24/09/2003: Contributo alla riflessione elaborato dal Laboratorio Antimperialista di Napoli


Contributo alla riflessione elaborato dal Laboratorio Antimperialista di Napoli
per il Tavolo Nazionale sul tema dello sfruttamento - Napoli, 12 luglio 2003

"Il governo italiano condivide l’ispirazione della politica comunitaria in tema di relazioni industriali e saluta con favore questa evoluzione così caratterizzante del modello sociale europeo, auspicando che anche in Italia i rapporti tra le parti sociali si sviluppino in senso sempre più partecipativo". (dal Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia)

Dell’adattare la macchina

Sistemare la macchina, che senza di te non lavori
Migliorarla, che tu solamente la soddisfi
Prestarle una segreta debolezza,
che tu soltanto possa riparare.
Sistemarla così che la distrugga
chi senza te s’azzardi ad azionarla,
questo vuol dire la macchina adattare.
La tua macchina adatta, sabotaggio!
(Dottrina del sabotaggio, Bertolt Brecht)

INTRODUZIONE

L’Unione Europea si configura, nell’attuale fase del capitalismo, come polo imperialista in via di consolidamento e allargamento. Gli sforzi per accelerare l’integrazione a est procedono di pari passo con quelli volti a uniformare le politiche economiche, alla costituzione di forze di polizia integrate (Francia e Germania si sono già coordinate in questo senso), alla gestione unitaria delle questioni internazionali -nonostante le divisioni emerse nel caso della guerra in Iraq - e delle politiche sull’immigrazione nonché alla definizione di una costituzione comune, la cui bozza ufficiale è stata approvata di recente dal Parlamento europeo (PE).
Davanti all’immane lavoro che la borghesia sta portando avanti per la nascita del nuovo polo Europeo, è necessario l’avvio di un’analisi approfondita sulle cause storico-economiche, che hanno spinto le varie borghesie nazionali ad unirsi e a scontrarsi sulla nuova organizzazione che l’Europa, una volta unificata, dovrà adottare. In particolare, sarà necessario individuare quali sono state e quali saranno le politiche interne di sfruttamento, sulle quali la Nuova Europa Capitalista dovrà crescere e dovrà basarsi per sopravvivere allo scontro interimperialistico in atto.
Ovviamente, le nostre analisi non hanno la pretesa di essere esaustive ma vogliono proporsi come elementi utili per la discussione; pensiamo sia fondamentale individuare delle linee guida su cui ragionare per tentare un’analisi il più possibile realistica sulla fase che stiamo vivendo e sulle trasformazioni in atto nei nostri paesi, e allontanarci definitivamente da chi propaganda l’idea di un’ Europa capitalista dal volto umano, in alternativa allo strapotere della massima potenza imperialista di oggi: gli Stati Uniti d’America.
Questo documento è strutturato in due parti: una prima, incentrata sui processi economico-politici che si verificano a livello europeo e sulle linee di tendenza comuni all’Unione, con particolare attenzione al fenomeno dell’allargamento ad est e alle sue conseguenze sull’economia dell’area; nella seconda parte abbiamo invece cercato di ragionare sull’attuazione concreta delle direttive europee nella realtà italiana che naturalmente conserva una sua specificità.

