20/09/2006: Introduzione al libro "L'impero si è fermato a Baghdad"


Il "Nuovo Secolo Statunitense", così come lo hanno progettato gli estensori del famoso documento del settembre 2000 [1] che definiva le linee guida dell'espansionismo militare americano, rischia di essere molto breve e avere un epilogo inglorioso. L'attivismo bellico dell'amministrazione Bush che, riaffermando la propria egemonia militare ed acquisendo il controllo su scala globale dei flussi dell'energia, intende stabilire una indiscussa sovranità sulle risorse economiche mondiali e con essa la necessaria universalizzazione del proprio modello politico, non sta procedendo secondo le previsioni. Dopo l'infelice campagna afghana, la cui conclusione è ancora lontana e che non permette ai suoi promotori di trarre alcun significativo vantaggio, l'aggressione all'Iraq si sta trasformando in una guerra di lunga durata e di esito incerto, evidenziando la mancanza di profondità di visione della strategia americana.
A mettere in crisi la potenza egemone del capitalismo mondiale e a fermare i suoi disegni di moderna colonizzazione planetaria non è una forza militare istruita e diretta da oligopoli internazionali e non è la coalizione delle rappresentanze politiche ad essi soggetta, non è l'Europa dell'euro con il suo nuovo modello di difesa e i sui eserciti mercenari, non è la più sofisticata e abile diplomazia continentale di vecchia tradizione imperiale-coloniale – vale a dire quella francese – non è la tanto invocata quanto geneticamente primomondista ONU. Ad avere disarcionato l'alfiere della democrazia esportata con le armi, pregiudicando concretamente la già programmata estensione della guerra preventiva ad altri Paesi del Medioriente e creando effettivi ostacoli alla ricomposizione del fronte imperialista euroatlantico contro i Paesi del sud del mondo, è stata la prevedibile, ma non prevista, Resistenza armata irachena. Una Resistenza predisposta da tempo, lungamente preparata, frutto politico della storia di una rivoluzione.
Uno degli scopi di questo scritto è appunto quello di dare un quadro sintetico ma intelligibile di questa storia.
Era evidente che l'aggressione all'Iraq apriva una prospettiva di guerra generalizzata condotta dal cartello petrolifero-militare americano per l'egemonia globale. Una guerra che avrebbe investito le centrali dell'economia europea, costringendole a difendere le proprie prospettive di crescita, legate tanto ad un conveniente accesso al petrolio mediorientale quanto alle possibilità di espansione della moneta e della capacità di investimento diretto all'estero. La rete di corridoi petroliferi gestita dai consorzi europei, che ha nei Paesi dell'Europa dell'Est la sua principale direttrice di estensione, e il sistema di infrastrutture logistiche ad essa collegate, risulterebbero inoperanti e sterili in assenza di una capacità reale di contenere l'influenza economica e politica statunitense nelle aree in via di sviluppo del Medioriente e dell'Asia Centrale alle quali quei corridoi sono destinati a connettersi.
Giganti concorrenti tra loro, i consorzi della finanza e dell'economia di Stati Uniti ed Europa hanno un nemico in comune: l'autodeterminazione dei popoli che intendono stabilire e mantenere la sovranità sulle proprie risorse (non rinunciando allo sviluppo delle proprie capacità produttive), piuttosto che perseguire una crescita monodimensionale strettamente dipendente dalle richieste di rifornimento energetico, di materie prime e manifatture a basso prezzo da parte delle economie capitaliste occidentali.
Non bisogna dimenticare che nei Paesi nei quali, grazie alla sete occidentale di oro nero e ai profitti che ne derivano tanto per gli investitori in Occidente quanto per una ristrettissima classe proprietaria araba, l'economia è stata spinta sul binario unico della produzione ed esportazione di petrolio, invariabilmente povertà e degrado sociale e ambientale sono cresciuti in modo esponenziale in pochi anni.
Georges Corm, ex ministro delle Finanze della Repubblica Libanese, esprime con chiarezza e semplicità questa situazione: "In Oriente la 'ricchezza' petrolifera distrugge nel disordine il tessuto sociale, crea deficit alimentari gravi e una dipendenza pressoché totale rispetto alla produzione petrolifera, mettendo delle economie scheletriche in una situazione di estroversione totale verso i Paesi sviluppati, in particolare occidentali, e dunque in una posizione di assoluta vulnerabilità. (...) Il mondo arabo, sino alla metà degli anni sessanta, era esportatore netto di prodotti alimentari. Nel 1980, importa più della metà dei prodotti che consuma". [2]
La politica petrolifera dell'Iraq, invece, ha inteso salvaguardare le risorse nazionalizzate ed investirne la rendita in infrastrutture, diversificazione produttiva e redistribuzione sociale della ricchezza: non poteva quindi che confliggere con i disegni del capitalismo occidentale. Per quanto interessi contingenti abbiano indotto i governi occidentali a scegliere alternativamente atteggiamenti di relativa tolleranza o di radicale intransigenza verso il regime iracheno, è "necessario" per tutti gli oligopoli del capitale transnazionale, siano essi concentrati negli Stati Uniti come in altre potenze occidentali, che l'Iraq cessi di essere un Paese indirizzato al socialismo.
