12/06/2004: LA SOLIDARIETÀ NON BASTA


L A B O R A T O R I O M A R X I S T A
Contro il carcere e la repressione, per la solidarietà e la lotta di classe
Se conveniamo che una delle funzioni peculiari dello Stato è quella di esercitare un’azione repressiva nei confronti delle varie espressioni di opposizione e di insubordinazione che si manifestano contro i dettami culturali, giuridici e ideologici dominanti dobbiamo convenire che parlare di repressione non vuol dire parlare soltanto di repressione politica. Se così fosse, le carceri sarebbero piene di “politici”, mentre invece normalmente sono piene di “comuni”.

Naturalmente, spesso il discrimine tra reati “comuni” e reati “politici” è assai labile.
Se non esistesse la proprietà privata non esisterebbero reati contro la proprietà. Se non esistessero leggi che limitano la libera circolazione delle persone non esisterebbero clandestini. Se i rapporti sociali tra le persone fossero improntati alla cultura della solidarietà di classe e del mutuo soccorso e non a quella dell’individualismo, del potere, del “successo”, del denaro… è certo che moltissimi reati neppure esisterebbero.

Il modo di produzione capitalistico non produce solo merci, capitali, profitti o salari; produce anzitutto il suo rapporto di produzione fondamentale, produce capitalisti e salariati, fissati in un rapporto reciproco che consente ad una ristretta cerchia di detentori di mezzi di produzione di “mettere al lavoro” una grande parte di persone che possiedono solo la propria capacità di lavorare (per il profitto di qualcun altro).

Un modo per provare a sottrarsi a questo “doppio mulinello” è quello di adeguarsi al messaggio ideologico dominante: inseguire denaro, successo, potere… cercarli dove sono, procurarseli in ogni modo.
La comunicazione di massa instilla nel nostro cervello, giorno dopo giorno, che chi non ha denaro e potere è un “perdente”, una nullità. E chi vuol sentirsi una nullità ? Dunque, dobbiamo metterci alla caccia di denaro, successo, potere.. costi quello che costi.

Compiere “reati” ? Beh, perché no ?
Non vediamo forse ogni giorno che quando gli americani vogliono il petrolio degli iracheni se lo prendono - senza tanti complimenti - uccidendo, seviziando, violentando… ?

E il messaggio dei cosiddetti “reality show” non è forse quello che “alla fine ne resterà uno solo”, che ci si deve eliminare l'un con l'altro, sopravvivere l’uno contro l’altro, in una rappresentazione virtuale di puro darwinismo sociale?

E la combinazione tra TV-guardona e le sempre più massicce installazioni di videocamere un po’ ovunque non è forse anche un modo per abituarci al fatto che essere spiati ovunque 24 ore su 24 non è una cosa poi così insana ?
Ma in moltissimi casi il “reato” non è neppure un modo per inseguire le chimere proposte dalla cultura dominante; è in effetti l’unica possibilità di sopravvivenza, una forma di resistenza ala proprio annientamento sociale.

Anche noi siamo convinti che sia ben minore reato rapinare le banche, piuttosto che fondarle. Sempre più dignitoso, in ogni caso, che chinare la testa ogni giorno sul posto di lavoro, non per necessità, ma per pagarci la settimana a Charm El Cheik o per comprarci il telefonino più alla moda, accettando in silenzio di farci derubare degli anni migliori della nostra vita e delle ore migliori della nostra giornata, lasciando alle nostre relazioni sociali e ai nostri interessi personali solo alcuni brevi momenti in cui siamo sfiancati dalla stanchezza fisica e psicologica.

Non c’è niente che il capitalismo possa insegnarci in termini di etica, di morale o di giustizia, perché la prima rapina, la rapina originaria - se così si può dire - è proprio quella della proprietà privata.

Ma anche se scegliamo di rifiutare la nostra subordinazione sociale mettendo in discussione l’assetto di potere dominante, presto o tardi, finiamo necessariamente per compiere “reati”, non fosse altro perché ogni terreno di lotta legale di massa viene progressivamente eliminato mano a mano che tende a diventare un pericolo concreto.

Ne risulta che il solo modo “legale” di stare a questo mondo è quello di accettarlo in tutte le sue conseguenze, come se esse fossero storicamente inevitabili, connaturate all’essenza stessa dell'uomo: “produci, consuma, crepa”.