1. L’UNIONE EUROPEA E LE POLITICHE DEI PADRONI

1.1 DALLA CRISI DEGLI ANNI ’80 ALLA FASE DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA

E’ a partire da questa crisi che il sistema capitalistico e le borghesie dominanti hanno inquadrato come necessario un cambiamento radicale nel sistema di produzione, o meglio, una totale ristrutturazione nell’organizzazione del capitale per poter uscire dallo stallo. Da ciò la necessità di eliminare tutte le garanzie e diritti che la classe operaia aveva conquistato con decenni di lotte: questa è la vera grande sfida che i padroni d’Europa vogliono vincere!
Di fatto la crisi degli anni ’80 ha portato le borghesie europee ad accelerare la politica d’integrazione, vista l’incapacità dei loro sistemi produttivi a sopravvivere alla competizione mondiale che vedeva gli USA come grande potenza economica ancora dominatrice della gran parte del mercato. La necessità dell’Unione era quella di creare un nuovo mercato, un mercato tra i più grandi del pianeta in cui le nuove politiche industriali e di sfruttamento potessero applicarsi senza problemi al proletariato della zona europea, in modo da costituire una risposta forte e competitiva allo strapotere americano. Infatti, nessun paese europeo preso singolarmente avrebbe potuto competere con una nazione in cui la risposta alla crisi degli anni ’80 non si era fatta attendere: attraverso flessibilizzazione del lavoro, limitazione se non totale abbattimento del diritto di sciopero, ristrutturazioni delle aziende in crisi, politiche di defiscalizzazione per le imprese, più tutte le riforme fiscali contro i lavoratori e a favore delle aziende (pensioni, maternità, asili nido etc.).
In ogni caso il processo d’integrazione, al di là delle firme dei diversi accordi e trattati, non ha una precisa data di battesimo. Esso si è manifestato in tanti modi, dai più evidenti a quelli più mascherati.
Infatti già le “spinte economiche” che favorirono la distruzione della Yugoslavia di Tito potrebbero essere interpretate come i primi passi d’integrazione: la penetrazione del marco tedesco all’interno dei paesi vicini, facilitata dalla politica economica mista di Tito; i grandiosi investimenti che, lentamente, la borghesia tedesca fece all’interno della Slovenia prima, e in tutto il resto della Yugoslavia poi, portarono la Germania a ricoprire il ruolo che oggi tutti conosciamo. Anche l’Italia ha avuto la sua parte, attraverso i protettorati in Albania e su altri paesi balcanici e con i cosiddetti rapporti bilaterali. Non bisogna dimenticare gli strettissimi rapporti economici della Francia con i paesi mediorientali (ricordiamo che prima della guerra in Iraq del ’03 la Francia era uno dei partner economici di spicco del Raìs), e il caso dell’Inghilterra, con le sue influenze nella zona araba (Kuwait).
Insomma, leggere gli eventi in termini di “integrazione europea” ci porta di fatto, collegando particolare ed universale, ad interpretare le spinte delle singole borghesie nazionali nel tempo come le prime fasi di quella che sentiamo chiamare oggi Unione Europea.

1.2 LE POLITICHE DI SFRUTTAMENTO DELL’UE

In questa fase di crisi l’entrata del nostro paese all’interno del mercato unico è stata pubblicizzata come una grande vittoria, mettendo in evidenza solo gli aspetti più superficiali e meno indicativi di cosa significasse per noi entrare nell’Unione Europea. Si parlava di una moneta unica che avrebbe facilitato i nostri scambi e viaggi, di un mercato in cui le persone potevano circolare liberamente, ma si è ovviamente glissato sulle riforme strutturali che il “paese Italia” ha subito (e subirà) per rientrare nei famosi parametri di Maastricht. Il nostro cammino verso l’integrazione europea è stato segnato da un provvedimento siglato dalle forze del centro sinistra (la vecchia maggioranza) nel ’98 che sanciva definitivamente la fine del contratto unico a tempo indeterminato, per lasciar spazio a nuovi contratti che avrebbero regolato un mutato mercato del lavoro: tantissimi contratti atipici (per lo più a tempo determinato) camuffati dalla scusa dell’apprendimento e dell’aggiornamento e con salari perciò ridotti, attribuendone la necessità ad un presunto stato di arretratezza della conoscenza dei lavoratori del nostro paese, incapaci di star dietro alle frequenti innovazioni tecnologiche (senza tener conto che la velocissima deperibilità delle conoscenze è assolutamente connaturata al sistema attuale…ma i padroni dovevano pure arginare questo problema…).
