11/12/2006: APPELO DEL COMITATO PER IL RITIRO DELLE TRUPPE
La strategia di aggressione, economica, politica e militare portata avanti dalle grandi potenze occidentali contro quei paesi e quei popoli che non sono disposti a sottomettersi ai loro diktat continua a produrre rapina, miseria, sfruttamento e distruzioni inenarrabili.
Nessuno strumento viene tralasciato per normalizzare chi si oppone e per ottenere il consenso delle proprie popolazioni al crescente militarismo ed interventismo: dal ricorso ad oscene campagne mediatiche, al sostegno a quelle tendenze politiche disposte a vendersi al miglior offerente trasformandole nei veri rappresentanti in loco della democrazia; dal ricorso (direttamente o per interposta persona) ad atti terroristici fino al finanziamento di Ong compiacenti che facciano da battistrada alla azione militare vera e propria, sotto le spoglie di Intervento Umanitario come successo nella ex-Jugoslavia o in Somalia.
Quando questi mezzi falliscono si passa all'aggressione militare diretta, pudicamente battezzata Operazione di Polizia Internazionale, tanto meglio se condotta sotto le insegne di un accondiscendente ONU, come si è fatto in Afghanistan ed Iraq.
In questi casi non si esita a fare ricorso da parte degli eserciti invasori ad armi di distruzione di massa vecchie e nuove di potenza inaudita e con conseguenze soprattutto sulle popolazioni civili.
Il Libano è l'ultimo episodio di tale strategia dove si è fatto ricorso ad un miscuglio di tutti questi strumenti: dal sostegno alle fazioni filo-occidentali, all'attentato contro uno dei suoi rappresentanti in loco per estromettere la Siria dal paese e sostituirsi ad essa, per marginalizzare le correnti di opposizione più radicali agli interessi euro-americani in Libano; dalla pretestuosa aggressione militare condotta dallo stato di Israele, al successivo invio di una missione militare sotto insegne ONU tanto equidistante da darsi come compito il disarmo degli aggrediti e l'insediamento sul loro territorio libanese.
Un altro quadrante su cui si stanno addensando le mire aggressive dell'occidente è il Darfur (Africa) dove - in vario modo, utilizzando ipocritamente l'emergenza umanitaria - è in corso un opera di manomissione politica, finanziaria e diplomatica mirante a favorire un nuovo interventismo bellico.
NON SOTTOVALUTARE PIU' L'EUROPA SUPERPOTENZA
La vicenda libanese evidenzia il tentativo europeo di giocare un ruolo di maggior protagonismo nello scenario internazionale, approfittando anche delle difficoltà intervenute nella politica statunitense.
L'Europa è divenuta la seconda potenza economico-finanziaria con la nascita dell'Euro e deve crescere sul piano del peso politico, pur tenendo conto degli interessi particolaristici delle varie politiche nazionali.
Di conseguenza punta ad emergere non solo come potenza politica ma anche di tipo militare proporzionata al peso conseguito sul piano economico. Per tale motivo il complesso militare assume un aspetto decisivo sia come propulsore dello sviluppo economico, sia come comparto strategico nell'ambito della competizione globale che si delinea tra le maggiori potenze mondiali.
Questa politica neocoloniale, pudicamente definita di mantenimento dell'ordine e della pace mondiale, mentre vede le grandi potenze occidentali sostanzialmente unite nella politica di spoliazione verso i paesi periferici, evidenzia nel contempo una crescente competizione per stabilire privilegi e aree di competenza nella migliore tradizione imperialistica.
LE AMBIZIONI E IL NUOVO RUOLO DELL'ITALIA
Il rinnovato protagonismo dall'Italia nelle relazioni diplomatiche quanto il crescente interventismo militare, l'incremento delle spese militari, da molti inaspettato, come previsto dalla Finanziaria del 2007 di Padoa Schioppa - non solo per sovvenzionare le missioni all'estero ma anche per la dotazione di nuovi armamenti sempre più offensivi -, la riconferma e l'ampliamento dell'alleanza militare della NATO (in teoria funzionale ad un'altra epoca storica) quale strumento attraverso cui oggi veicolare l'affermazione delle proprie esigenze geopolitiche, dovrebbero eliminare ogni dubbio sulla natura della politica estera del governo e sugli interessi sociali di cui è espressione.
