16/02/2009: Che tipo di solidarietà con la Palestina? Più lavoro politico fuori dalla Palestina!
Sembra che ormai si siano spenti i riflettori dei mass media sulla Palestina. Dopo aver distorto quotidianamente anche i più basilari elementi di verità, passano ora semplicemente a nascondere ciò che succede nei territori occupati dal 1948. Come se fossimo davanti ad una nuova fase, ad un’era di pacificazione dopo decenni di conflitto! Noi sappiamo bene che così non è. Sappiamo bene che la “questione arabo-israeliana” non è nata con l’aggressione israeliana contro Gaza del 27 dicembre. Sappiamo bene che la valorosa resistenza palestinese lotta da più di sessant’anni contro l’oppressione quotidiana, contro uno degli eserciti meglio armati del pianeta, contro un nemico appoggiato senza tentennamenti dall’imperialismo statunitense ed europeo. Proprio per questo siamo coscienti che il problema di fondo è quello dell’occupazione. Un’occupazione che utilizza tutti i mezzi a sua disposizione senza eccezione alcuna: tutto l’arsenale bellico in suo possesso (comprese bombe al fosforo bianco e D.I.M.E.), l’arma della “disinformazione strategica”, l’incarceramento degli oppositori politici, l’alleanza con U.S.A. e U.E., ecc.. Denunciare non tanto i crimini dell’occupazione quanto il crimine che in sé stessa essa costituisce è certamente un primo compito che è necessario assolvere.
Ma nelle interviste di Silvia Cattori (tratte da rebelion.org), che abbiamo tradotto e che riportiamo di seguito, emerge con estrema forza un’ulteriore consegna che ci viene dalla Palestina: lottare con lo scopo di “obbligare” i governi a farla finita con l’appoggio allo stato sionista (questo sì incondizionato, mentre troppo spesso settori della cosiddetta ‘sinistra rivoluzionaria’ eccellono nell’arte dei distinguo a proposito della resistenza palestinese). La nostra solidarietà militante deve tradursi in un lavoro quotidiano che miri alla costruzione di un movimento di massa capace di conseguire la fine dell’occupazione. Per arrivare a quest’obiettivo è necessario riportare la “questione palestinese” sui binari giusti. Come afferma uno degli intervistati: “La vera causa palestinese è politica, non umanitaria. La nostra non è una catastrofe umanitaria naturale! Si tratta di una catastrofe umanitaria organizzata politicamente da Israele e dai suoi alleati!”. La nostra risposta non può quindi che essere politica.
Il lavoro che abbiamo davanti è grande. La strada da percorrere è lunga. Il principale contributo che possiamo offrire alla causa palestinese è la lotta nelle nostre metropoli in primis contro l'imperialismo di casa nostra.
Alla lotta!
Collettivo Autorganizzato Universitario - Napoli
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Che tipo di solidarietà con la Palestina? Più lavoro politico fuori dalla Palestina!
[…] Abbiamo chiesto ad Omar Barghouti, analista palestinese, di che tipo di appoggio hanno bisogno i palestinesi e cosa si aspettano a riguardo da parte del movimento internazionale di solidarietà. Ha risposto senza alcun dubbio:
“Poco tempo fa ho pubblicato un articolo in cui parlavo di ciò di cui abbiamo bisogno. In sintesi, mi preme dire che l’assistenza umanitaria è buona e necessaria se, e solo se, si accompagna ad un’azione politica incessante per mettere fine all’occupazione e all’apartheid di Israele.
[…] “I progetti che appoggiano la tenacia dei palestinesi sotto occupazione, siano nel campo della sanità, in quello educativo, in quello sociale o anche in quello politico, sono di importanza cruciale e sono sempre indispensabili. Senza questi progetti molti palestinesi, in particolare quelli più vulnerabili, non potrebbero sopravvivere alla crudeltà dell’occupazione.
Apprezziamo enormemente l’appoggio di questi progetti, almeno di quelli che non sono corrotti né corruttori, come invece spesso accade.
