28/05/2007: In seguito al processo per l'occupazione dei Binari a Torino
La dichiarazione letta in aula da alcuni imputati per l'occupazione dei binari a Porta Susa (Torino) (vedi: http://www.informa-azione.info/un_conto_da_saldare)
in seguito alla morte di alcuni immigrati durante alcuni controlli e messa agli atti.
Le condanne, sono al primo grado:
4 mesi, per tutti gli imputati di interruzione di pubblico servizio (blocco dei binari di Porta Susa);
6 mesi, per lo stesso reato (per i tre recidivi);
10 mesi per chi aveva anche porto d'arma impropria e travisamento (mentre è caduto il reato di resistenza).
A Torino, nel maggio 2005, già fervevano i preparativi per le “Olimpiadi invernali”.
Tra sorrisi alle telecamere, allegri rinfreschi e tagli di nastri, si esibiva il buon umore della classe politica e imprenditoriale torinese, pronta a spartirsi il fiume di denaro pubblico in arrivo. Altrove invece, nei quartieri “bassi”, si cominciava a comprendere quale sarebbe stato il prezzo del gioioso evento, e chi l’avrebbe pagato. Come ormai avviene per tutte le “grandi opere”, saranno gli immigrati a pagare il prezzo più alto, sia in quanto serbatoio di manodopera supersfruttata, ricattabile, sottopagata e senza garanzie, sia in quanto bersaglio predestinato dell’ossessione securitaria. Prende così il via una escalation del quotidiano terrore poliziesco, fatto di rastrellamenti, internamenti e deportazioni, con il fisiologico corollario di pestaggi, furti, umiliazioni e violenze, che il linguaggio del potere ha il cinismo di chiamare “riqualifica urbana”.
Nel solo maggio 2005, i quartieri degli “indesiderabili” vedono così morire in due settimane quattro immigrati per mano delle forze dell’ordine: quattro omicidi “di avvertimento”, potremmo definirli, tanto per ricordare a tutti che sono in arrivo le “Olimpiadi della pace”.
È questo, a grandi linee, il clima in cui sono maturati i fatti di cui oggi siamo chiamati a rispondere in Tribunale, nello specifico il corteo del 28 maggio, che rappresenta uno dei momenti di lotta innescati dai fatti di cronaca che in questa sede non possiamo che elencare brevemente.
Martedì 10 maggio, nella notte muore Mamadou, un ragazzo senegalese, senza documenti, appena arrivato in città. Inseguito dai carabinieri nel corso di una retata al Valentino, scivola nel Po e affoga.
Il giorno dopo, durante un “normale controllo” di polizia un colpo di pistola fredda Ibra, anche lui senegalese, clandestino, la cui unica colpa è quella di trovarsi in macchina nel posto sbagliato.
Nel carcere delle Vallette, intanto, una detenuta di origini slave viene ritrovata suicida nella sua cella.
Mercoledì 25 maggio, precisamente due anni fa, Eddy, un ragazzo nigeriano, è appena arrivato in città per far visita alla propria fidanzata, quando la polizia circonda il caseggiato e irrompe negli appartamenti. In quanto clandestino, Eddy si rifugia sul cornicione per evitare i controlli di polizia, ma quello cede, Eddy cade nel cortile e muore sul colpo. I vicini e gli amici del quartiere scenderanno in strada infuriati e si scontreranno con la polizia. Alcune ragazze nigeriane che potrebbero testimoniare sulla tragedia verranno portate via dai poliziotti, rinchiuse in corso Brunelleschi e fatte sparire.
Queste morti, punte d’iceberg di una vera e propria campagna militare condotta contro i quartieri proletari, avvengono negli stessi giorni in cui, nel CPT di corso Brunelleschi (così come a Bologna, a Milano e in altri CPT d’Italia) si susseguono rivolte, proteste, atti di autolesionismo e scioperi della fame, intervallati da continue deportazioni e da pestaggi dei reparti antisommossa. I prigionieri denunciano le condizioni di vita all’interno dei centri, chiedono la fine delle deportazioni e la chiusura di tutti i centri di permanenza temporanea; quel che vogliono, su tutto, è la libertà.
Qui a Torino, le notizie che, nonostante la censura, per chi ha il cuore di ascoltare, filtrano da dietro il filo spinato, parlano di ragazzi che si tagliano, mangiano pile, chiodi, pezzi di vetro, pur di perdere l’aereo della deportazione, parlano di giovani barricati sui tetti, parlano di gente malata che avrebbe tutto il diritto ad uscire, ma che lo spirito umanitario della Croce Rossa evidentemente non ha voglia di ascoltare.
