28/05/2004: Una proposta di lavoro contro la repressione: lanciamo una campagna di mobilitazione contro l’art. 270


La questione della repressione contro i militanti e le militanti del movimento antagonista è da diverso tempo al centro del dibattito di moltissimi compagni e compagne in tutta Italia.
Non solo: questo dibattito sta attraversando trasversalmente le diverse identità, le diverse organizzazioni, i diversi gruppi, perfino le diverse individualità del movimento.
Questo perché risulta ormai evidente a tutte/i che la repressione non può più essere affrontata come un “incidente di percorso” da denunciare ogniqualvolta si viene colpiti, direttamente o indirettamente, dalle attenzioni della controparte, ma è un elemento strutturale che abbiamo di fronte e che pone materialmente una grossa ipoteca sullo sviluppo di qualsiasi iniziativa di opposizione e di critica radicale allo stato di cose presenti.
Gli ultimi anni, soprattutto gli ultimi mesi, sono stati caratterizzati da una costante iniziativa da parte delle diverse magistrature e dei diversi apparati di controllo, alla quale il movimento nel suo complesso spesso non ha saputo dare risposte adeguate.
Abbiamo anche assistito a diversi tentativi di affrontare la questione in maniera più strutturale, più organica, tentando di andare oltre alla difesa sullo specifico attacco; ci sono state assemblee ed incontri nazionali, anche molto partecipati, in cui si sono espresse diverse chiavi di lettura, più o meno interessanti, più o meno complessive.
Quello che non si è mai riusciti a fare è stato andare oltre alle enunciazioni teoriche ed ideologiche e riuscire a costruire percorsi concreti di iniziativa comune tra diverse identità politiche e con un respiro nazionale. Al massimo, il primo appuntamento, il primo incontro, ne convocava un secondo, che solitamente non riusciva e non coinvolgeva altri se non il “circuito” stretto del’area politica che lo aveva sostenuto direttamente.
E intanto, i risultati dell’iniziativa repressiva si fanno sempre più incisivi.
Non solo per i “danni” diretti che perquisizioni, sequestri, denunce, ecc. provocano ai compagni e alle compagne che li subiscono, ma soprattutto per il pesante clima di intimidazione e di sospetto che queste azioni provocano nel corpo meno militante, in quelle aree che sono il referente primo delle iniziative politiche che facciamo, in quei settori in cui un’ipotesi di “Associazione sovversiva” evoca ancora chissà quale paura...
L’azione repressiva in questa fase ha soprattutto questo scopo: al di là dell’attacco spietato alle organizzazioni combattenti e all’isolamento totale nei confronti dei suoi prigionieri, le iniziative contro il movimento di classe e le sue diverse espressioni mirano principalmente all’intimidazione e all’isolamento, alla differenziazione e alla desolidarizzazione all’interno del movimento stesso.
Questo meccanismo va rotto!
E non si tratta di essere più o meno bravi, più o meno riconosciuti, più o meno furbi. Secondo noi va capovolto il metodo.
Quella che abbiamo in mente è una proposta che individui alcuni punti “base” su cui sviluppare un lavoro di agitazione unitario, che inizialmente potrebbe apparire anche piuttosto “arretrato” politicamente, ma che riesca a sviluppare un percorso concreto.
Attenzione: arretrato, non ambiguo o, peggio, opportunista. Non possiamo lasciare spazi proprio là dove li cerca la controparte...
Un’esperienza che molti di noi hanno come riferimento possibile è la campagna sviluppatasi una decina di anni fa per la difesa di un prigioniero rivoluzionario, Mumia Abu Jamal, condannato a morte negli USA.
Quella campagna, partita in italia su proposta di alcuni prigionieri rivoluzionari, seppe svilupparsi in maniera unitaria, tra componenti anche molto diverse del movimento, individuando alcuni punti comuni e soprattutto sviluppando un’iniziativa di sensibilizzazione “dal basso” che, al di là di ogni più ottimistica previsione, seppe coinvolgere aree e sensibilità veramente ampie.
Il meccanismo era piuttosto semplice: individuate le parole d’ordine della campagna, il lavoro veniva fatto nei diversi territori, si costituirono numerosi comitati locali di solidarietà, e il coordinamento nazionale era il luogo in cui si definiva lo sviluppo della campagna.
Il piano locale si valorizzava nel respiro nazionale (perfino internazionale, in quel caso!) della campagna, la campagna cresceva perché sostenuta non unicamente da gruppi o da organizzazioni politiche ma da comitati e collettivi reali che producevano iniziative concrete nel territorio.
Questa ci sembra una strada possibile.
