07/09/2004: Bush vs Kerry: una falsa disputa


La Camera dei Deputati degli Stati Uniti ha approvato una delibera con la quale si autorizza, a tutti gli effetti, un attacco preventivo in Iran. Per nulla scoraggiati dal crescente disastro in Iraq, i repubblicani e i democratici si sono accordati per ribadire il ruolo del potere americano. Ma il vero argomento di discussione non è Bush e nemmeno Kerry, bensì la nascita dello “stato di sicurezza nazionale” sul modello americano, l’asservimento delle economie nazionali a un sistema che divide l’umanità, i modi per sovvertire il linguaggio politico e infine, forse, come ritrovare l’amor proprio.
Lo scorso 6 maggio, la Camera dei Deputati degli Stati Uniti ha approvato una delibera con la quale si autorizzava, a tutti gli effetti, un attacco preventivo in Iran. 376 i voti favorevoli e 3 i contrari. Per nulla scoraggiati dal crescente disastro in Iraq, “per l’ennesima volta”, ha scritto un giornalista, i repubblicani e i democratici “si sono accordati per ribadire le responsabilità del potere americano.”
All’interno dell’ormai apparente bipartitismo americano, venire a patti è costume in atto da tempo immemore. Con il benestare di entrambi i partiti, gli indiani d’America sono stati sterminati, le Filippine devastate e Cuba, e buona parte dell’America Latina, sono state rimesse in riga. Facendosi strada nel sangue, una nuova stirpe di antropologi - i giornalisti assoldati da magnati dell’editoria - ha intessuto l’eroico mito di una super setta chiamata Americanismo, che è divenuta ufficialmente ideologia grazie alla pubblicità e alle pubbliche relazioni del XX secolo e che abbraccia indifferentemente conservatorismo e liberalismo.
Sono stati dei presidenti democratici liberali a dichiarare la maggior parte delle guerre americane dell’età contemporanea: Truman in Corea, Kennedy e Johnson in Vietnam, Carter in Afghanistan. L’immaginario “missile gap” fu inventato dai liberali della Nuova Frontiera, vicini a Kennedy, come pretesto per prolungare la guerra fredda. Nel 1964 il congresso, a maggioranza democratica, autorizzò il presidente Johnson ad attaccare il Vietnam, una nazione di contadini indifesi che non rappresentava minaccia alcuna per gli Stati Uniti. Come nel caso delle mai-esistite armi di distruzione di massa irachene, anche allora la giustificazione fu un ‘incidente’ mai avvenuto secondo il quale due navi di pattuglia nord vietnamite avrebbero attaccato un nave da guerra americana. Seguirono tre milioni di morti e la rovina di un paese un tempo prospero.
Negli ultimi sessant’anni il congresso ha limitato solo una volta il ‘diritto’ del presidente a esercitare la forza sugli altri paesi. Questo cambio di direzione fu rappresentato dal Clark Amendment del 1975, frutto del grande movimento pacifista che si oppose alla guerra del Vietnam, ma poi abrogato da Ronald Reagan nel 1985. Negli anni Ottanta, durante le invasioni del Centroamerica volute da Reagan, alcune voci di impronta liberale, come quella di Tom Whicker del New York Times, decano delle “colombe”, si chiedevano se il piccolo e povero stato del Nicaragua fosse davvero una minaccia per gli Stati Uniti. Oggigiorno, con la minaccia rossa sostituita dal terrorismo, è in atto un’altra falsa disputa. Questo è il male minore.
Sono pochi gli elettori di idee liberali che si fanno illusioni su John Kerry, ma il bisogno di scrollarsi di dosso la ‘cattiva’ amministrazione Bush è davvero incombente. Il Guardian, portavoce liberale della Gran Bretagna, afferma che le prossime elezioni presidenziali rappresentano “un caso unico”. “I difetti e i limiti di Kerry sono evidenti,” rivela il quotidiano, “ma sono messi in ombra dal programma politico neoconservatore e dalla politica guerrafondaia di Bush. Sono elezioni in cui il mondo intero tirerebbe un sospiro di sollievo se il presidente in carica venisse sconfitto.”
