12/03/2007: RISPOSTA ALLA PROPOSTA DI UNA CAMPAGNA DI LOTTA CONTRO LE CONDANNE DI LUNGA DURATA


La mia opinione è che non si possa aprire una nuova campagna di lotte, senza che prima non ci sia stata una seria critica dei motivi per cui non funzionò la campagne di lotte contro il FIES nel 1999 e negli anni che seguirono. Perché se c’è una cosa su cui siamo tutti d’accordo è che alle lotte per l’abrogazione dei bracci FIES sia mancata la parte più importante: il successo. Sono d’accordo con voi che non tutte le lotte raggiungono il successo e, personalmente, mi sento preparato ad accettare le sconfitte, ma ciò che mi preoccupa è la mancanza di un dibattito sui motivi per cui queste lotte non hanno funzionato, e mi riferisco ad un dibattito all’interno del movimento in generale. Il sistema di dominio in quegli anni approfittò del vuoto esistente, isolando le avanguardie in bracci supercontrollati da cui nulla poteva uscire all’esterno, bloccando quella fluida comunicazione che c’era prima con i compagni “di fuori”…in questo modo, in poco tempo, tutto si calmò e rimasero solo le ferite, gli anni di isolamento, le rivolte, gli scioperi della fame.
Mi chiedo adesso: in una nuova lotta chi impedirà al sistema di dominio di fare esattamente lo stesso? Forse noi detenuti che, come sempre, siamo una minoranza? O forse un movimento pro-detenuti così debole come quello di oggi o di ieri?
Qui ad Albolote (granata) siamo pochi detenuti con lunghe condanne potenzialmente interessati (escludendo i baschi che non ho modo di incontrare), ed in generale non abbiamo visto con entusiasmo questa proposta di lotta.
Oggi come ieri, tutto ciò che costituisce una lotta collettiva è quasi si9curamente destinato all’insuccesso per la debolezza e la separazione che esiste tra tutti noi: non essere d’accordo su questa constatazione significa mancare di lucidità rispetto alla realtà presente. In un momento così difficili come quello che stiamo vivendo attualmente (e non credo proprio potrà cambiare in meglio in poco tempo). Per vincere una battaglia così importante abbiamo bisogno della forza e della presenza di tutta la dissidenza.
Le condanne a 20-25-30 e 40 anni (vale a dire gli ergastoli) sono il frutto delle riforme del codice penale del 2003, quando anche i socialisti (attualmente al potere) furono d’accordo sull’applicazione delle pene con la massima severità. Quando si tratta di abrogare delle leggi già approvate è impossibile ottenere qualcosa di positivo…senza una lotta dura ed efficace, soprattutto fuori dalle carceri. La partecipazione nelle lotte di uno o dieci collettivi su tutto il territorio dello stato non è assolutamente sufficiente per raggiungere un obiettivo così grande.
Può però dare dei risultati positivi una lotta individuale, caso per caso, con l’appoggio incondizionato delle organizzazioni a difesa dei diritti umani. Di questo si tratta secondo me: l’interessato (detenuto) deve lottare a “vita o morte” per raggiungere l’obiettivo, niente scioperi della fame che si iniziano e poi, dopo 15 giorni, finiscono.
Le cose in questo paese vanno molto male, abbiamo dei politici al governo che non hanno pietà, con un’ipocrisia che sfiora la pazzia…altrimenti come potremmo interpretare le dichiarazioni del Partito popolare e del Partito Socialista quando affermarono che “…le denunce, da parte di alcuni cittadini baschi, di aver subito torture, sono una campagna di accuse infamanti contro lo stato di diritto e le sue forze di sicurezza”. Come possiamo poi interpretare le parole del deputato del governo basco Paulino Luesma quando dice che “…la tortura non esiste nel nostro paese e le denunce pretendono solo di screditare lo stato di diritto”.
Con gente del genere in cosa possiamo sperare? Che abbiano pietà di noi…i prigionieri?
