13/07/2007: Intervento del Comitato permanente contro la repressione - Nuoro
Intervento del Comitato permanente contro la repressione di Nuoro all’incontro internazionale sul tema: “LA REPRESSIONE DELLE LOTTE DI LIBERAZIONE NAZIONALE NELLE NAZIONI SENZA STATO D'EUROPA E DEL BACINO DEL MEDITERRANEO”.
“Sos bentos de levante
In sa marina frisca
Sun carrigande s’oro
Sos bentos de levante...
Nugoro no est prus Nugoro
Sas carreras sun tristas
Ca mancan sos zigantes...”
[I venuti dal mare/nella fredda marina/stanno caricando l’oro (gli arrestati)/i venuti dal mare.../Nuoro non è più Nuoro/le strade sono tristi/perché hanno portato via i giganti...]
Questi versi, scritti da un anonimo, descrivono un’altra Sardegna – 1899. L’allora presidente del consiglio, generalissimo Pelloux, risolse la questione sociale del banditismo seguendo la strada della sanguinosa repressione militare. Un migliaio di arresti indiscriminati. Qualche morto. Molto terrore. Senza tanti –ismi. Riformismo, garantismo, legalismo. La storia ne è piena. Di bavagli e gogne. Punizioni esemplari e adunate forcaiole – 2007. Cambiano i tempi e le comparse. Ma, lo scenario è sempre quello. Qualche centinaio di indagati per associazione sovversiva. Una ventina gli arresti. Una cappa di opprimente oscurantismo. Tutto in odor di associazione o fiancheggiamento. Nel frattempo, si ritorna alle caverne. Prigionieri di un blaterare continuo il cui fine è di impedire di sentire l’assordante silenzio della ragione. Uniche voci fuori coro, le vituperate intercettazioni hanno accelerato la necessaria riaffermazione di un ordine e controllo che una serie di attentati e rivendicazioni avevano (hanno?) lesionato. Poiché solo a qualche dialogo malinteso, è imputabile l’ondata punitiva (così come si è realizzata) che ha fatto della Sardegna, il laboratorio di sperimentazione repressiva contro tutte le anime della contestazione. Anarchici, comunisti, indipendentisti. La carcerazione preventiva, è stata, lo sbocco naturale di un operazione che per sua stessa ammissione (vedi Pisanu) sarebbe dovuta essere esemplare. Come dire, colpirne qualcuno, per educarli tutti. Va da sé che l’effetto narcotizzante, pur facendosi sentire non è bastato.
Gli scritti dei compagni prigionieri sono l’esempio più eloquente di come la sete di giustizia non si possa piegare. E allora, ecco che anche chi è fuori rialza la testa. Se mai l’avesse abbassata.
Il problema è che viviamo in uno Stato dove libertà di pensiero, parola, espressione, non sono altro che il fiato corto di una democrazia spezzata. Quella fetta di società alla quale sentiamo di appartenere. Per cultura, sensibilità, visione d’insieme. Non può manifestare le proprie convinzioni (la solidarietà) senza incappare negli strali della giurisprudenza e del pensiero dominante (vedi la manifestazione de L’Aquila). Che poi è altro dall’effettivo peso o consenso. Ma, tanto basta.
Quando si ha una informazione uniformata e acritica, che, degli eventi, non vede al di là del fatto in sé, si può essere accusati di tutto, e attivare la tifoseria di questo o quel rotocalco, giornale, parte politica. Ma, se lo si è di associazione sovversiva, ecco le centurie quadrare il cerchio. Nel migliore dei casi, facendo seguire allo scalpore iniziale un comodo silenzio. Nella norma, sbattendo sistematicamente il mostro in prima pagina. Ciò, per affermare come non sia semplice riattivare un circuito solidaristico in una terra – la Sardegna – cinta d’assedio dalla repressione. Non tanto per l’indifferenza generale, quanto per la difficoltà di articolare un efficace meccanismo di controinformazione che segni il trapasso dalla tacita solidarietà all’azione. Magari, legando a doppio filo la questione repressiva a quella del più diffuso malessere sociale. E dare così, respiro e prospettiva, ad un isolamento, ancor prima che fisico, politico.
