29/06/2007: Udienza Nottetempo


L’udienza di ieri del processo nato dall’operazione “Nottetempo” contro gli anarchici salentini ha visto la requisitoria finale del P. M. e sono state formulate le richieste di condanna. Il P. M. ha parlato (a vanvera…) per quasi cinque ore, illustrando le “teorie” e le “strategie” secondo cui a suo dire gli imputati si sarebbero “ispirati”, e per farlo ha letto anche stralci di introduzioni di alcuni testi anarchici. Ha poi parlato della “organizzazione” anarchica a cui gli imputati apparterrebbero, e per dimostrarla ha citato i vari rapporti d’amicizia, le conoscenze, gli incontri tra i compagni salentini ed altri del resto d’Italia. Ha anche citato alcuni libri – uno in particolare – in cui secondo lui ci sarebbero le “strategie” per perseguire il sovvertimento dell’ordine costituzionale. Da quanto se ne sa, lui è l’unico ad avere individuato ciò in quel testo, ammesso che lo abbia mai letto! Infine, ha ripercorso la “spirale di odio, violenza ed intimidazione” che avrebbe colpito il Salento dal 2002 al 2005 e menzionato, per la milionesima volta, tutte le azioni che ha provato a ricondurre agli anarchici, tentando di essere piuttosto plateale per impressionare la giuria popolare, ma non riuscendoci neanche tanto, essendo un essere insipido…
La platealità e teatralità non è mancata invece all’avvocato di parte civile, Francesca Conte, che difende don Cesare Lodeserto e i medici che erano in servizio al Cpt “Regina Pacis”, Anna Catia Cazzato e Giovanni Roberti, costituitisi parte civile nel processo. Riguardo la dott.ssa Cazzato, l’avvocato ha cercato di attribuire alle minacce telefoniche che avrebbe subito, l’uso abbondante di psicofarmaci che ora è costretta a prendere e la sua precaria situazione psico-fisica!
Nella mattinata, prima della requisitoria del P. M., tre compagni hanno rilasciato in aula delle dichiarazioni spontanee, che trovate allegate.
Queste sono invece le richieste di condanna:
9 anni e 3000 euro di multa per un compagno;
7 anni e 500 euro per altri due;
6 anni e 250 euro per tre compagni;
5 anni e 6 mesi più 100 euro per altri sei;
inoltre sono stati chiesti un anno e mezzo per un compagno e due mesi per altri due, accusati solo di alcuni reati specifici e non per l’associazione sovversiva.

Anarchici salentini

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DICHIARAZIONI DAVANTI ALLA CORTE D’ASSISE DEL TRIBUNALE DI LECCE

Parto dai fatti: l’arresto di cinque compagni qui a Lecce, avvenuto quasi contemporaneamente ad altri in tutta Italia, è stato l’occasione per una campagna mistificatoria e denigratoria.
L’accusa di aver costituito un’associazione sovversiva con finalità di eversione dell’ordinamento democratico ha preso corpo per il solo fatto di essere stata teorizzata dagli inquirenti. Anche i media hanno avuto un ruolo fondamentale in tal senso, perché a forza di ripetere frasi come “cellula anarchica”, “associazione”, “azioni violente”, ecc, qualcosa sarebbe dovuto e potuto rimanere nella convinzione della gente comune, al di là dell’esito del processo. Ancora oggi, questo terribilismo verbale continua ad essere usato, e si spinge fino alla completa invenzione di notizie.
Con accanimento e isterismo si è tentato di far tacere gli anarchici e presentarli come mostri, come avviene con tutti i ribelli e sulla base di queste premesse alcuni di noi hanno scontato una custodia cautelare di quasi due anni, mentre un interminato tira e molla continua a fare della loro libertà una sorta di lotteria. Le regole? Mero strumento di interpretazione; che nel mezzo ci siano degli individui poco importa a chi si dovrà esprimere sul caso.
Degli individui appunto e per giunta consapevoli di quello che sono e che vogliono. Nonostante tutto infatti gli anarchici non hanno abbassato la testa e hanno continuato a difendere la propria dignità e le proprie idee. E da questo deriva la loro pericolosità, perché in un’epoca di cancellazione del dissenso, questo come altri, risulta essere ancor più di un processo alle intenzioni, ma rappresenta un processo alla propria appartenenza, ai propri desideri, al proprio modo di essere, al fatto di pensare con la propria testa e agire di conseguenza.
Gli anarchici amano la libertà e sono contro le galere di ogni tipo, ma a loro questo non basta dirlo. Lo esprimono, lo manifestano, lo praticano con l’arma migliore che hanno a disposizione: la solidarietà. Ed è anche per questo che sono considerati pericolosi. In una società in cui si cerca di isolare sempre più gli individui e di creare il terrore nella mente di ognuno, la solidarietà, quella vera, quella che ti fa sentire vicino a perfetti sconosciuti o che coinvolge da ciò che è comune, non può che essere considerata pericolosa. Per tale motivo, anche laddove palesemente le proteste sono sociali, e frutto della presa di coscienza della gran parte delle persone che le hanno mosse, esse sono tacciate di terrorismo. Basta poco per essere definiti tali al giorno d’oggi, persino una scritta sui muri. La solidarietà si diceva, come fonte di sospetto per inquirenti vari; non le sono da meno l’amicizia, o l’amore, e una prova lampante di tutto ciò è stata data proprio in questa sede, dove numerosi testimoni dell’accusa hanno raccontato di relazioni, incontri, vicinanze, legami, a conferma che ciò che si persegue non sono affatto dei reati specifici o meno, ma un’idea e gli individui che la ritengono propria. Qualcuno obietterà che lo Stato democratico consente a chiunque di dire la propria nel rispetto dei diritti e delle garanzie personali. Bene, la mia custodia cautelare agli arresti domiciliari è stata giustificata dal fatto che nel 2004, in seguito all’arresto del mio compagno ho inviato delle mail in cui comunicavo l’accaduto.
