20/03/2007: Fuori l'Italia dall'Afghanistan e dal Libano! Volantino distruibuito alla manifestazine del 17/03 a Roma


«Il mondo è cambiato. Dagli scenari post coloniali e della guerra fredda le vicende attuali ci proiettano infatti verso equilibri planetari e complessi, segnati dal sorgere di nuove grandi potenze, regionali ed in prospettiva mondiali. Ogni epoca ha le sue sfide e le sue minacce ed anche in questo nuovo mondo l'Italia può e deve svolgere un ruolo internazionale che sia all'altezza della sua posizione economica, del suo status politico e delle aspirazioni coltivate per il futuro. Come il successo delle missioni di questi anni e di quelle ancora in corso ha confermato, la politica militare è una delle componenti fondanti dell'azione internazionale del nostro Paese».
Arturo Parisi, Ministro della Difesa

«Se facciamo mente locale non possiamo non rilevare come i fattori di instabilità e le crisi tendano a verificarsi in una fascia di contatto fra quelle che rappresentano le due contrastanti realtà geopolitiche che caratterizzano lo scenario di sicurezza attuale. La prima costituita dalla parte del mondo che è soggetto e oggetto della globalizzazione, la seconda costituita da quella parte che dalla globalizzazione è esclusa e tende ad essere sempre più marginalizzata. Questa fascia corre in gran parte attraverso l'Eurasia, toccando aree di primaria importanza strategica per la presenza di fonti energetiche e arriva fino al Pacifico interessando passaggi vitali per il commercio marittimo mondiale».
Ammiraglio Giampaolo Di Paola, Capo di Stato Maggiore della Difesa

«Il 2011 è un anno cruciale per la missione ISAF [in Afghanistan], ci sarà una verifica importante; [solo] per quella data si può pensare ad una ridefinizione della nostra presenza in quel paese in termini prevalentemente di sostegno alla ricostruzione, allo sviluppo economico e sociale».
Arturo Parisi, Ministro della Difesa

L'Afghanistan è un paese considerato strategico dall'imperialismo occidentale, per diversi motivi:
a) in quanto snodo utile alla determinazione delle direttrici di trasporto e approvvigionamento di importanti materie prime (anche attraverso oleodotti e gasdotti);
b) in quanto crocevia del processo di ridispiegamento "geopolitico" generato dall'ineguale ritmo di "sviluppo" dei diversi paesi capitalistici (il cosiddetto "contenimento" di Cina e Russia);
c) in quanto segmento collocato lungo quella fascia di territorio che va dal Maghreb al Pakistan (corrispondente al progetto Usa del "Grande Medio Oriente"), attualmente oggetto di un'imponente offensiva dell'imperialismo finalizzata sia al controllo di importanti risorse, sia a determinare (come apertamente teorizzato) condizioni di supersfruttamento per masse enormi di forza-lavoro (anche il progetto "Euromed" dell'UE – pur essendo alternativo ai piani Usa – si colloca all'interno di questa offensiva, che tra l'altro potrebbe avere in un attacco all'Iran la prossima "tappa").
Anche l'aggressione contro l'Afghanistan, dunque, ha come causa la spasmodica ricerca di profitto, le contraddizioni interimperialistiche e la "legge del diseguale sviluppo" dei paesi capitalistici, configurandosi inoltre come articolazione – a suon di bombe, stragi e massacri – della più ampia ristrutturazione capitalistica che sta colpendo il proletariato internazionale e le masse lavoratrici in tutto il mondo. Anche l'aggressione contro l'Afghanistan, in altre parole, è il frutto dei rapporti di produzione caratteristici del capitalismo e degli effetti concreti che ne derivano.