Le iniziali strategie difensive. L’atteggiamento comprensibile, ma dissociatorio di buona parte dei familiari. L’accomodante tatticismo di non rispondere – attaccando – ad un impianto accusatorio che va ben oltre le singole persecuzioni individuali, sono stati i passaggi che hanno segnato lo smarrimento della prima ora. C’è stato un momento in cui il Movimento è stato impugnato dall’informazione. In balia di giornalisti e avvocati, sciacalli, politici e inquisitori, si è assistito ad uno spettacolare rovesciamento delle parti, in cui la visione dei ruoli aveva estromesso i protagonisti degli eventi dalla possibilità d’essere ascoltati. Dal difendersi e dire la loro, insomma.
Con il potere e le sue ramificazioni sorde alle richieste di avvicinamento dei prigionieri d’oltremare, alle denuncie delle vessazioni subite e di un assurdo regime di detenzione di alta sorveglianza (è bene non dimenticare, applicato a chi vede scorrere dietro le sbarre la propria presunzione d’innocenza).
È questo l’aspetto che ha prodotto il rifiuto delle regole di un gioco voluto da altri.
La nascita dei comitati di solidarietà, delle associazioni detenuti e dei loro familiari, il ritrovato approccio e coordinamento delle organizzazioni colpite, sono state la risposta politica ad un attacco tutto politico – poiché, in gioco era ed è lo stesso fondamento etico della rivolta. Il nesso, cioè, che guida le trame poliziesche sul piano nazionale.
La funzione di queste realtà è ancora germinale, rispetto alle forze messe in campo dalla repressione. Ma, indicativa dell’esigenza di riannodare i fili di un inutile dispersione militante. Squarciando i confini di una scissione che trova nella sua collocazione, i significati di un processo comunicativo di produzione della coscienza.
Per questo motivo, colpevoli, innocenti, complici, sono aggettivi che assumono un significato diverso, dentro le dinamiche che premiano il monopolio della forza come puro esercizio di potere.
Le misure di sicurezza – spropositate rispetto alla sostanza dell’accusa – prescindono gli stessi. Lo Stato-Capitale, non processa solamente Ivano, Antonella, Paolo, aMpI. Lo Stato-Capitale, processa tutti i fermenti che muovono le arterie, i tendini, i muscoli, i pensieri che potrebbero tramutare l’intenzione in azione.
Il perché è abbastanza chiaro. Qualche centinaio di sovversivi, nella penisola, possono essere un problema. In Sardegna, potrebbero innescare la scintilla della rivoluzione.
A noialtri la scelta. Se imparare o meno la lezione...
Quanto finora accaduto, dimostra, innanzitutto, una cosa. Ciò di cui lo Stato ha paura, è la capacità dei singoli di mostrarsi critici rispetto al suo agire. La capacità di svelare gli inganni che giornalmente i suoi apparati sostengono a supporto di una insopportabile quiete di classe. Il che non riguarda ovviamente, una tregua armata del conflitto che oppone il proletariato, inteso come massa di coloro che lavorano per vivere, alla borghesia, intesa come èlite che vive sfruttando il proletariato. Bensì, la semplice arrendevolezza del proletariato e delle organizzazioni che parlano per lui, di fronte agli attacchi quotidiani portati avanti contro i diritti acquisiti al termine di un lungo ciclo di lotte: lavoro, casa, giustizia sociale.
Nello Stato-Capitale sono gli “azionisti” che decidono. Gli altri devono solo obbedire o al limite protestare pacificamente. Vale a dire, sfogarsi, poi obbedire. Per questo si colpiscono innanzitutto e più duramente proprio quei soggetti non inquadrati in organismi/organizzazioni, cercando sempre e comunque di inquadrarli in una categoria che li definisca in qualche modo. Quella più usata è il terrorista: vero esempio di rimozione e proiezione di ciò che si è; lo Stato-Capitale è il terrorista...
Ovvero colui che quotidianamente terrorizza tutti. Innanzitutto con l’incertezza del futuro dettata dalla precarietà. Poi, con la paura della malattia per mezzo della privatizzazione della sanità. Infine, con lo spettro della fame attraverso il ricatto della disoccupazione.
Per nascondere tutto questo che si demonizza l’altro, lo straniero, il diverso. Ed è per questo, che il terrore è addebitato ad altri. Proprio a coloro che non rimangono ciechi, ma guardano la realtà per quella che è: lotta di classe contro potere. Dove, se non ci si difende, si soccombe.
Niente di nuovo all’orizzonte, dunque. Il nulla si elevato all’ennesima potenza. La società della comunicazione multimediale ha messo in essere la parodia di se stessa. Acritica. Asociale. Manifesta un dinamismo dei cambiamenti, che non è altro che un adeguarsi alle nuove esigenze produttive. Il progresso è solo tecno-economico.