L’altissimo livello di scontro di classe che ha caratterizzato il passato del nostro paese, ha portato una nettissima reazione alle politiche antiproletarie che susseguitesi a livello europeo in questi anni per la costruzione del famoso “polo alternativo”. Questo ha reso l’Italia uno dei paesi più forti nelle lotte ma più arretrati al livello di applicazione delle politiche comunitarie: ciò ha creato un gap del nostro paese con gli altri paesi UE, divario che adesso è necessario (e, purtroppo, per la fase in cui versa il proletariato possibile) superare avviando quelle riforme che le lotte in passato hanno arginato. E l’Italia si trova quindi a “rincorrere” gli altri paesi, in una fase di stallo del proletariato e con un adeguamento a canoni impensabili per il nostro paese fino a qualche anno fa.
Un esempio di quello che stiamo dicendo è riscontrabile in quelle che sono le discussioni in merito alla bozza della costituzione europea: l’assenza del diritto allo sciopero di fatto manifesta il rapporto di forze che si esprime in questa fase, che vede il proletariato frammentato e schiacciato dalle forze politiche della borghesia.
La necessità del superamento della crisi che sta attraversando il sistema capitalistico ha portato a due diverse spinte a livello mondiale:
- Da un lato, un accentramento del capitale nelle mani di un sempre più esiguo numero di grandi capitalisti: moltissime aziende sono state costrette a chiudere o sono state risucchiate da aziende economicamente più forti o, nella migliore delle ipotesi, riguardo alle grandi aziende, a fondersi con altre. Questo processo è stato attuato ristrutturazioni aziendali che hanno portato solo nuovi profitti ai padroni e centinaia di migliaia di proletari disoccupati.
- Dall’altro lato l’esternalizzazione del sistema produttivo di fabbrica che vede nei suoi risultati più immediati una alta frammentazione della classe operaia. Ciò significa che mentre precedentemente il ciclo produttivo iniziava e finiva all’interno del grande complesso industriale, ora la produzione è stata frazionata in decine di cicli produttivi affidati ad aziende terze (esternalizzate). Uno degli effetti prodotti da questo fenomeno è quello di evitare che l’”azienda madre” possa subire, viste le forti oscillazioni del mercato, degli effetti negativi sulla produzione (e sui profitti) nel momento in cui una delle aziende del suo indotto dovesse trovarsi in crisi.
Ovviamente la ristrutturazione della produzione necessita di una nuova gestione del mercato del lavoro e, quindi, delle “risorse umane” che in questo vengono impiegate. I lavoratori devono essere pedine facilmente sostituibili all’interno delle tante micro-aziende che ruotano intorno alle aziende-madre: ciò avviene attraverso una serie di contratti atipici che permettono ai padroni di gestire come meglio credono e in base alle esigenze di ogni “singolo momento produttivo” la forza lavoro. Tutto ciò nella ricerca di nuovi profitti. Infatti, nell’ipotesi di un aumento della produzione provocato dall’aumento della domanda, il capitalista X potrà (attraverso un’agenzia di lavoro interinale, per esempio) richiedere per un tempo determinato una quantità di lavoratori che gli permettano di raggiungere il livello di produzione desiderato. Quando l’aumento della domanda si esaurirà, gli operai impiegati potranno tornare al loro stato di disoccupazione. Le parole d’ordine sono: precarietà, flessibilità e sfruttamento.

