APPUNTI SULLA VIDEOCONFERENZA
Il processo per videoconferenza è stato introdotto nel Codice di Procedura Penale attraverso l’art. 146bis e 147bis (legge n. 11 del 7 gennaio 1998).
Inizialmente questa modalità processuale era stata pensata ed applicata per i processi legati ai reati di stampo mafioso ed era stata motivata con la necessità di non rallentare i processi e di non far incontrare gli imputati (già evidentemente ritenuti colpevoli) in tribunale. La videoconferenza era stata inoltre prevista anche per i testimoni da proteggere oppure per i collaboratori di giustizia (che fossero o no anche imputati) o ancora per infiltrati al servizio degli investigatori.
Approvata poco dopo la strage di Capaci, questa norma era stata definita come provvedimento di emergenza di carattere temporaneo; ma come ogni altro provvedimento repressivo che si fa forza della differenziazione e della gestione di una fantomatica emergenza, da misura eccezionale ed episodica, è diventata regola, destinata a essere applicata per un tempo indefinito.
Infatti, dal 2001, la possibilità della videoconferenza è stata estesa anche ad altri reati i cui imputati sono considerati particolarmente pericolosi, ovvero per gli imputati dei reati di terrorismo e eversione dell’ordine democratico, per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope, contrabbando di tabacchi esteri lavorati, tratta di persone e riduzione in schiavitù, sequestro di persona a scopo estorsivo o di rapina e organizzazioni volte al traffico illecito di rifiuti. In pratica vengono compresi nella possibilità di effettuare il processo in videoconferenza tutti coloro che si trovano imputati per reati compresi nell’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario.
Il processo in videoconferenza mette in evidenza come il tanto decantato rispetto della legalità democratica dei processi sia solo una farsa, buona per i tempi di vacche grasse. Quando è necessario, quando è possibile, quando le condizioni sociali lo richiedono e lo permettono, il cosiddetto “giusto processo”e le garanzie democratiche tornano ad essere un’espressione meramente formale e i processi tornano a palesarsi per quello che sono: strumento politico di repressione sociale attraverso l’uso della forza.
Se con i regimi detentivi speciali (il 41bis e l’Alta Sorveglianza 1, 2 e 3) lo Stato svela l’animo di torturatore nei confronti di alcuni prigionieri, se con il 14bis (e di riflesso la premialità di buona parte dell’Ordinamento penitenziario) dichiara il suo spirito di vendetta contro i ribelli, con il processo in videoconferenza cala definitivamente la maschera, sicuro di non incontrare oppositori grazie ad anni e anni di corsi di obbedienza elargiti da TV, giornalisti e partiti. Grazie a loro il cittadino, resosi sempre più servo volontario, accetterà di buon grado qualsiasi nefandezza compiuta ai danni di un internato (che sia in una galera, in un CIE o in un ospedale psichiatrico giudiziario), salvo poi ricredersi quando, cascato in disgrazia, si ritrova in quel tunnel che è il carcere.
Siamo consapevoli che la videoconferenza è uno strumento repressivo che verrà sempre più utilizzato.
La ragioni sono diverse, politiche ed economiche, ed intrecciate fra loro. In un momento in cui le contraddizioni sociali sono sempre più evidenti, la smaterializzazione dei processi diventa uno strumento molto utile per poter sbrigare le pratiche del controllo sociale in modo asettico, indolore e rapido. Senza impedimenti ed inutili dettagli “democratici” che appesantiscono la macchina repressiva e che si sciolgono come neve al sole di fronte alla necessità di Stato.
È del settembre del 2014 la dichiarazione di Gratteri, Presidente della Commissione per l'elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità organizzata, rispetto all’estensione della videoconferenza a tutti i soggetti detenuti, a qualsiasi titolo. «Se un detenuto è a Tolmezzo e il processo è in Calabria ci vogliono 5 uomini di scorta, 6 biglietti aerei da Verona o da Venezia fino a Reggio Calabria e in più la scorta col furgone da Tolmezzo a Verona. Bisogna dare la possibilità anche all'avvocato di poter stare in udienza dal suo studio in videoconferenza. Così facendo noi risparmiamo 70 milioni di euro».