Mentre si comprende il tentativo di impaurire e umiliare insito in queste basse manovre che provano a farci rinunciare alla nostra vita, ai nostri affetti, al nostro futuro, al nostro passato, ritengo che esse dimostrino ancora una volta l’infondatezza di tutto questo teorema, e l’affanno nel cercare di tenerlo in piedi.
Un altro elemento che ritengo ancor più lesivo della mia identità, è il tentativo di inquadrarmi in una sorta di organizzazione chiusa e rigida. Ciò è sintomatico dell’incapacità degli inquirenti di capire un modo di vivere orizzontale e privo di gerarchie, fatto di rispetto e reciprocità prima di tutto; loro, al contrario, sono in grado di individuare leader, capi e sottomessi tra chi, come noi, ripugna tali concetti. Così come affermato spesso negli atti dell’accusa, se si appartiene al genere femminile poi non si può che essere la fidanzata o la compagna del più autorevole maschio, o tutt’al più la sua manipolatrice a seconda dell’occorrenza del momento. Che uomo e donna si relazionino orizzontalmente non sembra proprio possibile.
È opportuno però giungere a ciò che formalmente si giudica in questo procedimento, l’esistenza o meno di un’associazione terroristica. Se si prende in considerazione la definizione classica di terrorismo come “l’uso della violenza indiscriminata al fine di conquistare, consolidare e difendere il potere politico”, si comprende bene chi sono i terroristi e dove siedono. L’imposizione, l’autorità, la forza, la violenza, quella diretta verso popolazioni inermi, sono i loro mezzi e le loro armi. Da chi dichiara e conduce una guerra, che ha l’effetto di uccidere milioni di civili, per di più con l’inganno, presentandola come utile e necessaria, a chi impone con la forza un’opera che devasta la natura e la vita dei suoi abitanti, a chi toglie loro le risorse per vivere. A ben vedere, tutti elementi collegati a un’altra ragione fondamentale di questo processo: la criminalizzazione delle lotte contro i Centri di Permanenza Temporanea per immigrati. Oggi essi vengono definiti lager anche da quella sinistra che in Italia li ha istituiti e che pure intende confermarli, mentre da tempo molti individui tentano di smascherarne la natura e di affermare che, nonostante la propaganda mediatica continui a chiamarli, quasi sempre, centri di accoglienza, come fanno anche gli inquirenti nel loro comune linguaggio, essi, i Cpt, sono dei luoghi di reclusione per persone straniere la cui unica colpa è quella di non avere un documento in regola e, che per la gran parte dei casi, sono fuggite proprio da guerre, miseria, catastrofi, oppure sono semplicemente alla ricerca di condizioni di vita migliori. Ricerca che, molto spesso, costa loro anche la vita. Così, se da un lato si tenta di far passare a livello generale l’equazione clandestino = criminale e di occultare la natura dei luoghi in cui tali individui vengono rinchiusi (di cui un esempio, era appunto il Cpt di S. Foca), dall’altra, si è cercato di zittire con ogni mezzo necessario coloro che hanno ritenuto intollerabile questa realtà, e per farlo meglio li si è chiamati terroristi, come è accaduto a Lecce, utilizzando ad arte i media, per spaventare l’opinione pubblica e creare il vuoto attorno a loro. Ma questo non bastava, così la repressione è continuata colpendo chi ha solidarizzato con gli inquisiti, per dare una lezione che fosse definitiva e di anarchici a Lecce non se ne parlasse più.
Con un colpo di magia, due sedi aperte al pubblico in cui si realizzavano iniziative, concerti, dibattiti, cene sociali, cineforum, biblioteca e diffusione di libri, sono state considerate una specie di covo; i rapporti tra alcuni individui sono diventati un gruppo organizzato con capo annesso; qualsiasi azione avvenuta a Lecce e provincia è stata ricondotta a questi individui, mentre un proficuo taglia e cuci di frasi, citazioni, opinioni, rigorosamente slegate dal loro contesto, e la loro falsa o superficiale interpretazione, hanno costruito un programma truce degli stessi. Metodo che ha trovato conferma anche in questa sede, nella costante omissione da parte dell’accusa di tutto ciò che poteva risultare a favore degli imputati. Questo grottesco quadro è stato completato dalle esasperate attenzioni degli uomini in divisa rivolte verso libri, riviste, giornali, volantini, manifesti, materiale informativo magari conosciuto anche da decenni. Sarà per questo, mi sono detta, che tentano di togliere di mezzo gli anarchici, magari “regalandogli” un po’ di anni di galera come se nulla fosse, perché scrivono e pensano troppo.