L'ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger, in merito, si era espresso così: "Il rovesciamento del regime iracheno e, come minimo, lo sradicamento delle sue armi di distruzione di massa, avrebbe anche potenziali benefici politici: il cosiddetto mondo popolare arabo potrebbe concluderne che le conseguenze negative della jihad superano qualsiasi beneficio. Potrebbe incoraggiare un nuovo corso in Siria; consolidare le forze moderate in Arabia Saudita; aumentare le pressioni per un'evoluzione democratica in Iran; dimostrare all'Autorità palestinese che l'America è seria circa la sua volontà di rovesciare tiranni e portarsi dietro una migliore bilancia nella politica petrolifera del l'Opec". [3] Non si può fare a meno di notare che Kissinger interpreta il termine jihad (guerra santa) come guerra di liberazione, le attribuisce cioè lo stesso significato che la parola ha acquistato per molta parte delle masse oppresse del mondo arabo.
Se per l'Europa è vitale mantenere un rapporto di scambio ineguale (petrolio contro tecnologia e prodotti finiti) con i Paesi in via di sviluppo, e in particolar modo con il Medioriente, per i padroni dell'economia statunitense è urgente tagliare le vie dirette di rifornimento energetico per i Paesi europei, oltre a quelle che mettono in connessione tra loro i Paesi dell'area mediorientale secondo direttrici autonome, per assicurarsi il trasferimento costante di ricchezza e il flusso ininterrotto di capitali.
Se gli Stati Uniti, potenza egemone sul piano militare, scelgono la via della ricolonizzazione manu militari della Mesopotamia prima e del Grande Medioriente in prospettiva, gli europei non possono che intraprendere la via della trattativa per una ricolonizzazione morbida, Washington permettendo. Il voto negativo all'ONU dei rappresentanti dei governi francese e tedesco in merito alla guerra contro l'Iraq trova in questo la sua ragione. Analogamente nelle pressioni dei vertici degli apparati finanziari e militari-industriali, interessati tra l'altro agli affari della "ricostruzione", si scoprono le ragioni del successivo cedimento di fronte all'occupazione dell'Iraq.
Quanto all'Italia, il cui attuale governo di centro-destra si presta volentieri a tener mano al disegno statunitense di spaccare il già difficoltoso processo di unificazione europea, la sua classe imprenditoriale non prova imbarazzo a far passare come "interesse nazionale" il suo proprio interesse ad entrare nella spartizione della torta mediorientale attraverso il ruolo significativo che le banche nazionali si sono aggiudicate per la gestione del credito nella fase post-bellica.
Partecipe a tutti gli effetti dell'aggressione, avendo inviato i propri servizi di intelligente militare a condurre operazioni coperte in appoggio alle forze militari anglo-americane durante le prime fasi della guerra, l'Italia è stata la base logistica fondamentale per la guerra aerea e i bombardamenti ed è parte attiva dell'occupazione. L'Italia potrà ritirare gran parte delle sue truppe, in caso di cambio di governo, senza turbare la sensibilità dell'iperpotenza dominante: lascerà infatti sul terreno, insieme a contingenti del "nuovo esercito iracheno" addestrate dai suoi istruttori militari, tecnici e consiglieri, inquadrati nella NATO e legati dall'accordo di cooperazione bilaterale militare fresco di firma secondo l'intesa del giugno 2004 nell'ambito della MultiNational Force (MNF) che agisce sul terreno. E rimangono a disposizione per il proseguimento delle avventure belliche le oltre 140 basi militari americane e NATO sul territorio italiano. Contrariamente a quanto si vuole far credere, il governo italiano è stato pienamente complice del genocidio in Iraq.
Non c'è stato dunque nessun asse europeo realmente deciso a contrastare l'attuazione della guerra preventiva (o guerra infinita, guerra al terrorismo, guerra contro tutte le dittature, come di volta in volta è stata definita), come grande parte della sinistra occidentale ha voluto credere o ha finto di credere. C'è stato piuttosto un riposizionamento delle maggiori potenze in vista di futuri confronti interimperialistici che, opponendo interessi dei diversi blocchi del Primo Mondo, coinvolgeranno Paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Come nota Sergio Finardi "in un mondo multipolare di potenze nucleari, la guerra convenzionale è possibile solo perché la politica e i legami economici la consentono". [4]
Solamente la diplomazia francese, con le sue manovre nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ha ottenuto una significativa vittoria: non ha certo fermato la guerra, ma è riuscita a debellare il cosiddetto "unilateralismo" dell'establishment statunitense imponendo in agenda il "multilateralismo" delle potenze concorrenti.
