Alcune considerazioni
su tortura, leggi speciali e 41 bis
di
Caterina Calia
da http://rompiamoilsilenzio.wix.com/home
Dopo le dichiarazioni di alcuni torturatori che tra la fine degli anni 70 ed i
primi anni 80, per contrastare la lotta di classe, hanno sottoposto a brutali
sevizie decine di militanti delle Brigate Rosse e di altre organizzazioni, la
stampa ufficiale è stata costretta a riconoscere che in quegli anni lo stato
democratico italiano aveva “istituito” la tortura, facendo sue le pratiche
(sequestri di persona, finte fucilazioni, violenze e sevizie di ogni genere,
waterboarding etc.) fino ad allora notoriamente utilizzate in America Latina.
In
realtà che la tortura fosse praticata in maniera organizzata e scientifica (e
non per iniziativa estemporanea di qualche squadretta operante in caserme o
commissariati, come sempre è accaduto e accade a centinaia di proletari,
immigrati, ecc.) era noto a tutti: era noto ai compagni/e innanzitutto, era
noto nei quartieri proletari, ma era noto anche alla stampa ufficiale.
Tuttavia, se qualche giornalista osava avanzare l’ipotesi che la tortura fosse
una pratica istituzionalizzata ed imposta a livello politico e non più
addebitabile a “singole mele marce” finiva a sua volta per essere minacciato ed
incriminato.
La TORTURA non solo esisteva, ma era anche interesse dello Stato che
si sapesse della sua esistenza e del fatto che fosse massicciamente praticata
(ai militanti delle organizzazioni combattenti innanzitutto, ma anche a molti
compagni sospettati di aver fornito apporti di qualsiasi genere a queste
organizzazioni o di avere dei contatti con le stesse) per coglierne al massimo
i frutti in termini di deterrenza e di intimidazione. Nel contempo, tuttavia,
doveva essere negata per non incrinare l’immagine dello stato democratico e
rispettoso dei diritti umani.
L’Italia,
non era certo la dittatura di Vileda, e tuttavia quanto accaduto negli anni ‘70
dimostra che quando la lotta di classe – e non solo – mette in discussione i
poteri costituiti anche lo stato democratico svela il suo vero volto.
Che
siano stati gli stessi torturatori (forti
dell’impunità derivante dal decorso del tempo) a svelare i meccanismi politici
che consentirono di praticare su larga scala la tortura ci deve comunque far
riflettere sul livello di smemorizzazione costruito ed imposto attraverso una
serie di misure repressive che hanno impedito nei fatti una ricostruzione, da
un punto di vista di classe, dello scontro avvenuto negli anni ’70 in questo
paese.
La
legislazione speciale varata negli anni ‘70 non è stata affatto un coacervo improvvisato
di norme tese solo a fronteggiare il c.d. “pericolo terrorista”, ma un vero
progetto politico finalizzato a distruggere ed annientare un movimento
rivoluzionario articolato in mille forme diverse che nel suo insieme metteva in
discussione l’intero assetto economico e politico dello stato borghese.
Gli
anni 70 non furono “anni di piombo”, ma anni di sconvolgimenti sociali,
culturali, mentali che rompevano ogni ruolo istituzionalmente assegnato,
all’interno delle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, che
costruivano dal basso e concretamente autorganizzazione, nuove forme di
relazioni sociali, mettendo profondamente in discussione il marciume delle
relazioni borghesi ed il sistema economico e di potere che le teneva in vita.
Proprio
per distruggere e disarmare questo movimento di massa nel suo insieme lo stato
mette in campo una strategia complessa ed articolata di cui la tortura, insieme
alla legge sulla dissociazione, non rappresenta che la punta dell’iceberg.
In realtà è sul piano politico prima ancora che giudiziario che vengono costruiti gli affondi sul movimento antagonista e
rivoluzionario di quel periodo storico.
