24/03/2009: Senza Censura n.28 - marzo 2009


Durante le mobilitazioni contro i criminali bombardamenti che l’esercito israeliano ha compiuto sui territori palestinesi della striscia di Gaza a dicembre e gennaio scorsi, è avvenuta una cosa che ha sorpreso molti militanti politici “indigeni”, noi compresi: in molte città italiane le comunità arabe sono scese massicciamente nelle piazze e, nei fatti, hanno determinato il piano della mobilitazione di quei giorni.
Subito il tentativo da parte istituzionale è stato quello di sottolineare in modo esasperato l’aspetto “confessionale” di questi episodi, sviluppando un dibattito quasi scandalistico sulle preghiere in piazza e sull’islam, e mobilitando a ruota una fetta consistente dell’apparato cattolico. Ci è sembrato evidente il tentativo di spostare l’attenzione sull’aspetto a nostro avviso meno interessante di quanto è successo in quei giorni in molte piazze italiane ed europee. E anche una buona parte della sinistra, istituzionale e non, ci pare sia caduta in questa trappola.
Certo, potremmo spendere a nostra volta pagine e pagine di parole sui limiti delle cosiddette “comunità” immigrate, sui limiti delle logiche confessionali, sui limiti dell’islam: ne siamo perfettamente consapevoli.
Se concentrassimo però le nostre riflessioni su questi aspetti, e in generale sui limiti delle dinamiche culturali e politiche delle comunità immigrate come se fossero qualcosa di a se stante, di separato dal quadro generale dello scontro di classe, commetteremmo un grosso errore. Riproporremmo ancora una volta un approccio parziale della questione, come se si stesse parlando di qualcosa di diverso dall’analisi di un fenomeno che deve essere interpretato invece in tutto e per tutto come interno alle dinamiche della classe proprie di questa fase. Un approccio che contribuirebbe a mantenere viva una sorta di “separazione”, un distinguo nei confronti di una componente a cui invece è necessario rapportarsi tenendo conto di cosa oggi esprime la realtà di classe italiana nel suo complesso, sia dal punto di vista sociale che politico.

Quello che invece ci interessa evidenziare è che per la prima volta, almeno in maniera così massiccia, una comunità immigrata si è esplicitamente mobilitata in maniera autonoma su una tematica profondamente politica. Per la prima volta non c’è stata una semplice adesione a qualcosa preparato da altri, una presenza “colorata” ma minoritaria; c’è stato invece pieno protagonismo nel definire tempi e modi delle mobilitazioni sul territorio.
Sono dati che ci devono far riflettere.
Innanzitutto perché testimoniano che esiste un nesso profondo tra la guerra imperialista che viene combattuta sul fronte esterno, e quello che essa determina sul fronte interno attraverso i soggetti che, direttamente o indirettamente, quella guerra se la vivono sulla propria pelle.
In secondo luogo perché dà un significato ancora più profondo ai continui tentativi messi in atto dagli stati europei per arginare, attraverso legislazioni di emergenza e repressione continua, proprio il pericolo che questi elementi di coscienza di classe antimperialista possano diventare volano per forme di aggregazione e solidarietà di classe nei territori del centro.
Come abbiamo scritto in precedenti editoriali, la necessità del controllo sul fronte interno è per il comando una prerogativa indispensabile, soprattutto in una fase in cui i vari fronti di guerra non riescono comunque ad arrestare il procedere della crisi. Lo sviluppo e il radicamento delle politiche securitarie, lungi dal voler rispondere al profondo disfacimento del tessuto sociale, contribuiscono pesantemente sia a tenere sotto controllo le varie componenti della classe, sia a tenerle ben divise e separate tra loro.
Uno degli obiettivi prioritari per il comando è proprio quello di tenere aperta il più possibile la frattura tra la componente immigrata del proletariato e quella “indigena”, facendola diventare, come già ci pare stia avvenendo in altri paesi europei, un dato socialmente acquisito e consolidato.
L’errore, quindi, che si rischierebbe di compiere riproponendo un approccio parziale ed arretrato sarebbe quello di assecondare proprio questa logica completamente controproducente, rimanendo impantanati in quella cultura “eurocentrica” ancora tanto presente all’interno delle forze del movimento di classe.
E questo errore sarebbe ancora più grave perché proprio in questa fase le politiche di guerra e il procedere della crisi tendono viceversa ad uniformare il piano delle contraddizioni, evidenziando, laddove questo riesce ad esprimersi, i contorni di quel “proletariato metropolitano” di cui tanto si è parlato negli anni passati.