1.3 ALLA CONQUISTA DELL’EST…

Il governo italiano afferma che nel 2004 ci sarà una ripresa dalla crisi. Verrebbe da chiedersi come…una delle risposte la troviamo nel tanto pubblicizzato ed auspicato allargamento dell’unione ad est. Il processo di integrazione è arrivato ad un passo fondamentale che non riguarda, come i padroni di mezz’Europa vogliono farci credere, l’unione sotto un solo mercato di popoli che per decenni sono stati divisi da odio e guerre, bensì l’entrata nel mercato unico europeo di nazioni molto meno sviluppate dell’occidente capitalistico, con un costo del lavoro molto basso, e con una “inaccettabile” mancanza di infrastrutture. Da un lato, infatti, la mancanza di infrastrutture, come da programma, porterà i padroni italiani e non ad investire in questi paesi, con la scusa della loro arretratezza strutturale, rendendoli così totalmente dipendenti dalle politiche di finanziamento (e di sfruttamento) dei paesi più forti all’interno dell’Unione Europea. Esempio che rende palese questa tendenza sono le dichiarazioni ufficiali del premier spagnolo Aznar, che non nasconde l’intenzione di trasferire nel futuro (quanto più prossimo possibile) una cospicua parte della produzione industriale con capitali spagnoli nelle zone dell’est europeo. L’Italia ovviamente prenderà parte a questi processi.
Un'altra faccia della medaglia è che l’entrata di una quantità così grande di manodopera a basso costo all’interno del mercato unico, porterà necessariamente ad un livellamento salariale tra il proletariato dei paesi già UE e quello dei paesi che ci si stanno avvicinando. Questo livellamento sarà naturalmente al ribasso, vista l’alta ricattabilità del proletariato dei nostri “nuovi vicini” dell’est (disorganizzato e senza alcun sindacato di classe), che porterà necessariamente ad una netta e veloce caduta dei livelli salariali nostrani.
Altro problema che l’allargamento risolverà all’UE è quello di far fronte ad una popolazione vecchia e quindi meno produttiva: non è un segreto infatti che l’immissione massiccia di nuova manodopera a basso costo potrà definitivamente tagliare fuori dal ciclo produttivo chi non è più competitivo (e tra l’altro senza più alcuna garanzia tra le mani: niente pensioni, niente assistenza sanitaria… sempre più vicino al modello USA). Basta dare una scorsa a qualche dichiarazione ufficiale (in particolar modo italiana) per rendersi conto che siamo afflitti dal problema di essere un paese di vecchi ed è invece di “freschezza”, flessibilità e precarietà che abbiamo bisogno.
Che sotto l’allargamento ci sia ben più di una semplice volontà di riunire in pace e amore popoli che sono stati divisi da odio e guerre è evidente: ne sia prova l’esistenza di un numero sempre maggiore di manodopera di riserva impiegabile laddove serve; è in quest’ottica che si cerca di estendere il numero dei paesi membri all’interno dell’UE, i cui cittadini devono poter circolare il più liberamente possibile e la cui preparazione di base rispetti criteri sovranazionali. La cosa risulta ancor più chiara se per esempio notiamo alcuni aspetti: fermo restando il fatto che ogni paese che vuole entrare nell’unione deve rispettare alcuni parametri fondamentali, si parla anche di facilitare loro l’accesso tramite la fornitura di una struttura regolatoria “pronta per l’uso” adatta ai bisogni di un economia di mercato (dal doc. “strategie per il mercato interno: priorità 2003-06” Bruxelles). Ciò significa fornire pacchetti preconfezionati di regole ineludibili di gestione interna -mentre l’organizzazione classica degli altri paesi è una serie di direttive di risultato cui i singoli paesi si adattano con libertà di mezzi- per facilitare l’ingresso di questi paesi nel mercato europeo, e modificarne i sistemi formativi, i caratteri “culturali” ecc., in vista di una migliore integrazione; possiamo immaginarci quello che significherà per il proletariato di questi paesi se pensiamo alla rincorsa dell’Italia, che rispetto a questi è considerata un paese “avanzato”. L’esasperazione delle condizioni del proletariato andrà però di pari passo ad un progetto di sviluppo delle capacità imprenditoriali nell’est: per la migliore sfruttabilità sarà preferita la creazione di una borghesia locale che possa sostenere anche dei contributi per l’UE e che organizzi la gestione locale delle imprese.

2. LA RISTRUTTURAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO IN ITALIA

2.1 I QUATTRO PILASTRI DELLA RISTRUTTURAZIONE

Sono le conferenze e le riunioni (pubbliche e meno pubbliche) delle istituzioni europee a definire le linee guida degli interventi di riforma e i parametri che ciascun paese deve rispettare. Gli ultimi due vertici che hanno segnato le politiche economiche dei paesi europei, Italia in primis, sono stati il processo di Lussemburgo (1997) e il vertice di Lisbona (2000)[1]. In queste sedi sono stati definiti i quattro pilastri fondamentali della riforma del mercato del lavoro in base alle esigenze delle borghesie europee. Questi pilastri sono rappresentati dai concetti di:
1. occupabilità;
2. adattabilità;
3. imprenditorialità;
4. pari opportunità.
Il termine occupabilità è un evidente eufemismo; sta a significare che, non essendo possibile per la classe dominante frenare il dilagare della disoccupazione e raggiungere una reale piena occupazione, essa deve essere cancellata dalla testa sia dell’esercito industriale di riserva sia dei lavoratori occupati; questo per fare in modo che tutti si preparino ad accettare di lavorare in precarietà (“flessibilità”) sempre più vicini ad una crescente zona grigia dove lavoro ed inattività forzata, quindi assenza di salario, convivano in modo intermittente. All’occupabilità si collega il principio dell’adattabilità: il proletario è obbligato ad assumere profondamente le esigenze del padrone, ed ha il dovere di sottoporsi ad un processo di “formazione continua” (da attuarsi investendo risorse pubbliche che si trasformano in profitti per le aziende private) per non correre il rischio di venire espulso dal mercato; la reificazione dell’individuo assume così aspetti nuovi ed inquietanti. Questa macchina infernale per i proletari viene definita «incontro domanda-offerta », dove chi domanda ha sempre più potere di stabilire il prezzo del lavoratore-merce.
In più, con il criterio di imprenditorialità, si richiede al lavoratore di farsi imprenditore di se stesso o, in altre parole, di rendersi appetibile sul mercato per vendere se stesso in quanto merce. A tal fine, deve mostrarsi il più possibile disponibile ad interessi che non sono i suoi, individualista rispetto ai suoi fratelli di classe e dotato invece di spirito di cooperazione quando si tratta di far crescere la grande famiglia interclassista, sposando le esigenze del padrone e investendo magari il proprio salario in azioni dell’azienda (profit sharing): i rapporti di lavoro tendono in questo modo a forme neocorporative. Favorire l’imprenditorialità vuol dire anche incoraggiare forme di “autosfruttamento”, cui i giovani imprenditori devono essere ben lieti di sottoporsi per farsi strada nella jungla del mercato.
L’obiettivo delle pari opportunità, al solito, viene perseguito per rispettare presunti criteri di equità sociale. In realtà, si tratta di offrire alle donne la possibilità di farsi sfruttare con contratti atipici (part-time), che consentirebbero di creare un mercato più efficiente. Di fatto, le donne proletarie, che non hanno la possibilità di pagare altre donne – spesso a loro volta immigrate e ricattabili – per liberare il proprio tempo dagli impegni familiari, non hanno alcun accesso al lavoro e a molte altre attività. Si ritiene ancora fisiologico che le donne percepiscano circa il venti per cento in meno sui salari rispetto agli uomini, mentre in Italia il tasso di disoccupazione femminile supera di trenta punti percentuali quello maschile.