Lasciamo pure che il mondo intero tiri un sospiro di sollievo, il governo Bush è pericoloso e odiato da tutti. Peccato che non sia questo il punto. Abbiamo discusso così a lungo, da entrmbe le parti dell'Atlatico, di quale fosse il male peggiore che è giunto il momento di tralasciare le ovvietà e di esaminare in maniera critica un sistema che sforna i Bush e le loro ombre democratiche. Per chi di noi si meraviglia per aver raggiunto gli anni della maturità senza essere saltato in aria per mano dei paladini dell’Americanismo, repubblicani e democratici, conservatori e liberali, o per i milioni in tutto il mondo che ormai rifiutano l’esempio americano in politica, il problema vero è ben chiaro. È il seguito di un progetto cominciato più di 500 anni fa.
I privilegi di “scoperta e conquista” concessi a Cristoforo Colombo nel 1492, in un mondo che il Papa “considera una sua proprietà di cui disporre a piacimento”, sono stati sostituiti da un’altra forma di pirateria: la volontà divina dell’Americanismo, alimentata dal progresso tecnologico, in primis quello dei media. “La minaccia all’indipendenza dalle nuove tecnologie alla fine del XX secolo”, ha scritto Edward Said in Culture and Imperialism (Cultura e imperialismo), “potrebbe risultare maggiore di quella posta in passato dal colonialismo. È ormai chiaro che la decolonizzazione non rappresenta la fine dei rapporti imperialistici, ma semplicemente il dispiegarsi di una tela geo-politica che andava intessendosi già dal Rinascimento. I nuovi media hanno il potere di penetrare all’interno di una cultura “recettiva” con maggiore facilità e più in profondità rispetto a un qualsiasi altro prodotto delle tecnologie occidentali precedenti.”
I presidenti degli ultimi anni sono stati tutti, in buona misura, una crezione dei media. Ancora oggi, nonostante il passato criminoso, Reagan è visto come un santo; la Fox Channel di Murdoch e la BBC post-Hutton si sono distinte solo per le diverse modalità di adulazione. E Clinton è ricordato con nostalgia dai liberali come un politico non particolarmente capace, ma comunque illuminato; eppure gli anni della presidenza Clinton sono stati molto più violenti di quelli di Bush e gli obiettivi sono stata gli stessi: “l’integrazione dei vari paesi nel mercato libero e globale”, le cui modalità di realizzazione, ha rilevato il New York Times, “implicano un coinvolgimento sempre più sfacciato da parte degli Stati Uniti negli affari interni delle altre nazioni”. La “full spectrum dominance” (predominio a tutto campo) elaborata dal Pentagono non è il frutto dei “neoconservatori”, ma del liberale Clinton che approvò quella che all’epoca fu considerata la spesa di guerra più ingente della storia. Secondo il Guardian, John Kerry invia “incoraggianti segnali di progresso”. È giunto il momento di porre fine a questo sproloquio.
La supremazia è la quintessenza dell’Americanismo; è solo la facciata che muta o che cade. Nel 1976 il democratico Jimmy Carter promise “una politica estera rispettosa dei diritti umani”. In segreto, però, appoggiava il genocidio indonesiano a Timor Est e costituiva, in Afghanistan, l’organizzazione terroristica dei mujaheddin che avrebbe dovuto rovesciare l’Unione Sovietica e che, in seguito, generò i talebani e al-Qaeda. Fu il liberale Carter, e non Reagan, a preparare il terreno per Bush. In passato, ho intervistato due grossi nomi della politica estera al tempo di Carter: Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale, e James Schlesinger, segretario alla difesa. Tra i programmi che delineano il nuovo imperialismo, quello di Brzezinski ha di certo raccolto i maggiori consensi. Investito d’autorità biblica dalla congrega di Bush, il suo libro The Grand Chessboard: American primacy and its geostrategic imperatives (La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana), pubblicato nel 1997, individua le priorità americane: assoggettamento economico dell’Unione Sovietica e controllo dell’Asia Centrale e del Medio Oriente.