Che si voti pure, che si vincano pure le elezioni; basta che non si tenti di scardinare effettivamente le “regole del gioco”, cioè il rapporto di produzione fondamentale. Se i capitalisti restano capitalisti e i proletari restano proletari, insomma, si può anche essere tolleranti. E qualche briciola ci scappa sempre (o quasi). Siamo o non siamo in una democrazia ?

Non appena invece si manifestano forme di insubordinazione reale lo Stato mette istantaneamente in moto gli strumenti repressivi di cui dispone. Non si tratta solo di strumenti di coercizione, ma anche di strumenti di riallineamento culturale-ideologico; è solo quando questi strumenti non funzionano più che entrano in campo le azioni repressive vere e proprie con la reclusione all'interno di quelle che in altri ambiti di analisi si potrebbero definire istituzioni totali: carceri, manicomi, centri di detenzione per gli immigrati, comunità terapeutiche… tutti luoghi in cui si viene privati della libertà di azione o di pensiero.

La repressione politica non è cosa a sé stante dalla repressione sociale che decine di migliaia di proletari subiscono quotidianamente nei luoghi di lavoro, nelle carceri, nei quartieri dormitorio, nei centri di permanenza temporanea...
E come per la guerra imperialista o per le leggi contro l'opposizione sociale e di classe oggi la moda è prevenire, ancor più che reprimere. Quasi non si fa più in tempo a “combinare qualcosa” che siamo già indagati, processati, condannati.
Preventivamente.
Siamo o non siamo nell'era della guerra - e dell'inchiesta - preventiva e permanente? Ci sarebbe da domandarsi perché non abbiamo diritto anche noi alla nostra “difesa preventiva”, attaccando centri di potere e repressivi che presto o tardi saranno usati contro di noi…

Il fatto è che forse noi siamo una specie umana di “serie B”. Quando entrano in casa nostra rovistando tra le nostre mutande e le nostre lettere… è lo Stato che fa il suo dovere di prevenzione. E non si riesce più a trovare un “sincero democratico” che dice qualcosa almeno “in nome della democrazia” o del “diritto alla privacy”.
Se invece entrano nella (assai meno privata) camera d’albergo di un atleta alla ricerca di farmaci e sostanze illegali diventa un caso nazionale. Se un famoso ciclista si riempie di “bombe” per vincere le gare e poi si riempie di coca perché è depresso dopo che se ne sono accorti, diventa una vittima, un “povero cristo” che non ha saputo reggere il peso di essere famoso in tutto il modo e con le tasche piene di soldi.
Se invece ficcano in carcere un immigrato maghrebino con l’accusa di essere un pericoloso terrorista di Al Qaeda e poi lo scarcerano dopo qualche mese senza tante scuse non si trova una persona che si scandalizzi. Insomma, che non siamo tutti uguali neppure nella “sventura” si sa. Basta ricordarselo.

Per anni ascoltano i nostri sospiri e i nostri rumori, leggono la nostra corrispondenza, studiano i nostri gesti, analizzano le nostre amicizie e abitudini, ci scrutano con milioni di occhi elettronici, ci schedano, realizzano profili psicologici, formulano teoremi politico-giudiziari...
In realtà, noi siamo già stati condannati per non esserci piegati ai dettami politici, sociali e culturali dominanti, per esserci ribellati all'accettazione passiva dello sfruttamento e dell’umiliazione, per avere organizzato il dissenso verso il potere..
E ora siamo solo in “libertà” vigilata. Molto vigilata...

I “diritti civili e democratici” per i proletari non valgono e tanto meno valgono per i proletari che si organizzano per difendersi: figuriamoci se si organizzano per “offendere”.

Si dice che sempre di più si viene inquisiti non per reati, ma per "pensieri"; si dice che non abbiamo più la libertà di pensiero. In realtà la “libertà” di pensare ce l’abbiamo, basta che quello che pensiamo non lo diciamo a nessuno, basta che ci limitiamo a pensare. Anche se “pensare” di trasformare in senso rivoluzionario il mondo e i rapporti sociali in cui viviamo è il reato più grande che possiamo commettere dopo quello... di provarci davvero.