Questo governo si distingue da quello di Berlusconi per una tendenza più multilateralista in politica estera e nelle alleanze internazionali ma è, se possibile, ancora più determinato a tutelare sullo scacchiere mondiale gli interessi specifici dell'azienda Italia in collaborazione e/o in competizione con le altre potenze mondiali.
La somma delle tendenze italiane ed europee sta innescando una pericolosa spinta verso la militarizzazione che non riguarda solo l'aspetto della industria bellica come settore di investimento certo o le azioni di "polizia" internazionali ma produce conseguenze interne molto pesanti.
Infatti gli interventi militari all'estero hanno bisogno di un forte sostegno ideologico all'interno del paese e questo porta inevitabilmente, come la storia ha dimostrato più volte, verso una drastica riduzione della democrazia e della dialettica sociale interna.
La campagna mediatica che è stata fatta attorno alla manifestazione del "Forum Palestina" del 18 novembre scorso è un esempio di come si concretizza una operazione ideologica attorno a fatti inesistenti e questa volta in modo bipartisan.
DAL PACIFISMO AL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA
Il movimento pacifista sviluppatosi negli scorsi anni anche nei paesi occidentali ha espresso una vasta protesta contro la politica dei propri governi, ma è poi rifluito per il prevalere della sfiducia di poter sconfiggere tale politica, per l'assuefazione alla guerra come dato immodificabile di questa fase, ma anche dalle parzialità politiche contenute nella sua opposizione alla guerra.
Troppo spesso infatti si condannavano le politiche dei propri governi non tanto per gli obiettivi che questi dichiaravano di voler perseguire, ma per i brutali metodi utilizzati per realizzarli; in altri casi si è accettata la chiave di lettura secondo cui vi era una guerra quasi paritaria tra contendenti che si trattava di ricondurre alla pace quasi con una equidistanza al di fuori e al di sopra dello scontro in atto, se non per la forte componente di commiserazione e di condanna per le vittime di tale guerra.
Ma quando questi soggetti hanno cominciato a dimostrare di non accettare solo il ruolo di vittime passive e di volersi anzi difendere, quell'atteggiamento pietistico è andato in difficoltà nell'accettare questa nuova situazione e nel doversi schierare in uno scontro che per quanto sproporzionato non era più a senso unico.
In Italia tale difficoltà si è rafforzata con la vittoria elettorale dell'Unione Prodiana che aveva tra i suoi sostenitori diretti o indiretti buona parte degli organismi e delle figure di riferimento di quel movimento, determinando quella che per comodità sintetica definiamo "sindrome del governo amico", ma che produce paralisi, disorganizzazione e depotenziamento di qualsiasi tentativo di mantenere un'opposizione autonoma ed indipendente contro la guerra.
Si tratta di superare quella sorta di equidistanza tra aggressori e aggrediti, di concentrare la denuncia e le mobilitazioni contro i promotori diretti ed indiretti della guerra, di rifiutare qualsiasi missione militare all'estero condotta da tutti i governi occidentali e da quello italiano in particolare.
Che tali missioni avvengano sotto le insegne della NATO o dell'ONU non ne cambia la natura, come hanno confermato l'intera vicenda irakena, quella Afghana e quella Libanese.
Le resistenze messe in atto dalle popolazioni aggredite non sono solo una legittima reazione contro le aggressioni da cui sono colpite ma, nella misura in cui costituiscono il principale ostacolo al consolidamento di quella strategia, rappresentano anche un fattore di incoraggiamento dei movimenti contro la guerra che agiscono nei paesi occidentali.