I militari occidentali che occupano il territorio afghano sono decine di migliaia, di cui almeno 2.000 sono truppe italiane inquadrate nella forza Nato denominata Isaf. La propaganda imperialista si ostina nel vano tentativo di dipingere l'intervento, cioè l'occupazione dell'Afghanistan, come una "missione di pace" volta a liberare la popolazione dall'oppressione del "fanatismo islamico". Che la realtà sia molto diversa è dimostrato proprio dalle concrete politiche che gli occupanti hanno condotto in questi anni nelle zone da loro controllate. Grazie all'intervento delle potenze imperialiste, infatti, i servizi pubblici fondamentali del paese (scuola, sanità, trasporti) sono stati completamente privatizzati o sono in via di privatizzazione; la cosiddetta "ricostruzione" è stata affidata a imprese straniere che sfruttano, sottopagandola, la manodopera locale; la condizione delle donne non è assolutamente cambiata; il paese si è rapidamente trasformato nel primo produttore al mondo di eroina… a tutto ciò bisogna aggiungere le migliaia di vittime dei bombardamenti, dei massacri, delle torture, degli stupri, compiuti dai sedicenti "liberatori".
Le vere finalità della "missione", del resto, non possono che materializzarsi sul terreno – da tutti i punti di vista – rispecchiandosi anche nelle atrocità compiute dagli occupanti (è proprio di questi giorni l'ennesima strage di civili e bambini inermi compiuta dalle fameliche "truppe di pace"). La propaganda sui "missionari di pace", quindi, non può avere presa su chi sperimenta in prima persona l'azione "emancipatrice" delle truppe occidentali. Il fatto stesso che gli imperialisti occidentali, cioè proprio coloro che per anni sono stati i più generosi e fervidi sostenitori delle organizzazioni islamiche afghane, si atteggino oggi a "liberatori" della popolazione dall'"integralismo", è di per sé un'assurdità vendibile solo al pubblico televisivo dei paesi occupanti, ormai assuefatto alla più squallida disinformazione quotidiana.
Non c'è perciò da stupirsi del fatto che la popolazione afghana abbia fin da subito manifestato una radicale ostilità nei confronti delle truppe di occupazione e del governo-fantoccio di Hamid Karzai (che ne è la diretta promanazione), avendo ben chiaro che il compito di entrambi è quello di rinsaldare l'oppressione del paese per finalità di sfruttamento. E' inutile andare in cerca di contorti fattori ideologici e religiosi per spiegare la resistenza della popolazione: in Afghanistan, come in Iraq e in Libano, è la sacrosanta determinazione nel rifiutare di essere l'oggetto passivo delle politiche dell'imperialismo a motivare e alimentare la resistenza. La disinformazione imperialista, soprattutto nei paesi occupanti come l'Italia, fa di tutto per celare questo dato, elementare anche da un punto di vista puramente umano, mirando così a produrre una sottile disumanizzazione o "inferiorizzazione" della popolazione occupata, dipinta appunto come oggetto passivo, magari consapevole di meritare una qualche "tutela" occidentale: un'operazione funzionale a giustificare qualsiasi massacro, a dipingere i resistenti come criminali assetati di sangue e a passivizzare l'"opinione pubblica" interna. Chi, anche a sinistra, agita lo spauracchio dell'integralismo religioso per evitare di schierarsi con la resistenza – che non coincide affatto con le organizzazioni islamiche! – contribuisce quindi a mistificare il reale contenuto dello scontro in atto, trasformandosi oggettivamente in un puntello interno delle aggressioni in corso. Gli afghani resistono perché subiscono una brutale occupazione, resistono quindi in prima persona, anche a prescindere da qualsiasi organizzazione, come testimoniato dalle numerose rivolte spontanee e popolari contro gli occupanti. Non vogliamo nasconderci il fatto che oggi tale resistenza è politicamente egemonizzata da forze borghesi e reazionarie, che fanno capo al Pakistan, a settori della finanza saudita, e a qualche "signore della guerra" afghano. Ma proprio per questo, anziché accodarsi alla propaganda islamofobica, il compito dei comunisti che vivono nei paesi occupanti dev'essere quello di lavorare per rafforzare e sostenere le componenti comuniste della resistenza, affinché si affermino come le più incisive nella lotta contro l'occupante e nella difesa della popolazione, sottraendola all'influenza delle forze reazionarie. Le difficoltà che s'incontrano nel concretizzare in tal modo l'internazionalismo, sono enormi. Ne siamo consapevoli. Tuttavia, è di assoluta evidenza che per approcciarsi a qualsiasi tentativo di unificazione internazionale degli sfruttati (senza cadere nel ridicolo) è essenziale che i comunisti di un paese occupante si schierino senza la minima esitazione contro le truppe del "proprio" paese (ricordiamo, tra l'altro, che anche in Afghanistan, come in Libano e Iraq esistono organizzazioni comuniste che partecipano alla resistenza e che sono perseguitate sia dai militari occupanti, sia dai diversi governi-fantoccio).