In conclusione, posso dire di essere consapevole che la repressione che ci ha coinvolto viene subita ogni giorno dai ribelli e dagli esclusi di questa opulenta società sull’orlo del baratro, e che le condizioni di vita a noi imposte in questi mesi di privazione della libertà (isolamento, privazione degli affetti, intrusione e controllo morboso e ossessivo della vita personale), sono vissute, a volte in situazioni drammatiche, dalle migliaia di detenuti in Italia e nel mondo e dagli stranieri trattenuti nei Cpt, o in altri moderni lager, mentre un delirio generalizzato punta tutto sulla questione sicurezza, evitando di vedere la precarizzazione diffusa che coinvolge sempre più persone. Ed è proprio perché mi sento straniera tra gli stranieri che desidero ricordare Vasile Costantin, un uomo rumeno che, il 10 agosto 2004, è rimasto completamente paralizzato nel tentativo di fuggire dal Centro di Permanenza Temporanea di S. Foca (Le). La sua storia, come tante altre, è esplicativa della vera violenza cui ci troviamo di fronte, quella che spossessa della propria vita ogni giorno milioni di individui. La gestione di questa privazione, propagandata come carità, ma talmente falsa da essere smascherata anche dalla magistratura, è stata spesso giustificata dai suoi responsabili, e mi riferisco in particolar modo alla struttura di S. Foca, come la semplice e necessaria esecuzione della legge. Le numerose fughe e rivolte che nei Cpt si sono avute, compreso il “Regina Pacis”, hanno mostrato più di tutto, la realtà che quei luoghi rappresentavano e ciò che quella legge era stata e continua ad essere: il frutto di razzismo, sfruttamento e repressione. D’altro canto anche i lager nazisti erano legali così come le leggi razziali italiane, ma non erano certo legittimi.
Con questo scritto, rimando al mittente l’appellativo di terrorista.

Lecce, 28 giugno 2007
Marina Ferrari

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«Vi sono situazioni, infine, in cui ogni uomo appassionato è obbligato a scrivere. Quando la tribuna è muta e il popolo schiacciato, quando una società di schiavi ha per re il bottegaio, quando sono condannati tutti quelli che pensano, bisogna bene che, esiliati dal presente, questi si intrattengano con l’avvenire».
Ernest Cœurderoy, Giorni d’esilio

Voglio innanzitutto chiarire che la lettura delle dichiarazioni che seguono, non ha assolutamente carattere giustificazionista, perché non ho nulla di cui giustificarmi, né tanto meno può averne in un’ottica chiarificatoria all’interno di quest’aula, dove difficilmente potranno essere comprese nella pienezza del loro significato. Questo non perché io vi consideri stupidi, ma perché sono ben cosciente del fatto che, dati gli opposti “campi di appartenenza” – voi in rappresentanza del potere costituito, io di un suo nemico – ci si muova su piani comprensivi ed interpretativi della realtà, assolutamente “altri” e reciprocamente alieni. Trattandosi però di un processo evidentemente ed esclusivamente politico, e quindi sociale, quello che qui mi vede in veste di imputato, non posso e non voglio esimermi dall’esprimere quello che penso, fermo restando che questi miei pensieri sono diretti fuori, indirizzati a quel tessuto sociale e a tutta la vasta schiera di sfruttati, di esclusi, nei quali mi riconosco ed a cui mi sono sempre rivolto, nei modi e con i mezzi di cui dispongo e di cui, nel tempo, mi sono dotato.
Affermato ciò, la prima cosa che tengo a dire è che rimando al mittente l’epiteto di “terrorista”, più volte espresso nei miei confronti, da quando questa storia ha avuto inizio, ma anche da prima; ciò avviene, come sempre, principalmente per contribuire a costruire una adeguata opinione pubblica, che «è fatta dagli imbecilli», come giustamente sosteneva Stendhal, e preparare quindi il campo alla persecuzione ed alla repressione; è un concetto che riprenderò in seguito. Da parte mia, come già spesso mi è capitato di fare, ribadisco che storicamente il terrorismo è sempre stato l’arma privilegiata degli Stati, che si sia trattato di vecchi imperi o, più di recente, di dittature nazi-fasciste, socialiste o avanzate democrazie. Sebbene i detentori del potere, e quindi i manipolatori della Storia e della Cultura, cerchino di cambiarne il significato, il termine terrorismo va inteso come «l’uso della violenza indiscriminata al fine di conquistare, consolidare e difendere il potere politico». Contrariamente a ciò, quando anche gli anarchici, nel corso della loro storia, hanno deciso di utilizzare la violenza, non vi hanno mai fatto ricorso in maniera indiscriminata, ed è poi quantomeno ridicolo pensare che gli anarchici vogliano conquistare il potere quando, invece, il loro scopo è abbatterlo. Del resto, le bombe sui treni e nelle piazze, il massacro di intere popolazioni o “l’esportazione della democrazia”, non sono certo pratiche anarchiche.
Riguardo invece alla qualifica di sovversivo, ammetto candidamente di esserlo. In che altro modo può essere considerato, infatti, un individuo che disprezza profondamente qualunque tipo di potere, e si batte per una società totalmente “altra” e per la libertà di tutti gli esseri viventi, indistintamente? È certo che ciò, inserito all’interno di un mondo e di relazioni sociali fondate invece sullo sfruttamento, sulla spoliazione, sull’esclusione e sulla sopraffazione sistematica dell’altro, del più debole, siano pratica e pensiero profondamente sovversivi. Per contro, non potrei mai appartenere ad una “associazione” sovversiva, che sarebbe davvero ben poca cosa, impedito in ciò proprio dal mio essere anarchico – che rivendico con fermezza – che qui si processa.
