizione di regime non hanno scopi precisi, non sanno fare neppure gli interessi a lungo termine del capitale italiano, figuriamoci quelli della popolazione e delle classi sfruttate in particolare. L’ENI, insieme con la russa Gazprom sta sviluppando un progetto di un gasdotto, il South Stream, che non piace agli americani. Se gli USA vincessero in Afghanistan e costruissero un gasdotto che collegasse gli stati ex sovietici dell’Asia con i porti pakistani, l’Italia sarebbe completamente tagliata fuori.
In realtà, questa guerra non potrebbero vincerla né un Churchill né un De Gaulle, figuriamoci La Russa!
Bossi è un reazionario, ma non gli si può disconoscere un certo fiuto politico, sente cambiare il vento e comincia a parlate di ritiro, senza fare nessuna proposta concreta, passando la patata bollente a Berlusconi. Eppure, questo atteggiamento ambiguo gli porterà dei voti. D’Alema, Fini, Casini lo hanno ampiamente superato a destra, sostenendo l’irrinunciabilità della missione. Ma questa guerra alla lunga è insostenibile, e già ora è un disastro. Molti politicanti di destra e di “sinistra” l’hanno capito, ma non sanno e non vogliono uscirne. Se la classe dirigente (la maggioranza o l’opposizione di regime) ha bisogno di una sconfitta, certamente l’avrà, prima di quanto non si creda. Ma attenzione! Da buoni camaleonti, cercheranno di riciclarsi. Lo hanno già fatto i Russo Spena, i Diliberto, i Ferrero, che hanno votato con Prodi per il finanziamento delle spedizioni e ora sono tornati pacifisti. Giovani che si affacciano oggi alla politica possono anche prenderli sul serio, per questo dobbiamo sempre tenere viva la memoria.
Come opporsi alla guerra? Nel passato recente ci sono state grandi manifestazioni – si pensi a quella di Firenze del 2003 – e su numerosissimi finestre in tutta Italia sventolavano le bandiere iridate. Bisogna sempre distinguere il pacifismo ingenuo delle masse da quello ambiguo dei politicanti. Il primo può evolversi in un robusto antimilitarismo, in particolari circostanze, sotto la guida di un partito di classe. Se no, presto subentra la routine. Le grandi manifestazioni, e, ancor più, le lotte, non si possono suscitare artificialmente. Occorre un lungo paziente lavoro di preparazione delle avanguardie.
Bisogna partire dagli interessi storici, politici, umani del proletariato. Con l’eccezione di strati sempre più ridotti di aristocrazia operaia, è la classe che più ha da perdere, nella guerra imperialista.
Ci perde sul piano economico-sociale, perché la guerra acuisce le condizioni della crisi, e il keynesismo bellico va a vantaggio dei soliti speculatori. Le spese militari si fanno a scapito dei salari, delle pensioni. Significano niente case popolari, meno scuole (i ricchi possono permettersi i migliori istituti privati), misere elemosine al posto di veri sussidi di disoccupazione.
Ci perde sul piano politico, perché l’ascesa del militarismo riduce o annulla gli spazi di agibilità politici e sindacali, accentua la subordinazione alla borghesia, diffonde pericolosi “riflessi d’ordine” e trasforma molti benpensanti in zelanti difensori dell’ordine borghese, e persino in delatori, contro gli antimilitaristi “sovversivi”. Anche quando la repressione avanza, però, è possibile condurre la lotta. Lenin ci ha insegnato a usare tutte le forme legali, che permettono di aggirare la censura. Nel 1920, presentando la sua opera sull’imperialismo ai compagni d’occidente, disse che aveva usato il “linguaggio di Esopo”, riuscendo a rendere tale libro legale dal punto di vista della censura zarista. E aggiungeva che era un esempio di come fosse “possibile e doveroso servirsi anche dei miseri residui di legalità ancora lasciata ai comunisti, poniamo, nell’America e nella Francia odierna, a breve distanza dagli arresti in massa di quasi tutti i comunisti, per spiegare tutta la falsità delle ideologie socialpacifiste e delle speranze nella “democrazia mondiale”. (Lenin, Prefazione alle edizioni francese e tedesca de” L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”).
Il militarismo sviluppa e perfeziona le tecniche del macello, e deve nascondere sempre più la realtà, con censure, indottrinamento, menzogne. Non è una cosa nuova: Luigi Napoleone mandò truppe contro la Repubblica Romana, facendo credere che si trattasse solo di contenere e di controllare la presenza austriaca in Italia.
Il militarismo si rivolge inevitabilmente anche all’interno. Una nazione che ne opprime altre non può essere libera, il militarismo, se non è combattuto, crea le condizioni per il colpo di stato.
Non serve reagire con manifestazioni isolate, bisogna far rinascere la coscienza antimilitarista, creare organizzazioni che ne curino la diffusione, portare questi problemi nei sindacati, nelle associazioni, nei circoli sociali, nelle riunioni studentesche.