Ogni sconfitta militare ed ogni colpo subito dalle truppe occupanti dei paesi imperialisti – Italia compresa – si ripercuote all'interno (anche se non in modo meccanico) sui rapporti di forza tra il proletariato e la "propria" borghesia, agevolando le condizioni nelle quali si svolgono le lotte per la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Va quindi detto chiaramente che la sconfitta, anche parziale, dell'imperialismo italiano su ogni fronte di guerra e di occupazione, pone i lavoratori in condizioni più favorevoli per rovesciare il rapporto di forza nelle lotte contro la "propria" borghesia, anche se il fatto che queste condizioni più favorevoli si traducano poi in effettivo avanzamento, è questione non meccanica ma dipende dalla capacità di compiere passaggi politici concreti.
Con la partecipazione alla missione in Afghanistan, l'Italia partecipa alla rapina imperialistica e alla spartizione "pro quota" del bottino.
Non solo di quello derivante dallo sfruttamento diretto della popolazione afghana, ma anche del più ampio bottino estorto sul piano mondiale al proletariato internazionale. La presenza dell'Italia in Afghanistan rientra, infatti, in una più vasta strategia. Al pari degli altri paesi imperialisti (Usa in testa), l'Italia sta provando a riadeguare il proprio "ruolo internazionale" al contesto determinato dal procedere ormai ultratrentennale della crisi e dal conseguente esprimersi in forma accelerata delle contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico. L'imperialismo italiano punta ad un posizionamento che lo ponga in condizione di avere voce in capitolo, secondo modalità nient'affatto marginali, nella competizione interimperialistica e nella rideterminazione complessiva degli assetti economici e "geopolitici" che stanno già interessando il Medio Oriente e l'Asia, puntando, inoltre, a giocare un ruolo di rilievo nell'approfondimento dello sfruttamento delle masse popolari dei paesi già oppressi dall'imperialismo: approfondimento che va affermandosi come specifica articolazione imperialistica della più ampia ristrutturazione capitalistica. La missione in Afghanistan è perciò parte di un più ampio e ambizioso dispiegamento militare, in continuo accrescimento, realizzato attraverso una diversificazione delle alleanze, dei dispositivi, dei contesti istituzionali e organizzativi all'interno dei quali sta prendendo chiaramente forma. Una diversificazione, questa, che ha consentito la rapida moltiplicazione degli interventi militari cui abbiamo assistito negli ultimi anni – quelli simultaneamente operativi sono ormai più di venti – e che è stata perseguita anche attraverso una "specializzazione" delle forze armate e significativi investimenti in macchinari o dispositivi bellici (da qui il costante aumento delle spese militari, a prescindere dai governi e dalle maggioranze parlamentari).
Se l'occupazione italiana dell'Afghanistan si realizza in ambito Nato, dunque, nel più vicino Libano assume invece la forma di un'autonoma proiezione sotto la copertura dell'Onu: un'operazione concepita e implementata come un "intervento europeo". Ma la missione in Afghanistan e quella in Libano hanno un medesimo, identico, contenuto: rinsaldare il giogo dell'imperialismo che schiaccia popoli interi, realizzando, nelle forme di volta in volta concretamente possibili, un'autonoma proiezione militare finalizzata ad acquisire un peso maggiore nel contesto delle relazioni (e delle spartizioni) interimperialistiche. Proprio la diversificazione delle modalità di intervento va perciò intesa come la dimostrazione delle non piccole ambizioni dell'imperialismo italiano, della sua determinazione a sfruttare ogni minimo spazio operativo pur di consolidare un proprio autonomo ruolo e riadeguarlo alle mutate condizioni internazionali (sia economiche che politiche). Un ruolo autonomo finalizzato ad imporre specifici interessi di rapina e sfruttamento, un ruolo che quindi non può prescindere da quella che Parisi definisce «una delle componenti fondanti dell'azione internazionale del nostro Paese»: la guerra.