In quanto tale, pongo infatti due principi irrinunciabili davanti a me: l’individuo e l’antiautoritarismo. In virtù di questi, che per me sono valori fondamentali, non potrei mai organizzarmi in maniera non solo verticistica – sono stato definito “leader” e “capo” e occuperei una “posizione apicale” secondo l’accusa; tutti termini che mi ripugnano profondamente –, ma neanche potrei organizzarmi in maniera rigida, perché in questo caso l’organizzazione stessa mi sovrasterebbe, ed io ne diventerei un semplice strumento, una mera appendice e la mia individualità, il mio essere individuo unico tra altri unici, scomparirebbe dietro di essa. Invece, mi rapporto con gli altri sulla base delle necessità del momento, dell’amore, dell’amicizia, dell’affinità che ad essi mi legano, e posso rapportarmi per un istante e subito dopo essere in netto disaccordo su un’altra questione, ma questo rapporto si svolge sempre in maniera orizzontale, informale, mai gerarchica, proprio per il principio di base dell’antiautoritarismo. Secondo questa libera e temporanea unione, come individuo anarchico sono libero di muovermi autonomamente, da solo o con chiunque voglia rapportarsi con me; al contrario, in una struttura organizzata, gli individui si muovono solo all’interno di questa “associazione”, esattamente come i partiti. Agire in questo modo sarebbe religione, ma come anarchico sono contro i partiti e le religioni, qualunque significato ad esse si voglia attribuire, nel senso che sarei anche contro l’anarchismo stesso se dovesse diventare dogma, e quindi religione, esso stesso.
Un’altra delle accuse che mi sono state mosse e su cui tengo a far chiarezza, perché mi disgusta, è quella di fare “proselitismo”. È una cosa che non ho mai fatto, perché è pratica che appartiene, giusto per fare qualche esempio, alle varie forze armate che girano per le scuole ad incoraggiare i ragazzi all’arruolamento, ed ai preti e ai missionari, in ogni parte del mondo, ma io sono sempre stato immune da questa “logica del missionario”. Per me quella del cambiamento sociale non è una missione storica che sono chiamato a compiere, né tanto meno una ineluttabilità figlia di un sogno determinista, bensì una possibilità aperta che potrà o meno realizzarsi, che potrà o non potrà essere giusta e valida, e non sarà nessun “partito” di anarchici a poter trasformare radicalmente il mondo ma, semmai, gli sfruttati che si autorganizzano, assieme alla presenza degli anarchici. Se vivessi il mio pensiero e la mia vita come missione storica, anche questo scavalcherebbe la mia volontà, trasformandola ancora una volta in strumento di qualcosa che non mi appartiene, e quindi, tutto il contrario dell’individualità. Io sparirei dietro la missione storica, dietro l’ideologia. Invece, non ho mai avuto la presunzione di essere detentore della verità di fronte a masse ignoranti che non hanno capito nulla e che sono chiamato a “convertire”, a “catechizzare”; in questo modo mi porrei in un’ottica avanguardista che gli anarchici, storicamente, rifuggono: non ho mai preteso, né ambito ad essere, avanguardia di chicchessia. Ciò che invece faccio e qui si pretende giudicare, attraverso articoli sui nostri giornali, manifesti, comizi, diffusione di libri, manifestazioni, assemblee e tutte le iniziative a cui ho preso parte, si chiama propaganda, ovvero uno strumento per l’esposizione del mio pensiero e l’espressione delle mie idee. E si badi bene che ho detto Idee, non mere e stupide opinioni, che delle idee rappresentano solo il guscio svuotato del contenuto e del loro potenziale sovversivo. No. Le idee sono qualcosa di più, sono pericolose, soprattutto in tempi d’anestesia sociale quali quelli che viviamo, ed è per questo che fanno paura.
Ecco allora qual è il vero punto: che cosa si processa, realmente, in questo tribunale? Non certo dei “reati”, per giustificare la maggior parte dei quali gli inquirenti hanno dovuto costruire “prove” ed interpretare parole, frasi e concetti a modo loro, evidenziando quel che gli torna opportuno ed omettendo tutto il resto; no, non è questo. Qui si processano l’idea, il pensiero e la pratica anarchica, ed alla storiella dello “Stato di diritto” non può credere più nessuno, tanto più che, come aveva ben intuito Hobbes, «a parità di diritti, vince la forza».
Diventa quindi evidente che i tribunali sono a tutela degli interessi di classe, quella degli inclusi, contro la stragrande maggioranza di popolazione esclusa, sempre in costante aumento. Basta osservare la composizione sociale del corpo prigioniero che popola le democraticissime carceri italiane, per trovare la migliore conferma a queste affermazioni. È quindi intollerabile lasciare a piede libero degli individui che propugnano la libertà, l’abbattimento di ogni potere ed una vita degna di essere vissuta per tutti. Non è una caso che sia in atto un continuo e costante attacco a quello che genericamente si può definire “movimento anarchico”, attacco che ha subìto un incremento negli ultimi dieci anni; tutto ciò è reso possibile anche per via della linea emergenziale che lo Stato adotta e su cui fonda ormai la sua stessa sopravvivenza; è ormai norma quella di creare costantemente un nemico fittizio verso cui incanalare le paure dei propri sudditi, in modo tale da costringerli a fare fronte comune contro il “pericolo” di turno, evitando che possano alzare gli occhi e smascherare i reali responsabili della propria miseria: un giorno è l’emergenza mafia, un altro quella ambientale, un altro ancora è l’emergenza immigrazione. In questa logica è stato creato oggi il nemico esterno – gli stranieri in genere, e gli arabi in particolare –, e quello interno – tutti gli oppositori a questo stato di cose, e gli anarchici in particolare.
