05/05/2008: Lettera di Ivan e Bruno dalle prigioni di Fresnes e Villepinte (Parigi)


Saluti a tutti gli amici, a tutti quelli che non sono rassegnati alla situazione che viviamo: occupazione poliziesca delle strade, delle città, rastrellamenti, espulsioni, arresti, difficoltà quotidiane, spossessamento delle nostre vite; questa situazione che ci spinge a cedere una parte crescente della nostra vita ai capi di ogni genere, a quelli che presiedono ai nostri destini, al potere. Se ci ribelliamo, è per tutte queste ragioni, per riprendere il controllo sulle nostre vite, per la libertà di vivere.
Siamo stati arrestati il 19 gennaio. Siamo due in prigione, il terzo è sotto controllo giudiziario (passava di là e aveva il torto di conoscerci). Avevamo in nostro possesso un fumogeno che avevamo fatto mescolando del clorato di potassio, dello zucchero e della farina. Accesa, questa miscela sprigiona molto fumo. Progettavamo di usarla alla fine della manifestazione che andava, quel giorno là, davanti al CPT di Vincennes. La nostra idea: rendersi visibili agli occhi dei senza documenti rinchiusi, sapendo che la polizia avrebbe sicuramente tentato di impedirci di avvicinarci al centro. Avevamo anche dei petardi e dei fora–pneumatici (chiodi torti) che potevano essere messi sulla strada per impedire alle macchine di passare.
Per la polizia e la giustizia, il pretesto è ben trovato, noi avevamo gli elementi per una bomba a chiodi. Ecco quello di cui siamo accusati:

* Trasporto e detenzione, come banda organizzata, di sostanza o prodotto incendiario o esplosivo di elementi componenti un ordigno incendiario o esplosivo per la preparazione di una distruzione, un danneggiamento o un attentato alle persone.
* Associazione sovversiva con lo scopo di distruggere volontariamente tramite un incendio, una sostanza esplosiva o di ogni altro mezzo tale da creare un pericolo per le persone, commesso in banda organizzata.
* Rifiuto di prestarsi al prelievo delle impronte digitali o di fotografie al momento della verifica dell’identità.
* Rifiuto di sottomettersi al prelievo biologico destinato all’identificazione genetica delle persone sospettate di crimini o di reati.

Tutto ciò fa venire i brividi. Ecco, questi sono i fatti. Adesso, tenteremo di apportare una riflessione.

Non è certo per quello che avevamo con noi o per quello che progettavamo di fare che siamo stati trattati così. Lo Stato criminalizza la rivolta e cerca di soffocare ogni dissidenza "non autorizzata". Sono le nostre idee e il nostro modo di lottare ad essere presi di mira, fuori dai partiti, dai sindacati o da altre organizzazioni. Di fronte a questa rabbia che lo Stato non riesce né a gestire né a recuperare, esso isola e addita il nemico interno. Gli schedari della polizia e la Digos compongono dei “profilo-tipo”. La figura utilizzata nel nostro caso è quella dell’ ”anarco–autonomo”. Il potere assimila questa figura a quella dei terroristi, costruendo una minaccia per creare un consenso fra la popolazione, rinforzare il suo controllo e giustificare la repressione.
È per questo che oggi noi siamo in carcere. È la soluzione scelta dallo Stato per gestire l'illegalismo [les illégalismes] e le “popolazioni a rischio”. Oggi fa rinchiudere di più per più tempo. I controlli sempre più efficaci e le sanzioni che fanno paura assicurano a quelli che detengono o traggono profitto dal potere una società in cui ogni individuo resta al suo posto, sa che non può oltrepassare le linee che hanno tracciato per lui, che lo circondano e lo arginano, senza pagarne il prezzo. Se lottiamo al fianco dei senza documenti, è che noi sappiamo che è la stessa polizia che controlla, lo stesso padrone che sfrutta, gli stessi muri che rinchiudono. Andando alla manifestazione, volevamo gridare in coro con i prigionieri “Libertà”, mostrare di essere numerosi a capire la rivolta che hanno portato avanti per più mesi. Accendere un fumogeno, cercare di avvicinarsi il più possibile alle sbarre della prigione, gridare “chiusura dei CPT”, con la determinazione di voler vivere liberi. Questa lotta, in cui ci si può riconoscere, è un terreno di complicità da costruire, un luogo possibile dell’espressione della nostra propria rivolta.
Noi non ci consideriamo come “vittime della repressione”. Non esiste una repressione giusta, un giusto rinchiudere. C’è la repressione e la sua funzione di gestione, il suo ruolo di mantenimento dell’ordine delle cose: il potere di chi ha di fronte a chi non ha.
Quando tutto il mondo marcia in riga, è più facile massacrare quelli che escono dai ranghi.
Noi speriamo di essere numerosi e numerose a voler possedere pienamente le nostre vite, ad avere questa rabbia nel cuore per costruire e tessere le solidarietà che creeranno le rivolte.

Bruno ed Ivan, aprile 2008, carcere di Fresnes e Villepinte

Sab, 03/05/2008
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