07/01/2009: Palestina: Tra neoliberismo e potere Usa


I parte, di Adam Hanieh
Durante il corso degli ultimi sei mesi, l’economia palestinese è stata trasformata radicalmente in conformità ad un nuovo piano tracciato dall’Autorità Palestinese (AP) chiamato Piano di Riforma e Sviluppo Palestinese (PRDP).
Sviluppato in stretta collaborazione con istituzioni come la Banca mondiale ed il Ministero Britannico per lo Sviluppo Internazionale (DFID), il PRDP è attualmente in fase di perfezionamento in Cisgiordania, dove l’AP di Abu Mazen ha l’effettivo controllo. Esso abbraccia i precetti fondamentali del neoliberismo: una strategia economica condizionata dal settore privato, in cui lo scopo è quello di attirare gli investimenti stranieri e ridurre al minimo la spesa pubblica.
Capire la logica di questa struttura economica è esplicativo per la valutazione dell’attuale fase della lotta palestinese. La visione neoliberale che puntella queste politiche fa da corollario centrale alla direzione politica sostenuta dal governo israeliano, l’Autorità Palestinese ed i loro sostenitori USA ed UE. Lo scopo, come spiega la prima parte di quest’articolo, è formalizzare una rete spezzata di cantoni sotto controllo palestinese e zone industriali associate, dipendente dall’occupazione israeliana, ed attraverso la quale una massa di lavoro palestinese a basso costo viene sfruttata da gruppi di capitalisti israeliani, palestinesi ed altri regionali. La struttura istituzionale in evoluzione per l’economia palestinese, non solo include l’occupazione israeliana nel modello di "sviluppo" concepito, ma agisce anche per alimentare la responsabilità delle élite politiche ed economiche palestinesi per come queste strutture operano.
In ogni modo, tale analisi è solamente una parte della storia. La seconda parte di quest’articolo considera che questi cambiamenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non possono essere compresi pienamente senza una valutazione della struttura regionale del Medio Oriente.
Negli ultimi vent’anni, con una particolare accelerazione sotto l’amministrazione Bush, gli Stati Uniti hanno intrapreso una politica di integrazione delle loro basi d’appoggio nella regione, all’interno di un’unica zona economica neoliberista legata agli Stati Uniti attraverso una serie di accordi commerciali bilaterali. Questa visione è finalizzata allo sviluppo del libero flusso di capitali e beni (ma non necessariamente della forza lavoro) in tutta la regione del Medio Oriente. I mercati della regione saranno dominati da importazioni statunitensi, mentre la forza lavoro a basso costo, concentrata in "libere" zone economiche possedute dal capitale regionale ed internazionale, produrrà beni a buon mercato destinati ad essere esportati nei mercati di Stati Uniti, Unione Europea, Israele e del Golfo. Un elemento centrale di questa visione è la normalizzazione e l’integrazione di Israele nel Medio Oriente. Gli Stati Uniti prevedono un Medio Oriente fondato sul capitale israeliano ad ovest e su quello del Golfo ad est, che, sorretto dai bassi salari, diventi una zona neoliberale che attraversi la regione. Ciò significa che la storica distruzione da parte di Israele dei diritti nazionali palestinesi deve essere accettata e consacrata da tutti gli stati della regione. Al posto della vera autodeterminazione palestinese (in primo luogo il diritto al ritorno per i rifugiati), sarà fondato uno stato artificiale nominale nelle isole dipendenti del territorio di Cisgiordania e Striscia di Gaza. Quest’obiettivo è un prerequisito essenziale della strategia degli Stati Uniti nella regione.
Le nostre attività politiche devono essere consapevoli di questo se vogliamo costruire con successo validi movimenti di solidarietà per confrontarsi e respingere questo progetto.

Neoliberismo in Palestina: Il Piano di Riforma e Sviluppo
Il 17 dicembre 2007, in una conferenza a Parigi, più di 90 rappresentanti internazionali di vari paesi ed organizzazioni donatrici si sono riuniti per fornire il loro appoggio al governo dell’Autorità Palestinese guidato dal Presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e dal Primo ministro Salam Fayyad. Questo meeting, il più grande nel suo genere dal 1996, è stato presieduto dal governo francese e norvegese, da Tony Blair (come rappresentante del Quartetto per il Medio Oriente), e dalla Commissione europea. Sono seguiti i discorsi dei rappresentanti di vari stati membri dell’UE, dell’Autorità Palestinese, del Fondo Monetario Internazionale, e del governo israeliano, impegnandosi per il trasferimento di 7,7 miliardi di dollari all’AP.
Gli sforzi principali di questa conferenza erano indirizzati nel tentativo di incassare l’appoggio finanziario per la nuova strategia economica dell’AP, chiamata Piano di Riforma e Sviluppo Palestinese per il 2008-2010 (PRDP). Basato su una serie particolareggiata di proposte avanzate dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni finanziarie internazionali, le linee guida del PRDP erano state già presentate nel novembre 2007. Da allora, il Piano è divenuto la forma di riferimento della politica economica, particolarmente nelle aree della Cisgiordania dove l’AP di Abu Mazen ha il pieno controllo.
La prima cosa da notare sul PRDP è la pressione esercitata da Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e dalle altre istituzioni neoliberiste come il Ministero Britannico per lo Sviluppo Internazionale (DFID), che può essere percepita chiaramente nelle raccomandazioni e nelle indicazioni di linea politica. Le argomentazioni dietro al PRDP sono esplicitamente neoliberiste, con la richiesta fatta all’AP di intraprendere una serie di riforme fiscali per far crescere un "ambiente idoneo per il settore privato" come "motore della crescita economica sostenibile". Le organizzazioni di base palestinesi hanno abbondantemente descritto le istituzioni finanziarie neoliberiste come "un governo ombra a tutti gli effetti in Cisgiordania, che detta il programma di sviluppo del governo di Salam Fayyad." [1]

Cosa significa realmente il PRDP per i palestinesi?
Come suggerisce il nome, ci sono due principali componenti politiche nel Piano: "riforma" e "sviluppo". La componente di riforma impegna l’AP in un programma di rigorosità fiscale che supera le misure imposte da FMI e Banca Mondiale in ogni altro stato nella regione. Tre sono gli elementi chiave di questo programma.
Primo, nel probabilmente più duro attacco al settore pubblico nella storia recente del Medio Oriente, l’Autorità palestinese si è impegnata a tagliare il 21% dei posti di lavoro nel settore pubblico entro il 2010. Quasi 40 mila persone perderanno il loro lavoro in virtù di questo allontanamento di massa. [2]
Secondo, l’AP si è impegnata a non aumentare i salari del settore pubblico per i prossimi tre anni. In un contesto di inflazione molto elevata (11% annua a marzo 2008) e rapida crescita dei prezzi alimentari ed energetici, questo congelamento salariale condurrà aldisastro la media delle persone in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Infine, un ulteriore elemento chiave del PRDP è la richiesta che i cittadini presentino un "certificato di pagamento" delle utenze per ricevere alcuni servizi comunali o statali. Questa misura avrà un impatto drammatico sui poveri, poiché il sovvenzionamento delle bollette di elettricità ed acqua (permettendo a questi servizi di continuare ad essere erogati nonostante il non pagamento dei conti) era un mezzo fondamentale di sopravvivenza per milioni di persone in un ambiente dai rapidi movimenti a spirale dei livelli di povertà.
Questa nuova misura significa che, agli individui che fanno domanda per vari servizi – incluse le richieste per carta di identità, patente di guida, licenze edilizie, ecc – sarà negata in caso di debiti insoluti. Gli impiegati del settore pubblico si vedranno decurtati i debiti delle utenze dai loro salari.
Le Istituzioni finanziarie internazionali mettono una tale alta priorità sul PRDP che virtualmente l’intero sostegno dei donatori all’Autorità palestinese inclusi i 7,7 miliardi di dollari messi inconto alla Conferenza di Parigi è condizionato alla sua realizzazione. Al fine di assicurare quest’accondiscendenza, un nuovo conto bancario, chiamato Fondo di garanzia del PRDP, è stato istituito e attraverso questo fluirà l’appoggio internazionale all’AP. Questo conto ha la sua sede a Washington ed è gestito dalla Banca Mondiale.
La BM ha affermato esplicitamente che i pagamenti attraverso questo conto sono stabiliti sulla base "dell’accertamento dei progressi nella realizzazione del PRDP". [3]

