23/03/2009: Martedì 17 marzo si è chiuso il primo grado del processo al compagno arrestato a Lecco


A fronte dei 18 mesi chiesti dal pubblico ministero, la condanna comminata dal giudice è stata di 7 mesi con la condizionale più il pagamento delle spese processuali.
Per quanto riguarda l'ultima udienza, il giudice ha impedito all'imputato di leggere alcune dichiarazioni, consentendogli solo di parlare per alcuni minuti. Nel suo discorso il compagno ha rivendicato il togliere ogni tipo di agibilità ai fascisti in città. Evidenziando la politicità del processo, è stato detto apertamente che non sarà una condanna a rompere la solidarietà e a fermare le lotte in corso sul territorio.
Le dichiarazioni sono state accolte da un forte applauso da parte del pubblico in aula (una quarantina tra amici e compagni) che ha irritato visibilmente giudice e pm, causando lo sgombero quasi completo dell'aula.
Alla fine dell'udienza un corteo, dietro lo striscione "la lotta non si arresta", ha attraversato il centro della città dal tribunale alla stazione, intonando cori e distribuendo volantini ai passanti. Segue il testo della dichiarazione.

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È chiaro a tutti che quello che si chiude oggi non è semplicemente un processo per lesioni e resistenza, bensì un processo politico. Non ci sono altri modi, infatti, per definire un procedimento nato da una trappola tesa dalle cosiddette forze dell'ordine a dieci antifascisti che contestano con cori ed urla la commemorazione dei presunti martiri delle foibe; un procedimento basato su un impianto accusatorio pieno di falle aggiustate alla bell'e meglio, di cordoni che si spostano a seconda della versione, di termini chiari che diventano ambigui per poter significare qualsiasi cosa, di aggressioni mai avvenute estratte dal cilindro per poter processare, condannare, intimidire. Un processo, insomma, costruito ad arte per reprimere il dissenso e le sue pratiche.
Il luogo in cui la politicità di questo processo è emersa in tutta la sua pienezza è proprio quest'aula, dove il pubblico ministero ha citato ed investito di importanza capitale pratiche ed iniziative di lotta poste in essere a Lecco negli ultimi mesi.
Posto che ritengo tali iniziative per nulla pertinenti al processo in corso, e chiarendo che non è certo dentro queste stanze che deve essere vagliata la legittimità delle pratiche di lotta, intendo comunque spendere due parole sull'argomento.
Si è parlato dell'occupazione di Villa Eremo del giugno scorso. Ci tengo a sottolineare come la scelta di liberare uno stabile abbandonato da decenni nasca dalla volontà di sottrarre alla speculazione spazi da restituire alla socialità, luoghi di scambio e di confronto continuo dove condividere idee ed emozioni, dove maturare pensieri alternativi a quello dominante e combattere nella quotidianità le logiche gerarchiche ed autoritarie proprie del mondo in cui viviamo.
Significativa, inoltre, è la differenza di atteggiamento nei confronti dell'occupazione da parte dei diversi settori della città: da una parte i giornalisti che fanno opera di criminalizzazione, la questura che sgombera, l'amministrazione comunale che erge muri, il tribunale che processa; dall'altra parte gli abitanti del quartiere, la gente comune che si avvicina, si informa, si confronta, porta solidarietà ed aiuto materiale.
Sempre con riferimento alle lotte recenti, è stato citato il presidio del 20 dicembre scorso, terminato con un corteo ed un volantinaggio in piazza. Scendere in piazza significava esprimere la rabbia nei confronti della militarizzazione continua e crescente delle vite, fatta di esercito nelle strade, reclutamento nelle scuole, ordinanze che limitano sempre di più le libertà individuali.