Non si è formato però un vero asse russo-franco-tedesco di opposizione all'aggressione, asse che, se fosse esistito, avrebbe potuto mettere in atto misure di pressione diplomatica e militare per impedirla (come era avvenuto durante gli anni della "Guerra fredda"). Ed avrebbe anche controbattuto con un'informazione corretta e razionale alla megalitica campagna di disinformazione, studiata e fatta diffondere su tutti i media del pianeta dalle centrali della propaganda bellica statunitense. La diffamazione sistematica, giunta sovente ai livelli del grottesco da trivio, del sistema politico iracheno e del suo governo, l'occultamento delle ragioni della storia, la mistificazione della cultura e della coscienza nazionale delle popolazioni arabe, sono state invece promosse dalle TV e dalla stampa di tutto il mondo democratico e dei suoi satelliti. Sostenitori e oppositori della guerra, organizzazioni della destra e della sinistra, maggioranze silenziose e "pacifisti" hanno così condiviso lo stesso immaginario collettivo: per tutti Saddam Hussein è diventato il "male assoluto" e il popolo iracheno una vittima afona e incapace di esercitare l'autodeterminazione, una vittima cui portare la democrazia con le bombe o con il cosiddetto dialogo costruttivo. Per alcuni settori della sinistra, la Resistenza armata, pure se legittima, sarebbe "responsabile di atti terroristici" o, quanto meno, non sarebbe portatrice di valori (occidentali) di libertà; per altri, la "resistenza del popolo iracheno", considerata fuori da ogni contesto storico e politico, è diventata un soggetto virtuale ridisegnato in base ai propri modelli.
Tra gli intenti di queste pagine c'è quello di contribuire a ripristinare alcune linee interrotte nella trasmissione della storia e di dare conto di fatti e presupposti che la manipolazione mediatica ha nascosto o alterato.
Prima vittima della mala informazione è stato il movimento contro la guerra che, fuorviato dalla manipolazione mediatica, ha mancato di raggiungere un importante obiettivo, quello cioè di costruire attorno al popolo iracheno un fronte di solidarietà consapevole.
Il 15 febbraio 2003, un mese prima dell'inizio dell'aggressione armata statunitense contro l'Iraq, 110 milioni di persone manifestavano nelle piazze di tutto il mondo contro la guerra che si annunciava. [5] In Italia quel giorno più di 4 milioni di manifestanti hanno invaso le piazze: le stime della questura di Roma ammettevano una partecipazione di 3 milioni di persone nella sola capitale.
L'avversione spontanea che larga parte della società italiana provava di fronte al massacro programmato della popolazione irachena e la spinta propulsiva che questo sentimento ampiamente condiviso esercitava sulla disponibilità individuale alla mobilitazione rappresentavano un grandissimo potenziale che la sinistra nel suo complesso, e quella istituzionale in particolare, avrebbe potuto raccogliere se si fosse fatta carico delle istanze espresse.
Il fatto che la sinistra istituzionale abbia invece deciso di condurre un'opposizione di facciata, di limitarsi ad una condanna di principio dell'unilateralismo americano, di introdurre contenuti ambigui (no alla guerra e al terrorismo), di promuovere il disimpegno delle organizzazioni dei lavoratori e di guidare il riflusso del movimento, rinunciando così a capitalizzarne l'impulso emotivo, evidenzia come, dietro questa scelta, non stia semplicemente una valutazione opportunistica riguardo ad una propria futura collocazione all'interno della compagine governativa, ma un preciso indirizzo strategico.
L'assunzione, da parte delle sinistre europee, del principio della difesa del sistema democratico, cioè del pluralismo politico parlamentare, come carattere peculiare proprio e irrinunciabile, porta necessariamente alla difesa dell'egemonia dei Paesi cosiddetti democratici su quelli che sviluppano sistemi diversi, ma non per questo necessariamente meno democratici. Questo atteggiamento, che delegittima ogni forma di autodeterminazione dei popoli che non passi per il filtro dell'ordine sociale configurato nelle democrazie occidentali, produce inevitabilmente una frattura con le lotte antiegemoniche che questi conducono in contrasto con l'Occidente capitalista.
Il punto di vista secondo il quale "la democrazia è un bene in sé", facendo astrazione dal processo storico che l'ha prodotta, subordina questa sinistra al progetto capitalista di espansione illimitata del suo modello economico e politico e limita il terreno della contraddizione a questioni di modalità di intervento. Il risultato è che se, e non sempre, si condanna l'opzione armata, si promuove invece, senza alcuna remora, quella della pressione economico-finanziaria e diplomatica.
All'interno della contraddizione tra il modello di espansione statunitense, fondato sull'egemonia militare e sull'intervento armato diretto nelle aree di crisi (e cioè contro i Paesi che intendono sottrarsi al suo dominio) e quello europeo, incentrato sulla mediazione politica in funzione della assimilazione progressiva dei Paesi e dei mercati esteri oggetto dei propri flussi di investimento, la "sinistra" opta per un sostegno alla forma di ingerenza europea. Ciò equivale, in definitiva, a schierarsi in difesa degli interessi della propria borghesia, rinnegando ogni riferimento teorico alla critica del capitalismo e dell'imperialismo e abbandonando il principio e la pratica dell'unità tra le lotte dei lavoratori e quelle dei popoli oppressi.
Al di là della buona o cattiva fede di uomini politici o giornalisti che hanno occultato i fatti e le ragioni della storia, diffuso informazione falsa e subornato le coscienze - politici e giornalisti ai quali, peraltro, non va riconosciuta alcuna presunzione di innocenza - questa scelta di campo della sinistra è alla base dell'adesione all'operazione mediatica di demonizzazione del regime iracheno, dei suoi rappresentanti e delle minoranze che hanno assunto posizioni a sostegno alla Resistenza.