Una "Cultura del Diritto"?
Per una piena comprensione dell’impatto del PRDP è necessario collocare tali misure all’interno della situazione economica esistente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Durante il periodo 1999-2007, il Pil pro capite palestinese è decresciuto di circa due terzi ed i risparmi personali sono stati prosciugati come risultato degli attacchi israeliani alle aree palestinesi. Questi sono i peggiori livelli di povertà mai visti: circa i tre quarti delle famiglie di Gaza e oltre la metà di quelle in Cisgiordania ora vivono in povertà. [4]
In aggiunta, nel corso degli ultimi 15 anni c’è stato un cambiamento significativo nella struttura della forza lavoro palestinese, che va a combinarsi ulteriormente agli effetti di queste politiche. Israele ha ridotto l’uso di manodopera palestinese in settori come quello edile o agricolo, sostituendola con forza lavoro migrante proveniente da Asia ed Europa orientale. Di conseguenza, il lavoro fornito dall’Autorità Palestinese è divenuto un fattore chiave per la sopravvivenza dei palestinesi. Circa 1/5 dei lavoratori palestinesi in Cisgiordania e Striscia di Gaza sono impiegati nell’AP nei settori dell’istruzione, salute, sicurezza, ed affari municipali. In un ambiente contraddistinto da crescenti rapporti di dipendenza (nel 2007, una media di 5,3 persone dipendono da ciascuna persona impiegata), quasi 1 milione di persone fanno affidamento sui salari che provengono dal lavoro nel settore pubblico. [5]
Il 5 febbraio 2008, subito dopo l’annuncio delle misure fiscali del PRDP, i lavoratori del settore pubblico hanno lanciato uno sciopero.
Inoltre, per protestare contro i tagli salariali ed il "certificato di pagamento", i lavoratori hanno chiesto un aumento della componente salariale rappresentata dalle "spese di viaggio" a causa dei loro costi sempre più alti (conseguenza dei posti di controllo militari israeliani e degli aumenti del prezzo del combustibile). [6]
Lo sciopero, comunque, è stato un insuccesso per quanto riguarda il tentativo di fermare la realizzazione del PRDP. Una delle ragioni principali sta nel fatto che i lavoratori del settore pubblico in Cisgiordania (ed i loro rappresentanti sindacali) sono tradizionalmente legati a Fatah, il partito dominante che controlla l’Autorità Palestinese ed è responsabile per il PRDP. A causa di questa relazione, gli scioperi e le altre azioni dei lavorator itendono ad essere limitate in nome della convenienza politica. [7]
Ciononostante, lo sciopero ha indicato la profonda frattura tra la parabola neoliberista dell’Autorità palestinese ed i suoi richiamimai sopiti alla liberazione nazionale. Una delle più dure indicazioni di ciò è stato il linguaggio usato dalla dirigenza dell’AP i nriferimento alla proposta del PRDP riguardo al "certificato di pagamento". Ripetutamente in tutto lo sciopero, alti rappresentanti dell’AP hanno preso a condannare i lavoratori del settore pubblico ed i poveri per la loro supposta "cultura del non pagamento" e "senso del diritto."
Deve essere compreso chiaramente che la popolazione palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non ha il controllo sui servizi di base come acqua, elettricità ed accesso telefonico. Come risultato del sistema di controllo stabilito da Israele in queste aree, tutte queste utenze sono fornite da società israeliane attraverso interlocutori palestinesi. La bolletta che un cliente riceve per l’elettricità può essere scritta in arabo, ma il servizio fa capo in ultima analisi ad una società israeliana (con l’eccezione di una piccola quantità di energia elettrica generata nella Striscia di Gaza).
A causa di questa relazione, il "certificato di pagamento" contenuto nel PRDP in sostanza significa che l’AP ha assunto il ruolo di esattore del debito per le società israeliane, scegliendo di designare come bersaglio gli strati più poveri della comunità per sostenere le strutture di occupazione. Anche peggio, il linguaggio neoliberista adottato dall’AP biasima milioni di persone, che vivono in condizioni di povertà mai viste prima, perché tentano di trovare modi di sopravvivenza.
L’Attivista sudafricano, Salim Vally, ha recentemente notato che i governi municipali neoliberali in Sudafrica utilizzano lo stesso linguaggio della "cultura del diritto" per descrivere l’incapacità dei residenti dei distretti poveri nel pagare i nuovi costi delle utenze. In una conferma impressionante dei trend simili inambo i paesi, Vally rivela effettivamente che, alcuni anni fa, funzionari del governo municipale della sudafricana Cape Town consegnarono ad una delegazione palestinese in visita (incluso il caponegoziatore AP, Saeb Erekat), una fornitura di contatori dell’acqua prepagati come parte del percorso di incoraggiamento per l’imposizione di tariffe all’utenza. L’AP si è impegnata ad installare questo tipo di contatori come parte del PRDP. [8]
Espellendo 1/5 della forza lavoro, imponendo un congelamento salariale per rispondere all’impennata dei prezzi, e costringendo i poveri a pagare immediatamente milioni di dollari di debiti, il PRDP avrà un impatto brutale e senza eguali sulla popolazione. Queste misure neoliberiste apriranno indubbiamente spaccature significative all’interno delle diverse forze politiche e dei movimenti sociali nel prossimo futuro. Però la chiave di ogni valida risposta è la comprensione che il PRDP non è solamente un tentativo calcolato di impoverire la popolazione. Piuttosto, punta a completare la seconda componente del Piano: il suo particolare modello "sviluppo"."Sviluppo" e modello di zona industriale.
A fianco delle misure fiscali discusse sopra, il PRDP promuove una serie di progetti di sviluppo che sono stati appoggiati pesantemente da Stati Uniti, UE e dal governo israeliano. Una precondizione essenziale di questo modello di sviluppo è l’esistenza di una grande fascia di lavoratori palestinesi disperati, colpiti dalla povertà, disposti ad accettare i lavori concepiti per questo tipo di sviluppo. Questa è l’intersecazione fra la componente della "riforma" e quella dello "sviluppo" del PRDP.
Il modello di sviluppo del PRDP aspira all’utilizzo di lavoro palestinese a basso costo in zone industriali, localizzate ai bordi del mosaico dei territori palestinesi della Cisgiordania. In questo scenario, il capitale israeliano, palestinese e regionale coopereranno (sotto la bandiera della "pace") all’interno di queste zone industriali per approfittare dei relativi costi salariali palestinesi molto bassi. Mentre alcuna di queste produzioni coinvolgeranno settori tradizionalmente a basso valore aggiunto come quello tessile, alcune zone si concentreranno sui settori high tech complementar iall’economia israeliana, dove una forza lavoro palestinese bene istruita può offrire alternative di basso salario. I beni prodotti saranno esportati verso Stati Uniti, Unione Europea e gli stati del Golfo. L’Autorità Palestinese assumerà il ruolo di polizia nei confronti dell’esercito industriale di riserva composto da diversi milioni di lavoratori, chiusi dietro ai muri e ai check points dei territori palestinesi. In cambio, la dirigenza dell’AP maneggerà le leve di uno stato, otterrà per sé i diritti a viaggiare e muoversi liberamente, e guadagnerà una quota degli utili che scaturiscono dalle zone.
La prima fase in questo schema si concentra sulla Cisgiordania dove il governo di Abu Mazen e Salam Fayyad gestiscono il potere e sono capaci di portare a compimento questa idea con l’appoggio d’Israele. Una serie di zone industriali è progettata per le aree nei pressi di Jenin, Nablus e Tarqumiya (vicino ad Hebron). Anche se i dettagli esatti sono stati taciuti, la richiesta delle istituzioni coinvolte per la fase iniziale è stimata essere rivolta all’assunzione diretta di circa 40 mila lavoratori, con un numero simile di lavori creati "indirettamente" fuori dalle zone [9]. Se questi progetti andranno in porto avranno un impatto notevole sulla struttura del lavoro palestinese in Cisgiordania: appena sotto il 20% dei lavori in Cisgiordania sarà legato in qualche modo a queste zone industriali.
In queste zone, le leggi sul lavoro palestinesi ed israeliane, i livelli salariali, le regolamentazioni ambientali, o le altre limitazioni riguardo i luoghi di lavoro non verranno applicate. I movimenti in entrata ed uscita dalle aree saranno controllati dalle forze militari israeliane e da quelle di sicurezza palestinesi.
Presumibilmente, se verrà applicato il modello tipico di controllo del movimento di Israele, i lavoratori avranno bisogno di superare severi esami di sicurezza per ottenere i permessi di lavoro necessari. In questo modo, l’abilità al lavoro dipenderà dall’adeguamento agli ordini dei militari israeliani (più di 11 mila palestinesi sono attualmente detenuti come prigionieri politici per aver violato questi ordini). Al principale sindacato in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, la Federazione Generale dei Sindacati Palestinesi (PGFTU), non è stato dato il diritto di rappresentare i lavoratori nelle zone industriali. I piani per la zona di Tarqumiya sembrerebbero confermare questa previsione. La Turchia sarà il maggiore partner finanziatore delle aziende nella zona e controllerà la sicurezza interna. AP e Israele controlleranno la sicurezza esterna dai loro rispettivi lati. Fonti turche si aspettano circa 200 fabbriche nella zona con circa 10 mila palestinesi assunti. Rappresentanti d’affari turchi fanno esplicitamente notare che in un ambiente globale di prodotti cinesi a buon mercato, zone come Tarqumiya aiuteranno la ricollocazione dell’industria turca nella regione per avvantaggiarsi del basso costo del lavoro, facendo anche intuire che i beni prodotti nella zona sarebbero esportati verso Stati Uniti, EU e gli stati del Golfo. [10]
Oltre a sfruttare manodopera a basso costo, queste zone servono a normalizzare e legittimare le esistenti strutture d’occupazione. Un chiaro esempio di ciò è mostrato dal caso della Zona Industriale di Jenin (JIE). Il terreno è stato confiscato per due volte ai contadini palestinesi: nel 1998, quando l’AP discusse l’idea di una zona industriale; e poi ancora una volta nel 2003, quando i militari israeliani confiscarono la terra come parte della costruzione del muro di segregazione razziale, la "bufferzone" [11]. In realtà, in un esempio impressionante di come questo modello di sviluppo èintegrato con le strutture d’occupazione, il Muro formerà il confinesettentrionale del JIE.
La centralità del modello di zona industriale di "sviluppo" per Stati Uniti, Israele ed AP è stato confermata alla fine di marzo 2008, durante una visita del segretario di stato nordamericano, Condoleeza Rice, nella regione. Il 30 marzo, alla riunione di Gerusalemme tra Rice, il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, e il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad, la costituzione di zone industriali è stato il maggiore argomento di discussione. Alla riunione, Israele si è mostrata d’accordo ad agevolare la creazione del complesso di Tarqumiya, presentandola come una misura per la "costruzione della fiducia". Il progetto di Tarqumiya è anche stato pesantemente incoraggiato dal rappresentante del Quartetto, Tony Blair, come uno dei quattro progetti, a cosiddetto "impatto rapido", collegati allarealizzazione del PRDP.