Contro gli anarchici sono stati intentati decine di processi per associazione sovversiva, quasi tutti clamorosamente risoltisi in nulla. Quello che qui si cerca di ottenere, quindi, non è tanto e solo di incarcerare me e qualche altro compagno, che sarebbe un ben misero risultato, ma si tenta di arrivare con ogni mezzo ad una condanna che diventi semplice sentenza di Cassazione da citare in futuri procedimenti penali, per sbarazzarsi finalmente degli anarchici per un po’ di anni, e che sia da monito per tutti gli altri. Le teste pensanti dello Stato hanno certamente creduto che Lecce possa essere la piazza giusta per creare questo precedente, per vari motivi: perché ci troviamo in una piccola città di provincia, alla periferia dell’Impero, dove secondo le loro previsioni ci sarà meno clamore, e perché non esistono precedenti specifici. Ma la cosa davvero straordinaria è che si voglia arrivare ad una condanna, alla creazione di questo precedente, adoperando gli stessi strumenti che altrove hanno fallito, cioè questa barzelletta vecchia come il cucco, che riempie gli scritti di inquirenti e Pubblico Ministero, secondo cui gli anarchici agirebbero strutturandosi su un doppio livello – pubblico e clandestino – e la volutamente distorta e falsa interpretazione di alcuni scritti pubblicati su vari libri da un compagno. Tutto ciò, non fa che dimostrare lo svolgimento di un unico filo repressivo su scala nazionale, applicato a livello locale solo per poterlo meglio gestire. Ancora pochi passi in questa direzione e chissà che non si arrivi al punto di criminalizzare chiunque avrà in casa determinati libri! In fondo, è stato questo ad essere cercato e sequestrato nel corso delle perquisizioni effettuate in concomitanza ai nostri arresti… È indicativo dei tempi che viviamo ricordare che la caccia ai “libri pericolosi” sia avvenuta, per esempio, durante l’inquisizione ed il nazismo, ed altrettanto indicativo è ricordare che proprio pochi giorni fa a Bologna sono state eseguite perquisizioni ed aperta una indagine per associazione sovversiva, col pretesto della diffusione di un opuscolo di critica alla famigerata “Legge Biagi” ad opera di alcuni compagni! È poi curioso che si indichino alcuni scritti come fonte di determinate teorie e strategie, nonostante i vostri stessi tribunali abbiano sentenziato la falsità di tali costruzioni!
Contrariamente a quanto l’accusa cerca di far credere, io come individuo sono pericoloso non perché parlo ed agisco clandestinamente, ma per il motivo esattamente opposto: perché non ho bisogno di farlo. Credo di essere un uomo libero conseguente a me stesso, o quantomeno ci provo, quindi dico apertamente ciò che penso e faccio quel che dico: la teoria si riversa nella pratica e la pratica si fa teoria, e capisco come tutto ciò possa risultare fastidioso e spiacevole per il potere costituito. Come sia spiacevole per esempio per la sindaca Poli che nella sua “polis”, cioè in una città governata da una cupola di sfruttatori sotto cui si piegano gli schiavi, ci sia ancora qualcuno che voglia riappropriarsi dell’”agorà”, in quanto libera piazza, luogo di discussione e di divulgazione di quella cosa terribile che tanto spaventa: l’Idea. Sanno bene infatti gli inquirenti, perché più volte mi hanno controllato o anche ostacolato e provato a fermarmi, che contrariamente a quanto affermano, io soffro il chiuso di quelli che si vogliono far passare come “covi” – ovvero le nostre sedi –, tanto più che sarebbe anche un grave errore tattico da parte mia, perché gli esclusi a cui mi rivolgo non sono certo abituali frequentatori di tali posti.
Tanto più pericolosi e fastidiosi, assolutamente da arginare, poi, sono il mio pensiero e la mia pratica anarchica, quando dirette a smascherare e contrastare la violenza e il terrorismo di uomini molto, molto influenti, e quella intrinseca che si perpetra all’interno dei nuovi lager di Stato, i cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea. Il pretesto con cui sono stato incarcerato e vengo processato, infatti, è proprio la mia opposizione radicale a questi luoghi.
Io rivendico con forza il mio percorso di lotta contro di essi, e contro il Regina Pacis in particolare, un luogo infame che fortunatamente ha smesso di esistere, per quanto il suo cadavere continui ad emanare un tanfo indicibile, e le sue mura ancora trasudino del sangue e della rabbia delle migliaia di individui che vi sono stati rinchiusi e violentati delle loro vite. A mio avviso, simili luoghi non solo dovrebbero essere chiusi ma essere completamente abbattuti, rasi al suolo in maniera definitiva, affinché non permanga nel tempo neanche il ricordo di infamie così grandi; altro che “giornata della memoria” di cui si fa una gran parlare da alcuni anni: se non vivessimo in un mondo alla rovescia, quella da istituire sarebbe probabilmente la “giornata dell’oblio”, la rimozione totale, sotto ogni aspetto, dei lager. E sia chiaro che non uso il termine “lager” per un artificio retorico, oppure perché è ora di gran moda anche tra i rappresentanti politici della sinistra che li ha istituiti, ma per una definizione rigorosa. Come nei vecchi campi coloniali e nazi-fascisti, infatti, chi vi è rinchiuso non è accusato di aver commesso nessun reato, ma si tratta semplicemente di indesiderati a disposizione degli organi di polizia e, in fondo, anche dei padroni di turno; oltre ad avere funzione di contenimento, i Cpt sono funzionali ad operare una sorta di scrematura della forza lavoro straniera, maggiormente ricattabile: non bisogna infatti sottovalutare l’importanza dello sfruttamento di tale forza lavoro, all’interno di un regime di economia capitalista.