Le resistenze ridisegnano i rapporti di forza nelle aree del conflitto, determinando oggi uno sconvolgimento delle strategie USA/israeliane di "guerra infinita" e di egemonia nell'area mediorientale, come emerge con chiarezza in seguito alla sconfitta USA in Iraq e a quella israeliana in Libano.
DISARMIAMOLI!
PER UN MOVIMENTO REALE CONTRO LA MILITARIZZAZIONE
Il principale terreno di impegno di un movimento reale contro la guerra in questa fase, oltre alla netta opposizione alle missioni militari all'estero, deve essere, soprattutto, quello di contrastare le conseguenze delle scelte belliche sui propri territori. È evidente infatti come il crescente militarismo venga utilizzato per rafforzare i dispositivi di sicurezza attraverso cui si cerca di limitare l'esercizio dei più elementari diritti di agibilità politica, sindacale e dell'insieme dei conflitti sociali.
a) E' ormai prioritaria dentro l'agenda dei movimenti contro la guerra ma anche dei movimenti sociali e sindacali, l' opposizione contro il continuo incremento delle spese militari e le loro connessioni qualitative (oltre che quantitative) con il complesso militare-industriale e gli apparati di sicurezza che stanno ormai conformando anche le priorità economiche e la vita sociale del nostro paese
b) L'impegno dei movimenti deve concentrarsi contro il complesso delle basi militari, di tutte le produzioni di morte e di ogni ristrutturazione in chiave offensiva degli eserciti a cominciare da quello italiano. Infatti è dalle basi militari che vengono supportate le missioni all'estero e le guerre. Non solo, questi insediamenti servono anche a giustificare una insopportabile militarizzazione dei territori su cui sono installate.
Le esperienze maturate in questi anni di lotta contro le basi: dalla Toscana alla Sardegna, dalla Sicilia alla Puglia o in Veneto, come sta avvenendo in questi giorni a Vicenza contro l'ampliamento della base USA, sono un prezioso bagaglio per il movimento ed un punto di partenza da sostenere, valorizzare e generalizzare per dare radicamento ed estensione sociale a queste prime forme di opposizione delle popolazioni. Con queste premesse il Comitato per il Ritiro dei Militari Italiani valuta come molto importante la crescita di un movimento popolare e autonomo contro la nuova base militare e la manifestazione nazionale di Vicenza del 2 dicembre e si impegna a costruire momenti di dibattito e di sostegno attivo nei vari territori.
c) L'altro terreno di impegno che riteniamo indispensabile è il sostegno alle rivendicazioni democratiche e sociali dei migranti - prime vittime delle campagne razzistiche, islamofobiche e xenofobe - e, nei fatti, vere e proprie riserve di manodopera colonizzata all'interno del nostro paese. Questa battaglia, costituisce un fattore importante per contrastare il cosiddetto "scontro di civiltà" che si cerca di attizzare per ottenere, anche sul generale piano culturale, il consenso attivo delle popolazioni alla militarizzazione e alla guerra.
d) Infine, il Comitato per il Ritiro delle Truppe chiama al confronto tutti gli attivisti, che mantengono immutata la loro opposizione alla guerra, per riflettere insieme su come dare continuità, stabilità ed efficacia al proprio impegno nella direzione del rafforzamento di un rinnovato movimento contro la guerra. L'ipotesi che proponiamo è quella di costruire una rete articolata dei comitati, dei gruppi sociali, delle varie comunità territoriali operanti sul terreno dell'opposizione della guerra e del militarismo, ma anche di promuovere la strutturazione di comitati territoriali dove è mancata fino ad ora una un'azione coordinata contro la militarizzazione in atto nel nostro paese.
Si tratta insomma di costruire una rete attiva e stabile la quale sia in grado, oltre le necessarie scadenze di mobilitazione nazionali, di promuovere e dare ampio respiro alle iniziative locali contro i molteplici effetti del militarismo.
COMITATO PER IL RITIRO DELLE TRUPPE
DICEMBRE 2006
info@disarmiamoli.org
http://www.autprol.org/