Tuttavia, ciò non significa che siamo convinti che questi progetti, testimoni di appoggio ad una nozione astratta di “pace”, possano, da soli, far fare passi in avanti alla nostra lotta per la libertà e la giustizia.
Ciò si potrà raggiungere solo mettendo fine all’occupazione e all’apartheid. E, lo sappiamo per esperienza, il modo più sicuro, moralmente giustificato, è trattare Israele così come si trattò il Sud Africa, vale a dire applicare a questo stato diverse misure di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, adattate al contesto. Non esiste maniera migliore di arrivare ad una pace giusta in Palestina ed in tutta la regione”. […]
Abbiamo posto le stesse domande ad un ricercatore palestinese di 36 anni, il cui nome teniamo celato per evitare che possa avere problemi. Secondo questa giovane generazione di palestinesi, la miglior forma di solidarietà che possono fornire gli attivisti internazionali è politica. E questo lavoro politico deve aver luogo fuori dalla Palestina, nei propri rispettivi paesi.
L’opinione di un palestinese a Gaza
“Sia che siamo d’accordo sia che non lo siamo con l’azione e l’attitudine che questi attivisti internazionali che vengono in Palestina hanno nei nostri confronti, dobbiamo essere accoglienti con tutti loro. Non siamo altro che persone indifese, è logico che accogliamo amabilmente tutti coloro che giungono qui per solidarietà. Le persone che soffrono e che si trovano in una posizione di debolezza sono così.
Però la presenza di attivisti internazionali non è necessariamente ciò di cui abbiamo bisogno qui. Ciò di cui abbiamo bisogno è che lavorino fuori dalla Palestina, non qui. Qui è compito dei palestinesi.
Dopo tanti anni siamo un po’ stufi di questi “volontari internazionali” o di queste “missioni civili” che ogni tanto arrivano per mostrare appoggio. Sono atti ripetitivi che non apportano alcun che di positivo alla gente e che non hanno un impatto utile per la nostra causa.
I risultati di questi attivisti sarebbero molto più efficaci se esercitassero pressioni su coloro che prendono le decisioni nei loro paesi, per spingerli ad assumersi le loro responsabilità affinché mettano fine alle sofferenze inflitte a tutta la nostra nazione, vittima di un’ingiustificata occupazione delle sue terre.
La vera causa palestinese è politica, non umanitaria. La nostra non è una catastrofe umanitaria naturale! Si tratta di una catastrofe umanitaria organizzata politicamente da Israele e dai suoi alleati!
Gli attivisti devono affrontarla politicamente. Molte associazioni commisurano gli aiuti e mettono in piedi progetti in base a ciò che conviene loro. Dovreste vedere quali sono le condizioni di un campo profughi! Il caso dei rifugiati, dei profughi, non è un caso umanitario che necessita dell’aiuto di questi attivisti internazionali. No, il caso è politico. Questa è la ragione per cui i movimenti di solidarietà dovrebbero agire politicamente e non sotto forma di assistenza sul piano umanitario o dei diritti umani.
Se si impegnassero attivamente al di fuori della Palestina nell’esercitare pressioni sulle decisioni dei propri governanti con l’obiettivo di raggiungere un cambiamento qui, ciò permetterebbe loro di risparmiare molti sforzi inutili. Questo è ciò che è necessario.
Gli attivisti del movimento di solidarietà e dei diritti umani che onestamente vogliono appoggiare la causa palestinese devono fare di più. […]
Ciò che è davvero necessario è fare in modo che questo messaggio arrivi molto chiaramente alle autorità che in ogni paese possono influenzare ciò che accade in questa parte di mondo. E’ necessario che ci si rivolga ai propri governi efficacemente, che si chieda perché si schierano sempre al fianco di determinati gruppi palestinesi (l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e, al contempo, si rifiutano di appoggiare le autorità elette di Hamas, a svantaggio degli abitanti di Gaza, rifugiati a partire dalla pulizia etnica del 1948 e oggi vittime di un occupante che li indebolisce e logora, giorno dopo giorno, psicologicamente, socialmente e politicamente.