La Resistenza irachena sta invece impegnando sul terreno, da quasi tre anni, il più potente esercito del pianeta e gli impedisce di acquisire il controllo del territorio, ha dimostrato di avere l'appoggio di massa della popolazione, non è stata indebolita né dal tentativo statunitense di "irachenizzazione" del conflitto tramite l'addestramento e l'impiego di corpi militari arruolati tra le fazioni collaborazioniste, né dall'artificio tattico delle elezioni svolte sotto occupazione militare che si è dimostrato un infelice espediente giuridico per dare copertura formale agli occupanti attraverso l'insediamento di un governo fantoccio. Come ricorda Fulvio Grimaldi [6], "analoghe elezioni vennero tenute durante la guerra in Vietnam, a supporto dei fantocci fascisti di Saigon: non fornirono né sovranità, né autogoverno, né fermarono la Resistenza, né ne impedirono la vittoria (anche allora si era ubriacata l'opinione pubblica con la fanfara dell'83% dei votanti), contro la violenza dei terroristi Vietcong".
Il progetto statunitense è quello di ridisegnare la carta geopolitica del Medioriente tagliando le linee regionali di interscambio e isolando così gli uni dagli altri i Paesi mediorientali, per realizzare un grande mercato comune dal Marocco all'Afghanistan – il cosiddetto Grande Medioriente – che metta tutte le vie di transito dell'energia sotto tutela americana e faccia afluire il petrolio del Kirkuk al terminale israeliano di Haifa, per parlare solo della parte più appariscente di questo piano. Ma la realizzazione di questo progetto, che prevede un attacco preventivo contro la Siria e l'Iran e la liquidazione definitiva della "questione paletinese", dovrà aspettare: l'esercito degli Stati Uniti è inchiodato in Iraq.
Oggi, nel momento in cui la Resistenza ha la forza per mettere gli Stati Uniti nella condizione di dover cambiare le proprie strategie di conquista del mondo arabo, oggi, nel momento in cui si prospetta l'urgenza di una soluzione alternativa al proseguimento dell'occupazione, si cerca di mettere in campo una nuova operazione per escludere da un futuro assetto dell'Iraq le forze progressiste e quelle che realmente guidano la lotta armata. Le agenzie statunitensi e le diplomazie europee sono entrambe impegnate nella costruzione di "referenti politici della Resistenza" pronti a trattare in suo nome, pronti cioè ad approfittare delle vittorie militari della Resistenza unico interlocutore legittimo per un eventuale negoziato in quanto soggetto storico che porta avanti la guerra di liberazione nazionale contro le potenze che hanno aggredito e occupato il Paese senza peraltro sconfiggerlo per sottrarle la vittoria politica e guadagnarsi una fetta di potere democraticamente garantito dagli accordi di spartizione tra le grandi potenze.
Entro questa prospettiva, la Casa Bianca privilegia alcune tra le fazioni più reazionarie e oscurantiste, quelle legate agli aspiranti califfi delle correnti islamiche, che siano o meno integrate nell'attuale governo fantoccio. Dei resto le dirigenze dei "rnondo islamico", nella storia dell'ultimo secolo, sono sempre state alleate agli interessi capitalisti e imperialisti, ai quali sono legate gran parte delle loro fortune finanziarie, e sono organicamente interne al processo di estensione planetaria dello sfruttamento dei popoli e dei lavoro. La sharia (legge isiamica) non contraddice il principio dei profitto privato.
Grazie alla protezione angio americana, nelle città irachene le milizie isiamico fondamentaliste filo iraniane, ma anche di ispirazione whaabita, impongono con il terrore la legge isiamica e praticano l'assassinio sistematico dei sostenitori dei vecchio ordinamento politico e dei nazionalismo progressista.
Le democrazie europee sono invece orientate a trattare con le componenti laiche di opposizione al governo baathista, spesso sinceramente ostili all'imperialismo americano e autenticamente avverse all'occupazione, ma provenienti nella maggior parte dei casi dall'emigrazione di lunga data, del tutto estranee alla Resistenza armata e prive di qualsiasi rappresentatività all'interno del Paese. Loro obiettivo primario non può che essere, anche quando non si tratti di autentici traditori, quello di recuperare per sé e per la propria corrente un posto al sole in una futura compagine governativa. Il loro programma per un futuro Iraq liberato è fondato in effetti quasi esclusivamente sull'istituzione di un sistema pluripartitico e sulla democrazia politica. I loro sponsor europei, cui fa riferimento la sinistra socialdemocratica italiana, non rinuncerebbero del resto a sviluppare una certa influenza in materia di politica economica, gestione delle risorse, condizionamento del credito, servitù militari. Non rinuncerebbero, in altre parole, ad una propria politica imperialista.
La pacificazione prefigurata dagli anglo-americani, cioè un nuovo assetto politico che realizzi un improbabile patto federativo liquidando la sovranità nazionale irachena e completando la distruzione del suo modello sociale multietnico e multiconfessionale, non può che passare attraverso lo scontro per la spartizione del potere e del territorio tra consorterie settarie, attraverso la radicalizzazione delle azioni armate del separatismo curdo e, soprattutto, attraverso pratiche brutali per ottenere la sottomissione della popolazione.