2.2 PER UN’ANALISI DI CLASSE

Come si vede, le categorie prese di mira dalla riforma del mercato “Biagi” potrebbero delineare già in sé la nuova composizione della classe. I primi a venire colpiti sono come sempre i lavoratori; uno dei concetti chiave della riforma è quello che prescrive la fine delle tutela dei rapporti in essere, a vantaggio di una maggiore flessibilità in uscita. In parole povere, chi ha già un lavoro deve poterlo perdere in qualsiasi momento.
In questo senso, la battaglia dello scorso anno in difesa dell’articolo18 ha avuto un valore importantissimo e poteva contenere in sé un notevole potenziale ricompositivo. La “riconversione” delle lotte in senso referendario ha determinato da una parte, la sostanziale dispersione del patrimonio di discussione e mobilitazione della primavera scorsa, dall’altra la pericolosa affermazione di una logica che, peraltro, è contenuta nello stesso Libro bianco: le controversie, i conflitti sociali, vanno messi da parte in favore del cosiddetto dialogo sociale, teatrino neocorporativo che vede uniti a tutela degli interessi padronali sindacati (CGIL in primis, anche se è nota la collaborazione attiva di Pezzotta alla stesura del dossier Biagi-Maroni), confindustria e governo. Tra gli strumenti del dialogo sociale è previsto, guarda caso, proprio il referendum; sembra quasi che i suoi promotori si siano dati da fare ad accogliere le indicazioni contenute nel nuovo vangelo della borghesia italiana![2]
Tutte le tutele dei lavoratori vengono dunque investite da questo processo fagocitante: i contratti collettivi, il diritto di sciopero, la possibilità stessa di identificare la propria controparte (attraverso le esternalizzazioni e la diffusione di agenzie interinali) vengono progressivamente cancellati in favore di contratti individuali e dell’affermazione di logiche premiali che incentivano la concorrenza fra lavoratori. Niente di nuovo sotto il sole: già il Pacchetto Treu, durante uno dei governi di centrosinistra (1998), disponeva l’attuazione di questi passaggi. Assistiamo oggi solo ad una ridefinizione organica delle norme e dei principi, necessaria all’adeguamento alle direttive europee, sempre più vincolanti mano a mano che il processo d’integrazione avanza.
Solo un esempio per i tanti che si potrebbero portare a dimostrazione del drammatico peggioramento delle condizioni di lavoro legate alla ristrutturazione in atto: i Contratti di Collaborazione Coordinata e Continuativa (Co.Co.Co.) – destinati tra l’altro ad essere superati dall’introduzione dei Lavori a Progetto (L.A.P.) – incarnano al meglio il modello di lavoro che si intende proporre ai giovani disoccupati. In poche parole, tutto l’onere deve pesare in modo crescente sulle spalle del lavoratore, formalmente non dipendente ma legato a due mani da contratti capestro; in questo modo, si intende prevenire l’idea stessa di organizzarsi sindacalmente e politicamente, avendo gioco facile la logica della concorrenza fra lavoratori; intanto l’onore del profitto spetta, in modo incontrastato, al padrone. Sempre più frequentemente il precario lavora a intermittenza firmando contratti che possono durare anche pochi giorni, costringendolo ad assumere tempi e ritmi altrimenti improponibili. Oltretutto, il lavoratore legato al “progetto” è sottoposto ad attese incredibilmente lunghe per un dipendente a tempo indeterminato, prima di percepire i pagamenti per il lavoro svolto.
Sempre più spesso, inoltre, anche il lavoratore intellettuale è costretto a svolgere attività in cui non esiste la comprensione diretta delle finalità del proprio lavoro; sono note le condizioni di alienazione e di controllo di cui sono vittime i lavoratori nei call center, dove viene adottato il modello di lavoro della fabbrica. Centinaia di lavoratori, concentrati nello stesso luogo ma di fatto separati da barriere, devono identificare il proprio desk di lavoro con il proprio spazio vitale; controlli segreti e random (casuali), di gentilezza alla risposta operati da capetti di fabbrica telematici (dunque invisibili), controlli dei tempi di attesa all’ottenimento delle informazioni, monitoraggio costante al fine di razionalizzare i tempi morti. Il call center è in realtà un panòpticon[3] dove in alcuni casi si raggiunge il paradosso: mentre gli impiegati, per le condizioni cui sono sottoposti e per i salari che percepiscono, attraversano un processo di proletarizzazione, viene chiesto loro da parte dell’azienda di pagare l’affitto degli strumenti di lavoro, non essendo essi considerati lavoratori dipendenti.
Per quanto riguarda più direttamente le realtà lavorative industriali, ancora oggi perno centrale della produzione, le condizioni non sono certo migliori. Oltre alla precarietà del posto di lavoro, gli operai si trovano di fronte a ritmi di produzione che sempre di più e sempre meglio si adeguano alle congiunture del mercato: turni a ciclo continuo, solo festivi, straordinario, apprendistato gratuito, lavoro a chiamata e job sharing (sistema tramite il quale un contratto è diviso tra due o più lavoratori) sono solo alcune delle forme in cui si presenta oggi lo sfruttamento in fabbrica. In molti casi, come è accaduto a venti operai all’Alfa di Pomigliano d’Arco, giovani lavoratori legati alle aziende con contratti di formazione sono messi “in libertà” su due piedi alla vigilia della scadenza del contatto, dopo che l’azienda ha attinto a piene mani dai pubblici finanziamenti, ufficialmente per favorire l’occupazione attraverso il principio della formazione continua, il lifelong-learning.