Non è vi quindi alcuna differenza – nel contenuto, negli interessi e nelle finalità – tra l'occupazione dell'Afghanistan realizzata in ambito Nato e l'occupazione del Libano realizzata sotto le insegne della missione "Unifil II". La copertura dell'Onu, organismo che nasce ed esiste solo in quanto promanazione dell'imperialismo, non cambia assolutamente nulla. La pantomima dell'Onu non fa che rispecchiare, piuttosto, un diverso e specifico equilibrio nelle relazioni interimperialistiche, dato il carattere europeo della missione e gli specifici interessi di Francia e Italia in territorio libanese.
L'ombrello dell'Onu esiste dunque in quanto strumento chiamato a ratificare il riequilibrio tra Usa e Unione Europea (dato che di quest'ultima Italia e Francia si sono fatte avanguardia), mentre il contenuto delle politiche imposte con l'occupazione del Libano resta il medesimo. E' questo il senso del "multilateralismo" tanto osannato dall'attuale maggioranza parlamentare e dal suo codazzo: una rispartizione del bottino. E' del resto noto che nella stessa esistenza dell'Onu e nella sua vita istituzionale si rispecchiano unicamente gli equilibri tra i diversi paesi imperialisti e il loro mutamento. Anche i più recenti avvenimenti, dunque, dimostrano che sono i rapporti di forza tra i diversi paesi imperialisti e i diversi interessi a determinare ogni sia pur minimo movimento e presa di posizione dell'Onu. Solo chi è stato definitivamente rincretinito dal tubo catodico può dunque pensare all'Onu come "strumento dei popoli", e ciò persino prescindendo dall'elementare dato giuridico costituito dal fatto che cinque paesi imperialisti hanno il diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza!
Solo nel gioco della contrapposizione parlamentare (e della finta-dissidenza che ne consegue) la missione in Afghanistan e quella in Libano possono apparire in contraddizione. Entrambe sono invece pienamente rappresentative dell'indirizzo strategico adottato dalla borghesia imperialista italiana: da un lato "farsi spazio" in specifici contesti internazionali muovendosi in ambito Nato (è il caso dell'Afghanistan); dall'altro contribuire alla costruzione delle capacità militari ed egemoniche del polo imperialista europeo, ritagliandosi al suo interno un ruolo sempre più significativo (è il caso della missione in Libano). La prima opzione rafforza anche l'incisività della seconda, concretizzando un dispiegamento sul campo che si traduce nell'acquisizione di un maggior peso nell'equilibrio interno che orienta l'azione del polo imperialista europeo. Un peso maggiore che a sua volta può essere speso per accelerare il processo, già in atto, di bilanciamento nei rapporti di forza tra Usa ed UE in seno alla Nato, e che quindi apre nuovi spazi politici e di movimento per l'Italia, proprio in ambito Nato. E' questo il mortifero circolo di crescita cumulativa dell'imperialismo italiano.
La missione in Afghanistan e quella in Libano, dunque, non solo non differiscono in nulla per quanto attiene al loro contenuto, ma sono l'espressione più perfetta di questa duplicità complementare che ha nel processo di "integrazione" europea il suo moltiplicatore di forza (anche i rapporti bilaterali tra Usa e Italia sono ormai comprensibili solo tenendo conto del processo di "europeizzazione" delle relazioni transatlantiche).
