19/01/2006: GUERRA IN IRAQ: tra RICOSTRUZIONE e RESISTENZA
Nella società capitalista la guerra è forza motrice dell’economia. Oltre ad essere strumento di aggressione e di conquista dei mercati esteri è assicurazione di continuità per la produzione bellica interna e di profitti per le imprese che garantiscono gli approvvigionamenti agli eserciti. Perdipiù genera almeno altri due redditizi ambiti di investimento: la ricostruzione post-bellica e gli aiuti “umanitari”.
Non stupisca che tali attività vengano annoverate tra gli investimenti, da sempre infatti la ricostruzione ha costituito un business fondamentale nel dopoguerra per le potenze in grado di impiegare capitali e di fornire assistenza primaria alle popolazioni civili; basti ricordare la centralità dei piani Marshall dopo la 2° guerra mondiale nella costruzione dell’egemonia economica e politica statunitense sui paesi legati al patto atlantico.
Anche nel conflitto irakeno sono questi i reali interessi che le forze militari si adoperano a difendere. La provincia di Nassirya, presidiata dai “nostri bravi ragazzi”, è proprio quella in cui si concentrano il maggior numero di contratti firmati da imprese italiane, come quelli dell’ENI in materia di estrazione e distribuzione del petrolio.
Dietro al farsesco dibattito sulle modalità di ritiro delle truppe che attraversa trasversalmente da destra a sinistra i salotti della politica italiana, si nasconde proprio l’esigenza della classe dirigente di disimpegnare il contingente militare senza perdere il controllo politico ed economico sul territorio. In quest’ottica l’eventuale coinvolgimento dell’ONU rappresenterebbe solo un modo per cercare di “legalizzare” la presenza militare nel paese e comporterebbe un aumento dei partecipanti al banchetto irakeno creando non pochi problemi di spartizione alla coalizione unilaterale che fino ad ora ha condotto l’occupazione.
In una guerra imperialista non possono esistere infatti forze neutrali; anche i caschi blu sono difensori di interessi specifici ben lontani dall’avere caratteri universalistici e pacifisti.
La stessa Croce Rossa Italiana, guidata dal commissario speciale di nomina governativa Maurizio Scelli, è impegnata, in Iraq come in Afghanistan, non senza dissenso nella base, direttamente al fianco degli eserciti occupanti, sottoscrivendo così una tacita complicità con le forze armate. Allo stesso modo i giornalisti rimasti nel paese sono solo “embedded” e questo limita fortemente l’obiettività del loro lavoro, già pesantemente viziato da una visione di parte.
In questo contesto plaudere alle avvenute elezioni (che hanno tra l’altro registrato grossolani brogli) o alla votazione della costituzione, è una scelta di campo ben precisa; significa nei fatti legittimare l’intervento militare giustificando il presunto fine “democratico” degli eserciti del capitale.
La nostra scelta è ben diversa, ed è un aperto sostegno alla resistenza del popolo irakeno. Resistenza che si pone come obiettivo primario l’attacco serrato alle truppe di occupazione attraverso i metodi della guerriglia che hanno contraddistinto, al di là delle differenze del caso, tutti i movimenti di liberazione dal nazifascismo (Italia compresa)e di decolonizzazione dalle potenze imperialiste. Come in Italia i partigiani venivano chiamati banditi in Iraq chi combatte per la liberazione viene chiamato terrorista e chi in occidente manifesta solidarietà verso tali forme di lotta viene bollato del medesimo marchio. La ragione è palese: l’unità d’intenti e la solidarietà tra proletariato arabo ed occidentale è lo scenario esplosivo che il capitale tenterà in ogni modo di scongiurare.
SAB. 18 FEBBRAIO CORTEO NAZIONALE A ROMA CONTRO SIONISMO E IMPERIALISMO AL FIANCO DELL’INTIFADA PALESTINESE E DELLA RESISTENZA IRAKENA
compagni/e di crema
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