Come tutti sanno in Italia esiste una norma del codice penale - l’art. 270 - che, introdotto con l’intero codice Rocco nel 1930, cioè in epoca fascista, è rimasto nell’ordinamento a preservare lo Stato dalle associazioni di stampo sovversivo. Si tratta di un articolo che norma un “reato di opinione” perché non individua nessun reato specifico e si riferisce solo alla supposta intenzione di compierne uno… come per esempio “l'instaurazione di una dittatura di una classe su un’altra”.
Come a dire. Se io oggi sostengo l’eventualità che fra 10, 100 o 1000 anni una insurrezione popolare rovesci il potere vigente (come avvenne con la Rivoluzione Francese nel 1789 oppure come è stato in parte con la Resistenza antifascista) in teoria posso essere messo in galera subito (naturalmente per evitare che io possa concorrere a determinare quella ipotesi).
Se non è “prevenzione” questa… Poi ci si scandalizza di Bush.

Il Manifesto del partito comunista termina con una frase del tipo “I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare”.
Con roba di questo genere chiunque osi definirsi marxista può, dal 1930, essere spedito in una galera italiana, da 1 a 3 anni o più se ci riprova.

Neppure la Resistenza è stata capace di eliminare l’articolo 270. Anzi, alla fine degli anni ‘70 il 270 è stato integrato con il 270bis e recentemente, con la scusa dell’11 settembre, c’è stata l’aggiunta del 270ter e la modifica del 270bis.

Alla vigilia delle elezioni del 13 maggio 2001, il governo D’Alema con l’appoggio di tutto il regime bipolare e la benevola astensione di Rifondazione “Comunista”, ha esteso da 18 a 24 mesi i termini per la custodia cautelare per i reati di cui all’art.270bis. Evidentemente, alla “sinistra”, 18 mesi senza processo sembravano pochi per cui li hanno estesi a 24, casomai le “prove” tardassero a venire fuori…

Grande è la confusione sotto il cielo, si potrebbe dire, ma la situazione non è affatto positiva perché per avere una esatta visione dei compiti sul tema della lotta contro la repressione dovremmo quantomeno avere una esatta visione dei caratteri specifici della repressione in questa fase. Ce li abbiamo? A noi pare solo in parte.

Affinché la lotta contro la repressione non diventi poco più di una moda ma piuttosto il sintomo di una presa di coscienza profonda del rapporto tra lotta e repressione, dello scontro tra classe e stato, è necessario evitare sia di sottovalutare la portata delle ondate e delle misure repressive (e preventive) che si susseguono con sempre maggiore frequenza e incisività, sia di gridare “Al lupo! Al lupo!” per ogni cosa che avviene.
Se uno si becca una multa per aver scarabocchiato su un muro si grida alla repressione. Se a uno viene inibito l’accesso allo stadio per qualche mese si grida alla repressione. Se uno guida senza patente e gli sequestrano la macchina si fa un comunicato contro la repressione... della Motorizzazione... salvo il fatto che poi, quando vengono arrestati alcuni particolari militanti rivoluzionari, quasi nessuno dice una parola. La repressione non c'è più. O, se c'è, se la sono cercata. O se non se la sono cercata, comunque basta “mettere le mani avanti”, non perdere l'occasione per sottolineare per la centesima volta la propria distanza dalle “posizioni politiche”, dalle “pratiche”, dalle “analisi”… come se lo Stato non sapesse benissimo come stanno le cose (grazie alle 99 prese di distanze precedenti).

Una volta i caduti in combattimento si rivendicavano tutti. Oggi ci sono morti di serie A (ragazzi assassinati in manifestazione che tutti portano all’occhiello) e morti di serie B (militanti rivoluzionari che hanno consacrato tutta la loro esistenza alla lotta non “a mani alzate” contro l’imperialismo)...

Come facciamo a spiegare ad un “sincero democratico”, magari non molto impegnato politicamente o comunque distante dalle nostre idee, che deve battersi per difendere i nostri diritti civili e politici se noi stessi non facciamo la stessa cosa, se difendiamo quelli che sono più difendibili e abbandoniamo quelli che, nella percezione generale, lo sono meno?