L’avanzare
della crisi a partire dal 1973 impone allo stato borghese la necessità di
ridefinire tutti i suoi apparati e le forme di rappresentanza; il P.C.I ed i
sindacati, abbandonata ogni velleità di trasformazione sociale e di difesa
degli interessi di classe, svolgeranno fino in fondo il ruolo assegnatogli,
quello di garantire la pace sociale alla borghesia imponendo
la politica dei sacrifici e svolgendo il ruolo di gendarmi all’interno delle
fabbriche, facendosi carico di spezzare la resistenza operaia ai processi di
ristrutturazione in atto. L’attacco a tutte le forme di lotta autorganizzate
diventa sistematico: viene negata la libertà di
organizzazione, di propaganda, di sciopero, di stampa, di parola.
L’esigenza
del controllo sociale porta alla militarizzazione delle città con blocchi
stradali, perquisizioni a tappeto, divieti di manifestazioni autonome, chiusura
di spazi autogestiti, aumento della disciplina e della selezione nelle scuole e
in tutti i posti di lavoro con incriminazione di tutte le avanguardie di lotta.
La
repressione agisce capillarmente attraverso “le istituzioni democratiche”
schedando operai, tossicodipendenti, disoccupati, senza casa ed espellendo dai
luoghi di lavoro ed in particolare dai consigli di fabbrica i delegati che non
condannano esplicitamente ogni forma di lotta violenta.
Il
progressivo aumento delle spese militari verrà in parte destinato all’ordine
interno (modernizzazione di armi e mezzi tecnici di controllo, creazione di
corpi speciali, ampliamento delle funzioni di polizia a corpi fino ad allora
amministrativi, come i vigili urbani).
Vengono
varate le leggi antiterrorismo che nei fatti significano perquisizioni senza
mandato, fermo di polizia, interrogatori senza avvocato, carcerazioni
preventive fino a 10 anni e 8 mesi, aumento di tutte le pene anche per reati
minori (attraverso l’aggravante della finalità di terrorismo) militarizzazione
delle aule dei processi con schedatura di tutti i partecipanti all’udienza,
negazione del diritto di parola per gli imputati e addirittura arresti degli
avvocati per impedire qualsiasi linea di difesa diversa da quella voluta e
imposta dallo stato, cioè quella della dissociazione e del pentimento.
Le
galere si riempiono di migliaia di compagni e avanguardie di lotta (operai,
disoccupati, studenti) e sarà proprio nei confronti dei prigionieri e delle
prigioniere che verranno sperimentate le pratiche più
avanzate di controrivoluzione.
L’apertura delle carceri speciali (1977) con l’attribuzione di poteri speciali
al generale Dalla Chiesa, la sistematica applicazione del trattamento
differenziato nell’intero circuito carcerario con l’applicazione dell’art. 90
ai prigionieri cosiddetti irriducibili (dal 1980 al 1986), l’introduzione di
nuovi reati come l’art. 270 bis (associazione con finalità di terrorismo), 280
c.p. (attentato per finalità terroristiche e di eversione), gli aumenti di pena
per tutti i reati commessi “con finalità di terrorismo” (1980, Legge Cossiga), la tortura,
come strumento di indagine finalizzato ad ottenere informazioni e a
scompaginare e distruggere le organizzazioni combattenti (praticata dal 1978 al
1983), la conseguente legge sui pentiti (1982) e infine la legge sulla
dissociazione rappresentano l’ampio ventaglio di strumenti repressivi
utilizzati per distruggere le organizzazioni rivoluzionarie degli anni ‘70 e
‘80, ma che furono abbondantemente utilizzati anche per reprimere i movimenti
di massa.
La
dissociazione in particolare (su cui bisognerebbe aprire un capitolo a sé ed il
cui concetto giuridico fu introdotto in un arco di tempo abbastanza lungo, dal
1978 al 1987 ) da strumento di ricatto e premialità rivolta ai singoli
prigionieri, finirà per permeare il modo stesso di fare politica stabilendo
rigidi confini al dissenso.