Questa, in sintesi, è la motivazione adottata dal sistema grazie alla quale la videoconferenza in questo momento viene sdoganata, dopo quasi 15 anni di non utilizzo.
Ma è chiaro che l’utilizzo della videoconferenza vuole raggiungere ben altri obiettivi: impedire il confronto diretto tra gli imputati quando l’udienza diventa necessariamente l’unica occasione di incontro, ostacolare le espressioni di solidarietà nei confronti dei processati, tanto più se si tratta di imputati per reati politici, far abbassare la testa ai detenuti e alle detenute che non si adeguano al regolamento carcerario. I prigionieri ai quali viene imposto il processo in videoconferenza, oltre ad essere sottoposti all’isolamento proprio del carcere, si vedono di fatto privati anche della possibilità di provare quel calore umano che nasce quando il proprio sguardo, in una gelida aula di tribunale, incrocia finalmente quello dei propri amici, parenti, compagni o compagne. Il cerchio si stringe sempre più, nelle sezioni speciali (41 bis e As2 e As3) non solo non si ha nessun contatto con gli altri detenuti “comuni” ma non si dovrà averne neppure con uno spicchio del mondo esterno, internati e sepolti nella struttura principe per chi esce fuori dalle leggi di questa democrazia, la galera.
Il processo in videoconferenza è stato introdotto con la legge 11/1998 attraverso l'art. 146bis, che appunto disciplina la partecipazione al dibattimento a distanza (c.d. videoconferenza) nei processi relativi a reati previsti dall'art. 51, co. 3bis, c.p.p. (associazione mafiosa (416 bis ) e sequestro di persona (630), reati commessi al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dall'art. 416 bis, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 dpr 309/90)).
Nel 2001 il decreto 374/2001- Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale allarga l’applicazione della videoconferenza (art. 8, comma 2) ai delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale e di eversione dell'ordinamento costituzionale facendo riferimento all’art. 407, co. 2, lett. a), n. 4), c.p.p.
È prevista l’attivazione della videoconferenza anche per l'imputato detenuto all'estero a norma dell'art. 205ter disp. att. c.p.p. (Partecipazione al processo a distanza) quando sia previsto da accordi internazionali, e secondo la relativa disciplina, la partecipazione all'udienza dell'imputato detenuto all'estero, che non possa essere trasferito in Italia, ha luogo mediante collegamento audiovisivo, disciplinato dall'art. 146bis.
Elemento indispensabile per la trattazione in regime di videoconferenza è lo stato di detenzione carceraria non importa se in applicazione della custodia cautelare o in espiazione di pena. Sotto tale profilo non è necessario che la detenzione sia dovuta ad uno dei reati per cui è prevista la videoconferenza.
Ove siano presenti tali presupposti il giudice dovrà valutare se siano presenti le condizioni previste dall'art. 146 bis c.p.p. e cioè:
a) ragioni di ordine e di sicurezza pubblica, [elemento questo quanto mai generico nella sua formulazione].
b) Particolare complessità del dibattimento e la partecipazione possa cagionare un ritardo nella celebrazione specie se sono in corso più processi a carico dello stesso imputato in luoghi diversi.
c) Di detenuto sottoposto al regime dell'art. 41 bis reg. penitenziario.
A questo si aggiungono le dichiarazioni di Gratteri che oltre ad essere Procuratore aggiunto della Procura antimafia di Reggio Calabria, presiede anche una commissione ministeriale per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità. Pare infatti che Gratteri in commissione abbia proposto che tutti i detenuti in 41bis potranno essere sottoposti al processo per videoconferenza, indipendentemente dal reato per cui vengono giudicati. Quello che andrebbe a determinare la possibilità o meno dell’attivazione della videoconferenza sarebbe lo stato detentivo in 41bis.
Nella fase precedente il dibattimento il provvedimento che dispone la videoconferenza assumerà la forma del decreto che, essendo stato emesso al di fuori del contraddittorio delle parti, va comunicato al p.m. e va notificato agli imputati e ai difensori interessati almeno dieci giorni prima dell'udienza.
