15/08/2008: Scioperi in Egitto


Parla Hossam el Hamalawy, blogger egiziano che ha lasciato la carta stampata per fare «giornalismo militante», raccontando, mostrando e rilanciando sul web gli abusi del potere del dittatore, le torture degli oppositori, gli scioperi di cui la stampa ufficiale tace.
Hossam el-Hamalawy è uno dei più noti blogger egiziani. Fa parte di quella che è stata definita la blogosfera più vivace del mondo arabo, ovvero del crescente gruppo di attivisti egiziani che hanno iniziato a servirsi della rete per raccontare gli scioperi, le rivolte per il pane, i soprusi della polizia e le torture, in un paese dove tutto è controllato dal governo: stampa, magistratura, sindacati.
Il suo blog, arabawy.org, è diventato un punto di riferimento in Egitto, scosso negli ultimi due anni da un'ondata di scioperi senza precedenti. Come le proteste di Mahalla città a nord del Cairo sede della più grande azienda tessile egiziana, la Misr Spinning, di Stato: là 27.000 lavoratori hanno più volte occupato la fabbrica e bloccato gli impianti. Secondo el-Hamalawy è stato un punto di svolta nella storia del movimento operaio egiziano: «Quello che accade a Mahalla finisce per avere un effetto domino su tutta la realtà operaia in Egitto. E in effetti nei 9 mesi trascorsi tra il primo sciopero di massa nel dicembre 2006 e il secondo nel settembre 2007, il numero di scioperi nel paese si è triplicato».
E' una novità, spiega: «Con la salita al potere di Nasser e la rivoluzione socialista dei primi anni '60, i lavoratori organizzavano piutosto grandi sit-in. Le industrie erano state nazionalizzate e c'era l'idea che se scioperavi facevi un danno a te stesso, perché la produzione apparteneva alla classe operaia: retorica populista che nascondeva un capitalismo di Stato. Ma adesso le cose sono cambiate. Un po' perché dall'inizio degli anni '90 sono state adottate politiche neo-liberiste e il settore pubblico è stato in gran parte privatizzato, un po' perché i nuovi leaders non sono imbevuti dell'ideologia nazionalista delle generazioni precedenti e quindi, anche nel caso della Misr Spinning di Mahalla, sebbene sia di proprietà dello stato, non c'è stata più alcuna remora a organizzare uno sciopero di massa.

Quali erano le motivazioni degli scioperi di Mahalla?
Il motivo scatenante era di natura prettamente economica. Il primo ministro Ahmed Nazif aveva promesso entro la fine del 2006 due mesi di premi di produzione che non sono mai arrivati. Tenendo conto che la paga media degli uomini non arriva ai 100 euro al mese e quella delle donne è la metà, a parità d'ore di lavoro, i due mesi di bonus sul salario erano inderogabili.
L'altra richiesta era di portare il sussidio alimentare da 32 a 43 pounds egiziani (più o meno da 4,20 a 5,20 euro). Con l'aumento dei prezzi del cibo di questi ultimi mesi la situazione è infatti diventata disperata. Il Programma alimentare mondiale ha calcolato che tra gennaio e aprile di quest'anno abbiamo avuto un aumento del 50% dei prezzi dei beni di prima necessità.
In Egitto chiamiamo il pane aish, che è una parola araba che significa sostentamento. Quando il prezzo del riso e della pasta è salito alle stelle, c'è stato un improvviso aumento della richiesta di pane. Nel giro di pochi giorni non se ne trovava più nei negozi e sono scoppiate delle rivolte. Il governo è stato costretto a mandare l'esercito nelle città per fare aprire nuove panetterie che producessero pane a prezzo calmierato. Ma nel frattempo fra febbraio e maggio ci sono stati ben 17 morti tra la gente in coda fuori dai rivenditori. E' la novità del «dopo Mahalla»: la situazione economica è gravissima, ma non si tratta solo di proteste per il pane. Sono scioperi con un'esplicita natura politica.

Natura politica perché contro il governo?
Prima di tutto perché gli scioperi sono di fatto illegali in Egitto, a meno che non vengano convocati dal sindacato ufficiale: parteciparvi significa andare incontro alla possibilità di essere arrestati. Poi, perché da Mahalla l'ondata di scioperi si è sparsa ad altri settori, con rivendicazioni più generali. Hanno cominciato a reclamare il diritto di fondare sindacati indipendenti, Hanno chiesto l'aumento del salario minimo - fermo dal 1984 a 1.200 pounds egiziani (170 euro). Su YouTube si possono vedere i video delle proteste, al grido di «non siamo schiavi del Fondo monetario internazionale». I manifestanti bruciavano ritratti di Mubarak. Questo era impensabile fino a pochi anni fa. Ricordo quand'ero all'università, negli anni '90: il movimento di opposizione al regime era totalmente underground e se anche parlavamo di dittatura, non osavamo pronunciare il nome di Mubarak. Ma le cose stanno cambiando in fretta. Il governo vanta una crescita economica del 7,1%, ma la gente non vede nessun miglioramento, anzi, aumentano i poveri. L'inflazione è al 20%. E i lavoratori iniziano a criticare la politica economica del governo.