La "Conferenza per gli investimenti in Palestina" di maggio
Come indicato nell’incontro di marzo tra Rice, Barak e Fayyad, la costruzione di zone come Tarqumiya e la JIE rappresentano un’alta priorità delle attuali trattative politiche. Un altro elemento affrontato della riunione a tre è stato la discussione su come Israele avrebbe dovuto aiutare la "Conferenza per gli investimenti in Palestina", a Betlemme il 21-23 maggio.
Questa conferenza ha confermato indiscutibilmente la traiettoria neoliberale dell’Autorità palestinese e l’integrazione dell’occupazione militare israeliana nel proprio modello di sviluppo. Oltre 1000 delegati erano presenti alla conferenza, incluse tutte le figure chiave dell’Autorità Palestinese (Abu Mazen, Salam Fayyad egli altri ministri strategici) [12]. Ha riunito i più ricchi capitalisti palestinesi provenienti da fuori (particolarmente dal nord America ed Europa), con i gruppi del capitale regionale arabo di Giordania, Golfo ed altrove. La conferenza è stata patrocinata dai principali gruppi d’affari palestinesi attivi in Cisgiordania e Gaza (incluse Arab Bank, Bank of Palestine, Paltel, Consolidated Contractors Company, Arab Palestinian Investment Company) dal grandecapitale estero (CISCO, Intel, Coca Cola, Marriott Hotels, Booz Allen Hamilton) e da organizzazioni governative statunitensi ed europee (USAID, DFID, e Agenzia di Sviluppo francese).
Lo scopo principale della conferenza era propagandare gli attacchi neoliberali al settore pubblico predisposti dall’AP nell’ambito del PRDP, descrivendoli come "buoni per gli affari" un’allettante ragione per investire nelle aree palestinesi. Oltre alle zone industriali sopra citate, molti altri progetti sono stati promossi nel corso dell’intera conferenza, con l’intento di unire il capitale arabo e israeliano in investimenti congiunti. Uomini d’affari israeliani sono stati incoraggiati ad assistere, anche se questo fatto non è stato ampiamente pubblicizzato a causa dell’opposizione dell’opinione pubblica palestinese a questo tipo di progetti unitari.
Uno dei progetti messi in evidenza durante la conferenza era il "Corridoio per la Pace e la Prosperità" (CPP) che ha come scopo la creazione di una zona agro-industriale nelle aree fertili della Valle del Giordano. Per secoli questa valle è stata un’area agricola chiave per i coltivatori palestinesi della Cisgiordania. Ma a seguito della sua occupazione nel 1967, i militari israeliani hanno iniziato ad espellere molti di questi coltivatori, confiscando la terra, e stabilendo insediamenti ebraici (prima come colonie agricole-militari e poi come colonie agro-industriali e civili). Con il controllo dell’acqua, delle vie d’accesso e delle altre risorse, la terra divenne sostanzialmente zona militare israeliana anche se villaggi palestinesi isolati rimasero nell’area.
Il CPP punta a stabilire una zona agricola di libero scambio nell’area che trasformerà gli agricoltori palestinesi su piccola scala in lavoratori a giornata subappaltati alla grande agro-industria controllata dal capitale israeliano e regionale [13]. In altre parole, non solo il CPP accetta l’occupazione e l’espropriazione della terra che ha avuto luogo durante il corso degli ultimi 40 anni nella Valle del Giordano, ma ha come obiettivo l’integrazione di questa occupazione nel progetto stesso. La crescita della produzione agricola generata dal CPP non farà niente per rispondere alle preoccupazioni legate alla sicurezza alimentare nell’area: la produzione è destinata all’esportazione verso Israele e gli stati del Golfo.
Un’indicazione finale della relazione tra le strutture dell’occupazione ed il modello di sviluppo neoliberale è rappresentato dall’appoggio fornito dai militari israeliani alla conferenza stessa. Mentre i residenti di Betlemme quotidianamente non sono in grado di muoversi senza elaborate procedure di sicurezza, speciali carte d’identificazione colorate e posti di controllo riservati sono stati messi a disposizione dei corsisti della conferenza, accordando loro il permesso di entrare nel paese e diviaggiare senza fastidi o controlli ai confini israeliani. Nonostante il fatto che oltre 200 palestinesi nella Striscia di Gaza sono morti nell’ultimo anno a causa dell’assedio israeliano e dell’impossibilità di muoversi per trattamenti medici urgenti, le autorità israeliane hanno permesso agli uomini d’affari di Gaza di prendere parte alla conferenza. Un segnale, esposto dai militari israeliani all’ingresso di Betlemme, dava il benvenuto ai partecipanti alla conferenza. Il segnale era scritto in arabo, ebraico e inglese, adornato dai logo dell’occupazione militare israeliana.
Deve essere rilevato che la conferenza ha visto la forte opposizione delle organizzazioni di massa all’interno della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Una dichiarazione rilasciata dal "Comitato nazionale per il boicottaggio alla spogliazione e alle sanzioni", e sottoscritta da un ampio schieramento di forze politiche, riportava: "Lo sviluppo economico e sociale in Palestina è fondamentale, ed è per noi un imperativo intraprendere azioni per migliorare l’attuale situazione economica e politica. Tuttavia, nonostante le conferenze nazionali ed internazionali in corso, ideate per unire le imprese ele risorse nazionali, e nonostante il sostegno della solidarietà internazionale, noi crediamo che la conferenza economica che sarà tenuta a Betlemme nei prossimi giorni, con la presenza di rappresentanti israeliani ufficiali ed ufficiosi, abbia serie implicazioni politiche che non possono essere ignorate... I progetti proposti hanno come punto di partenza la partecipazione israeliana con un ruolo decisionale, ed il controllo israeliano sul loro status giuridico... [i progetti] sono pensati per soddisfare la domanda economica dell’amministrazione israeliana, non quella del popolo palestinese... Questi non sono i progetti di sviluppo che vogliamo o di cui abbiamo bisogno. Ciò che chiediamo è una conferenza nazionale palestinese con l’appoggio arabo ed internazionale per fortificare la perseveranza palestinese e come passo verso la fine della dipendenza dall’occupazione e dalla sua economia." [14]
In somma, le misure fiscali del PRDP e gli associati progetti di sviluppo non contribuiranno in nessun modo alla fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. In realtà, queste misure agiranno solamente per rafforzare quest’occupazione conferendole una supposta legittimità, consacrando la leadership dell’Autorità Palestinese. L’enorme maggioranza della popolazione di queste aree vedrà peggiorate le condizioni di vita come diretto risultato di questi piani. Ma, mentre il PRDP ed eventi come la Conferenza per gli investimenti testimoniano in modo schiacciante la deriva dell’Autorità Palestinese, le forze che guidano questo tipo divisione neoliberale non sono semplicemente il risultato della corruzione, della lotta corpo a corpo, o di scelte strategiche sbagliate. Piuttosto, sono impresse all’interno dell’intera riconfigurazione economica a guida statunitense del Medio Oriente.
La seconda parte di questo articolo analizzerà questo processoregionale ed il ruolo della Palestina all’interno di esso.