Immigrazione, precariato, disoccupazione, famiglia, trovano senso solo nella logica di cosa è utile/cosa danneggia la roccaforte Stato-capitale. E non sono, esclusivamente, i manovratori a difendere le ragioni del presente. Vieppiù un sindacalismo e una sinistra fagocitata dai doveri del suo nuovo ruolo, che mediano il conflitto abbandonando la prospettiva di mettere in ginocchio l’esistente. La Storia, al punto zero. Quasi sia sacrilego, auspicare il crollo della borsa o un blocco totale della produzione. Del 900 non rimane che l’obsoleto modello sociale travestito di modernità. Scevro di capacità critica. Ma, abile camuffatore del tutto che diventa nulla. Non a caso, gossip, guerra, sfruttamento, reality, si perdono nell’apologia demente, più controllo, più repressione. Le formule comunicative, oggi più che in passato sono l’elemento caratterizzante l’azione che lo Stato-Capitale promuove come momento di legittimazione del suo proprio operato. Per mezzo dell’imponente apparato di cui è in dotazione, esso ha imposto visioni, bisogni, valori ripescati dai retaggi della storia (ogni tanto anche la merda viene a galla; verrebbe da dire!). Allora ecco riproporsi il leitmotiv Dio-Patria-Famiglia – mai così patetico, tragico, attuale. In questo contesto, la paura dell’altro diventa il non luogo della comprensione. Si diventa ciechi e sordi ai propri bisogni. Figurarsi alla violenza dell’imperialismo o alla repressione di chi dissente.
Manipolando la verità, per rovesciare la realtà, lo Stato-Capitale è riuscito a costruire un clima tale da ignorare sistematicamente l’abuso su quei minimali diritti conquistati sulle piazze, sulle barricate, sulla scia delle lotte nate dalla Resistenza non più di qualche decennio fa. In quanto frutto dello scontro di classe, rivendicabili, senza malintese accuse di mediazione. Fatto sta, che, nella più totale indifferenza o complicità, uomini e donne del movimento rivoluzionario e antagonista hanno conosciuto l’aspetto più bieco della repressione, per il solo fatto di esistere in quanto nemici del Capitale. Ciò non a significare che, gli esiti della lotta di classe siano figli dell’ars oratoria. Bensì, per sottolineare come il consenso necessario al rovesciamento dello stato di cose esistente non possa prescindere dal far breccia nei cuori del proletariato. Un’idea che cammini con i piedi, oltre che con la testa, non può non costruire le fondamenta che diano comprensione e respiro all’azione quotidiana condotta contro la persecuzione, dentro e fuori i luoghi dello sfruttamento. E, in mancanza di un organizzazione forte; di un movimento reale di opposizione popolare alle politiche neoliberiste; di un’ipotesi diffusa e condivisa di alternativa di società a quella capitalistica, non si possono ignorare le barriere comunicative che impediscono di abbattere il muro che giocoforza ci separa da quel popolo del quale noi, più dei nostri governanti, facciamo parte... col quale non riusciamo a comunicare.
Come ogni altro potere, il potere politico si veicola e riempie di significati. Parole d’ordine che codificano i comportamenti vincolandoli ai rapporti di dominio e controllo esistenti. In un tempo, avulso alle più elementari forme di partecipazione popolare alle sorti del presente, il primato della Politica sulle reali attività umane si presenta in tutta la sua vacuità. Volutamente la Politica allontana da sé il proprio oggetto (le masse) per controllarne, dall’alto dello scranno, il movimento; per rendere, tutto ciò che alla politica è riconducibile, refrattario, inutile, sporco, disgustoso; per ridurre l’intensità dello scontro ai soli addetti ai lavori. Per esser chiari, al conflitto avanguardie–Stato. Ma, poiché ogni strategia predispone un margine di errore, ecco dispiegarsi contemporaneamente gli antidoti alla sua evoluzione. Per quanto paradossale, la disaffezione alla Politica, sancendo la scissione politicamente inconscia, ma, effettiva, del sociale dal Politico, apre gli spazi per una lotta che dall’antipolitica ritrova il suo significato originario: il potere proletario che disconosce e riconosce il feticcio intorno al quale ruota l’ingiusta redistribuzione di privilegi e fatiche. Ovvero sia, lo Stato-Capitale e il meccanismo della sua riproduzione. A ben vedere, nell’astensionismo galoppante, nelle sezioni di partito vuote, nel rigurgito dell’impegno militante tradizionale, si possono scovare gli spazi entro i quali estendere la nostra azione. Nella società, nella sua insoddisfazione e malessere, si percepisce un tirarsi fuori che sa di accusatorio nei confronti di un sistema incapace di soddisfare i bisogni e valorizzare la partecipazione. La critica del Politico, o meglio il rifiuto del potere che dentro il Parlamento (con le sue variabili di maggioranza e opposizione) è sintesi della sua perpetuazione, non può che iniziare dalla ricollocazione/ricomposizione della progettualità rivoluzionaria liberata dai tatticismi dell’assimilazione. Vale a dire, costruendo quotidianamente il contropotere che dispiega i fronti dello scontro senza seguire i tempi e le priorità scandite dalle strategie dello Stato-Capitale. Le sue formule che, imbrigliano l’agire rivoluzionario, influenzandone non solo le pratiche, persino il linguaggio.