Giova qui ricordare che le due operazioni mostrano una forte analogia anche da un altro punto di vista, rilevante in quanto pone in luce un'altra caratteristica dell'imperialismo: entrambe le missioni hanno nell'instaurazione di governi-fantoccio il perno della politica di cui sono la "continuazione con altri mezzi". In Libano, il governo del corrotto Fuad Siniora è ormai solo l'effetto della presenza delle truppe di occupazione italiane, tanto quanto il governo del corrotto Karzai è l'effetto dell'aggressione occidentale all'Afghanistan. Se non vi fossero le truppe speciali d'occupazione inviate dall'Italia, il governo Siniora – un governo illegittimo persino per la stessa costituzione libanese! – sarebbe infatti già da tempo caduto. Le politiche proposte da Siniora con il suo "programma di ricostruzione nazionale" (privatizzazioni, impoverimento e supersfruttamento dei lavoratori) sono esemplari per l'analisi dell'odierno imperialismo, in quanto esprimono compiutamente le finalità perseguite da quest'ultimo e dallo stesso Israele, che dell'imperialismo è il baluardo per eccellenza. Il governo Siniora è alleato delle potenze imperialiste europee (e in particolare dell'Italia) e degli USA, e ha uno stretto rapporto con i capitali sauditi, come dimostra anche il fatto che nel corso dell'aggressione sionista dell'estate scorsa ha bloccato i rifornimenti di armi destinati alla resistenza. Il compito dell'"Unifil II" era e resta quello di garantire la continuità di quest'aggressione permanente assicurando, allo stesso tempo, che la sua gestione permanga nelle mani del polo imperialista europeo (in nome del rinato "multilateralismo"). Il governo antipopolare, antiproletario e fanaticamente anticomunista di Siniora e dei suoi alleati falangisti (che sono i fascisti libanesi) non durerebbe un solo minuto senza le truppe d'occupazione dell'"Unifil II", senza l'appoggio dell'Europa e in particolare dell'Italia e della Francia.
Non è perciò ricevibile, né tollerabile, l'esortazione a "evitare di parlare del Libano per concentrarci sull'Afghanistan", esortazione che da più parti è giunta in questi giorni a quel che resta del "movimento contro la guerra". Non solo per un'irrinunciabile questione di principio, che ci porta a non collaborare nella rimozione e nella cappa di silenzio che il governo italiano e la sua "ala sinistra" vogliono calare sulla situazione libanese. Ma anche perché tale esortazione, quando non è pura complicità con il governo, è espressione di una "tattica" strampalata e politicamente controproducente. Chiunque abbia analizzato anche minimamente la dinamica della missione in Afghanistan e gli obiettivi che con essa vengono esplicitamente perseguiti o teorizzati, non può non rendersi conto che il ritiro delle truppe potrà essere imposto solo mettendo seriamente in discussione il complessivo "ruolo internazionale" dell'Italia sopra descritto. Ma per mettere in discussione questo ruolo complessivo è appunto indispensabile "parlare del Libano", è anzi essenziale fare della demistificazione della missione "Unifil II" un vero e proprio cavallo di battaglia! Solo chi definisce la propria "tattica" non sulla base dell'"analisi concreta della situazione concreta", ma sulla base delle proprie ambizioni (più o meno filoistituzionali) può non accorgersi di questo dato. Spacciare il ritiro dall'Afghanistan come qualcosa di ottenibile in seguito al semplice sommovimento degli equilibrismi parlamentari, confidando magari nella già squalificata "dissidenza parlamentare", significa aver introiettato quel "cretinismo" già denunciato da Marx, a tal punto da utilizzare la carne martoriata della popolazione afghana per squallidi giochetti parlamentari (che non sono in grado neanche di impensierire la maggioranza!) o per perseguire velleità politiciste nei fatti subalterne alle istituzioni. Ma la tattica dell'autocensura è controproducente anche per un altro motivo: perché si tratta della medesima "tattica" di "rincorsa al pacifinto" che ha indebolito il "movimento contro la guerra", impedendo che nella sua fase espansiva si investissero energie per sviluppare argomenti, strutture, organismi, ambiti, gambe e spalle, che ne garantissero l'autonomia sul piano ideologico, politico e organizzativo. E' la realtà stessa ad aver sopravanzato questa magnifica "tattica", visto che il "movimento" ha subito lo svuotamento prodotto dalle forze collaterali al nuovo governo, forze alle quali proprio questa "tattica" ha negli anni scorsi concesso uno spazio, un ruolo e una credibilità.