A norma dell'art. 586 c. 2 c.p.p. le ordinanze che dispongono in materia di videoconferenza sono impugnabili unitamente alla sentenza e non prima. I termini per proporre impugnazione sono indicati dall'art. 585 c. 1 c.p.p.
Una volta aperto il dibattimento, la competenza a disporre la videoconferenza spetterà non più al Presidente ma al Collegio. Pur non essendo previsto dalla normativa, può essere richiesto un rinvio del processo al fine di consentire alla difesa di potersi organizzare predisponendo quanto necessario, se del caso, a garantire la presenza nella postazione remota.
Il provvedimento che dispone la videoconferenza può essere emesso anche durante lo svolgimento del processo. E non è preclusa la possibilità di emetterlo nell'intervallo tra un'udienza e l'altra.
La videoconferenza può essere utilizzata anche nei processi di competenza del giudice monocratico, e nei grado di appello.
In ogni caso, qualora la videoconferenza riguardi più imputati, tutti costoro dovranno essere posti in condizione di poter osservare non solo quanto accade nell'aula di udienza ma anche gli altri.
Ove per motivi tecnici o per altri motivi non sia possibile collegare tutti i siti remoti, può essere attuata la concentrazione dei soggetti in uno o più siti remoti.
Il fatto che la postazione remota sia in tutto parificata all'aula di udienza comporta che il Presidente abbia nei riguardi della postazione remota gli stessi poteri di vigilanza e di direzione che ha nell’aula. Allo stesso modo anche per gli eventuali reati commessi nella postazione remota si applicano le regole proprie dei reati commessi nell'aula di udienza (art. 476 c.p.p.).
Una particolare ipotesi di presenza necessaria in regime di videoconferenza è quella dell'udienza di riesame (art. 309 c. 9 c.p.p.) per la quale è previsto un termine di tre giorni, inferiore quindi a quello di dieci giorni previsto dall'art. 146 bis c. 2 c.p.p. Tale circostanza aveva fatto ritenere che non fosse possibile la partecipazione in regime di videoconferenza nell'udienza di riesame. Senza troppi problemi, si è valutata invece possibile l’adozione della videoconferenza non solo per il riesame ma anche per l’incidente probatorio, per l’udienza preliminare - nei casi in cui l'imputato non si presenti all'udienza e si debba procedere alla rinnovazione della citazione (artt. 485 comma 1°) o si sia verificato un impedimento a comparire (art. 486 commi 1 e 2 c.p.p.) - o infine per il giudizio abbreviato.
La partecipazione a distanza è inoltre possibile ogni volta che il giudice ritenga necessaria la presenza dell'imputato o del condannato, anche a seguito di sua richiesta.
Con la videoconferenza, l’imputato vede il processo a distanza, lo vede attraverso uno schermo su cui compaiono inquadrature parziali dell’aula: quando parla l’avvocato è lui a essere inquadrato, quando parla il giudice lo stesso, senza che ci sia mai una visione d’insieme. Non può partecipare al processo che deciderà delle sue sorti, perché non potrà liberamente parlare con il proprio avvocato (con cui magari i rapporti sono già rari a causa delle distanze) e perché non potrà partecipare attivamente al dibattimento.
Durante il processo in videoconferenza l’imputato (o il testimone, nel caso sia necessario) che può essere assistito dal suo avvocato, viene portato in una saletta ricavata nel carcere in cui si trova, e rimane in compagnia delle guardie e di un ufficiale giudiziario. Tale saletta è munita della strumentazione necessaria affinché possa avvenire un collegamento audio-video con un’aula del tribunale appositamente accessoriata. Gli unici strumenti con cui l’imputato può comunicare sono il microfono che però può essere spento o acceso per ordine del magistrato ed il telefono attraverso il quale può comunicare con il suo avvocato.
La comunicazione con il proprio difensore diventa difficile perché, sempre che si riesca ad effettuare nei tempi richiesti, avviene per via telefonica, senza alcuna certezza che tale comunicazione sia realmente privata.
