23/12/2003: Contrastare la repressione: riflesso condizionato o moto proprio?
Tira una brutta aria, inutile nasconderlo. Talmente brutta che persino fra le anime belle della sinistra serpeggia una certa preoccupazione e si denuncia in maniera sempre più veemente l’instaurazione di un "regime" da parte dell’attuale governo. È vero, a destra non hanno mai dimenticato la propria tradizionale inclinazione per l’olio di ricino e il manganello, ma resta il fatto che repressione, censura e divieti sono il pane quotidiano che ci propina ogni forma di governo, quale esso sia. In realtà, al di là della fazione politica momentaneamente incaricata di amministrarlo, è questo mondo a senso unico ad esigere una vita a senso unico, fatta di un pensiero a senso unico e d’un comportamento a senso unico... in un’autentica coerenza dell’abiezione. Fino alla messa al bando di ogni critica, d’ogni dissenso, d’ogni opposizione, che laddove si verificano vengono puntualmente isolate, circoscritte, calunniate, soffocate, rinchiuse.
Basterebbe dare una rapida occhiata a quanto sta accadendo nell’ultimo periodo un po’ in tutta Italia. All’interno del "movimento", indagini, arresti, fermi, perquisizioni, percosse e diffide si stanno sprecando e stanno raggiungendo praticamente chiunque, dalle teste calde a quelle più fredde passando per quelle tiepide. Le porte della prigione si aprono per tutti: basta essere accusati di aver compiuto un attentato, o di aver costituito l’ennesima associazione sovversiva, o di aver ostacolato un’identificazione o una retata, o di aver allontanato un infiltrato da una manifestazione, o di aver partecipato a un presidio, o di aver occupato uno stabile e presto anche la semplice accusa di colorare le vetrine traboccanti merci diventerà motivo sufficiente per finire dietro le sbarre. Al tempo stesso si dà fondo alle mille possibilità fornite dal codice penale per ostacolare in maniera vellutata ogni forma di attività, elargendo fogli di via e vietando l’ingresso in città a compagni residenti nei piccoli paesi limitrofi (graziosa versione moderna edulcorata del vecchio confino). Facile prevedere l’incremento di simili pratiche repressive.
Ma, ciò che più importa, non è solo il movimento — nelle sue molteplici sfumature — ad essere nel mirino della repressione, bensì è la società nel suo insieme a subire uno stretto giro di vite. Il divieto di critica alla presenza delle truppe italiane in Iraq ha raggiunto livelli sbalorditivi: un campo di calcio è stato squalificato perché i suoi tifosi non hanno manifestato il proprio cordoglio per i militari morti a Nassiriya, alcuni studenti minorenni rei di aver esposto striscioni contro la guerra sono stati trascinati in caserma per essere interrogati, altri studenti che avevano diffuso un volantino hanno visto perquisite le proprie abitazioni, l’offuscamento di un sito d’informazione come Indymedia è stato chiesto in parlamento perché ha ospitato voci fuori dal coro nazionalista. Più in generale, si passano al setaccio intere scuole alla ricerca di droga, si espellono dal paese in poche ore degli stranieri perché sospettati di chissà cosa, li si buttano fuori casa a centinaia nel cuore dell’inverno, si censurano trasmissioni televisive satiriche perché troppo satiriche,… e si potrebbe andare avanti. Gli esempi, purtroppo, non mancano. Anzi, vanno aumentando con una certa progressione, come la delirante reazione allo sciopero dell’ATM a Milano che ha lasciato a piedi la città per una giornata: se a destra si invoca una dura punizione per gli scioperanti, a sinistra c’è chi chiede l’intervento dell’esercito in caso di nuove interruzioni di servizio. Ed è facile immaginare cosa accadrà non appena inizierà ad essere applicata la nuova legge sulle droghe.
A fronte di ciò, ci sembra davvero urgente un dibattito pubblico, prima che ogni spazio di parola e di azione ci venga precluso del tutto.