Un ultimo aspetto su cui ritengo importante soffermarmi è il particolare momento in cui sono scattati gli arresti che mi hanno coinvolto, giunti a chiudere il cerchio di una teorema che si voleva ben orchestrato. Si è cercato chiaramente di spostare l’attenzione dall’avvenuto arresto del direttore del Regina Pacis, don Cesare Lodeserto, e dai numerosi guai giudiziari che vedevano, e vedono coinvolto, lui e tutto lo staff di cui degnamente si circondava nella gestione del lager: operatori, medici, carabinieri. Queste vicende hanno pubblicamente sollevato il velo sulla realtà di questi luoghi, hanno allargato nel muro una breccia che per anni anch’io ho provato ad aprire e permesso a tutti di guardarci dentro; è a questo punto che si è reso indispensabile deviare lo sguardo, e quale colpo migliore, quindi, che spostare l’attenzione sui suoi più acerrimi nemici? Nulla che mi meravigli: semplicemente un braccio dello Stato che arriva in soccorso dell’altro che in quel momento si trova in difficoltà. C’è un detto popolare che sintetizza bene il concetto, e dice che «una mano lava l’altra, e tutte e due lavano la faccia».
Nel periodo della mia detenzione ho potuto toccare con mano, personalmente, l’accanimento esasperato che lo Stato attua nei confronti della parola, di cui si è dichiarato spietato nemico e contro la quale ha mosso guerra totale, come già emergeva chiaramente dal controllo su tutti i miei discorsi con anni di intercettazioni, e dalla enorme mole di materiale cartaceo sequestrato nella mia abitazione. Un odio ed un controllo verso la parola in ogni suo aspetto: scritta e parlata e quindi, fondamentalmente, pensata. Si tratta del tentativo di “suicidare” l’assunto cartesiano «penso, quindi sono», perché non si vuole più che gli individui continuino ad essere, in un sistema sociale in cui più degli “esseri” contano gli “averi”, e non è solo questione di un verbo ausiliare che si sostituisce ad un altro.
Me ne sono reso conto dall’accanimento della censura – ufficiale e non, che tuttora prosegue… – nei riguardi delle mie lettere e delle mie letture, ed il senso di tutto ciò è racchiuso in una sola ma indicativa frase, più volte ripetuta, con cui un ispettore di polizia penitenziaria ha risposto alle mie reiterate proteste per avere dei libri, bloccati dalla censura per due mesi: «Lei legge troppo!»
Ecco, questa breve frase a mio avviso è pregna di significati e contiene in sé tutto il senso della mia carcerazione e del mio processo: «Lei legge troppo!». Se le cose stanno così, sono spiacente, ma non mi sento di potervi tranquillizzare, perché io continuerò a pensare, quindi a leggere, scrivere e parlare, e quindi a lottare, a prescindere che i prossimi anni mi trovino dall’una o dall’altra parte delle sbarre di questa galera a cielo aperto chiamata società, convinto come sono che nei tribunali non si amministra la giustizia, ma si esegue la vendetta.
Tranne che non si dia per buono quanto affermava Dostoevskij, che ha scritto: «Quando divennero criminali si inventarono la giustizia e si imposero tutta una serie di codici per conservarla, e per conservare i codici essi installarono la ghigliottina». In tal caso, l’innocenza è davvero la cosa peggiore che possa capitare.
Non ho altro da dirvi.

Lecce, 28 giugno 2007
Salvatore Signore

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Sono due, fondamentalmente, le ragioni per cui siedo su questa sedia in qualità di imputato, unico ruolo che, mio malgrado, posso rivestire in un’aula di tribunale.
Innanzitutto sono un rivoluzionario e sono un anarchico e, a giudicare dal numero delle compagne e dei compagni che tuttora sono sequestrati nelle galere dello Stato italiano, questo, di per sé, pare già essere un motivo sufficiente. Del resto, chi vuole rompere con questa maledetta organizzazione sociale assassina basata sulla miseria e sullo sfruttamento, cos’altro mai potrebbe aspettarsi da quella classe che detiene il potere, che non intende affatto rinunciarvi, e di cui questo tribunale non è che una semplice espressione chiamata a tutelarne gli interessi?
La seconda ragione in realtà è intimamente legata alla prima, o meglio ne è una diretta e logica conseguenza, visto che si tratta delle lotte che, da anarchico e rivoluzionario in questa società, ho intrapreso e portato avanti negli ultimi anni.