Tu fai spesso riferimento a YouTube, Flickr, ai blogs... qual è il vero ruolo della rete Internet in questa ondata di scioperi e proteste?
Col suo programma di Information&Technology lanciato nel 1992, il governo si è scavato la fossa da solo. L'idea era di fare dell'Egitto un hub tecnologico in grado di competere con l'India. L'attuale premier Ahmed Nazif ha costruito la sua fama attorno al ministero delle Telecomunicazioni che dirigeva, realizzando eccezionali infrastrutture e conducendo una campagna per l'accesso pubblico alla rete, con finanziamenti per mantenere i prezzi dei computer bassi. Anche se per ora pare che solo l'8% della popolazione abbia accesso diretto a Internet, il fenomeno è in crescita e una buona parte di giovani della classe media fa largo uso della rete e delle nuove tecnologie. Da quello che mi risulta, il governo non ha messo nessun blocco all'accesso Internet per non ostacolare gli investimenti esteri. La Cina si può permettere di imporre restrizioni perché è un grandissimo mercato, l'Egitto no. Così, fin dall'inizio c'è stato controllo, ma non censura. All'epoca della seconda Intifada sono esplosi i forum di discussione e le mailing lists per scambiarsi informazioni sulle proteste e sulle campagne di boicottaggio dei prodotti americani e israeliani. C'era la sensazione che in rete fosse più sicuro esprimere le proprie idee e scambiarsi opinioni. Era una ventata d'aria fresca.
I blogs sono venuti più tardi. Dapprima una trentina, in forma diaristica, niente di politico. Il punto di svolta per la blogosfera è stato il 25 maggio 2005, il «mercoledì nero», quando il governo ha mandato una sorta di polizia in borghese che ha letteralmente assalito le giornaliste e donne che manifestavano contro il referendum sugli emendamenti alla costituzione. E' stato incredibile. Le spogliavano, le aggredivano: ci sono un sacco di foto su Internet. Quel giorno tra la folla c'erano anche dei blogger. Non erano attivisti, anzi alcuni di loro si dichiaravano anti-politici. Quel giorno sono tornati a casa e hanno iniziato a caricare foto, video e a raccontare cosa era successo. Nei mesi successivi il numero dei blog è arrivato a 1.500 e la blogosfera si è radicalizzata attorno alla campagna contro la tortura. Intanti erano cominciati gli scioperi dei lavoratori, guidati da nuovi leaders indipendenti, e i blogger hanno aiutato a far passare le informazioni e coordinare le azioni. Quanto basta per far circolare le notizie. E poi c'è Twitter.

Twitter?
Twitter è molto utile. Basta che apri la tua pagina online, alla quale corrisponde un numero di telefono. Quando sei in giro, puoi mandare un sms a quel numero e il messaggio viene subito postato lì e chiunque può leggerlo. Soprattutto il sistema spedisce automaticamente quel messaggio al cellulare di tutti quelli che si sono iscritti alla tua pagina. Per esempio, mi è capitato di arrivare al luogo stabilito per un raduno, ma di trovarvi la polizia schierata e di spedire un "twit" per avvisare gli altri di cambiare percorso. E poi, se vedi che la polizia prende qualcuno durante una retata pubblichi subito la notizia online e chiunque può sapere che quella tal persona è stata arrestata: quella persona non sparirà.

In un blog si segue un'idea diversa di informazione?
Il giornalismo è una forma di attivismo. E soprattutto in Egitto, sotto la dittatura, fare informazione significa per forza fare attivismo politico, perché cerchi di raccontare una storia mentre tutto intorno a te c'è solo censura. Nei media mainstream ti dicono che devi essere imparziale e parlare con tutte le parti. Ma è una farsa. Dietro la pretesa di obiettività si nasconde sempre la tua opinione personale, o quella del tuo editore. E questa passa attraverso il modo in cui nomini le cose o metti le parole tra virgolette: se parli di terrorista o resistente, di gruppo moderato o di "gruppo moderato".
Un esempio? L'anno scorso c'è stata un'incredibile occupazione di una fabbrica di abbigliamento, la Mansoura-España. 280 lavoratori, di cui il 75% donne, hanno occupato lo stabilimento per due mesi, per impedirne la chiusura. Ogni giorno la direzione mandava la polizia, denunciando le lavoratrici per prostituzione perché passavano le giornate negli stessi locali degli uomini. Ogni giorno qualcuno tentava di intimidirle, perfino i familiari, che volevano tornassero a casa. Stavano sfidando un tabù, rimanendo a dormire in fabbrica coi loro colleghi maschi. Stavano facendo qualcosa di straordinario: avevano infranto dei tabù e tutto questo per salvare il loro posto di lavoro! Alcune hanno visto sfumare il fidanzamento perché il loro comportamento è stato ritenuto disonorevole. Ma imperterrite, sono andate avanti. Ecco, essere un giornalista militante significa cogliere questa forza, questa resistenza nelle storie che racconti.

Come racconteresti le storie dei tanti, anche del tuo paese, che si imbarcano in viaggi di fortuna per entrare in Europa?
Non si tratta di nascondere la disperazione di chi decide di mollare tutto e pagare delle cifre enormi per attraversare il Mediterraneo su quelle barche fatiscenti. La situazione economica in Egitto è disperata e ci sono molti giovani che vogliono venire in Europa per trovare un lavoro e condizioni di vita migliori. Ma di fronte alla tragedia di questi viaggi, e di tante morti, dove sta l'obiettività giornalistica? Nel rinforzare l'idea di un'orda di poveracci pronta a invadere l'occidente? Nell'alimentare paure e razzismo per nascondere le proprie magagne di politica interna o l'ondata di recessione economica? Io penso che stia nel dire che l'Egitto, pur essendo il secondo paese più finanziato dagli Stati i uniti dopo Israele e pur applicando tutte le ricette del Fondo monetario internazionale, vede aumentare la schiera delle famiglie che non riescono neppure a comprarsi il pane. I viaggi dei migranti continueranno e non ci saranno misure di controllo che li potranno fermare; e nello stesso tempo continuerà il flusso di denaro che va a finanziare la dittatura di Mubarak. Anche in questo caso è questione di dove si rivolge lo sguardo.
Da http://arabist.net/arabawy/
http://arabist.net/arabawy/


http://www.autprol.org/