Cominciamo con una premessa. Il fatto che oggi chiunque non sia pronto a scattare sull’attenti finisce nel mirino della repressione, significa che la divisione fra i "buoni" da coccolare e i "cattivi" da bastonare ha fatto il suo tempo. Sicuramente ciò non servirà ad unire le diverse anime del movimento – con buona pace di tanti ecumenici —, divise da ben altro che dal voto in condotta sulla pagella dello Stato, ma potrebbe contribuire a spazzare via un vecchio e insulso luogo comune purtroppo diffuso, quello secondo cui la repressione equivarrebbe ad un certificato di radicalità: «vengo represso, dunque sono». Convinzione che porta alcuni a credere che più si viene repressi e più si è, in un delirio di autocompiacimento che in qualche caso deborda nel sacrificio. È evidente che, nel momento in cui la repressione si sta estendendo ad ogni settore della società, diventa ridicolo pensare che essa colpisca solo chi attenta alla sicurezza dello Stato. Ciò significa che, contrariamente a quanto pensano i capibastone dei vari racket militanti, l’incremento della repressione non corrisponde affatto all’incremento della minaccia rivoluzionaria del movimento o di qualche sua componente. Ad essere sinceri ci sembra che il movimento, inteso nel suo senso più ampio, stia toccando uno dei suoi punti più bassi, tutto preso da un lato a conquistare sponde mediatiche e istituzionali e dall’altro a dibattersi in una cronica carenza di prospettiva. La stessa esplosione di Genova avvenuta due anni or sono ci pare più dovuta a un insieme di circostanze, verificatesi soprattutto a livello internazionale, che a una supposta maturità raggiunta dal movimento qui in Italia (prova ne sia il deflusso che ne è immediatamente seguito).
Ma allora, se il movimento in sé non è affatto così forte, così pericoloso per il sonno di lorsignori, perché stiamo assistendo a questo stillicidio di arresti e intimidazioni? A nostro avviso perché è la situazione sociale nel suo insieme ad essere oramai talmente debole e fragile da non permettere a chi di dovere di correre troppi rischi. L’edificio sta sì ancora in piedi in tutta la sua monumentale imponenza, ma le sue fondamenta si fanno vieppiù putrescenti e gli scricchiolii più rumorosi. Come a dire che non veniamo repressi perché siamo forti noi, decisamente no, ma piuttosto perché sono deboli loro. Sia chiaro, non si sta dicendo che questo ordine sociale non sia in grado di imporre il suo volere o che sia vulnerabile militarmente o cos’altro. Solo che procede più per un moto d’inerzia che grazie ad un’azione propulsiva, poggiando più su una passiva rassegnazione che su un attivo consenso, in un contesto talmente lacerato da non garantire alcuna stabilità duratura. Insomma, la precarietà sta affliggendo anche il dominio. Consapevole di questa sua debolezza, si trova costretto a fare la voce grossa e ad intimidire i suoi nemici, veri o presunti che siano: lo fa adesso perché se lo può ancora permettere. Ciò lo porta anche ad esagerare ogni accadimento al fine di creare quell’allarmismo capace di giustificare pubblicamente misure altrimenti improponibili, nonché di provocare quel panico bisognoso di uno straccio di sicurezza in grado di rincuorarlo.
Come abbiamo già detto questo grande abbaiare dei cani da guardia del potere incute sì timore, ma denota anche una certa fragilità. Questo dovrebbe farci riflettere sulle possibilità che ci si aprono davanti, su come aggirare i mastini al fine di allungare le mani su quanto proteggono. Invece ci sembra che i loro latrati stiano diventando un’ossessione per tanti compagni, portando chi ad occuparsi esclusivamente di curare le ferite inferte dai loro morsi, chi a sfidarli per il piacere dello scontro o perché incapaci di vedere oltre. Vogliamo far notare come in entrambi i casi abbia luogo uno slittamento dei nostri obiettivi, e quindi anche delle nostre pratiche, come il nostro fine si modifichi giacché dalla lotta contro l’esistente si passa alla lotta contro le forze che lo difendono. Si tratta della stessa cosa? No, non lo è, a meno di confondere causa ed effetto. Combattere e difendersi dalle forze dell’ordine non significa in sé e per sé sovvertire i rapporti sociali dominanti. Ed in un momento in cui questi rapporti sociali sono particolarmente instabili, è lì che bisogna puntare la nostra attenzione, la nostra critica teorica e pratica, evitando il più possibile di venire spinti unicamente dal riflesso condizionato provocato dalla repressione. Perché altrimenti si finisce con l’abbandonare il terreno fertile ma sconosciuto dei conflitti sociali per arroccarsi in quello sterile ma noto della contrapposizione fra noi e loro, fra compagni e sbirri, in uno scontro ricco di spettatori ma povero di complici.