In più occasioni, alle proteste dentro al Cpt si affiancano presidi di solidarietà fuori dalle mura (in alcuni casi caricati dalla celere), e iniziative in giro per la città, che vedono per la prima volta lottare insieme italiani e immigrati, embrioni di organizzazione autonoma tra comunità così tragicamente costrette a convivere isolate quando non contrapposte. «Carabinieri, polizia, vigili: assassini», è lo striscione che apre uno di questi cortei, uno slogan riassuntivo istintivamente compreso e condiviso da tutti in certi quartieri, dove la retorica sulla legalità e la democrazia stenta, guarda un po’, ad attecchire, perché prevalgono il dolore e la rabbia per i quotidiani soprusi e per il ripetersi di queste morti assurde, nel silenzio di una metropoli maledetta, in cui si muore perché non si ha in tasca il pezzo di carta giusto.
È questa la città in cui si svolge, il 28 maggio, il corteo incriminato. Quando centinaia di persone cominciano a radunarsi a Porta Palazzo, la polizia è presente in forze, ma il buon gusto, la paura, o la coda di paglia, gli suggeriscono di non farsi troppo vedere. A poche decine di metri dalla partenza, il corteo è già di mille persone, di ogni colore. In testa al corteo, gli amici di Eddy. Al megafono, il fratello. Dal CPT, ancora in fermento, arriva la richiesta che il corteo arrivi fino a lì, per appoggiare la ripresa della lotta. Gli amici di Eddy, invece, ci tengono a portare la propria rabbia in centro città, fin sotto la questura. Ma nelle sue vicinanze la celere blocca la strada e vorrebbe impedire al corteo di proseguire. Gli immigrati sono furiosi, soprattutto le donne. I poliziotti in assetto antisommossa si ritirano di qualche metro e lasciano libera la via della stazione, sigillando quella della questura. L’atmosfera è tesa, ma dopo un lungo attimo di incertezza, si prosegue per via Cernaia fino a Porta Susa, dove i manifestanti, invadendo la stazione, spiegano ai viaggiatori le loro ragioni: non si può sopportare in silenzio di vivere in una città in cui la polizia ha mano libera di uccidere per le strade.
Oggi, quando i testimoni e gli amici degli immigrati uccisi sono stati zittiti o espulsi, e i poliziotti responsabili di quelle morti sono stati dimenticati, quindici di noi sono chiamati a rispondere di quei fatti in Tribunale. […] Il “crimine” di cui siamo accusati è, in fin dei conti, l’aver osato rompere il silenzio e solidarizzato con gli immigrati in lotta. Siamo accusati di essere stati i fomentatori e gli organizzatori di una lotta a cui, invece, non abbiamo fatto altro che partecipare. Per chi aveva occhi per vedere, infatti, erano proprio le rivolte, gli scioperi della fame, i gesti di autolesionismo e le evasioni, a mettere in luce, più di ogni altra parola, l’infame realtà di questi posti, che ormai in molti non esitano a definire veri e propri campi di concentramento. Ed è forse proprio questo che più di ogni altra cosa ha preoccupato i tutori dell’ordine pubblico: una volta tanto, le comunità di immigrati colpite da questa serie di soprusi e di omicidi, hanno provato a reagire in prima persona, autonomi da ogni racket politico, rompendo quella cappa di isolamento e paura in cui il ricatto poliziesco le tiene abitualmente confinate. E ciò, per di più, in un momento in cui anche all’interno dei CPT di mezza Italia si moltiplicavano rivolte ed evasioni.
Una ironia macabra vuole che oggi, proprio nell’anniversario della morte di Eddy, siano processati coloro che denunciarono la sua morte e solidarizzarono coi suoi parenti e amici. Riguardo alle accuse che ci vengono mosse, non abbiamo molto da dichiarare, se non che è vero, lottiamo e lotteremo fino alla «chiusura dei Centri di Permanenza Temporanea»; e sì, riteniamo le forze dell’ordine «responsabili del decesso di stranieri verificatosi nel corso di attività di polizia giudiziaria». Il conto delle morti, per giunta, continua ad allungarsi, con i due senegalesi morti lo scorso autunno, affogati nelle acque dello Stura durante l’ennesima retata dei carabinieri, e con il ragazzo senegalese morto questa primavera in corso Principe Oddone, inseguito dalla polizia; per tacere di tutte le altre vittime del terrore quotidiano che le forze dell’ordine seminano nei quartieri poveri di questa e di altre città.
Torino, 20 maggio 2007
Alcuni imputati
http://www.autprol.org/