Se riusciamo a sviluppare un percorso che “rompa” il meccanismo degli intergruppi politici, in cui spesso si finisce a confrontarsi unicamente sul piano ideologico, e dove il più delle volte l’unica progressione possibile è quella delle “operazioni politiche” fra pezzi delle diverse anime del movimento di classe, forse abbiamo qualche possiblità di ottenere dei risultati positivi.
Anche perché, come dicevamo prima, la questione è oggettivamente di un’attualità esasperante!
La proposta, per entrare nel merito, la pensiamo in questi termini:
1) individuare uno o due punti “centrali” su cui iniziare il lavoro. Noi abbiamo pensato ad una cosa del tipo “Campagna per l’abolizione dell’articolo 270”. Pensavamo in particolare al 270 per diverse ragioni: innanzitutto è lo strumento principale utilizzato in questi anni contro ogni tipo di struttura del movimento di classe (e la sua importanza è dimostrata dagli sviluppi che ha avuto: pensiamo al bis, la finalità di terrorismo, e, più recentemente, al ter, con riferimento al terrorismo internazionale); in secondo luogo è lo strumento che maggiormente viene utilizzato per giustificare le criminalizzazioni di cui parlavamo prima, sia dal punto di vista massmediatico che nel sociale; in terzo luogo ha una storia che la dice lunga sul suo uso decisamente politico, essendo uno degli articoli ereditati dal regime fascista. Altra cosa: la proposta di una campagna “abolizionista” è evidentemente strumentale: non crediamo nella possibilità di riformare lo stato, questo lo vogliamo chiarire subito, ma può essere obbiettivamente uno strumento che consente di coinvolgere aree e soggetti non militanti con semplici strumenti (raccolte firme, comunicati stampa, ecc) difficilmente utilizzabili altrimenti.
Un secondo punto che riteniamo centrale è la “mappatura” completa e costante delle azioni repressive su tutto il territorio nazionale (il passaggio ad una dimensione europea dipende solo dal tempo e dalla qualità del nostro lavoro!), in modo da avere uno strumento di conoscenza ma anche di sostegno per l’azione legale e politica delle singole realtà colpite dalla repressione.
2) la proposta inizialmente la vorremmo far circolare in maniera assolutamente trasversale tra le diverse aree politiche, non chiedendo l’adesione dei singoli gruppi ma proponendo loro l’impegno individuale di singoli compagni e compagne in una sorta di “comitato promotore”. Questo per evitare il ripetersi, in tempi più o meno brevi, dei problemi già detti e di questi tempi (ahinoi!) assolutamente insuperabili all’interno di ogni esperienza di intergruppi.
Noi stessi, come Rete Regionale, non pensiamo di farcene carico come rete nel suo complesso, ma sostenendola con il lavoro di singoli compagni e compagne delle diverse realtà che la compongono.
3) Il comitato promotore, quando lo riterrà opportuno, dovrà indire un incontro nazionale per presentare e dare inizio alla campagna vera e propria, e preparare una sorta di “kit” di materiali di base da mettere a disposizione delle realtà locali (una mostra, un dossier, dei moduli prestampati per i comunicati stampa, per la raccolta di firme, ecc).
4) Il sostegno politico richiesto, oltre all’impegno dei singoli, dovrà concretizzarsi nello sviluppo all’interno del proprio territorio di “comitati cittadini” a sostegno della campagna, che concretizzino il lavoro di mappattura (contatto con avvocati e imputati, informazioni storiche, ecc.) e organizzino il lavoro di agitazione e propaganda (banchetti, raccolte di firme, conferenze stampa, interventi nelle diverse assemblee, sensibilizzazione continua e capillare sulle questioni legate alla rrepressione, ecc.)
5) a questo punto il comitato promotore può e deve trasformarsi in un Coordinamento nazionale che coordini materialmente il lavoro dei singoli comitati e che dia respiro alla campagna proponendo iniziative coordinate di carattere nazionale. Potrà sembrare schematico, forse un po’ azzardato se non addirittura velleitario, ma noi siamo convinti che lo spazio politico sulle questioni della repressione sia enorme e questo ci determina
a sostenere questa proposta.
E se siamo consapevoli che una reale opposizione si potrà dare in avanti solo nello sviluppo di esperienze di ricomposizione sociale e politica che sappiano imporre concreti rapporti di forza, crediamo che fin d’ora sia indispensabile tentare di mettere almeno qualche sassolino negli ingranaggi repressivi che tanto danno stanno provocando ai generosi sforzi di tantissimi compagni e compagne in ogni parte d’Italia.

maggio 2004
Rete regionale anticapitalista e antimperialista dell'Emilia-Romagna
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