Non si può definire questo scenario "guerra civile", come fa praticamente tutta la stampa italiana. Descrivere così la proliferazione di conflitti tra fazioni che gli occupanti hanno interesse a scatenare può solo avere come scopo quello di equiparare le forze combattenti della Resistenza, che sono invece del tutto estranee a queste rivalità, alle milizie dei partiti collaborazionisti, in modo da poter sostenere che tutte le parti politiche in causa, sia resistenti che compromesse con gli aggressori, hanno uguali titoli da far valere in una futura ricomposizione dello o degli Stati iracheni.
Non possiamo predire se, in una guerra di lunga durata, la Resistenza irachena potrà prevalere sul complesso degli interessi delle grandi potenze occidentali e delle luogotenenze locali. E non possiamo nemmeno prevedere oggi se la competizione tra i diversi modelli dell'islam politico, cui la guerra in Iraq ha fornito un primo terreno di confronto, riuscirà ad annullare le conquiste, in termini di progresso sociale e indipendenza politica, frutto della rivoluzione in una parte del mondo arabo (in Iraq come in Siria, Palestina, Libano, Libia, e come era stato in Algeria), secolarizzato e indirizzato verso il socialismo.
Possiamo però mantenere fermo un punto di vista critico che ci permetta di riconoscere la differenza tra le forze che sono espressione del grado di autonomia, maturità politica ed evoluzione sociale raggiunta nella sua storia dalla società irachena, laica e multietnica, e quelle fazioni che sono il prodotto dei regimi islamici reazionari legati agli interessi del capitalismo occidentale o creazione dei servizi segreti e delle diplomazie occidentali.
In Iraq questa differenza coincide in larga parte con la divergenza tra la scelta collaborazionista delle dirigenze filo-occidentali e islamiche e quella, oggettivamente antimperialista, delle forze resistenti impegnate a contrastare, sul proprio territorio, il progetto di ricolonizzazione di vaste aree del pianeta portato avanti non solo dalla destra neocon [7] americana (peraltro perfettamente integrata nella linea di continuità storico-ideologica che ha informato i governi degli Stati Uniti), ma perseguito anche dalle altre potenze capitaliste concorrenti con l'impero americano.
La guerra per il controllo delle aree strategiche ha preso l'avvio in Medioriente, ma promette di estendersi ben oltre i confini del Golfo Persico e di coinvolgere tutto l'Occidente in una serie di aggressioni ai Paesi non normalizzati prima, e a quelli coinvolti nel ridisegno della mappa dell'economia mondiale poi. Comunque venga mascherata - guerra al terrorismo, guerra di civiltà, guerra contro l'islam radicale - questa guerra vede in prospettiva contrapposti gli interessi delle ristrette élites dirigenti dei Paesi a capitalismo avanzato a quelli dei popoli dei Paesi esportatori di energia e di materie prime e produttori di beni e di merci. All'interno di questo già inquietante scenario, il confronto interno tra diversi blocchi imperialisti, confronto al quale l'abile diplomazia francese ha aperto la strada mettendo in discussione l'egemonia statunitense e riportando all'ordine del giorno il sistema dell'equilibrio multipolare tra potenze comparabili per livello di sviluppo e aggressività dell'economia espansionista, non può escludere l'opzione armata.
L'onere del conflitto ricade già sulle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni dei Paesi "avanzati", non soltanto nei termini economici dello sfruttamento del lavoro (abbattimento del monte-salari, precarizzazione, restrizione dei diritti, cancellazione progressiva della spesa sociale), ma anche nei termini di una accresciuta soggezione delle classi subalterne agli indirizzi politici dell'economia di guerra.
I guasti prodotti dalle politiche di delocalizzazione (conseguenti alla neocolonizzazione delle aree sottratte all'influenza sovietica e all'intensificazione dello sfruttamento nelle regioni a sviluppo dipendente dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa), cioè disgregazione sociale, insicurezza sul territorio e peggioramento della qualità della vita, cominciano già a manifestarsi.
In Paesi come l'Italia, soggetti a pesanti servitù militari regolate anche da clausole segrete in ambito NATO, il danno derivante dall'aumento della spesa militare e dal riorientamento della produzione dall'ambito civile a quello militare è già evidente, ma i rischi possono essere anche peggiori.
Se le popolazioni occidentali possono ottenere dal processo di ricolonizzazione un temporaneo vantaggio nei termini di una maggiore disponibilità di beni di consumo a basso costo, il prezzo da pagare potrebbe, nel tempo, rivelarsi molto alto.
I "popoli ribelli" oggetto dell'attacco imperialista hanno cominciato ad opporre una inevitabile, e forse irriducibile, resistenza: non è detto che questa si trasformi in una forza capace di determinare il corso degli eventi nella storia, ma è certamente l'unica forza reale credibile che oppone le ragioni dell'umanità a quelle del profitto.