2.3 FORMAZIONE E SFRUTTAMENTO

Life-long-learning è la parola d’ordine per entrare nel mondo della formazione che, visto il continuo sviluppo delle tecnologie, è uno degli aspetti che i padroni non possono assolutamente trascurare. L’indirizzo prescelto è quello di una iperspecializzazione non approfondita, che permette al proletario di essere “spendibile” sul mercato del lavoro anche se, ovviamente, per un arco di tempo determinato.
Da tempo ormai, l’UE ha previsto come progetto stabile l’ERA (European Research Area) che prevede una fittissima rete di relazioni tra ambienti della ricerca universitaria e non, con le aziende più in vista sul territorio. Infatti la formazione del proletariato sarà affidata direttamente alle aziende presenti sul territorio (v. legge Bassanini), che, offrendosi come il “nuovo tempio della conoscenza pratica”, applicheranno contratti di formazione ai nuovi “studenti-operai” che, di fatto, si ritroveranno ad acquisire le “nuove conoscenze” direttamente sul campo, regalando (viene spontaneo dire) ore ed ore del proprio lavoro al padrone.
La caratteristica di questi contratti (sanciti nel documento del ’98) è che non solo non prevedono né alcun tipo di tutela, né contributi (pensioni integrative), ma non prevedono nemmeno l’obbligo di riassunzione a fine contratto. In diverse fabbriche l’apprendistato prevede che i giovani lavoratori, subentrando a padri o familiari, debbano affiancarli per quattro mesi – svolgendo in realtà il loro stesso lavoro – senza percepire stipendio, per essere poi assunti con un contratto di formazione (che, come se non bastasse, sgrava fiscalmente il padrone).
La domanda è: quale padrone, potendo usare questa tipologia di contratto “a basso costo” e senza nessun legame con il lavoratore “da formare”, deciderà di usare contratti che gli comporteranno una maggiore spesa in merito al capitale variabile, cioè salario?
Considerando che la disoccupazione è un dato strutturale del sistema capitalisitico (si conta in punti percentuali il 4-5% annuo), non tarderà a presentarsi la situazione in cui (come negli USA) l’operaio ciclicamente diventerà disoccupato, nella speranza di riuscire a formarsi per diventare nuovamente sfruttabile sul mercato, ma non facciamoci illusioni: solo per un tempo determinato!