E' bene chiarire, infine, che con tale "tattica" ciò che si perde sul piano dei contenuti politici veicolati non lo si recupera sul versante della partecipazione di massa: l'unico risultato è quello di impedire che si sedimentano gli strumenti e gli elementi basilari per contrastare le forze filogovernative (di oggi e di domani) e quelle collaterali alla maggioranza. Non si "aprono contraddizioni" nell'avversario, è piuttosto l'avversario che (oltre a fare di tutto per ostacolare la partecipazione di massa) riesce anche a determinare i contenuti veicolati!
Rispondere alla disinformazione schierandosi apertamente contro la missione in Libano, non separare condivisione nel merito e organizzazione tecnica delle scadenze, contestualizzare la richiesta del ritiro dall'Afghanistan nella più ampia necessità di lottare contro l'imperialismo italiano, chiedere sempre il ritiro di tutti i militari impegnati all'estero, criticare senza sosta le controproducenti "mediazioni omissive", sono tutti elementi irrinunciabili per chi voglia sforzarsi di rilanciare il "movimento contro la guerra". La capacità di mobilitazione di quest'ultimo, potrà infatti ricostituirsi solo su basi politiche chiare, in grado di tracciare una netta linea di demarcazione nei confronti delle forze governative e della sinistra istituzionale. La medesima linea di demarcazione, nettissima, che sta maturando ed emergendo dalle lotte e dalle mobilitazioni dei lavoratori, degli studenti, degli immigrati, del sindacalismo di base, e di tutti coloro che si stanno opponendo al governo antioperaio di Prodi e della sua maggioranza. E' solo entrando in sintonia con questi soggetti sociali e con le loro lotte, è solo puntando al loro attivo coinvolgimento, che il "movimento contro la guerra" potrà rianimarsi dallo stato comatoso in cui è stato ridotto dalle forze collaterali alla maggioranza governativa e dalla "tattica" dell'autocastrazione politica.
Il piano interno e il piano internazionale sono due facce di una stessa medaglia, di conseguenza l'opposizione alla politica estera imperialista – quali che siano le forme e gli strumenti con cui essa viene perseguita – e l'opposizione alle politiche contro i lavoratori portate avanti dalla borghesia attraverso i suoi Governi di ogni "colore", devono diventare i due assi portanti e complementari della nostra azione politica, le coordinate fondamentali di tutti quei settori – di lavoratori autorganizzati, del sindacalismo di base, degli studenti, e delle organizzazioni di sinistra – che dicono di essere contro le guerre imperialiste, che non riconoscono in Prodi un Governo "amico", e che intendono veramente sviluppare un'opposizione reale e quindi di classe.

Fuori l'Italia dall'Afghanistan, dal Libano e da tutti i fronti di guerra!
Contro la missione Onu "Unifil II" e tutte le occupazioni mascherate da "missioni di pace"!
Per la sconfitta di tutte le truppe imperialiste su tutti i fronti di guerra e di occupazione!
Contro il rifinanziamento delle missioni di guerra!
Rilanciamo la mobilitazione per il ritiro immediato di tutti i militari italiani dall'estero!
Contro il governo guerrafondaio e antioperaio di Prodi, contro la Legge finanziaria che aumenta le spese militari e taglia le spese sociali... rilanciamo l'autorganizzazione dei lavoratori!
Contro l'imperialismo italiano e tutte le sue "missioni", siano esse con o senza gli Usa, con o senza la Nato, con o senza l'UE, con o senza l'ONU!
Facciamo d'ogni ambito sociale (scuole, luoghi di lavoro, università, piazze…) un centro di mobilitazione e controinformazione!

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