Esistono molte risoluzioni dell’ONU a favore dei palestinesi. Ciò che devono fare in primo luogo gli attivisti è riprenderle in mano per giungere a risolvere questa questione. Questo è ciò di cui necessitiamo.
I politici che prendono le decisioni all’ONU, nell’UE e negli USA, conoscono perfettamente la situazione della Palestina sotto occupazione israeliana. Ma nessuno di essi farà nulla finché non saranno sottoposti ad un’enorme pressione popolare. Quando i movimenti di solidarietà riusciranno ad agire in questa direzione, ad avanzare in questa prospettiva politica, allora la loro azione sarà molto utile per il popolo palestinese.
[…] Se i vostri governi ed i gruppi di solidarietà lavorano con i diplomatici ed i rappresentanti di questa Autorità Palestinese di Ramallah che opprime il suo stesso popolo ed invita l’Egitto ed Israele a chiudere Gaza e ad ucciderci di fame: di cosa stiamo parlando?
Gli occidentali vedono i palestinesi come rappresentati da Hamas o da Fatah e l’OLP. Critichiamo questa tendenza dei governi (ma anche dei responsabili della solidarietà) a considerare la nostra situazione in termini di un gruppo “radicale” e di un gruppo “moderato”, e a fornire aiuto ad uno e non all’altro. I palestinesi non sono rappresentati né da Fatah né da Hamas. La Palestina è la Palestina, non qualcosa che si può dividere.
Pertanto, i movimenti di solidarietà, coloro che fanno politica, dovrebbero considerare la questione palestinese come un unico corpo, come un’unica voce. Dovrebbero esigere una sorta di revisione della causa palestinese. Non dovrebbero presentare, come invece fanno, i problemi relazionati con la questione palestinese a partire dal 1967, ma dal 1948.
Domanda: Allora Lei è scettico in relazione all’utilità di quegli attivisti internazionali che dall’estate scorsa arrivano a Gaza in nave per rompere il blocco e che chiedono che arrivino volontari per stabilirsi a Gaza per un periodo di tempo prolungato? Non mandano un messaggio politico a favore dei diritti umani degli abitanti di Gaza e dei diritti sulle proprie acque territoriali?
I palestinesi di Gaza che da un anno e mezzo sono sottoposte ad un blocco non possono fare altro che accogliere questa solidarietà. Non possono rifiutarla, hanno bisogno di vedere che all’estero ci sono appoggio e preoccupazione per la loro sorte.
Però, molto onestamente, credo che, di fatto, sarebbero bastati i primi “attivisti” di “Free Gaza” arrivati a Gaza ad agosto con la prima nave. La loro iniziativa conseguì l’obiettivo: hanno mandato un messaggio al mondo dicendo che a Gaza c’è una popolazione che ha bisogno di aiuto. Lo hanno raggiunto e furono molto ben accolti dal governo di Hamas. Quest’iniziativa era sufficiente.
Temiamo che se questi militanti tornassero periodicamente e rimanessero qui finirebbero per stancare, addirittura per molestare gli abitanti di Gaza. La gente comincerebbe a chiedersi: “Che tipo di iniziativa mettono in pratica? Che fanno davvero per noi?
Gli attivisti internazionali che stanno arrivando a Gaza sotto la bandiera del Movimento “Free Gaza” sono una sorta di prolungamento delle campagne di solidarietà che abbiamo già conosciuto durante gli ultimi decenni del conflitto israelo-palestinese. Molti palestinesi li ignorano. Sono conosciuti e apprezzati solo da alcune istituzioni politiche, da alcuni partiti e ONG che sono in contatto col mondo esterno; ciò è davvero allarmante.
La maggior parte delle azioni che hanno portato avanti gli attivisti internazionali in Palestina sono una perdita di tempo e di denaro.