2.4 LA MARCIA DELLA PRECARIETA’

Un aspetto importante da analizzare in merito alla nascita dei cosiddetti contratti atipici è quello di individuare non solo la loro funzione ma soprattutto il ruolo che giocano in rapporto al permanere dei contratti a tempo indeterminato (cont.indet.). Infatti, sempre più spesso, l’analisi in merito a nuovi contratti sembra approdare ad un semplicistico ragionamento: tutti i contratti a tempo indeterminato diventeranno a tempo determinato.
Questo però non è realistico: è impensabile per un padrone precarizzare totalmente la sua forza lavoro perché in tal modo non si assicurerebbe:
· nè un livello di produzione minimo, necessario per rimanere presenti all’interno del mercato
· nè i livelli di profitto necessari per la continuazione degli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico che porteranno la sua azienda ai livelli competitivi desiderati.
Il rapporto reale che s’instaura tra la creazione di contratti atipici e quelli a tempo indeterminato è quello di precarizzare l’intero sistema contrattuale, per rendere altamente ricattabili i proletari che riescono ad ottenere il contratto a tempo indeterminato.
Di fatto, tutti gli altri paesi europei stanno mostrando come i cont.indet. continuino ad esistere ma che, con l’aumento in percentuale (fenomeno che già avviene nelle industrie italiane) della presenza di operai a contratto atipico, aumenta soprattutto il livello di ricattabilità dello stesso operaio, costretto a non ribellarsi alle politiche antioperaie dell’azienda per paura di perdere il posto di lavoro, sconvolto dall’idea che il suo prossimo contratto potrebbe essere atipico (considerata anche la mancanza delle garanzie dell’art.18 nelle imprese al di sotto dei 15 dipendenti).
Anche la trasformazione del sistema pensionistico in senso integrativo fa pesare la bilancia in questa direzione. Di fatto, la sottrazione dal salario di quella quantità di danaro che, nel corso degli anni lavorativi, avrebbe costituito la pensione d’anzianità, ci costringe a chiederci come questi soldi verranno impiegati. L’azienda potrà investire questo capitale a proprio piacimento in determinati settori della ricerca, legando barbaramente anche la vita postlavorativa del proletario all’azienda (come negli USA, dove i pensionati devono stare sempre attenti ai movimenti della borsa per capire dove finiranno i soldi della loro pensione). Poiché questa condizione riguarda solo i contratti a tempo indeterminato è impensabile che il padrone possa perdere questo enorme capitale disponibile, precarizzando totalmente, tramite contratti atipici, tutta la sua forza lavoro.