Note:
[1] II Project for the New American Century (PNAC), fondato da esponenti neoconservatori (neocoservativ o neocon) nella primavera del 1997 durante il periodo dell'amministrazione Clinton, è un istituto collegato alle istituzioni della Difesa e dei servizi segreti, al partito repubblicano ed al Council on Foreign Relations (CFR), ente che ha grande influenza nella formulazione della politica estera americana. Scopo dichiarato del PNAC è promuovere la leadership globale degli Stati Uniti. Nel settembre 2000, pochi mesi prima dell'inizio del mandato di George W. Bush alla presidenza, il PNAC pubblicava il suo programma "Rebuilding America's Defenses" che delinea la strategia per stabilire l'egemonia americana sul pianeta supportata dalla superiorità militare e tecnologica, impedire l'emergere di qualsiasi potenza mondiale o regionale in grado di competere con gli Stati Uniti, e per esercitare azioni armate preventive contro qualunque nazione o organizzazione venisse avvertita come una minaccia per gli interessi statunitensi nel mondo. Il testo della National Security Strategy, documento adottato dalla Casa Bianca nel settembre 2000, ne ha acquisito le direttive. Presidente del PNAC è William Kristol; altri estensori del progetto sono Robert Kagan, Devon Gaffney Cross, Bruce P. Jackson and John R. Bolton. Tra i sottoscrittori figurano Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz. (cfr. http://www.newamericancentury.org.
[2] Georges Corm, Petrolio e Rivoluzione, torno II - Jaca Book, Milano, aprile 2005
[3] Henry Kissinger, La politica dell'intervento: "il cambio di regime" in Iraq è una strategia rivoluzionaria, in San Francisco Chronicle del 9 agosto 2002, articolo citato da Sergio
Finardi nel suo articolo //piccolo Bush si prepara alla guerra, : http://www.iImanifesto.it.
[4] S. Finardi, L'armada ed i suoi oppositori, in L'Ospite ingrato, n.2 del 2003
[5] "Secondo la CNN si è in pratica trattato della più grande manifestazione mondiale di tutti i tempi: oltre 110 milioni di persone in marcia per dire no alla guerra" (La Repubblica,
15 febbraio 2003 - http://www.repubblica.it/online/politica/noguerradue/mondo/ mondo.html)
[6] Fulvio Grimaldi, L'Iraq delle elezioni - 2 febbraio 2005, www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=463.
[7] La definizione neoconservativ (neoconservatori) o neocon si riferisce ad un gruppo di intellettuali, accademici, analisti e funzionari politici, lobbysti dell'industria militare che professano un'ideologia ispirata ad una matrice religiosa di tipo puritano e si fanno promotori della concezione, profondamente radicata nella cultura tradizionalista statunitense ed espressa nella teoria del "destino manifesto", secondo la quale gli Stati Uniti sono investiti della missione di diffondere nel mondo i valori americani di libertà individuale e di democrazia. Da questo consegue, secondo la visione dei neocon, la necessità per gli Stati Uniti di mantenere l'egemonia globale sul resto del mondo e di assicurarsi la supremazia militare.
A differenza dei conservatori tradizionali, i neocon provengono da esperienze politiche liberai o di sinistra. Il ruolo e l'influenza dei neoconservatori sull'amministrazione Bush è determinante.