Per poter intervenire, l’imputato deve chiedere autorizzazione all’ufficiale giudiziario che a sua volta la chiederà al Presidente che potrà concederla o meno e con i tempi che vuole. Se quanto detto dall’imputato non risulterà di gradimento all’aula del tribunale basterà spengere il microfono.
Di fatto, quindi, la possibilità per l’imputato di rendere dichiarazioni ogni volta che ritenga di doverlo fare, la possibilità di intervenire nel momento in cui un teste sta facendo delle dichiarazioni e anche contestarle direttamente vengono meno nel processo con la videoconferenza, nella quale esistono tutta una serie di filtri.
È evidente che l’utilizzo della videoconferenza lede fortemente i diritti formali dell’imputato, in particolare il diritto di avere un giusto processo (previsto all’art. 111 della Costituzione) per svariati motivi. Intanto è evidente che nei giudici, particolarmente per quelli della giuria popolare, venga instillata la presunta colpevolezza e pericolosità dell’imputato (mentre in teoria si dovrebbe essere innocenti per la legge fino al terzo grado di giudizio), presunzione già accentuata dal fatto che il Ministro della Giustizia può aver già predisposto il regime di 41bis all’imputato (benché, appunto, non sia ancora colpevole). Ma, ancora, i giudici, soprattutto quelli popolari, saranno condizionati nel giudizio non di una persona in carne ed ossa, ma di quello che per loro rimarrà un quadratino nello schermo tanto pericoloso da non poter essere presente in tribunale; in questo modo, sarà più semplice comminare pene anche pesanti con pochi scrupoli di coscienza, perché l’imputato appare completamente spersonalizzato.
Un altro aspetto è dato dal fatto che l’imputato si trova a dover scegliere se il suo avvocato di fiducia deve stare con lui o nell’aula del tribunale; la norma prevede che l’imputato possa avere un avvocato al suo fianco (che in questo caso può rientrare nel gratuito patrocinio) e l’avvocato di fiducia in aula; di fatto nessun avvocato è disposto a passare intere giornate in una saletta senza partecipare al dibattimento e con una retribuzione liquidata dallo Stato di minima entità.
Il servizio per la Multivideoconferenza con fonia riservata per la celebrazione a distanza dei processi penali per i detenuti soggetti al regime del 41 bis c.p.p. e negli altri casi previsti dalla legge. Il servizio è stato configurato, fin dall’introduzione del sistema della MVDC per i dibattimenti nell’ordinamento giuridico italiano con la legge n. 11/1998 e s.m.i., con modalità tecniche specificatamente funzionali alle esigenze peculiari dell’Amministrazione, e ciò al fine di garantire la massima sicurezza e il controllo completo delle singole sessioni di MVDC; il servizio di connettività, nella fattispecie esclusivamente dedicato alla MVDC, contribuisce alla configurazione di un’unica unità tecnico organizzativa del sistema di multivideoconferenza ed è funzionale al trasporto dell’immagine e dell’audio dei dibattimenti penali. Grazie alla sua particolare configurazione, il servizio consente una gestione complessa e articolata in grado di garantire che non si verifichino inconvenienti e difficoltà tecniche nella gestione delle sessioni ivi incluso il rischio dell’interruzione della celebrazione a distanza di processi di rilevante gravità.
Per il servizio di multivideoconferenza l’amministrazione ha in corso un contratto per gli uffici giudiziari e per gli istituti penitenziari del Ministero della Giustizia con Telecom Italia s.p.a..
Nel corso del 2013 è terminata l’attività di migrazione del servizio da tecnologia ISDN a tecnologia IP: le ultime tre salette realizzate a completamento del circuito di MVDC su IP sono quelle allestite presso il Carcere di Ferrara e collaudate in data 23.05.2013 per un costo complessivo di 105.887 Euro.
Con l’avvenuto completamento della suddetta attività di migrazione si è provveduto all’aggiornamento della tipologia ed entità di alcune prestazioni del contratto conseguendo, per effetto della riduzione del fabbisogno, una significativa riduzione della spesa.