Bisogna evitare di cadere nella protesta parolaia, e capire che il cuore del militarismo non si trova nelle forze armate, ma tra industriali, banchieri e faccendieri di borsa, che speculano sulle commesse militari. La guerra contemporanea è soprattutto un affare, giganteschi interessi sono in gioco, e gli speculatori ci guadagnano, sia nel caso di vittoria, sia nel caso di sconfitta.
L’esperienza dell’antimilitarismo negli Stati Uniti vede in prima fila veterani che hanno sperimentato la disumanità della guerra, madri che hanno perso il figlio, e le denunce più efficaci sono venute proprio da loro. Dobbiamo renderci conto, poi, che molti aspetti dei conflitti sono poco comprensibili per chi, come noi, non ha una preparazione in questo settore. In ciò militari non sciovinisti ci possono aiutare, darci spiegazioni e informazioni utili alla lotta politica contro la guerra. Chi si rifiuta di chiedere questo aiuto, trincerandosi dietro “l’odio per la divisa”, non ha capito niente del marxismo e neppure della lotta politica in generale.
Note:
1) Sullo scopo ufficiale dell’ISAF, il sito dell’Esercito dice: “La forza di intervento internazionale denominata "International Security Assistance Force", ha il compito di garantire un ambiente sicuro a tutela dell'Autorità afghana che si è insediata a Kabul il 22 dicembre 2001 a seguito della Risoluzione n. 1386 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 20 dicembre 2001.
Iniziata come Missione Multinazionale, dall'agosto 2003 il contingente è passato alle dipendenze della NATO. La natura dell'impegno per i reparti forniti dall'Esercito Italiano non è però cambiata, provvedendo alla sicurezza del Comando della Missione oltre alle attività di bonifica da ordigni esplosivi e chimica.”
Si dice anche, nel sito del Ministero della difesa, che operano anche “organizzazioni miste militari e civili idonee a creare un ambiente stabile attraverso un processo di ricostruzione socio-economica”.
Articoli utilizzati:
- Giuliano Battiston, ”Scenari” Il Manifesto, 19 settembre 2009.
- Tommaso Di Francesco, "Se è accaduto a Kabul non c'è sicurezza", IL Manifesto, 19 settembre 2009.
- Chetoni, “Afghanistan: quando i nodi vengono al pettine”, ComeDonChisciotte, Set 19, 2009
- Matteo Bartocci, “Pacifisti e sinistra la piazza spiazza”, il Manifesto, 20 settembre 2009.
- U. De Giovannangeli , La Nato: "Non si può ridurre l'impegno in Afghanistan" - l'Unità.it, 19 settembre 2009
- “Afghanistan, talebani sconfitti entro 2009. Il segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer: “Ma bisogna aumentare l'impegno”, Italia PHP, 10 febbraio 2007.
- Guido Olimpio: «Senza l’invio di nuove truppe rischiamo di fallire» Il comandante delle truppe americane in Afghanistan in un documento rivelato dal “Washington Post”” - Corriere della Sera, 21 settembre 2009.
Il Corriere della Sera cita un documento del generale McChrystal, rivelato dal Washington Post: “Senza l’invio di nuove truppe rischiamo di fallire”, “... McChristal riconosce che l’avversario è temibile, capace di sviluppare tattiche sofisticate, di svolgere una propaganda moderna e di dirigere le operazioni persino dalle prigioni. Il generale non risparmia critiche, feroci, al governo afghano, definito "corrotto", incompetente, dove è di regola l’abuso di potere.
Questo atteggiamento, unito agli errori compiuti dall’Isaf (il contingente internazionale), ha tolto il supporto della popolazione afghana, che non si fida delle autorità: “C'è una crisi di fiducia”.
“Infine i nemici. McChristal denuncia di nuovo la presenza dei santuari in Pakistan...
Quindi identifica i tre filoni dell’insurrezione: 1) La Shura del Mullah Omar, basata a Quetta (Pakistan), che è diventata una sorta di governo-ombra, pronta a sfruttare l’incapacità dell’esecutivo Karzai e veloce nel cambiare tattiche di guerriglia. 2) Il network Haqqani, attivo nel sud est, alleato di Al Qaeda, con ottimi rapporti con gli islamisti pachistani, finanziato da personaggi che vivono nel Golfo Persico. 3) L’Hezb I Islami di Gulbuddin Hekmatyar, che ha il controllo in tre province, è coinvolto nel traffico di pietre preziose e contrabbando. Il generale conclude che è difficile dire quale sia la reale presenza dei talebani perché il contingente alleato non ha informazioni precise. E annuncia: “Dobbiamo attenderci un aumento delle perdite”.
Michele Basso
da www.sottolebandieredelmarxismo.it
22 settembre 2009
http://www.autprol.org/