***
L'impero si è fermato a Baghdad
di Vittoria Poletti
2006, Edizioni ACHAB - Verona
290 pagine

SOMMARIO

Prefazione
Postfazione
Introduzione

1991 2003, DALLA GUERRA ALLA GUERRA

- Il diritto ristabilito
Perché una guerra tanto distruttiva?
L'obiettivo dichiarato della "guerra giusta"
Gli obiettivi non dichiarati della guerra di annientamento
Perché Stati Uniti e Gran Bretagna respinsero il piano Primakov per un ritiro negoziato delle truppe irachene dal Kuwait?
Perché George Bush e il suo staff non approfittarono della chiacciante vittoria militare per rovesciare il governo di Saddam Hussein?
Ma la guerra contro l'Iraq non è mai terminata e non è mai stata sospesa
- L'offensiva finale
E allora perché una nuova guerra contro l'Iraq?
Quali cambiamenti sono intervenuti?
Quali condizioni hanno reso conveniente e possibile la guerra dei 2003?
Perché nel 2003 il governo americano vuole "finire il lavoro" imponendo il cambiamento di regime politico in iraq?
- La guerra dei petrolio
L'ONU e la guerra dei petrolio
- La guerra per il dominio globale: la ricostruzione
L'ONU e la ricostruzione
- La guerra per il dominio globale: esportare la democrazia
L'ONU strumento dell'egemonia statunitense
- L'Iraq dentro la strategia globale degli Stati Uniti