Note:

1. Stop the Wall, "National BDS Steering Committee: Bethleheminvestment conference: development or normalization," at www.stopthewall.org
2. The PA attempts to obfuscate this mass lay off by claiming that thoselosing their jobs were not 'legally appointed.’ Regardless of thehiring procedures, this will have an enormous impact on those relyingupon this employment for survival. See Palestinian National Authority,"Building a Palestinian State: Towards peace andprosperity," p.14, www.imeu.net/engine/uploads/pnafullreport.pdf.
3. World Bank, Trust Fund Details – as of June 2008, www.worldbank.org
4. Karen Laub, "IMF: Palestinian Reform Plan Doable",Associated Press, 11 December 2007.
5. Statistics on labour force and dependency ratios available fromPalestinian Central Bureau of Statistics, at www.pcbs.gov.ps
6. Amira Hass, "Democratic Suspicion", Haaretz, 6 February 2008.
7. A similar dynamic was revealed during the last significant strikeover 10 years ago, when Palestinian teachers sought to win higher wagelevels. This 1997 strike was initiated and led by a grassrootscommittee of teachers who bypassed the traditional union structuresallied to Fatah. It was met with severe repression that saw dozens ofteachers arrested by the Palestinian Authority. Industrial action byteachers continued off and on until 2000, when the onset of thePalestinian uprising ended organizing attempts in the name of"national unity."
8. Salim Vally, "From South Africa to Palestine: Lessons for theNew AntiApartheid Movement," Left Turn Magazine.
9. See the Palestinian Industrial Estates and Free Zones Authority, www.piefza.org
10. Guven Sak, "The Challenge of Developing the Private Sector inthe Middle East," The Economic Policy Research Foundation ofTurkey, May 2, 2008.
11. Stop the Wall, "Development or normalization? A critique ofWest Bank development approaches and projects", at www.stopthewall.org
12. See the conference website at www.picpalestine.ps for theconference attendees, press coverage, and presentations.
13. See "Development or normalization?", op cit, for a full critique of this project
14. Stop the Wall, "National BDS Steering Committee: Bethleheminvestment conference: development or normalization", www.stopthewall.org

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Palestina: Tra neoliberismo e potere Usa
II parte, Neoliberismo, il “Nuovo Medio Oriente” e la Palestina