Secondo la sua analisi, le “guerre locali” rappresentano solo l’inizio di un conflitto che porterà inesorabilmente gli Stati Uniti a dominare l’intero pianeta. “Volendo utilizzare una terminologia che rimanda ai tempi duri in cui fiorirono gli antichi imperi,” scrive Brzezinski, “i tre grandi imperativi della geostrategia imperialistica sono: evitare eventuali macchinazioni e destare un continuo bisogno di sicurezza tra i vassalli, tenere a bada il popolo e garantirgli protezione e, infine, evitare che i barbari si coalizzino tra loro”.
Un tempo sarebbe stato semplice liquidare un messaggio di questo tipo considerandolo frutto delle elucubrazioni strampalate della destra. Ma Brzezinski è tutt’altro che una figura marginale. Tra i suoi studenti più devoti: Madeleine Albright, segretario di stato di Clinton, che definì “un prezzo da pagare” la morte di mezzo milione di bambini iracheni al tempo dell’embargo imposto dagli Stati Uniti e John Negroponte, la mente della politica di terrore attuata in Centroamerica ai tempi di Reagan e attuale “ambasciatore” a Baghdad. James Rubin, accanito sostenitore della Albright presso il dipartimento di stato, è tra i candidati di Kerry come consigliere per la sicurezza nazionale. Inoltre è sionista: Israele nel ruolo di stato del terrore è fuori discussione.
Diamo uno sguardo al resto del mondo. Mentre l’Iraq occupa le prime pagine, le manovre americane in Africa passano quasi inosservate. In quelle regioni, la politica di Clinton e quella di Bush sono state un tutt’uno. L’African Growth and Opportunity Act di Clinton provocò una nuova corsa all’Africa. I bombardieri in missione umanitaria si domandano perché Bush e Blair non abbiano attaccato il Sudan o “liberato” Darfur, o perché non siano intervenuti nello Zimbabwe o nel Congo. Semplice: le angosce della razza umana e i diritti umani non li interessano, si preoccupano piuttosto di accaparrarsi le stesse materie prime che, alla fine del XIX secolo, furono causa di contese in tutta Europa. Gli strumenti utilizzati sono gli stessi: coercizione e corruzione, più noti come multilateralismo. Il Congo e lo Zambia possiedono il 50% delle riserve mondiali di cobalto; il 98% delle riserve mondiali di cromo si trovano nello Zimbabwe e nel Sudafrica. Inoltre, da non dimenticare, nell’Africa occidentale, dalla Nigeria all’Angola e nel bacino dell’Higleig, in Sudan, sono presenti giacimenti di petrolio e di gas naturale. Durante il governo Clinton fu creato segretamente l’African Crisis Response Iniziative (Acri) che ha permesso agli Stati Uniti di realizzare in Senegal, in Uganda, nel Malawi, nel Ghana, nel Benin, in Algeria, nel Niger, nel Mali e nel Ciad dei “programmi di assistenza militare”. Il progetto Acri è coordinato dal colonnello Nestor Pino-Marina, esule cubano che prese parte allo sbarco nella Baia dei Porci nel 1961, proseguì la sua carriera nelle forze speciali in Vietnam e nel Laos e, sotto Reagan, partecipò all’invasione del Nicaragua da parte dei contra. I vari pedigree rimangono immutati.