2.5 COME SI DIFENDONO I LAVORATORI?

Esposti a continui attacchi, i lavoratori trovano notevoli ostacoli a difendere i propri diritti, anche in virtù dell’addomesticamento e del conseguente depotenziamento dello strumento dello sciopero ad opera delle politiche concertative portate avanti dai sindacati confederali (dai trasporti, passando per il metalmeccanico fino alle comunicazioni). A fronte di risultati scarsi delle mobilitazioni, dovuti alla frammentazione e ai comportamenti desolidarizzanti più o meno subdolamente diffusi nella classe, risulta via via più difficile ed oneroso, da parte degli operai, sostenere forme tradizionali di resistenza. Sempre più spesso, però, vengono attuati dai lavoratori, spontaneamente e\o in forma organizzata, momenti di rallentamento della produzione e forme alternative di paralisi dei servizi, come nel caso delle malattie di massa dei lavoratori dell’Alitalia o degli intasamenti delle linee messi in atto da operatori dei call center Omnitel.
Alla flessibilità in entrata, come abbiamo visto, per le giovani generazioni e le donne, corrisponde la rigidità in uscita attraverso l’aumento dell’età pensionabile di uomini e donne, la progressiva cancellazione delle pensioni di anzianità e l’apertura al business dei sistemi pensionistici su misura, personalizzati e privati; in sostanza, ciò significa altro denaro sottratto al salario per investire sul futuro. Con questo sistema, oltre a favorire la divisione fra lavoratori della stessa generazione, s’impone un approfondimento del gap intergenerazionale.
In questo quadro si inserisce la realtà dei lavoratori immigrati, ulteriore elemento utilizzato dalla borghesia per frammentare la classe, manodopera a basso costo e facilmente ricattabile e per questo preziosa; la legge Bossi-Fini (ma anche i suoi principi sono ispirati al Libro bianco) lega strettamente il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, tanto da poter parlare apertamente di contratto di soggiorno. Anche in questo caso si tende a favorire rapporti di lavoro che incoraggino attività autonome, volte alla creazione di un’elìte immigrata che vada ad ingrassare le fila della borghesia locale, mentre fa comodo che la grande massa degli immigrati continui a vivere e a lavorare in condizioni di assoluta subalternità, come dimostra la larga diffusione del lavoro nero fra i migranti.
I metodi attuativi dei progetti di ridefinizione economica a livello europeo partono da criteri generali per calarli nelle specificità locali, tentando di trasferire ad altre realtà esperimenti economici riusciti in aree economicamente arretrate, come nei casi del cosiddetto boom economico irlandese degli ultimi anni e l’esempio FIAT di Melfi; questo principio viene definito benchmarking. Patti territoriali e contratti d’area sono già in vigore da anni sul nostro territorio, e la risposta alla divaricazione esistente tra Centro-Nord e Sud Italia consiste semplicemente nella diversificazione dei salari (il vecchio sistema delle gabbie salariali). Non si tratta di imporre, a prescindere dalle reali condizioni economiche delle singole aree, politiche omogenee in tutto e per tutto: in questo senso, gli Stati-nazione svolgono ancora un ruolo essenziale, e le borghesie nazionali restano saldamente ancorate alla tutela dei propri specifici interessi e degli strumenti necessari a garantirli.

2.6 PROSPETTIVE E PERCORSI

Risulta chiaro, a questo punto, che il livello del conflitto ha bisogno di essere portato all’altezza dell’attuale fase internazionale. Rispetto alla costituzione dell’Europa imperialista, che si trova di fronte alla necessità di sfruttare di più e meglio la forza lavoro per poter competere e recuperare terreno rispetto al polo nordamericano, il proletariato europeo ha la necessità oggettiva di recuperare anch’esso il divario con i livelli di internazionalizzazione che presenta il capitale. Si tratta di un processo dialettico, pieno di ostacoli e trappole e tutto in salita, che deve passare per la ricomposizione di tutti i settori in cui oggi è frammentata la classe lavoratrice. E’ un sentiero scomodo perché ancora poco battuto, ma è anche un sentiero autonomo e imprescindibile affinché la classe operaia possa aprire il cammino davanti a se e liberarsi dalle direzioni che ad essa vuole imporre la borghesia. In questo senso, abbiamo già assistito a embrionali tentativi di organizzazione dei lavoratori su scala europea.[4]
Il compito delle avanguardie e dei comunisti deve essere innanzitutto quello di affilare gli strumenti della critica, per comprendere correttamente le dinamiche e le contraddizioni del capitalismo nella sua fase attuale e in linea tendenziale. Individuare nell’Unione Europea e nelle sue sedi decisionali un chiaro obiettivo può rappresentare senz’altro un passo avanti in questa direzione.
La trappola dell’opportunismo social-imperialista è dietro l’angolo e il nostro compito è quello di mettere a tacere i richiami delle sirene che pretenderebbero di contrapporre la civile Europa del capitalismo dal presunto volto umano, all’imperialismo nordamericano.

Note

1. Cfr , M. BIAGI, Libro bianco sul mercato del lavoro, 2001 e Relazione del ministro Maroni al PE ad Atene, 13 febbraio 2003.
2. Biagi 2001, p.209:«Nell’ambito della nozione di “raffreddamento” del conflitto sociale appare utile sperimentare l’istituo del referendum, come preventivo accertamento della volontà di tutti coloro che verrebbero chiamati a scioperare dai promotori del conflitto…».
3. Struttura carceraria ideata da J. Bentham e concepita in modo che il carceriere, con un solo colpo d’occhio, possa controllare contemporaneamente tutte le celle senza essere notato dai reclusi.
4. Cfr. adesione dei lavoratori tedeschi della Opel agli scioperi dei metalmeccanici dell’ultimo inverno.


http://www.autprol.org/