Per alcune ulteriori attività specifiche - che riguardano, in particolare, la gestione delle richieste di sessioni di multivideoconferenza, l’assistenza presso le sedi giudiziarie, la manutenzione ordinaria e straordinaria dei sistemi audio video d’aula installati presso le sedi giudiziarie e gli istituti penitenziari ove hanno luogo le sessioni di multivideoconferenza -, tutte strettamente connesse e funzionali al complesso servizio per il sistema di multivideoconferenza, l’Amministrazione ha in corso, inoltre, un contratto con il R.T.I. Lutech S.p.A. (che dirige e controlla il gruppo Laserline), Telecom Italia e Radio Trevisan Elettronica industriale S.p.A..
La video conferenza non è che un altro tassello all’implementazione costante della repressione intesa nelle sue forme più svariate; buona compagnia gli fanno, tra le tante, le proposte di messa a punto dell’articolo 270 del Codice Penale con l’aggiunta di altri commi che vorrebbero castigare tutto l’intorno di quello che lo Stato definisce e punisce per terrorismo, la differenziazione carceraria attuata da pochi anni, il sempre più continuo ricorso all’articolo 14bis dell’ordinamento penitenziario (che punisce chi in carcere va fuori le “regole”, creando così un circuito sempre più premiale con chi si conforma e abbassa la testa e sempre più punitivo con chi invece la tiene alta), le condanne pesantissime per i “reati di piazza”, l’uso sempre più massiccio di obblighi e divieti di dimora utili per tentare di sfilacciare le lotte, ecc. ecc.
Con il processo in videoconferenza si elimina l’inconveniente di dover gestire i prigionieri sottoposti a processo e di conseguenza la possibilità che si verifichino imprevisti sgraditi come i saluti da amici e solidali, la lettura di un comunicato, fino al tentativo di riprendersi la libertà. Se il giudice obbliga alla videoconferenza sottoporsi a tale decisione dovrebbe essere ben valutato, pena l’entrare a far parte di un teatrino nel quale l’imputato non gioca che un ruolo squisitamente passivo e, spesso, frustrante. Basti pensare, ad esempio, che potendoti zittire con un tasto trasformano di fatto un’eventuale volontà conflittuale in un silenzio immediato e senza strascichi (si leggano a tal proposito le dichiarazione di alcuni prigionieri che seguono).
Nel 2006 venne applicato ai militanti imputati del cosiddetto processo delle nuove Brigate Rosse ai quali era anche già applicato il regime del 41bis; così commentava Nadia Desdemona Lioce ai compagni che le chiedevano notizia.
« …Mi chiedevi dell’abbandono da parte nostra del “processo”, ma sarebbe meglio dire del collegamento in video, perché come è noto, in aula non ci siamo proprio. Di fatto, come puoi immaginare, l’estromissione fisica dall’aula possibile con il 41bis, nel nostro caso di militanti prigionieri, favorisce l’emarginazione della contraddizione rivoluzionaria, che, in un momento quale quello processuale, in cui lo stato riafferma il suo potere ‘vulnerato’ da parte dei militanti è importante rivendicare la propria identità rivoluzionaria e le ragioni storiche, politiche e sociali della prassi rivoluzionaria della propria organizzazione... Naturalmente su un piano pratico non si è nella stessa condizione di poter intervenire all’occasione ritenuta necessaria, come in aula, questo per ragioni tecniche e per come viene gestita la strumentazione tecnica, in quanto l’uso del microfono sottostà alla pressione di un pulsante gestito non autonomamente [dal prigioniero, ndc] come in aula, ma dal facente funzione cancelliere... » . In effetti Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma rinunciarono a partecipare al processo in cui erano imputati, proprio perché la videoconferenza rendeva la loro presenza, ed il processo stesso, «una farsa».
Ultimamente la videoconferenza è stata applicata anche a prigionieri non in 41bis ma che per lo Stato sono evidentemente delle spine nel fianco, sia per la loro personalità di ribelli sia per la solidarietà che hanno saputo ottenere.