Nei tardi anni ‘60, con il crollo definitivo del colonialismo inglese e francese in Medio Oriente, gli Stati Uniti divennero la potenza imperiale dominante nella regione. A causa della presenza del petrolio, il Medio Oriente assunse un’importanza cruciale per la costruzione complessiva dell’egemonia nordamericana all’interno dell’ordine globale. Il controllo delle risorse regionali funzionò nello stesso tempo per assicurare una merce vitale, per offrire una fonte di profitto, e come clava con cui influenzare le potenze rivali all’interno del mercato globale. Negli ultimi 30 anni, la regione – in particolar modo gli stati del Consiglio per la Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, GCC) ha assunto, in modo crescente, l’importante ruolo di fonte dei flussi di surplus di capitale e da ora il potere complessivo all’interno dell’ordine finanziario globale.
La politica degli Stati Uniti nella regione è guidata da questi fattori. Poiché il Medio Oriente è un collegamento vitale dell’intero potere statunitense nell’economia globale, è necessario sviluppare una struttura politica che sostenga e conservi la loro influenza nella regione. Questa struttura politica (altrimenti nota come “politica estera” USA) è sviluppata attraverso i dibattiti quotidiani, le lotte e le sperimentazioni del capitale statunitense e dei suoi rappresentanti nei governi, le commissioni ed i think tank.
Nonostante le reali ed importanti differenze che continuamente sorgono, un largo consenso è emerso in tutti gli ultimi quarant’anni su come esercitare e mantenere l’influenza nella regione. Questo consenso poggia su tre pilastri fondamentali.
Primo, come altrove nel mondo, gli Stati Uniti contano su governi corrotti e ristrette élite che sono dipendenti per la sopravvivenza militare ed economica. Lo possiamo chiaramente vedere nel caso della Giordania e dell’Egitto, due alleati chiave degli Stati Uniti nella regione. Questi governi cooperano da vicino con gli Stati Uniti nelle questioni di sicurezza regionale e di relazioni economiche, così come nella globale “guerra al terrore”. Possiedono reti estese di polizia segreta, e le loro prigioni sono affollate di individui che sono stati torturati in stretta cooperazione con la CIA ed altri corpi. Le loro economie sono spalancate all’investimento straniero e il neoliberismo detta legge da anni.
In secondo luogo, oltre che su questi regimi clientelari, il potere degli Stati Uniti poggia sui paesi riuniti attraverso il progetto d’integrazione regionale, il Consiglio per la Cooperazione del Golfo.
Il GCC fu stabilito nel 1981 tra Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Come progetto di integrazione regionale, il GCC è simile all’Unione Europea e mira a creare una zona economica unica che regoli i sei stati membri attraverso leggi uniformi, politiche economiche, una banca centrale comune, e una sola valuta entro il 2010. I paesi del GCC sono alleati particolarmente fidati degli Stati Uniti. Il loro pesante affidarsi a manodopera migrante indica che differiscono da stati come Iraq, Iran, Egitto e ogni altro luogo in cui i forti movimenti indigeni della classe operaia rappresentano una potenziale minaccia. Il GCC è anche un avamposto decisivo per le forze armate USA nella regione. Nel 2003, gli Stati Uniti hanno trasferito la sede del CENTCOM, il centro di comando unificato per le operazioni in 27 paesi, nel Qatar. Dal 2005, secondo un rapporto congressuale statunitense, più di 100 mila unità del personale militare USA sono state localizzate negli stati del Golfo (non includendo gli approssimativamente 150 mila in Iraq o il personale di sicurezza che agisce per le agenzie private). [1]
Infine, il terzo e più importante puntello del potere degli Stati Uniti nella regione è lo Stato israeliano. Fin dalla guerra del 1967, Israele ha avuto un ruolo chiave nel difendere gli interessi nordamericani nella regione. È l’arma che gli Stati Uniti utilizzano quando vogliono schiacciare i movimenti popolari ma non sono in grado di passare direttamente ad un’invasione. Sono molti gli esempi a questo proposito: partendo dal 1967 e continuando per tutti gli anni settanta, gli attacchi militari e gli assassinii israeliani falciarono in tutta la regione i movimenti nazionalisti arabi che stavano minacciando i regimi protetti. Durante gli anni ottanta, Israele fu usato per schiacciare le forze palestinesi e progressiste in Libano. In più occasioni Israele ha appoggiato gli obiettivi di politica estera USA nel mondo. Era un perno politico, il sostenitore militare ed economico del Sudafrica dell’apartheid e, negli anni di punta del boicottaggio e delle sanzioni economiche, era il canale d’ingresso delle merci sudafricane in Europa (una delle ragioni della posizione centrale di Israele nel commercio mondiale di diamanti). In America Latina e Centrale, armi ed istruttori israeliani furono impiegati per armare ed equipaggiare le dittature militari della regione durante glianni ottanta. Dai primi anni novanta, all’interno di una situazione geopolitica globale generalmente più favorevole, gli Stati Uniti stanno tentando di dare nuova forma alla relazione tra questi tre pilastri d’appoggio per consolidare meglio il loro potere e influenza. Il fine ultimo di questa politica è legare insieme questi tre pilastri in una sola zona economica neoliberista (chiamata “Nuovo Medio Oriente” da Condoleeza Rice nel 2006). E’ molto importante comprendere questa strategia: è centrale rispetto all’odierna politica dispiegata nella regione, così come lo sono le specifiche forze che sono a capo dei piani economici quali il PRDP (Piano di Riforma e Sviluppo Palestinese).