I palestinesi sono capaci di badare alle proprie vite; sono in grado di far fronte alle proprie difficoltà. È la loro vita: vivono come rifugiati da 60 anni e possono far fronte a questa situazione tragica. Per ciò che concerne le navi che portano merci, sono le benvenute nella misura in cui non siano mezzo di strumentalizzazione.
Dopo 60 anni e con le cose che vanno di male in peggio, ciò che manca ora è di agire in maniera efficace per metter fine all’occupazione. Fuori dalla Palestina dovrebbe realizzarsi un’iniziativa decisiva in relazione alla sofferenza dei palestinesi e della loro causa; iniziative politiche che obblighino i detentori delle leve del potere a muoversi nella direzione di porre fine alle atrocità.
Le ripeto: il problema più grande per i palestinesi è l’inattività di quelli che prendono le decisioni in seno alla “comunità internazionale” e il loro pregiudizio in favore delle forze che collaborano con l’occupante illegale. Questa inazione è possibile perché gli attivisti non rispondono in maniera adeguata a ciò di cui abbiamo bisogno e a ciò che chiediamo da tanti anni. I militanti del movimento di solidarietà devono esercitare pressioni sule loro autorità ed organizzare manifestazioni di protesta davanti alle sedi dei loro governi, incalzarli.
Speriamo che tutti quelli che dicono di volerci aiutare dedichino i loro sforzi ed il loro tempo a svolgere questo lavoro di pressione all’estero, nei rispettivi paesi, non qui. Solo questa pressione ferma ed instancabile sui governi e sull’opinione pubblica in occidente può aiutarci a trovare una soluzione che ponga fine all’occupazione coloniale; questa è la cosa più importante da fare ora.
Domanda: L’ha sorpresa il fatto che fino ad ora la marina israeliana abbia lasciato passare le navi del movimento Free Gaza, e che invece abbia negato il passaggio alla nave carica di aiuti umanitari inviata dalla Libia e ad una contenente medicinali, proveniente dal Qatar?
Lei sa molto bene che se la marina israeliana non vuole lasciar passare una nave, nessuno potrà penetrare nelle acque territoriali di Gaza.
Israele controlla tutti gli aspetti della vita dei palestinesi: la terra, il mare, l’aria. Lei crede che, se gli israeliani non avessero voluto permetterlo, le imbarcazioni del movimento Free Gaza sarebbero potute entrare e “rompere il blocco”? E allora di cosa parlano questi organizzatori di Free Gaza? Hanno rotto il blocco? La potenza occupante controlla tutto, anche le navi di Free Gaza.
[…] Il ministero israeliano degli Affari Esteri ha affermato che la nave libica è stata bloccata perché l’assedio a Gaza è parte di una pressione politica esercitata su coloro che governano la Striscia, vale a dire Hamas.
Questa giustificazione data dagli occupanti illegali è accettata da questi attori internazionali che si limitano ad osservare le cose da lontano senza dar luogo alla più piccola iniziativa. Ma questa complicità non è propria solo di questi attori internazionali cui non piacciono i governanti di Gaza: purtroppo è relativa anche ad alcuni governi arabi. E a partiti e gruppi palestinesi.
Domanda: In base alla forma in cui si attuano, le azioni di solidarietà possono essere controproducenti? Appoggiare un partito e rifiutarsi di fare lo stesso con un altro può contribuire a dividerli?
La soluzione a tutti questi problemi è aiutare i palestinesi ad unirsi e a sedersi ad un tavolo di negoziati; aiutarli a trovare una soluzione alle divisioni e a risolvere i problemi che sono apparsi sulla scena un anno e mezzo fa.
Il movimento di solidarietà non deve aggiungere ulteriori difficoltà a questa situazione terribilmente complicata.”
di Silvia Cattori
Tratto da: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=79848
Traduzione a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario – Napoli
coll.autorg.universitario@gmail.com
http://cau.noblogs.org
http://www.autprol.org/