È il caso del processo a carico di due compagni anarchici, Adriano Antonacci e Gianluca Iacovacci, condannati in primo grado dal Tribunale di Roma a, rispettivamente, 3 anni e 8 mesi e 6 anni per associazione con finalità di terrorismo internazionale più una serie di reati specifici ed attualmente rinchiusi nei carceri di Ferrara ed Alessandria nelle sezioni AS2 dedicate ai prigionieri anarchici.
«Spendo solo poche parole a sostegno della scelta di non presenziare all’udienza del 26 maggio, ed eventualmente alle prossime, essendo stata disposta la videoconferenza.
L’applicazione di tale dispositivo rientra, per ora, nell’infame logica della differenziazione dei circuiti detentivi, dove l’individuo recluso e imputato viene demonizzato e disumanizzato data la notevole “pericolosità sociale”.
Sperimentato nel 41 bis vuole ora estendersi ai prigionieri classificati A.S. e in ogni processo dove la solidarietà e conflittualità sono o potrebbero essere caratterizzanti e quindi elementi di disturbo e opposizione per chi, applicando codici in vestaglia e bavaglino, svolge il proprio lavoro, decidendo sulla libertà fisica altrui. Non possedendo peraltro alcuna virtù, ma avendone facoltà. Dato il diritto. Data la legge.
La videoconferenza pone limiti ben precisi a discapito di chi è sotto processo, favorendo da ogni punto di vista accusatori e giudicanti.
Ragionando poi ad ampio raggio, le limitazioni potrebbero non riguardare solo l’ambito processuale…
Considerate le magnifiche sorti del progresso, tale strumento di contenzione, anche per ragioni economiche, vorrà un domani estendersi ulteriormente e dilagare in molti se non in tutti i processi. Non ci vuole poi molto ad allestire stanzette con schermi, microfoni e telefoni. Lor signori sempre troveranno una “valida” motivazione per giustificarne l’impiego. Come ovvio che sia, la non neutralità dell’avanzata tecnologica si mostra in ogni ambito e sempre rivela l’essere asservita al Potere.
La virtualizzazione di un processo, per quanto significativa, è in fondo poca cosa comparata alle nefandezze dell’autorità (in questo caso giudiziaria) ma è comunque indicativa in relazione a quella che è la virtualizzazione della vita, volta a controllare e annichilire, dove vengono meno emozioni, espressività e sensorialità… dove viene meno la bellezza stessa della vita e la libertà di viverla realmente.
Mi risparmierò quindi di sentirmi uno scemo, ritrovandomi seduto davanti a uno schermo per assistere inerme al teatrino che vedrà come coprotagonisti assenti me e mio fratello Gianluca.
Sarà quindi un giorno di galera come un altro, dove la rabbia è una costante, ma si cerca, per quanto possibile, stabilità e un po’ di serenità. Non nascondo la tristezza di non potere rivedere e magari riuscire ad abbracciare le persone a cui tengo e sentire il calore di compagnx solidali.
Solo nella lotta la liberazione! Sol nell’anarchia la libertà!
Adriano, 17-05-2014»
Quello che segue è un nostro estratto di un testo di Mattia Zanotti, in carcere dal 9 dicembre 2013 con l’accusa di attentato con finalità di terrorismo più alcuni reati specifici.
«La prigione degli sguardi, note sul processo in videoconferenza
[…]
La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.
Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.
“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.
Mattia Zanotti
dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria, fine aprile 2014»
Si è svolta in videoconferenza anche un’udienza per un processo di poca importanza in cui è imputato Claudio Alberto, in carcere dal 9 dicembre 2013 con l’accusa di attentato con finalità di terrorismo più alcuni reati specifici. In questo caso, è stata usato come pretesto l’accusa per la quale è in carcere ma per un processo che niente ha a che vedere con quella accusa.
Carcere di Ferrara, 1 aprile 2014
«Sono incazzato, non un po’, tanticchio. Diciamo parecchio. Molto incazzato. Appena un’ora fa ho fatto la videoconferenza. ‘Na pagliacciata. Umiliante per certi versi. È inutile nasconderlo, questa data la aspettavo da molto tempo. La vita qui dentro è monotona, come si può intuire uno si affida a queste scadenze. Conto i giorni. Lo ammetto. Fra un mese ho quell’udienza. Una settimana, 2 giorni. 1 giorno. Stanotte non ho dormito. Ero agitato. Alle 3 mi son messo a leggere “La vera storia del capitano Long John Silver”. Risultato, stamattina avevo delle occhiaie della madonna.