Nuovo Medio Oriente e MEFTA
L’impulso centrale alla strategia del Nuovo Medio Oriente arriva dall’intensificarsi delle politiche economiche neoliberiste – caratterizzate da privatizzazioni, accordi di libero scambio, abbattimento del settore pubblico, apertura all’investimento estero, taglio dei sussidi statali, e così via – in tutti gli stati della regione. Nell’ultimo decennio, sedotti da istituzioni finanziarie internazionali come Banca Mondiale e FMI e sostenuti da organismi regionali come il Fondo Monetario Arabo ed il Consiglio Arabo per gli Affari, tutti governi nella regione hanno virtualmente abbracciato queste politiche.
La svolta neoliberista è indicata dalla rapida ondata di privatizzazioni in Medio Oriente: fabbriche, linee aeree, servizi postali, ospedali, banche, centrali elettriche e idriche, sono state trasferite in mani private. In particolar modo, dalla prospettiva degli Stati Uniti e del capitale straniero, l’apertura dei campi petroliferi e di estrazione del gas della regione (e dei settori dell’industria petrolchimica) promette un’inversione generazionale nelle strutture della proprietà. L’esempio più drammatico è chiaramente visibile in Iraq, dove il governo ha recentemente accettato il ritorno delle quattro più grandi società petrolifere occidentali (le stesse che hanno controllato il petrolio irakeno dagli anni venti sino alla nazionalizzazione del 1972). Nonostante l’unicità dell’occupazione irakena, questo non è un esempio isolato. Anche altrove nel Golfo, società petrolifere straniere stanno guadagnando l’accesso alle risorse di petrolio e gas, da cui sonostate tenute lontane per decenni. Nel 2003, per esempio, alle compagnie petrolifere straniere è stata consentita l’esplorazione per la ricerca di gas in Arabia Saudita per la prima volta da trent’anni a questa parte.
Le politiche neoliberiste hanno anche significato la sospensione dei sussidi su beni e servizi di base come cibo, combustibile, elettricità ed acqua, ed affitto. Questo è spesso commissionato da Banca Mondialee FMI in cambio di prestiti ed altri aiuti. Come già nel 1991, quando un prestito della Banca Mondiale alla Giordania fu condizionato al raddoppio del prezzo dell’elettricità e ad un aumento del prezzo dell’acqua del 140%. E quest’anno in Egitto, dove il 22% della popolazione vive al di sotto del livello di povertà fissato a 1 dollaro al giorno, e con i prezzi degli alimentari che sono più che raddoppiati rispetto l’anno passato, il governo alzò le imposte sui prezzi del combustibile che hanno portato ad un incremento di prezzo di più del 40% in una notte. L’aspetto più di grande portata del neoliberismo nella regione, comunque, è la realizzazione degli Accordi bilaterali di Libero Scambio (Free Trade Agreements FTA).
Gli Stati Uniti hanno firmato i FTA con singoli paesi inclusi Bahrain,Oman, Egitto, Giordania, Israele e Marocco. Questi FTA impegnano i paesi in questione ad aprire i loro mercati alle società statunitensi e le dispensano dalle politiche di controllo delle importazioni (come il privilegiare società locali o impedire il flusso di capitale estero nella regione). Facendo così, provocano inevitabilmente la distruzione delle industrie locali e, cosa più importante, l’incapacità dei paesi di aumentare la spesa pubblica ed i servizi destinati ad aiutare i poveri (giacché sarebbe considerato “discriminatorio”).
C’è uno sviluppo supplementare dei FTA nella regione che è essenziale comprendere: l’Area di Libero Scambio per il Medio Oriente (Middle East Free Trade Area MEFTA). Annunciata dagli Stati Uniti a metà del 2003, lo scopo del MEFTA è una unica area di libero scambio lungo il Medio Oriente entro il 2013. La logica dietro al MEFTA è esplicitamente neoliberista: il massimo della ricchezza, felicità e prosperità saranno realizzate rimuovendo tutte le barriere alle esportazioni e ai flussi di capitale verso e all’interno della regione, trattando il capitale straniero alla pari di quello nazionale, adottando programmi molto estesi di privatizzazione, permettendo la proprietà straniera, e riducendo la spesa dello stato sui servizi sociali. Nel giugno 2003, l’allora rappresentante statunitense per il commercio, Robert Zoellick, pronunciò un discorso al Forum Economico Mondiale in Giordania in cui delineò esplicitamente questi principi come i cardini del piano MEFTA. Il discorso di Zoellick biasimò la povertà, la disoccupazione ed il terrorismo provocati dalla “autarchia” araba e da “modelli socialisti fallimentari”. Argomentò che se le economie fossero state liberalizzate ed aperte al capitale straniero, all’interno di un blocco commerciale regionale, questi problemi sisarebbero risolti. Secondo Zoellick, l’obiettivo degli Stati Uniti “è assistere le nazioni pronte ad abbracciare la libertà economica e lostato di diritto, integrarsi all’interno del sistema del commercio globale, e portare le loro economie nell’era moderna”. [2]
La strategia statunitense era negoziare individualmente con i paesi “amici” usando un processo graduale a 6 tappe che eventualmente condurrebbe ad un FTA completo tra gli Stati Uniti ed il paese in questione. Questi FTAs individuali sarebbero poi collegati nel tempo finché l’intero Medio Oriente cadrebbe sotto l’influenza commerciale degli Stati Uniti. Essenzialmente, la logica che guida il MEFTA è la creazione una zona economica di libero scambio lungo tutta la regione, ancorata al capitale israeliano ad ovest ed a quello del Golfo ad est, ed entrambi legati all’economia del centro capitalistico avanzato degli Stati Uniti. Questo è ciò che intende Condoleeza Rice per “Nuovo Medio Oriente”.

Normalizzazione con Israele
Di capitale importanza per la realizzazione di questo progetto è l’integrazione economica e politica di Israele nella regione. È molto importante capire questo punto: “normalizzazione” (come è stata definita dalla sinistra palestinese ed araba) è la conditio sine qua non del MEFTA e di una visione neoliberale per la regione. Il rifiuto della normalizzazione ha da molto creato una linea che divide le forze progressiste della regione da quei governi e leader che mirano ad una collaborazione con Israele e l’imperialismo USA. Il contrasto di base dietro al rifiuto è che Israele non dovrebbe essere considerato un paese “normale” nella regione finché rifiuta di riconoscere l’esplicita natura coloniale del sionismo e nega il diritto al ritorno e all’autodeterminazione dei palestinesi. L’insistenza degli Stati Uniti sulla normalizzazione economica epolitica dei rapporti tra gli stati arabi e Israele non è nuova. Il nesso di quest’obiettivo con le politiche di stampo neoliberista, comunque, venne in superficie durante gli anni novanta con gli Accordi di Oslo. Come indicato ad Oslo, gli Stati Uniti e le altre potenze mondiali promossero una serie di quattro vertici consecutivi, noticome Vertici Economici per il Medio Oriente e il Nord Africa (MENA), il primo dei quali tenuto in Marocco nel 1994. Il governo giordano non si dimostrò preoccupato nell’appoggiare lo scopo di normalizzazione dei MENA, col suo ministro degli esteri che apertamente notava che i summit erano “concepiti per creare interdipendenze economiche tra gli stati arabi e Israele, promuovere contatti personali tra le due parti e alimentare il commercio, gli investimenti e lo sviluppo”. [3]
A seguito della rivolta palestinese sul finire del 2000 [settembre 2000, Intifada di alAqsa, N.d.T.] e dell’apparente rottura delle trattative tra Israele e AP, la discussione sulla tendenza alla normalizzazione delle relazioni con Israele potrebbe apparire sbagliata. Lontano dalla ribalta dell’attenzione pubblica, gli intrecci economici e politici tra Israele e i governi arabi continuano ad approfondirsi. Un esempio del sostanziale collegamento tra neoliberismo e normalizzazione è rappresentato dagli accordi bilaterali del FTA. Ciascuno degli accordi tra Stati Uniti e i paesi nella regione contiene una clausola che impegna il paese in questione alla normalizzazione con Israele e impedisce ogni boicottaggio delle relazioni commerciali.
Forse la conferma più rivelatrice del modo in cui la normalizzazione è stata inquadrata nel progetto neoliberista è lo stabilimento delle cosiddette Zone Industriali Qualificate (Qualified Industrial Zones QIZ) in Giordania ed Egitto. Queste zone sono il risultato di accordi economici tra Stati Uniti, Israele, Giordania ed Egitto. La loro istituzione contiene il provvedimento straordinario per cui i beni prodotti in queste aree industriali possono guadagnare lo status di esenzione da imposta per gli Stati Uniti, a patto che una certa proporzione di importazioni sia israeliana.
La maggior parte di queste QIZ includono aziende tessili che si comportano come subappaltatrici per il grande capitale nordamericano come Walmart, GAP e le altre catene di abbigliamento. Le stesse aziende sono di proprietà del capitale regionale ed internazionale, prevalentemente di Emirati Arabi Uniti, Israele, Cina, Taiwan, e Corea. Benché sia difficoltoso determinare accuratamente la grandezza della forza lavoro delle QIZ, si valuta che in Giordania contino 40mila lavoratori, la maggior parte dei quali sono migranti provenienti da Bangladesh, Sri Lanka e da altri paesi sud asiatici. Le condizioni nelle quali lavorano sono orribili e raramente affrontate dalla sinistra araba e dai sindacati. Nessuna legge sul lavoro è applicata e ai lavoratori sono impedite unioni sindacali. Le paghe sono così basse da raggiungere i 2 centesimi l’ora, per 72 ore settimanali. I lavoratori sono percossi regolarmente, abusati sessualmente, e forzati a vivere in condizioni di sovraffollamento e sporcizia estreme. Essi devono pagarsi il viaggio in Medio Oriente ed i loro passaporti sono confiscati all’arrivo. [4]
Queste QIZ sono divenute dominanti nelle relazioni commerciali bilaterali tra gli Stati Uniti e la Giordania (ed in una minore estensione l’Egitto). Nel 2007, il governo statunitense riportava che le esportazioni dalle tredici QIZ stabilite in Giordania ammontavano ad uno stupefacente 70% delle esportazioni totali della Giordania verso gli Stati Uniti [5].
L’Egitto ha lanciato la sua prima QIZ nel 2004 ed ora ha un totale di quattro di queste aree. Nel 2006, la proporzione di esportazioni egiziane verso gli Stati Uniti prodotte nelle QIZ era arrivata al 26% di quelle totali. Queste zone sono costruite per saldare insieme il capitale israeliano e arabo, integrandoli col mercato statunitense e l’impero americano, nello sfruttamento congiunto di lavoro a basso costo. Nessuna rappresentazione più chiara può essere trovata sul modo in cui gli Stati Uniti prevedono che sia il Nuovo Medio Oriente.