Ecco allora che, dopo aver cercato di preparare socialmente il terreno con un periodo piuttosto lungo di criminalizzazione preliminare, ad opera dei soliti pennivendoli di stampa e televisione, puntualmente e senza alcuna sorpresa è arrivato il carcere. Prima quello propriamente detto in una cella di circa 8 mq da dividere in tre per oltre venti ore al giorno, poi quello domiciliare dove le sbarre a porte e finestre ci sono ma non si vedono. Quest’ultimo, che pure sotto certi aspetti è meno afflittivo, si presta meglio a servire il disegno statale del completo isolamento, venendo meno anche la possibilità del confronto con gli altri prigionieri ed essendo costretti ad affidarsi, come unico mezzo per mantenere i propri rapporti, alla corrispondenza epistolare, che come sa benissimo questo Pm – perché ne ha dirette responsabilità – è decisamente poco affidabile.
In questo modo dal 12 maggio 2005 sono trascorsi un anno e dieci mesi che i miei compagni, le mie compagne ed io abbiamo vissuto tra isolamento, trasferimenti, continui tentativi di intimidazione, angherie e abusi di ogni genere, ma sempre confortati e sostenuti dall’affetto e dalla solidarietà pratica di tanti altri sfruttati come noi. Certo non è stato facile, come non lo è per tutte le donne e per tutti gli uomini reclusi in ogni tempo e in ogni luogo, ma non è mio interesse lamentarmi, presentarmi come un semplice dissidente che, per un errore di valutazione o chissà cos’altro, si è trovato coinvolto in una clamorosa montatura giudiziaria e che ora attende di avere giustizia.
Nulla è più lontano dal mio modo di essere e di vivere. Condanna o assoluzione, la giustizia – quella vera – non abita mai le aule di un tribunale.
È vero questa è sì una montatura, per giunta decisamente grossolana e a tratti anche piuttosto ridicola, ma lo è unicamente perché l’Accusa, non avendo alcuna prova tra le mani, ha pensato bene di ricorrere al vecchio e sempre utile costume di costruirsele da sé, deformando la realtà, stravolgendo le conversazioni ignobilmente origliate, e cancellando i contesti, al fine di rappresentarci come un’associazione sovversiva punibile dall’art.270 bis. Quando si mente di professione probabilmente alla lunga non ci si rende più conto di quale sia la misura entro cui rimanere per non dirla troppo grossa. Deve essere così, credo, che questo Pubblico Ministero, cercando di conciliare l’inconciliabile, si è spinto oltre, riuscendo ad individuare una struttura gerarchica con leader, capi e gregari, a regolare i rapporti tra individui che sono anarchici e che perciò detestano l’autorità.
Ma, imbrogli a parte, il Potere nel mio caso c’ha visto giusto: ha visto un individuo che rifiuta lo Stato, non si cura delle sue leggi e desidera ardentemente la sovversione di questo esistente in catene; sbarazzarsi di ogni autorità per creare le condizioni per una vita libera e degna. Questa è l’idea pericolosa che, per quanto si affannino a dichiarare il contrario, il Potere non può permettersi di tollerare, ben al di là delle ormai logore chiacchiere su libertà e diritti su cui si fonda l’ideologia del regime.
In realtà nei diritti non c’è nessuna libertà. Il diritto non è altro che una concessione che si riceve in quanto vassalli, che, come tale, può essere sospeso e soppresso, che rafforza il potere di chi lo concede, e che lo Stato dà e toglie unicamente sulla base delle sue esigenze di conservazione. Compreso ciò, non stupirà ad esempio che l’art.270 bis, di cui siamo accusati, sia figlio del vecchio art.270, concepito durante la dittatura fascista con il Codice Rocco come strumento per reprimere gli oppositori e che poi è passato indenne dal ventennio alla Repubblica che si fregia di essere nata dalla Resistenza. In altre parole, quella che in dittatura era l’arma legislativa più valida per schiacciare il dissenso è stata conservata, e anzi migliorata nel tempo per far fronte alle mutate condizioni storiche, attraversando i decenni e i governi di ogni colore come segno di continuità tra due poteri che evidentemente non sono, nella sostanza, poi così diversi. L’applicazione di questo articolo, che prevede una custodia cautelare prorogabile di sei mesi in sei mesi fino ad un massimo di due anni, ha permesso allo Stato di farci scontare, di fatto, una pena considerevole prima ancora che sia emesso un giudizio, smentendo nella pratica il principio della cosiddetta “presunzione d’innocenza”, da cui probabilmente il buon suddito democratico ama tanto sentirsi tutelato.