Molto è cambiato da quando, ormai parecchio tempo fa, all’interno delle mura umide di molti centri sociali si discuteva su come relazionarsi ai primi “immigrati” che iniziavano a frequentare e a condividere gli spazi del movimento e le sue iniziative.
Molti allora, con una mentalità che spesso faticava a nascondere il proprio retroterra culturale profondamente cattolico, confondevano il fondamentale principio della solidarietà con quello più ambiguo e scivoloso dell’assistenzialismo.
La discriminante di classe stentava ad essere considerata un parametro universale di valutazione, anche perché, a differenza delle precedenti comunità di stranieri con cui si era abituati a confrontarsi e che erano solitamente molto politicizzate (si pensi ai palestinesi, agli iraniani, ai latinoamericani, ai somali, ecc), si registrava allora una presenza crescente di una composizione, proveniente dal sud economico del mondo, che aveva più le caratteristiche del sottoproletariato. Una componente che era in prevalenza molto ricattabile, disposta a grossi sacrifici sia sul posto di lavoro che nelle condizioni di vita nel territorio, poco interessata a ragionamenti di “prospettiva” sulle sorti dell’umanità o della lotta di classe.
A parte rare eccezioni, spesso i rapporti con questo “soggetto” si esaurivano quando questi trovavano referenti più affidabili delle scalcinate strutture di un movimento che certo non godeva né di buona salute né di grandi risorse… E che, come se non bastasse, era costretto a confrontarsi spesso con la repressione.
Molto è cambiato, dicevamo, da allora.
Dal punto di vista sociale, negli ultimi vent’anni è andata consolidandosi una presenza di proletariato immigrato che ha l’obiettivo di fermarsi in maniera più stabile nei nostri territori e che sta sviluppando una “seconda generazione” inserita più radicalmente nelle pur contraddittorie dinamiche di classe nostrane. Questa componente, che affianca gli storici flussi di transito, preda di sfruttatori più o meno legali, è ormai una presenza stabile in tutti i settori sociali, dal mondo del lavoro a quello della scuola. E pur essendo spesso ancora un “elemento debole” disponibile ad un maggiore sfruttamento e a peggiori condizioni di vita, questo dato non può di per se bastare per giustificare la crescente ostilità nei confronti dello “straniero” a cui assistiamo quotidianamente. Una clima di xenofobia e di razzismo istituzionale a cui gli stessi immigrati di prima e seconda generazione si sono peraltro fatti carico di dare riposta mobilitandosi in prima persona (vedi Milano dopo la morte di Abba, Parma, Caserta, Lampedusa...). Un’ostilità che va dunque ricercata proprio nel capillare lavoro del comando e nella conseguente mancanza, ormai cronica nel tessuto sociale, del principio della solidarietà di classe, principio che aveva consentito, pur tra le tante contraddizioni, di assorbire i precedenti flussi migratori interni degli anni 50-60 trasformandoli in nuova linfa per lo sviluppo della lotta di classe nelle grandi fabbriche e nei territori del nord Italia.
Oggi il concetto di solidarietà di classe sembra non esistere più. Questo è attribuibile, a nostro avviso, allo smantellamento progressivo da parte del comando e delle forze riformiste delle strutture e delle identità di cui la classe si era dotata il secolo scorso, offrendo campo libero a logiche razziste e di differenziazione che proprio all’interno delle componenti popolari stanno oggi trovando un rinnovato successo.
In queste condizioni l’unica “sponda” possibile per affrontare le difficoltà della crisi diventa la dimensione comunitaria. Questo paradossalmente avviene in modo più semplice proprio per le comunità immigrate che, o su base etnica o su base confessionale, riescono spesso a trovare forti momenti di ricomposizione. Cosa oramai estremamente difficoltosa, viceversa, per altre fette di proletariato, frantumato in una completa devastazione sociale, culturale e politica.
Le dinamiche comunitarie, che da sempre garantiscono un circuito di assistenza fondamentale, rischiano però al tempo stesso di diventare totalmente vincolanti, controllate il più delle volte dagli interessi economici (o religiosi) di potentati altrettanto attenti allo sfruttamento della propria base, andando così ad innestare un circolo vizioso di difficile superamento.

A poco serve, allora, discutere su quanto siamo distanti dall’islam, o su come le varie leadership di queste comunità rappresentino comunque forze più interessate ad un accordo con gli apparati di potere e di controllo dello stato. Sforziamoci di ragionare su quello che c’è, su quello che si determina, e non su quello che ci piacerebbe ci fosse attorno a noi ma che il più delle volte vive solo all’interno delle nostre teste.
Da un dato invece secondo noi è più utile ripartire e lo ripetiamo: queste complesse trasformazioni rendono ormai obsoleto il vecchio e arrogante approccio solidaristico nei confronti degli “immigrati”, sia perché non tiene conto dell’attuale forte mancanza di legittimità delle componenti politiche del movimento, sia soprattutto perché ripropone una logica arretrata di separazione, all’interno della composizione di classe stessa, del proletariato immigrato da quello indigeno.
Opporsi a questo processo di separazione per noi significa cercare di interpretare quanto si esprime all’interno della classe nel suo complesso, quanto sfugge al controllo del comando o dei tentacoli del riformismo, tentando di evidenziare e valorizzare in questi casi i possibili punti di connessione che emergono piuttosto che soffermarsi sui limiti che queste dinamiche si portano dietro.
Per concludere, siamo convinti che non ci saranno leggi né regolamenti che riusciranno a fermare i processi e le dinamiche determinate dallo “sviluppo” imperialista nel mondo.
Questi processi non sono lineari, né sfoceranno automaticamente in qualcosa di positivo da un punto di vista di classe. Sono spazi, sono occasioni determinate dalle condizioni oggettive che le soggettività politiche devono saper cogliere per accelerare un percorso di crescita. Il che può voler dire, in periodi come questi in cui le capacità delle soggettività rivoluzionarie sono decisamente arretrate, sforzarsi di coglierne la valenza, di individuare forme anche parziali di collegamento e di relazione con i soggetti che ne sono protagonisti, e, soprattutto, combattere l’approccio disfattista ed arrogante che spesso le stesse componenti politiche della classe, prima ancora della classe stessa, esprimono.
In questa fase, secondo noi, questo è già un compito primario ed indispensabile che deve caratterizzare il lavoro politico di tutti e a cui pure noi tentiamo di dare un contributo.

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