La difesa e la resistenza agli attacchi della repressione, presuppongono, quindi, più livelli per mezzo dei quali veicolare la risposta. Niente di nuovo. Semplicemente, si tratta di coordinare l’agitazione, la propaganda, la controinformazione, la difesa (perché no?) più tecnicamente giuridica. In definitiva, essere globalmente capaci di difendersi attaccando, attraverso percorsi di pratica militante che, superando le divisioni di sorta – reali ed effettive – possano proporsi come alternativa concreta all’ideologia deviante, ai rapporti sociali e politici dominanti, ai comportamenti consoni di un sistema nemico dei rapporti umani liberati dalle catene fisiche e mentali cui costringe individui, comunità, nazioni, popoli. Si tratta, cioè, di recuperare la politica al sociale, restituendogli la dignità della lotta, e costruendo le coscienze che fin dai primi passi si muovono in direzione di un cambiamento che non c’è, ma è già in essere. Farlo, senza per forza cercare – dai lavoratori, dalle masse popolari – legittimazione attraverso i canali, i linguaggi, le logiche della borghesia, superate dal rifiuto di una visione che, anche nel suo essere antagonista, è mediatoria con lo stato. Nello specifico caso della repressione, senza appellarsi all’evidenza di ciò che è sotto gli occhi di tutti. Un’”emergenza democratica” che esiste da sempre, le cui contraddizioni si risolvono nel conflitto.
Il proletariato, nel movimento reale quotidiano, porta in sé tutte le armi necessarie al ribaltamento dei rapporti di forza. Si costruisce, oggi più che in passato come moltitudine sociale oggettivamente avversaria al dominio del capitale. Lo si vede nelle lotte per la difesa del diritto al lavoro, all’assistenza sanitaria, allo studio; per la difesa dell’ambiente, dei diritti degli omosessuali, di una società laica che ripudia la guerra, il razzismo, le basi militari, e rivendica maggiori spazi di libertà.
La sfida è questa. Riannodarci/riannodare con/i fili di queste nuove forme di contestazione, costruendo le tappe che segnino il passaggio dal campo del bisogno a quello della libertà.
Promuovendo quella coscienza di classe che, aldilà delle questioni “nazionali”, unica possa rovesciare le sorti dell’umanità. In Sardegna, in Italia, nel mondo. Quale unico collante che possa salvare un futuro e un presente di guerra e distruzione, dai piani cui il capitalismo e i capitalisti oggettivamente (scientificamente) l’hanno condannata per puro interesse, bramosia, avidità.
Ciò detto, non per entrare in rotta di collisione con le tematiche indipendentiste. Al contrario, per sottolineare, come, di fronte alla repressione che si dispiega, lo stato italiano sia più neutrale di quanto indipendentisti, comunisti, anarchici, non lo siano tra loro. Lo Stato-Capitale, colpisce i suoi nemici, prescindendo i loro obiettivi specifici, men che meno la nazionalità. In Sardegna lo fa in un modo, nel resto d’Italia in un altro. Questo, però, non cambia la sua volontà distruttiva del dissenso. Qualunque forma di dissenso.
Il nostro intervento potrà apparire slegato dal tema di questa giornata contro la repressione nelle nazioni senza stato. Ma, volutamente abbiamo cercato di affrontare la questione con un’analisi riconducibile dal piano generale a quello particolare e viceversa, preferendo un approccio elaborativo di un percorso tutto da sviluppare.
“...e sigo sempre gai e mai, mi rendo
e cando bat bisonzu mi difendo!”
luglio 2007
Comitato permanente contro la repressione - Nuoro
http://www.autprol.org/