Tra le accuse per i reati specifici che ci vengono mosse molte riguardano la lotta per la chiusura dei Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e, in particolare, per quella del famigerato Regina Pacis di San Foca, lucrosamente gestito fino al marzo di due anni fa, data della sua chiusura, dall’omonima Fondazione della curia leccese. Ancora meglio, se possibile, il tema dei CPT e delle espulsioni rende visibile il filo che lega il presente al passato, un passato che non passa. I campi di concentramento fascisti e nazisti, prima di diventare centri di sistematico sterminio, erano luoghi in cui si veniva rinchiusi a seguito di una disposizione di polizia e senza aver commesso alcun reato. È esattamente ciò che accade nei CPT. Ecco perché, da sempre, li chiamo lager. In questi moderni lager ad essere rinchiusi sono gli immigrati che, tra mille peripezie e spesso a rischio della vita – i fondali del Mediterraneo sono ormai veri e propri cimiteri senza croci e senza nomi – riescono a raggiungere il territorio italiano, ma senza avere in tasca il documento necessario per restarci. Per loro, colpevoli di essere poveri e stranieri in fuga, alla disperata ricerca di una vita migliore, il razzismo di Stato ha stabilito che vengano rinchiusi, a causa di quello che per un italiano sarebbe solo un “illecito amministrativo”. Trattenuti per il tempo necessario ad essere identificati, sulla carta massimo 60 giorni, saranno in seguito deportati, con la collaborazione di compagnie come Alitalia e Trenitalia, verso i luoghi di origine o comunque, è questo che conta, fuori dalla fortezza Europa. Diversamente si troveranno in mano un decreto di espulsione che intima loro di lasciare il Paese in pochi giorni. Per chi non obbedisce c’è la galera. Non avendo scelta di fronte alla fame, alla miseria e alla guerra da cui si è scappati, si è costretti a vivere nell’ombra, perennemente braccati dalle forze dell’ordine, sfuggire ai rastrellamenti, scontrarsi con i pregiudizi e con l’ostilità fomentata dalla propaganda mediatica che dipinge il clandestino come un criminale e un potenziale “terrorista”, racimolare qualcosa di che sopravvivere accettando condizioni di lavoro ancora più odiose, perché si è ancora più ricattabili sotto la minaccia dell’espulsione, convivendo costantemente col terrore di essere presi, sbattuti in un CPT, e poi rispediti a ritroso lungo quello che era il viaggio della speranza. La condizione di “clandestinità” degli immigrati risponde, quindi, ad un preciso progetto di sfruttamento: i padroni, da un lato, richiedono la manodopera legale di cui hanno bisogno allo Stato che, con questo criterio, stabilisce le quote d’ingresso; dall’altro dispongono di enormi serbatoi di indesiderabili come forza lavoro sfruttabile fino all’osso perché priva di qualunque diritto. Ovviamente, al contempo, non mancano di utilizzare questi ultimi come monito per tenere a freno le possibili rivendicazioni dei primi, ricordando loro che il permesso di soggiorno è strettamente legato alla presenza di un contratto di lavoro…
Tutto a questo mondo è subordinato alle ragioni dell’economia. È una verità talmente lampante che il Potere non si prende nemmeno la briga di mascherarla, anzi un po’ per volta ce la somministra come una realtà ineluttabile, da cui tutti trarremo vantaggio.
Per falsificarla la realtà invece, sembra che l’espediente più utile sia nominare le cose con parole che abbiano un significato quanto più lontano possibile dal vero. È così che è stata coniata l’espressione “guerra umanitaria”, o che i lager per immigrati sono stati chiamati “centri d’accoglienza” e i reclusi nientemeno che “ospiti”, come ha dichiarato proprio in quest’aula quel (a questo punto) “carceriere-benefattore” di don Cesare Lodeserto. Secondo quanto raccontano gli internati, il Regina Pacis, di cui era direttore, è stato ripetutamente teatro di violenze, pestaggi e vessazioni di ogni sorta, soprattutto come rappresaglia in seguito a rivolte e tentativi di evasione. Ma anche se atrocità simili non fossero mai accadute, la mia lotta per pretendere la chiusura di quel lager sarebbe stata la stessa, perché il problema centrale non è come il CPT è gestito, ma è la sua stessa esistenza, in quanto luogo di reclusione. Da tempo questi luoghi sono chiamati lager addirittura da quella sinistra che, con i propri voti, ha contribuito a crearli e da tanta parte della società civile, senza tuttavia che a ciò seguano conseguenze pratiche. I nuovi governanti che, per puro calcolo politico, si erano espressi nel loro programma elettorale a favore di un volutamente vago “superamento” dei CPT, ora hanno girato le carte in tavola: il “superamento” altro non è che una razionalizzazione di questi luoghi. Verrebbero ridotti di numero, resi ancora più blindati, e servirebbero ad imprigionare “solo” i cosiddetti “irriducibili”, ossia coloro che non sarebbero disponibili a collaborare con la polizia per farsi identificare e rimpatriare volontariamente. Nient’altro che una fregatura per quei poveri illusi che li hanno votati. La verità è che, come la stessa classe politica ammette, i CPT sono necessari nell’attuale gestione della questione immigrazione, al punto che, pur rappresentando la completa demistificazione della menzogna democratica, e svelando come l’esclusione sia a fondamento della democrazia, il Potere non ne può fare a meno. Da parte mia la faccenda non si sposta di un capello, ho sempre saputo che i CPT scompariranno solo se e quando avremo socialmente la forza per imporlo. Perciò, oggi come ieri, continuo la mia battaglia contro i lager e le espulsioni, individuando le responsabilità di coloro (gestori e collaborazionisti) che ne permettono materialmente l’esistenza ed il funzionamento, e comportandomi di conseguenza senza mai perdere di vista il nesso che esiste tra CPT, guerra permanente e militarizzazione della società.
La martellante propaganda del regime da sempre si serve della paura come mezzo attraverso il quale produrre consenso. La continua creazione di una minaccia, di volta in volta opportunamente enfatizzata, giustifica un controllo sempre più asfissiante su ogni aspetto della vita e permette al Potere di dotarsi di leggi via via più liberticide. Il nemico è ovunque, è chiamato “terrorista” e può avere all’occorrenza le sembianze dell’immigrato come quelle del rivoluzionario. La realtà è capovolta: chi massacra a cuor leggero intere popolazioni per il controllo delle risorse energetiche, accusa di terrorismo chi lotta per la libertà. Ma se il terrorismo è, secondo la sua definizione storica, l’uso indiscriminato della violenza per conquistare e mantenere il potere, allora è quanto mai evidente ad essere TERRORISTA È LO STATO!

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