Arriviamo infine al 10 febbraio, quando si è voluto contestare e disturbare un manipolo di neofascisti intenti nella commemorazione dei presunti martiri delle foibe. Attraverso la contestazione si sono voluti intonare dei cori contro chi alimenta l'odio razziale e l'allarme securitario, contro chi propaganda la supremazia del più forte sul più debole, contro chi, come è successo a Lecco alcuni mesi fa, aggredisce e malmena sulla base del colore della pelle.
La commemorazione in oggetto, inoltre, è avvenuta nel giorno della falsità storica, in cui i morti nelle foibe diventano martiri. Da sessant'anni, infatti, la storiografia ufficiale in merito alla questione del confine orientale è un'arma in mano a nostalgici e revisionisti per riscrivere la storia in funzione delle esigenze politiche del momento.
Innanzitutto, nel trattare la questione istriana si dimentica volutamente il processo di italianizzazione delle popolazioni slave intrapreso in alcune zone della Venezia Giulia in età liberale attraverso il cambiamento della toponomastica e l'imposizione dell'italiano come unica lingua.
Tale processo subì un'impennata con l'avvento del fascismo, fino all'occupazione militare della Jugoslavia da parte italo-tedesca nel 1941.
Negli anni a seguire, fino al settembre 1943, si susseguirono rastrellamenti nei villaggi, deportazioni nei campi di concentramento per slavi costruiti all'occorrenza, torture e stermini sistematici.
Alla luce di questi fatti è evidente come, se delle violenze da parte dei partigiani jugoslavi ci sono state, non sono state dettate da rivalità etniche, ma rappresentarono il frutto, talvolta efferato, di decenni di imperialismo italiano.
Venendo alla questione delle foibe, con questo termine si indicano le depressioni carsiche in cui sarebbero stati gettati gli italiani uccisi.
Innanzitutto alcune centinaia di corpi rinvenuti si trasformano miracolosamente, grazie all'azione di falsi storici, in decine di migliaia.
Ma, soprattutto, si omette di ricordare la biografia degli infoibati a cui si è riuscito a dare un nome. Nella grande maggioranza dei casi, infatti, si tratta di militari, membri delle forze armate, camicie nere, collaborazionisti del regime fascista. Insomma, non vittime innocenti ma i responsabili di decenni di atrocità.
È dunque evidente come questa operazione di falsificazione storica sia finalizzata alla riconciliazione nazionale, ovvero alla riabilitazione del regime fascista ed al superamento della discriminante antifascista della repubblica italiana.
D'altronde Lecco non è nuova a tali tentativi di rappacificazione. Basti pensare che ogni anno, il 28 aprile, le istituzioni cittadine si prodigano a commemorare i repubblichini fucilati allo stadio Rigamonti-Ceppi nel 1945 per aver fatto fuoco a tradimento sui partigiani, dopo aver dichiarato la resa. E pensare che è proprio in un tribunale come questo che i 16 repubblichini furono condannati a morte secondo il codice penale di guerra!
Ebbene, personalmente non ho alcuna intenzione di concedere agibilità politica a fascisti e neofascisti, né il 10 febbraio, né il 28 aprile, né in alcun altro giorno dell'anno.
Posto che mi ritengo totalmente estraneo ai capi di imputazione che mi sono contestati, posto che non ho sfondato alcun cordone, non ho gettato a terra né aggredito alcun agente, non è certo la dichiarazione di innocenza o colpevolezza da parte di un tribunale che potrà porre fine alle lotte intraprese sul territorio, lotte nate dall'incontro tra individui diversi, maturate attraverso il confronto e l'orizzontalità dei rapporti umani, lotte che mirano a combattere un esistente sempre più oppressivo e limitante.
Da sempre, infatti, per ammutolire il dissenso si usa intentare processi come questo, farse costruite su fatti mai accaduti in cui si decide arbitrariamente della vita di alcuni individui. Da sempre, allo stesso modo, la risposta di chi non si piega è la stessa: continuare a testa alta senza farsi intimidire.
La lotta non si arresta.
L'amore per la libertà è più forte di ogni autorità.

anarchicilecchesi@autistici.org

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