Se un giorno mi dovessi stancare dal carcere, prenderò una decisione, unica e personale, molto semplice nel mio caso: continuare a vivere come detenuto o lottare a “vita o morte” per far sì che dopo trent’anni di carcere mi concedano la libertà. Chiederò aiuto a tutti gli anarchici ed alle organizzazioni umanitarie, perché in questo caso si tratterà anche di sensibilizzare l’addormentata opinione pubblica.
Per il momento preferisco vivere così, però se verrà il giorno in cui non potrò più sopportare il carcere, prenderò una decisione irreversibile dalla quale non tornerò indietro. E’ per questa ragione (anche se, ripeto, in questo momento non sono d’accordo con uno sciopero della fame fino alla morte, come dissi al già scomparso compagno turco Sedar Samirel) che dico a chi possa essere in grado di prendere una decisione così dura, che l’unico modo per ottenere la libertà, per noi con lunghe condane, è una lotta individuale fino alla fine per la vita e, se non fosse possibile, allora sarà fino alla morte.
Su questo argomento è necessario fare un’importante riflessione: il sistema di dominio ancora una volta ci ha sorpassati (sulla questione degli scioperi della fame), con intelligenza ha visto il pericolo che queste forme di lotta potevano costituire e ha predisposto le sue contromosse con l’approvazione delle riforme della legislazione penitenziaria del 2003 ed adesso con l’applicazione dell’alimentazione forzata nei confronti di Inaki de Juana Chaos 8un compagno basco), pratica considerata universalmente una tortura. Con questo obbligo a mangiare ci hanno tolto la sola arma di protesta efficace che avevamo in mano.
E’ preoccupante vedere come non ci siano stati dibattiti, assemblee e manifestazioni del movimento contron questa legge già approvata. Sembra che nessuno si sia reso conto (salvo i baschi) della pericolosità di questa approvazione ed iniziativa del Sistema. Io me ne resi conto subito, e fu questo uno dei tanti motivi che mi spinse a pubblicare la lettera di Sedar Demirel, per tentare di suscitare interesse su una delicata questione qual è quella dello sciopero della fame fino alla morte. Mi dà una certa vergogna riconoscere che pochi compagni abbiano visto arrivare il pericolo, e questo dimostra purtroppo l’immaturità del movimento anarchico in appoggio ai prigionieri. Attualmente , con l’alimentazione forzata, non è possibile nemmeno morire. Tutto iniziò con la richiesta del Pubblico Ministero dell’alimentazione forzata per Inaki, poi, vedendo che non ci furono proteste, l’applicarono per legge. Quando anni fa tentarono la stessa cosa con altri compagni, ci fu una forte risposta del movimento che obbligò lo stato a rinunciare all’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame. Se vogliamo seriamente parlare di lotta nelle carceri, bisognerebbe incominciare innanzitutto ad aprire dei dibattiti, assemblee e proposte per far sì che non sia messa in atto l’alimentazione forzata dei detenuti in sciopero della fame. Ho sentito (in relazione al caso di Inaki) di alcuni rappresentanti di associazioni mediche che si oppongono a tali pratiche contro i detenuti. Ci sono anche 141 avvocati che hanno firmato un manifesto in cui affermano che “…l’alimentazione forzata per una persona in sciopero della fame è universalmente considerata una pratica di tortura…”. Vale a dire che, per incominciare, già abbiamo qualcuno a nostro favore.
Per terminare …se vogliamo frenare la pazzia di questi politici ipocriti ed ottenere qualche risultato positivo, ci vorrà una lotta a “vita o morte” nei termini a cui ho fatto riferimento in questo testo. Ho il timore che contro la violenza del Sistema purtroppo ci vorranno dei martiri per ottenere dei risultati. Questo è il mio punto di vista.

Un forte abbraccio,

Claudio Lavazza
Gennaio 2007, centro Penitenziario di Albolote (granata)

Per scrivere a Claudio:
Claudio Lavazza
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