Ho cercato in tutti i modi di agghindarmi per mostrare un viso presentabile. Almeno che i compagni vedessero che stavo bene. Forse lo sapevo che sarebbe stata una delusione però ho voluto sperare che qualcosa accadesse. Poi verso le 9 e 20 è venuto a prendermi l’ispettore. Mi son detto: «non farò un viaggio fino a Torino, ma vedrò un’altra parte della galera». La saletta della videoconferenza distava non più di 20 metri dalla sezione. Prima mi han messo in una camera di sicurezza. Mi son accorto allora che dentro al carcere ci sono pure dei giardinetti più o meno curati e fuori ci stavano degli alberi, non so di che tipo, ma il vento ne faceva muovere le foglie. Già, ci sono già le foglie, è arrivata presto la primavera quest’anno. Poi mi hanno portato nella saletta. Una stanza normale con due scrivanie, in una sedeva l’ispettore, sull’altra c’ero io con un bel televisore Lcd e telecamerina sopra. Beh a vedermi in Tv ero abbastanza presentabile. Appena entro in video un saluto forte ai compagni. Avevo ragionato su cosa fare, cosa dire. Saluto col pugno alzato, perché mi piace salutare così. Poi presto attenzione in aula, la Tv è rivolta dalla parte del giudice e basta. Che cretino mi sento, ho salutato solo il giudice. Avrei voluto mostrare un saluto a 39 denti o a 41, ma visto che mi vede solo il giudice sarò serio, farò il prigioniero serio. Sulla Tv ci sono io in un riquadro piccolo e poi si vede l’aula, 10 secondi il giudice e 10 secondi compagni, avvocati e la pm (che è brutta come una racchia). L’aula è grande, praticamente deserta. Provo a riconoscere i compagni perché la definizione video non è un granché. ‘Ste telecamere quando devono funzionare fanno le poco definite. ‘Fanculo. […]
Provo tanta rabbia dentro. So dell’immensa forza che mi vorrebbero dare tutti e sto qua seduto come un piciu in ’sta cazzo di galera. Vaffanculo al Dap. Al carcere. Ai giudici. A tutti loro.
L’ispettore dice che è finito, si ritorna in sezione, io scosto una tendina per guardare fuori, lui se ne accorge e mi dice che se voglio mi fa guardare pure dall’altro lato. No grazie. Passiamo accanto all’infermeria, c’è un detenuto comune, panico. Lo saluto. Eccomi nuovamente fra le mie 4 mura solite. Ancora una perquisa. A posto. Lo spettacolo per oggi è finito. Claudio».
Qui dove “vivo” attualmente, la sezione e quasi tutti i reparti sono composti da detenuti ergastolani o con lunghe pene: oltre il 40% ha vissuto per più di un decennio in regime di 41bis, per cui hanno e abbiamo titolo per parlare di tale regime e di videoconferenza… Dal 1997-98, tutti i detenuti sottoposti al regime di 41bis non hanno più potuto partecipare ai processi se non tramite videoconferenza. I margini di difesa sono così ridotti che la difesa processuale è una farsa, e difatti molte condanne sono avvenute senza una minima difesa reale. Da quest’anno, la videoconferenza è stata estesa anche a tutti i detenuti sottoposti al regime del 416bis (AS3), per cui il problema di difesa giudiziaria si è esteso ad oltre 10.000 detenuti. La scusa è che bisogna prevenire le fughe dei detenuti che vanno in tribunale, ma noi tutti sappiamo che è una balla colossale in quanto le fughe avvenute (a parte quella di Cutrera, che non era però in un regime speciale) sono zero assoluto. Il vero motivo è economico, cioè favorire i finanziatori della “Politica” con l’assegnazione degli appalti per le videoconferenze…
Antonino Faro