Ormai, col solo fatto di inquisire ed arrestare, lo Stato riesce spesso a dare a chi viene represso l’illusione d’essere per ciò stesso pericoloso, di stare già facendo qualcosa di concreto. Dà a tutti noi la letale illusione di essere forti, che il nostro dibatterci sia significativo, laddove in realtà si è debolissimi (benché potenzialmente nocivi per il dominio). In questo modo possiamo dirci soddisfatti della nostra attività, per quanto carente sia, senza chiederci come affinarla, respingendo ogni dibattito critico in quanto concepito sovente come una perdita di tempo. Inoltre, come ben si sa, la repressione spinge il movimento sulla difensiva, ci porta tutti quanti a doverci occupare dei compagni arrestati, degli avvocati da trovare, dei soldi da raccogliere, delle manifestazioni sotto il carcere da organizzare, delle udienze a cui partecipare. Anche chi ricorre a pratiche di protesta più estreme, come l’invio di pacchi-bomba, non sfugge a questa logica: lo Stato contro il movimento, il movimento contro lo Stato, in un susseguirsi frenetico di arresti, proteste contro gli arresti che portano a nuovi arresti, che portano a nuove proteste che portano a nuovi arresti,… Sì, stiamo venendo tutti repressi. Ma possiamo dire per questo di essere pericolosi? O tutta questa repressione che si sta abbattendo sul movimento non è altro che un modo per impedirci di diventarlo veramente?
Forse è il caso di chiarire alcune questioni. Il sostegno materiale a chi finisce in carcere, triste eventualità che si sta facendo sempre più concreta per ciascuno e che meriterebbe maggiore considerazione, è e deve rimanere un problema tecnico. Di ben altra natura è invece la questione di cosa vogliamo fare contro questo mondo intollerabile. Per quanto possa sembrare crudele, bisogna respingere il ricatto morale che ci viene lanciato ogni qualvolta un compagno viene arrestato. Non esiste nessun dovere di solidarietà da rispettare. Nessuno finisce in galera al posto di chi è fuori, nessuno è fuori dalla galera per merito di chi è dentro. Anche se la sua liberazione è una delle nostre principali preoccupazioni non possiamo farla diventare il fine a cui tutto subordinare, non possiamo smettere di correre solo perché chi ci sta a fianco è stato fermato, bensì dobbiamo darci da fare per creare le condizioni per la sua liberazione e per quella degli altri, non fermando lo sguardo e l’attenzione a ciò che vediamo immediatamente davanti a noi, ma rendendoci imprevedibili, non fissandoci su scadenze precostituite ma stabilendo noi le nostre. La nostra agenda non può essere ricalcata né su quella del governo, né su quella della magistratura, né tanto meno su quella dei vari gruppetti politici che inseguono i riflettori della notorietà. Insomma, anziché fermarsi per ritrovarci di fronte alle mura di un carcere ad esigere il rilascio di chi vi si trova recluso, meglio sarebbe continuare a correre sempre più forte e in tutte le direzioni. Non solo perché questa è la maniera migliore per esprimergli la propria solidarietà, giacché la consapevolezza che c’è chi continua il cammino intrapreso è più confortante di ogni rumoroso saluto; ma soprattutto perché è anche la maniera migliore per mostrare l’inutilità di simili battute d’arresto a chi le ordina ed esegue.
Ecco perché pensiamo che il miglior modo per dibattere su cosa fare contro la repressione, a parte ogni possibile considerazione e accordo di tipo tecnico, consista in realtà nell’interrogarsi costantemente su cosa fare per nuocere a questa società nel suo insieme e nel trovare risposte nel corso dell’azione. Perché è vero che tira una brutta aria, inutile nasconderlo. Ma è pur vero che, se davvero desideriamo lo scatenamento della tempesta, quello dell’aria che tira non può che essere un falso problema.
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