Durante le campagne presidenziali in cui John Kerry tenta di destituire Bush non si discute di tutto questo. Solo gli ingenui recidivi vedono una speranza nel multilateralismo o “internazionalismo energico” proposto da Kerry in opposizione all’unilateralismo di Bush; in realtà, si preannunciano pericoli ancora maggiori. Dopo aver regalato all’elite americana la strage più grande dai tempi del Vietnam, “ci sono buone probabilità”, secondo lo storico Gabriel Kolko, “che Bush continui nella sua opera di distruzione di quel sistema di alleanze così fondamentale per la potenza americana. Non bisogna certo prestar fede al detto ‘peggio è, meglio è’, ma è opportuno essere schietti e prendere in considerazione le conseguenze in politica estera che un secondo mandato Bush potrebbe portare. Per quanto sia un’eventualità piena di rischi, una rielezione di Bush potrebbe forse essere il male minore.”
Con la Nato di nuovo in sella e Francia e Germania accondiscendenti, le mire americane, sotto Kerry, potrebbero avanzare indisturbate senza gli impedimenti napoleonici della congrega di Bush. Neanche sui giornali degni di nota compaiono notizie su tali argomenti. Il 14 agosto il Washington Post si è rivolto ai suoi lettori scusandosi, in maniera un po’ enfatica, per non “aver dato ascolto a chi esprimeva dubbi sull’effettiva necessità di una guerra [contro l’Iraq]”, ciononostante la testata continua a rifiutarsi di discutere i pericoli rappresentati oggigiorno dagli Stati Uniti d’America. I sondaggi vedono Bush a più del 50%, livello a cui, a questo punto della campagna, nessun presidente uscente ha mai perso. Il suo modo di parlare “chiaro e semplice”, portato al successo quattro anni fa dai media, compresi la Fox e il Washington Post, sono tuttora vincenti.
Come nel periodo successivo agli attacchi dell’11 settembre, agli americani è negata la possibilità di comprendere, anche solo in parte, ciò che Norman Mailer ha definito “un clima pre-fascista”. I nostri timori non produrranno conseguenze: i liberali di professione, da una parte all’altra del globo, si sono dati da fare. Ne è un esempio emblematico la campagna denigratoria nei confronti del film di Michael Moore Fahrenheit 9/11. Non è un film radicale e non contiene dichiarazioni fuori del comune; si limita a scuotere i confini del dissenso “rispettabile”. Ecco perché al pubblico piace. Infrange e smaschera i subdoli codici del giornalismo. Permette l’inizio della decostruzione di quella propaganda che ogni sera è spacciata per informazione, secondo la quale “il governo sovrano iracheno ricerca la democrazia” e quelli che combattono a Najaf, Fallujah e Bassora sono sempre “militanti” e “insorti” o membri di un “esercito autonomo”, mai nazionalisti che difendono la propria madrepatria e la cui azione di resistenza probabilmente ha prevenuto ulteriori attacchi in Iran, Siria o Corea del Nord.
Il vero argomento di discussione non è Bush e nemmeno Kerry, bensì il sistema che entrambi rappresentano; è il declino della democrazia propriamente detta e la nascita dello “stato di sicurezza nazionale” sul modello americano in Gran Bretagna e anche in altri paesi che si dichiarano una democrazia, ma, al cui interno, le persone vengono incarcerate e poi si butta via la chiave o i cui leader commettono indisturbati i reati più atroci lontani da casa e poi, come l’impietoso Tony Blair, invitano lo stesso criminale che hanno deciso di insediare a tenere un discorso alla conferenza del partito laburista britannico.
Il vero argomento di discussione è l’asservimento delle economie nazionali a un sistema che divide l’umanità come mai prima d’ora e che alimenta la morte, ogni giorno, di 24.000 persone che soffrono la fame. Il vero argomento di discussione è come sovvertire il linguaggio politico e la discussione stessa e infine, forse, come ritrovare l’amor proprio.

L’ultimo libro di John Pilger, Tell Me No Lies: investigative journalism and its triumphs, sarà pubblicato a ottobre per Jonathan Cape.

Fonte: http://pilger.carlton.com/print
Traduzione di Maria Romanazzo per Nuovi Mondi Media
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