Che la legislazione di emergenza non abbia rappresentato
una deroga provvisoria allo stato di diritto, circoscritta ad un determinato
periodo storico, lo dimostrano gli sviluppi degli anni successivi e dell’oggi.
Ogni
qualvolta lo stato democratico si misura con le espressioni più avanzate del
conflitto sociale utilizza gli strumenti repressivi forgiati proprio negli anni
70-80: la tortura quando è necessario (vedasi la macelleria messicana di Diaz e
Bolzaneto) e a seguire, sempre e comunque, la politica della dissociazione,
ossia la pretesa di una presa di distanza dalle forme più radicali di lotta
(vedasi la criminalizzazione di ogni dichiarazione di solidarietà con la lotta
NO-TAV).
Insomma
la democrazia borghese non smantella assolutamente nulla: né l’insieme delle
“leggi speciali” né le norme penali di chiara matrice fascista del codice
Rocco. Le une e le altre risultano infatti funzionali
e assolutamente adattabili alle necessità repressive e preventive che si
pongono nei vari momenti storici.
Basta
volgere lo sguardo all’oggi! Analizzando l’elevatissimo numero di denunce e di
condanne che hanno interessato diverse centinaia di compagni (decine di procedimenti
per reati associativi, imputazioni e condanne per i reati di devastazione e
saccheggio con pene fino a 15 anni, migliaia di denunce per reati minori che
però in concreto si tramutano anch’essi in anni di galera) si potrebbe pensare
di vivere anni di conflitto sociale non dissimili dagli anni ’70.
Anche
la gestione dell’ordine pubblico nelle ultime manifestazioni di piazza e nelle
contestazioni contro le nocività e le devastazioni ambientali ricorda il
livello di repressione di quegli anni: largo uso dei reparti antisommossa e dei
militari provenienti dai corpi speciali delle missioni all’estero, cariche
selvagge ed accanimento brutale soprattutto nei confronti dei più giovani, di
figure istituzionali (sindaci in Val di Susa, Campania, Terni) e dei soggetti
meno politicizzati. Lo stesso uso di contestazioni quali quelle di devastazione
e saccheggio appare funzionalmente teso a isolare e depoliticizzare
ogni iniziativa di resistenza e di lotta veicolando nell’immaginario collettivo
l’idea che si tratti di meri atti di vandalismo.
Insomma
lo stato attraverso i suoi apparati giuridico-militari,
mettendo in campo una forza assolutamente sproporzionata rispetto al livello
del conflitto, agisce in maniera preventiva al fine di impedire che lotte
settoriali e di resistenza sfocino in un conflitto generalizzato e di critica
all’intero sistema capitalistico.
E’ già evidente a questo punto come lo stato non ha mai avuto alcuna intenzione
di dismettere le misure repressive varate dal ‘77 all’82 che anzi, negli anni a
venire, saranno riutilizzate e calibrate sia per affrontare in modo autoritario
le nuove emergenze che per arginare il dissenso dentro
steccati di compatibilità.
Solo l’art. 90, applicato a partire dal 1980 a centinaia di prigionieri
rivoluzionari, fu abrogato, ma si introdusse contestualmente (con la Legge
Gozzini, 1986) l’art. 41 bis.
Insomma
cambiava il nome del contenitore, ma non il contenuto! Entrambi gli articoli
disponevano infatti che “in casi eccezionali di
rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro di grazia e
giustizia, ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di
esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti.”
Nel
1992 all’art. 41 bis, già introdotto nel 1986, fu aggiunto un secondo comma che
consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine
e sicurezza pubblica le regole di trattamento e gli istituti dell’ordinamento
penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti delle organizzazioni
mafiose.
Subito
dopo decine di detenuti accusati di appartenere alla camorra, alla ‘ndrangheta,
alla mafia, fino ad allora detenuti nei circuiti di massima sicurezza vennero deportati a Pianosa e sottoposti ad angherie e
sevizie di ogni genere.