Distruggere l’unità popolare
Un corollario a questa visione ispirata dagli Stati uniti, di un’unica zona economica neoliberale che colleghi il capitale israeliano e mediorientale, riguarda i tentativi volti a spezzare e dividere le forme di unità politica e di resistenza sociale, sia nazionale che regionale, che si oppongono a questo progetto. La politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, va sottolineato, è volta all’isolamento e alla rottura delle forze che contrastano questa visione.
Per questa ragione, l’intervento militare degli Stati Uniti nella regione deve essere inteso come un complemento necessario ad una “pace” neoliberale. Con l’occupazione americana dell’Iraq, e le minacce e tentativi di destabilizzazione e attacco in Iran, Siria e Libano, gli Stati Uniti appoggiano e alimentano quelle forze sociali che essi sperano agiranno favorevolmente verso i loro interessi nella regione, ed intraprenderanno un processo di normalizzazione con Israele, come fatto dal governo giordano ed egiziano. Il fattore più importante nella politica USA è limitare le capacità, per i paesi nella regione, di esercitare un controllo indipendente sulla politica economica o estera. In questo senso, nonostante i regimi in loco (e non dovremmo dimenticare che paesi come Iran e Siria hanno le proprie prigioni sotterranee piene di prigionieri politici), gli interessi nazionali di questi paesi inevitabilmente si scontreranno con le forme di dominio che gli Stati Uniti tentano di imporre alla regione.
Nel caso della Palestina, questo rompere l’unità nazionale della resistenza è importantissimo rispetto al successo del progetto neoliberista nella regione. A causa della stretta relazione tra la normalizzazione con Israele e il progetto USA di un’unica zona economica neoliberale che si stende attraverso il Medio Oriente, la lotta palestinese conserva una posizione centrale all’interno della più ampia lotta antimperialista regionale. Il fatto che, da sessanta anni, i palestinesi rifiutino di accettare la loro espulsione del 1947-1948 e continuino a pretendere il diritto di ritornare a vivere sulla loro terra, non è solo una potente minaccia al carattere razzista dello stato israeliano ma anche alla natura del potere statunitense nella regione. Ecco perché è impossibile per qualsiasimovimento progressista che si sviluppi nella regione non porre al centro e collegarsi alla lotta palestinese. Tutte le lotte popolari nella regione saranno presto intrecciate con la questione palestinese.
Questo significa anche che le lotte regionali vittoriose contro l’imposizione del neoliberismo agiscono per fortificare la lotta palestinese. I recenti scioperi e le dimostrazioni dei lavoratori nella città egiziana di Mahalla ne sono un esempio.
Mahalla è la sede della più grande fabbrica tessile del Medio Oriente (con 27 mila lavoratori) ed è anche il luogo di una delle QIZ dell’Egitto. Per due anni, questi lavoratori sono stati al centro di una delle più grandi ondate di scioperi in Medio Oriente, culminate più recentemente nel tentato sciopero del 6 aprile 2008, che ha incontrato la sanguinosa repressione del governo egiziano. Durante queste azioni, i lavoratori portavano cartelli che denunciavano gli stretti collegamenti tra il presidente egiziano Hosni Mubarak ed il FMI, il governo degli StatiUniti, ed il processo di normalizzazione con Israele. Questi scioperi vanno dunque intesi non solo nel loro stretto significato economico, volto a migliorare salari e condizioni nelle fabbriche egiziane, ma anche attraverso il modo in cui essi necessariamente affrontano la natura del regime egiziano ed il suo ruolo nella configurazione del potere statunitense in Medio Oriente.
Questo è lo stesso contesto nel quale devono essere considerati il PRDP e le azioni dell’Autorità Palestinese. Fin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, Israele ha puntato a troncare la popolazione palestinese in quelle aree all’interno di centri isolati divisi l’uno dall’altro dagli insediamenti israeliani, da vie stradali di accerchiamento, e da installazioni militari. Queste sacche di territorio – descritte in modo adeguato come Bantustans da molti analisti in riferimento alle “patrie” nere sotto il Sudafrica dell’apartheid – rappresenterebbero i fregi dell’autonomia. Ma in realtà non sarebbero nulla più che prigioni a cielo aperto. In sostituzione del dominio diretto israeliano sulla popolazione palestinese, una acquiescente dirigenza palestinese si interporrebbe al controllo israeliano. Come per tutte le prigioni, il reale controllo rimarrebbe nelle mani di coloro che hanno le chiavi: le forze israeliane di occupazione continuerebbero a regolare l’ingresso di merci, persone e servizi.
Il processo di Oslo è stato elaborato per formalizzare lo stabilimento di questi Bantustan palestinesi e per accordare la benedizione della “comunità internazionale” ad una Autorità Palestinese ossequiosa. Benché questa intenzione sia stata indebolita dall’inizio della sollevazione popolare palestinese del settembre 2000, è dolorosamente ovvio a chiunque voglia guardare una mappa della Cisgiordania e della Striscia di Gaza che questi Bantustan hanno assunto un’esistenza molto concreta con i contorni finali del Muro dell’apartheid che circonda i villaggi e le città nella West Bank. Un elaborato sistema di posti di controllo, carte d’identità e permessi regola completamente l’ingresso e l’uscita da queste aree di persone e merci.
Possiamo apprezzare la realtà di questo sistema di controllo nel caso di Gaza, che forse può essere meglio letto come caso test per la Cisgiordania. Dal momento che il governo di Hamas nella Striscia di Gaza non ha accettato l’idea della bantustizzazione o normalizzazione, Israele ha semplicemente scelto di chiudere 1,5 milioni di persone all’interno di una prigione a cielo aperto, tentando di farli morire di fame fino alla sottomissione. L’Autorità Palestinese, nonostante l’unità a parole di Cisgiordania e Striscia di Gaza, è stata in generale accondiscendente a questo assedio. Effettivamente, in un esempio impressionante di come il comando dell’AP abbia disinvoltamente adottato il linguaggio di Israele, un documento chiave del PRDP afferma che la colpa per l’assedio su Gaza dovrebbe essere rivolta ad Hamas [6], ignorando il fatto che la chiusura della Striscia da parte di Israele e la separazione dalla Cisgiordania non è un fenomeno nuovo, ma si ripete dal 1989 come parte di una chiara strategia per spaccare il territorio.
I capitali palestinesi e regionali sono pienamente integrati in questo progetto attraverso schemi economici congiunti come le zone industriali descritte sopra. Queste forze traggono profitto direttamente dai concordati dei Bantustan e gli sarà accordato il controllo di alcuni spazi economici in cui accumularsi. Come attesta la Conferenza per gli Investimenti in Palestina, non saranno soggetti alle stesse restrizioni di movimento come la media dei palestinesi.
Benedetta con l’appellativo “pace” dalla “comunità internazionale”, questa soluzione sarà annunciata come lo “stato palestinese”. In realtà, il mosaico spezzettato di territori e zone industriali non ha niente a che fare con l’autodeterminazione. All’interno di questa mappa in evoluzione, la Cisgiordania diventa per Israele l’ingresso nel più vasto entroterra del Medio Oriente. Le imponenti autostrade che corrono da est ad ovest attraverso la Cisgiordania, e che connettono le città israeliane sul Mediterraneo con gli insediamenti nella Valle del Giordano, sono state chiaramente progettate per molto più che il semplice traffico locale: si presume che funzionino alla stregua di canali per il commercio tra Israele ed il Golfo, (attraverso Giordania e Cisgiordania). Il successo del MEFTA, e la parallela normalizzazione di Israele in un Medio Oriente neoliberale, è racchiuso nel riuscito compimento di questo processo.

