01/03/2005: Scioperi made in China di Angela Pascucci
E'l'alba del 30 agosto a Chongqing. Nell'aria umida, appiccicosa e grigia di una delle aree metropolitane più vaste e inquinate della Cina, il silenzio mattutino viene rotto da oltre mille poliziotti che si dirigono verso la Fabbrica di Veicoli Speciali Shanhua, dal 18 agosto occupata dagli operai in sciopero. Con gli agenti, altri operai reclutati dalla Endurance Industrial Stock Co., compagnia privata che ha acquistato la ex Fabbrica 3403 dall'esercito popolare di liberazione e ora intende ristrutturarla in un modo che non piace affatto agli operai in rivolta. Gli uomini in marcia hanno un solo obiettivo: porre termine alla protesta dei lavoratori e sgombrare gli impianti. La fabbrica e i suo dormitori vengono circondati, scoppiano tafferugli, qualche scontro, ma in poco tempo la polizia prevale e riporta «l'ordine». Due persone vengono arrestate, come confermerà poi un anonimo funzionario del Comitato per il Commercio e la Cooperazione economica della municipalità interpellato dal China Labour Bulletin, che riporta la storia nel suo sito (www.china-labour.org.hk). Termina così, con una sconfitta brutale, la ribellione nata per contrastare una privatizzazione simile alle tante migliaia di altre in corso oggi in Cina, dove l'industria statale, in perdita secondo i nuovi paradigmi della competitività, è smantellata pezzo a pezzo, e con essa le vite di quelli che da sempre ci hanno lavorato. Gli operai avevano iniziato la protesta e l'occupazione innanzitutto per protestare contro le modalità di vendita dell'impresa. Svendita, dicono loro, in quanto la fabbrica era stata ceduta a un decimo del suo valore reale, senza neppure un'asta pubblica. La rabbia suscitata dallo scandalo, e dalla prospettiva di un deterioramento grave delle proprie condizioni di vita, li aveva spinti a una controproposta vera: acquistare loro la fabbrica, a un prezzo superiore, per poi gestirla in modo collettivo e democratico. La risposta della municipalità era stato un primo tentativo di irruzione delle «forze dell'ordine» già il 22 agosto, per decapitare la protesta con l'arresto dei suoi leader. Ma i lavoratori avevano fatto quadrato intorno ai loro capi e i poliziotti erano stati costretti a battere in ritirata. Un accenno di trattativa si era subito arenato. E infine l'assalto all'alba il 30 agosto. Oggi, tutto è finito. Chi ha perso il posto di lavoro riceve dal governo un sussidio di 80 yuan al mese (circa 10 dollari), chi è rimasto non ha più la copertura medica. Nessuno è riuscito a incassare i salari non pagati prima dell'avvio della ristrutturazione.
C'è dunque una Cina che protesta e non vuole limitarsi a guardare quella che si arricchisce, subendo in silenzio i «dolori» necessari al parto della transizione. Una Cina su cui tutti dovremmo puntare, per non dare per scontato un universale futuro da schiavi. Le proteste sono tante, in crescita, e per nulla velleitarie, anche se il più delle volte ancora destinate alla sconfitta. Una buona fonte è il China Labour Bulletin, organizzazione che da Hong Kong osserva quel che accade nella «fabbrica del mondo» e si batte perché nuovi sindacati, e non solo quello ufficiale, possano entrare nelle fabbriche a difendere i diritti dei lavoratori.
Contrariamente alla vulgata corrente, che vede milioni di operai cinesi a capo chino e zitti e mosca, la Cina offre uno scenario di lotte strenue, eccezionali persino negli esiti negativi. La lotta più straordinaria di cui si è venuti a conoscenza è quella ingaggiata dalla fabbrica tessile Tianwang a Xianyang, provincia dello Shaanxi, area interna di antica industrializzazione. Dal 14 settembre e per sette settimane 6.800, per la maggior parte donne, hanno occupato gli impianti per impedire, anche qui, l'attuazione dei piani di ristrutturazione della fabbrica, un tempo proprietà statale col nome di Fabbrica di cotone Xibei n.7, oggi privatizzata e detenuta al 51% dalla China Resources, compagnia cinese quotata a Hong Kong, New York e Londra.
I nuovi proprietari vogliono tabula rasa: liquidazione di tutti, riassunzione, con contratti a tempo determinato, di un numero non precisato di lavoratori che ripartono da zero, anche se dipendenti da decenni, con una paga molto inferiore alla precedente. Ai riassunti si chiede poi un «periodo di prova» di sei mesi nel corso del quale riceveranno solo il 60% del nuovo salario. Accessoriamente, non saranno versati contributi né per le future pensioni né per la presente assistenza sanitaria. Nel frattempo, il sindacato ufficiale scompare e anche del Comitato di fabbrica del partito si perdono le tracce.
Ma gli operai si organizzano per un braccio di ferro che sarà lungo, determinato, e stavolta non del tutto infruttuoso. Turni di guardia ai cancelli 24 ore su 24, tende di solidarietà, mobilitazione cittadina. La settimana scorsa, China Resources ha ceduto sui due punti più scandalosi, il periodo di prova e la riassunzione con contratti a tempi più lunghi di quelli offerti originariamente. Ma il pagamento dei contributi e il riconoscimento dell'anzianità degli operai sono esclusi, anche se è una patente violazione dello statuto dei lavoratori, che in Cina esiste, anche se resta lettera morta. Intanto però, 40 lavoratori, sospettati di essere i leader della protesta sono stati interrogati dalla polizia e una ventina di loro sono stati arrestati. Il mix di pesante bastone per i leader e qualche misera carota per i più ha avuto l'effetto voluto: è finito uno sciopero considerato senza precedenti nella Cina delle riforme, sia per durata che per l'unità di chi l'ha organizzato.
La conflittualità sociale è in aumento in Cina, nelle città e nelle campagne. Lo dicono fonti ufficiali che per il 2003 riportavano 58mila episodi di proteste che hanno coinvolto oltre tre milioni di persone (lo dice Prospettive, rivista del partito, citata dalla Reuters). E' una massa di grani di sabbia separati che non fanno fronte unito e che tuttavia sfuggono a ogni tentativo di essere incanalati entro l'alveo delle organizzazioni ufficiali deputate, sindacato Acftu o partito che sia.
La dispersione organizzativa non è più di conforto al governo centrale, che comincia a interrogarsi su come affrontare il problema. Anche perché la frustrazione, se esasperata, potrebbe appiccare fuochi alla lunga non circoscrivibili. Così a Zhongnanhai - la cittadella del potere di Pechino - si discute e ci si divide tra chi pensa che la linea dura della repressione poliziesca rafforzata sia l'unica data al momento e chi ritiene invece che sia arrivato il momento di dare ascolto alla rabbia e alle proteste. La nuova leadership guidata Hu Jintao parrebbe più propensa, per storia e cultura, al secondo percorso ma, allo stato attuale, pare più un atteggiamento di compassionevole attenzione che un cambio di rotta. Una via diversa è tutta da costruire e, soprattutto, l'attuale armamentario politico non la prevede. La creazione di una classe di nuovi ricchi è ancora prioritaria, e alla lunga potrebbe toccare un punto di non ritorno, nel suo darwinismo sociale.
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