LA STORIA NON LA SCRIVONO SOLO I COLONIZZATORI
- Perché il popolo iracheno rifiuta l'integrazione al modello della democrazia mercantile occidentale?
La società irachena non ha bisogno dei missionari della democrazia
- La rivoluzione irachena
Il Partito Comunista Iracheno
Il Baath
Il Fronte Unito
Una rivoluzione pericolosa per gli interessi dell'Occidente capitalista
Dal Fronte Unito ali'esplosione degli antagonismi
1963: la guerra tra fazioni porta al potere i militari
- La politica imperialista in Iraq negli anni '60
I partiti curdi in Iraq, pedine della reazione
- Le forze progressiste e la reazione isiamica di fronte all'involuzione dei governo militare di Aref
- 1968: il Baath al potere
Il Fronte Progressista Nazionale
Il ruolo dell'esercito
La questione curda
Il petrolio degli arabi per gli arabi
- La rivoluzione assediata
La minaccia nucleare israeliana
L'arma a doppio taglio dei prezzo dei petrolio
Il "fronte intemo"
- Verso la guerra
- La guerra Iran-Iraq
- Stati Uniti ed Europa di fronte alla seconda fase della decolonizzazione

LA RESISTENZA IRACHENA SBARRA LA STRADA ALL'IMPERO

- La Resistenza
Una Resistenza pienamente legittima
Il sostegno popolare alla Resistenza armata
Resistenza e "terrorismo"
La Resistenza irachena sta impedendo Vestendersi delle guerre di aggressione in Medioriente
La preparazione della Resistenza
- I presupposti storici
La Decolonizzazione
L'atteggiamento delle sinistre occidentali nei confronti dei processo di decolonizzazione
- I presupposti politici
Il modello di organizzazione sociale e politica
- La composizione politica della Resistenza
La componente militare
Il Partito Baath
Il Baath alla guida della Resistenza
Le organizzazioni che fanno riferimento al Partito Baath
Le organizzazioni nasseriane
Le correnti baathiste dissidenti e le opposizioni nazionaliste all'estero che si dichiarano per la Resistenza armata
I Comunisti
L'opportunismo, maiattia senile dei comunismo dogmatico
I Comunisti nella Resistenza
Una strana alleanza: opposizione irachena e imperialismo europeo
A chi si rivolge questo progetto e chi è interessato a sostenerlo?

LA QUESTIONE ISLAMICA

- L'integralismo islamico: la conseguenza di una catena di errori dell'Occidente
- La CIA e gli Stati isiamici, le multinazionali americane e la religione dei petrolio
- L'islam politico progetta nuovi assetti dì potere
Il clero sciita vuole la "sua" parte
- La santa alleanza
- L'isiam militante, braccio armato dell'isiam politico
Nel nome di Allah, per conto degli ayatollah
Gli ulema verso la scalata al potere: il clero sunnita in Iraq
L'islam politico sunnita torna in Iraq con le truppe di occupazione: i Frateili Musulmani
Emiri e mujahideen: la "repubblica isiamica di Falluja"
Ma gli iracheni vogliono lo Stato isiamico?
La jihad contro la Resistenza
La "democrazia" si accorderà con i califfi, ma continuerà a combattere i popoli musulmani

LA GUERRA CONTRO LA "PACE"
- Balcanizzazione o guerra civile?
Il fantasma della guerra civile, la realtà dello scontro armato tra élites mercenarie
- Il processo politico
Governi e movimenti occidentali invocano la "pace"
Lo stile USA: negoziati e guerra sporca
Lo stile europeo: la politica come prosecuzione della guerra con altri mezzi
-Esportare la guerra
Stati Uniti: la guerra necessaria
La guerra urgente
Israele: la guerra per procura
L'ultima "frontiera"
-L'unica pace possibile è la vittoria della Resistenza
La Resistenza: il soggetto occultato
Il Baath consolida la sua posizione nel fronte resistente e nella società
Compagni di strada e amicizie pericolose
A sfavore dei "destino manifesto"
L'impero si è fermato a Baghdad
- Lo stivale militare ha mosso i primi passi: l'Italia in Iraq
- Riferimenti cronolocigi essenziali

APPENDICE
- Dichiarazione della Giuria di Coscienza dei Tribunale Mondiale sull'Iraq
- Il programma politico e strategico della Resistenza
Dichiarazione dei Partito Socialista Arabo ßaath, 9/9/2003
- Bibliografia
- indice delle schede
- Indici


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