Conclusione
Attivisti e sostenitori della lotta palestinese spendono molto tempo nel documentare e riportare ad un pubblico più largo le orribili condizioni affrontate dalla popolazione palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La litania degli abusi subiti dalle persone di Gaza sotto assedio, la continua costruzione di insediamenti e del Muro dell’apartheid in Cisgiordania, i modi nei quali il movimento e la vita quotidiana sono regolate dagli ordini militari israeliani, ed i livelli in continua crescita di povertà sono tutti catalogati meticolosamente.
Questi fatti sono importantissimi per spiegare la profondità e il fine del controllo israeliano sulla Palestina. Per coloro che non hanno avuto l’opportunità di vivere o testimoniare personalmente queste condizioni, la routinizzazione della miseria, che è la realtà della vita quotidiana in Palestina, ha bisogno di essere riportata. Però, è necessario capire che il ricorso alla solidarietà basata su questi inusitati abusi dei diritti dell’uomo non va abbastanza lontano. I palestinesi non sono vittime ma un popolo in lotta. Questa lotta oltrepassa i confini della Cisgiordania e della Striscia di Gaza: è la parte centrale di una più grande lotta regionale. Oggi è impossibile comprendere gli eventi di ciascun paese nel Medio Oriente, senza collocare il contesto nazionale all’interno dell’unica, coerente ed unificata offensiva che gli Stati Uniti e gli altri stati imperialisti stanno intraprendendo contro i popoli della regione. Non è soltanto la profondità della sofferenza o la lunghezza dell’esilio che fa, della lotta palestinese, un imperativo dell’attuale solidarietà internazionale. È anche la posizione centrale di questa lotta all’interno del più ampio contesto di resistenza globale all’imperialismo e al neoliberismo. Al cuore di questa struttura regionale vi è la relazione intrinseca tra lo sviluppo del capitalismo neoliberale in Medio Oriente e la normalizzazione delle relazioni con Israele. Tutti gli sforzi degli Stati Uniti e dei regimi da loro protetti nella regione sono finalizzati allo sviluppo di questi temi interconnessi. Non è accidentale che le discussioni chiave alle riunioni regionali convenute tra Rice, i rappresentanti del Quartetto e le altre figure internazionali, vertano intorno ai modi in cui incoraggiare progetti congiunti tra il capitale israeliano e quello regionale, inclusi i capitalisti palestinesi. Ecco perché gli accordi bilaterali statunitensi FTA insistono sulla normalizzazione con Israele, e perché un tale enorme sforzo è stato profuso in programmi come le Zone Industriali Qualificate.
Gli attivisti della solidarietà possono avere un ruolo chiave nel rifiutare e prevenire questo processo di normalizzazione. Mentre questa è stato per molto tempo la richiesta dalla sinistra palestinese ed araba, ha guadagnato un’urgenza rinnovata a seguito dell’annuncio di Bush del piano MEFTA nel 2003. Nel 2005, organizzazioni di base palestinesi hanno chiamato ad un movimento globale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro lo stato israeliano alla maniera della campagna contro l’apartheid in Sudafrica [7]. Da allora, gruppi studenteschi, amministrazioni comunali, artistie unioni dei lavoratori in tutto il mondo hanno approvato le risoluzioni del BDS in supporto dell’appello del 2005. Questo movimento è importante per la lotta complessiva nella regione.
La solidarietà internazionale non è una questione di carità o di aiuto degli “sventurati”. E’ fondamentalmente è una questione di difesa e sostegno dei popoli in lotta. I BDS invocano il rafforzamento e consolidamento di quelle forze regionali che rifiutano di normalizzare i rapporti con l’occupazione e l’apartheid in Palestina. Esso è rivolto alla rottura del sostegno internazionale ideologico, economico e militare che consente alla variante israeliana dell’apartheid di continuare. Gli sforzi di delegittimazione e di contrasto dell’ipotesi di normalizzazione con lo stato israeliano rappresentano, del resto, non soltanto un atto di solidarietà con la lotta palestinese, ma anche un elemento indispensabile nel sostegno verso gli altri popoli della regione, nella lotta contro l’occupazione a guida USA dell’Iraq e nel tentativo di prevenire azioni militari contro l’Iran o contro numerosialtri movimenti popolari in Medio Oriente. Ma soprattutto a causa del ruolo centrale della regione nel sostegno all’egemonia globale degli Stati Uniti – ciò che succede in Medio Oriente ha implicazioni per tutti. Dal confronto con le politiche neoliberiste diimmiserimento e di “concorrenza al ribasso” che hanno portato alla catastrofe la stragrande maggioranza dei popoli del mondo, dipende il nostro successo futuro.

(Traduzione per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare)
Note:

1. Kenneth Katzman, “The Persian Gulf States: Issues for U.S. Policy”, 2006, Washington D.C: Congressional Research Service The Library of Congress, p.10.
2. Robert B. Zoellick, “Global Trade and the Middle East: Reawakening aVibrant Past”, Remarks at the World Economic Forum Amman, Jordan June23, 2003, at www.america.gov
3. Hashemite Kingdom of Jordan, Foreign Ministry, Middle East and NorthAfrican Summits, at www.mfa.gov.jo
4. See the May 2006 report by the National Labor Committee,“U.S. Jordan Free Trade Agreement Descends into Human Trafficking and Involuntary Servitude” for a detailed examination of these conditionsin Jordan.
5. Office of the United States Trade Representative, 2007 Trade Policy Agenda, Section III, p.5.
6. “Building a Palestinian State”, p. 4, www.imeu.net
7. See stopthewall.org/worldwideactivism/968.shtml

in “Montly Review” luglio 2008

*Adam Hanieh è un ricercatore in scienze politiche alla York Universitydi Toronto, specializzato in politica economica del Medio Oriente edel Gulf Cooperation Council. Per contatti: hanieh08@gmail.com.

http://www.osservatorioiraq.it/modules.php?name=News&file=categories&op=show_month&year=2008&month=08&month_l=Agosto&catid=3&new_topic=2

http://www.autprol.org/
Palestina: Tra neoliberismo e potere Usa