Molti messaggi di “solidarietà” sembrano fotocopiati l’uno con l'altro. “Premesso che non siamo d'accordo… che la distanza politica è siderale… che non condividiamo nulla… che fate solo dei danni… ecc, ecc… diamo la nostra solidarietà”… Chissà cosa ne pensano le forze repressive di questo genere di “solidarietà”e quanto ne saranno “preoccupate”…

Non c’è più un comunicato che non termini con lo slogan “la solidarietà è un'arma”; sarebbe un buon slogan se - come spesso accade - la solidarietà non fosse un’arma che viene usata all'interno del movimento, per isolare i “nemici” e aiutare gli “amici”, almeno fino a che gli “amici” non si trasformano a loro volta in nuovi “nemici”.

La solidarietà è reale e rafforza i compagni colpiti dalla repressione se supera le divergenze politiche che esistono nella battaglia politica quotidiana.
Poi ci si può mettere maggiore o minore “veemenza”, si possono fare comunicati di 10 pagine o di 2 righe… non cambia molto: non è dalla lunghezza dei messaggi di solidarietà e dalle chiacchiere che ci sono scritte dentro che si misura la lealtà di un comportamento solidale.

Crediamo che sia un ragionamento di buon senso dire che la repressione viene usata con maggiore frequenza e con maggiore violenza anche nella misura in cui lo stato comprende che l’uso della repressione indebolisce il fronte dell’opposizione di classe.

In molte situazioni la repressione produce effetti immediati nei confronti dei soggetti che vengono colpiti ed effetti indiretti in termini di dissociazioni preventive, del “mettere le mani avanti”, di smarcamenti nei confronti dei compagni colpiti. In questo modo lo Stato riesce a ottenere due risultati: quello della rottura dell'unità del fronte di classe e quello che si ripropone con gli effetti pratici della repressione (perquisizioni, carcere, sequestri…).
E' ragionevole pensare che se ogni qualvolta lo stato colpisce riuscissimo ad ottenere un maggiore compattamento politico, una maggiore unità, una maggiore capacità di resistenza, lo stato colpirebbe con minore frequenza e con minore violenza proprio per impedire questa maggiore unità e questa maggiore forza. Siamo, oggi, in questa situazione ? Non ci pare.

Se una delle funzioni principali dello Stato è quella di esercitare il suo ruolo repressivo nei confronti delle varie forme di ribellione sociale, di insubordinazione, di opposizione… noi non possiamo aspettarci dallo stato una risposta di “giustizia” e dunque non è nei confronti delle istituzioni, nei confronti dei soggetti dello stato - siano essi magistrati piuttosto che giornalisti - che noi dobbiamo rispondere rispetto a quale sia la natura del nostro lavoro politico.
Non è a loro che dobbiamo spiegare quale è la natura della battaglia che portiamo avanti contro di loro.

Chi siamo è cosa diciamo e cosa facciamo, non cosa scrivono giornalisti prezzolati o suppongono magistrati di regime.
Del resto, lo Stato si è forse mai preoccupato di spiegarci le strategie attraverso le quali tenta di metterci in galera o di ridurci all’inoffensività politica e personale?

E, invece, la repressione (e la “lotta” contro la repressione) viene usata come strumento di propaganda e di auto-promozione politica, come “marchio di garanzia” dell’essere veramente rivoluzionari, i rivoluzionari DOC... in questo modo lasciando decidere allo Stato, in sostanza, chi è “veramente” rivoluzionario e chi non lo è.

Piuttosto, dovremmo concepire la lotta contro la repressione e per la solidarietà di classe come un punto fondamentale del nostro lavoro politico a prescindere dalla nostra maggiore o minore condivisione dalle varie strategie politiche; questo è un elemento di forza e di unità che ci consente anche di opporre una maggiore resistenza.
Niente vieta poi che, invece di spiegare ogni volta le proprie divergenze, uno se ne stia anche zitto. Magari certa solidarietà pelosa non è neppure molto gradita.

Chiudiamo questo contributo con il nostro saluto a tutti i compagni e le compagne che lottano contro lo Stato e l'imperialismo e che per questo sono oggetto della loro reazione repressiva.
Salutiamo i rivoluzionari prigionieri richiusi nelle carceri imperialiste e i ribelli sociali detenuti.
Salutiamo il compagno Carlo Giuliani ucciso nella mattanza di Genova 2001.
E infine salutiamo il compagno Mario Galesi, assassinato dalle forze repressive il 2 marzo 2003.

A tutti il nostro abbraccio fraterno.

zona apuo-versiliese, giugno 2004

La compagne e i compagni del
LABORATORIO MARXISTA



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