Tutta
l’operazione richiamava alla mente la deportazione dei prigionieri
rivoluzionari nel campo dell’Asinara ed i massacri e le vessazioni a cui furono sottoposti per anni dal famigerato direttore
Cardullo e dalle sue squadrette.
Nel 2002, a seguito degli attentati a Biagi e D’Antona, veniva
estesa l’applicabilità del regime del 41-bis, ai
detenuti e ai condannati per reati con finalità di “terrorismo ed eversione”.
Infine
nel 2009 l’art. 41 bis, secondo comma è stato definitivamente
istituzionalizzato entrando a far parte dell’ordinamento penitenziario. La
prima applicazione è prevista per 4 anni, con successive e infinite proroghe di
due anni.
Con la versione definitiva sono stati introdotti limiti anche alle visite degli
avvocati, è stato sottratto il controllo giurisdizionale al giudice naturale
precostituito per legge (il magistrato di sorveglianza competente alla
vigilanza sul singolo istituto penitenziario) stabilendo che sul reclamo
avverso il decreto applicativo del 41 bis è sempre competente il Tribunale di
Sorveglianza di Roma.
L’istituzione di tale tribunale speciale richiama alla
memoria ancora una volta quanto accaduto negli anni ‘70, quando si
stabilì che doveva essere la Corte di Assise di Torino a processare tutti gli
imputati per reati di sovversione.
Il
regime del 41 bis è attualmente applicato a circa 700 detenuti, tra cui sei
donne.
Dal 2005 viene applicato ai prigionieri politici
arrestati nel 2003 e successivamente condannati per appartenenza alle
cosiddette nuove brigate rosse: Nadia Lioce detenuta a L’Aquila, Marco
Mezzasalma detenuto a Parma, Roberto Morandi detenuto a Terni.
L’altra
detenuta a cui è stato applicato il 41 bis per
parecchi anni era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di
totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni
psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse. Abbandonata a se stessa
Diana “si è suicidata” in carcere il 31 ottobre del
2009.
La
finalità del 41 bis è secondo la norma quella di recidere i rapporti con le
organizzazioni di appartenenza, ma è evidente che la vera funzione è quella
dell’annientamento psicofisico dei prigionieri. Riguardo ai due prigionieri e
alla prigioniera politica in 41 bis dal 2005 è ancora più evidente come la
finalità delle condizioni di vita imposte sia finalizzato a distruggere la loro
identità politica ed intellettuale e ad interrompere i legami non con una organizzazione che non esiste dal 2003, ma più in
generale con quei settori di classe che ancora resistono e si oppongono allo
stato di cose presenti. Negargli la possibilità di leggere, di scrivere, di
tenersi informati su ciò che accade al mondo per questi prigionieri è una
condanna a morte.
Tutte
le tecniche di deprivazione sensoriale e sociale, ossia di tortura bianca,
applicate negli anni 70 ed 80 ai prigionieri rivoluzionari per perseguirne
l’annientamento gli vengono applicate ormai da oltre
otto anni.
Siamo
di fronte ad una tortura di lungo periodo: totale assenza di socialità (per
Nadia Lioce e Marco Mezzasalma), impossibilità anche per Roberto Morandi di
incontrare altri compagni, una sola ora d’aria al
giorno, una sola ora di colloquio al mese con il vetro con i prossimi
congiunti, divieto di ricevere libri o stampati anche dalla famiglia,
limitazione nel possesso dei libri (non più di tre in cella), controllo e
blocco continuo della corrispondenza, sia con i pochi amici e parenti che con
gli altri prigionieri rivoluzionari.
Questi
prigionieri vivono una condizione completamente diversa da quella vissuta dai
detenuti politici del ciclo di lotte degli anni ’70-80. In quasi undici anni di
detenzione non hanno mai incontrato altri compagni, non hanno mai potuto
discutere, confrontarsi, commentare una semplice notizia, vivere un barlume di
quotidianità insieme.
Tutte
le forze politiche sono compatte nel ritenere necessaria questa forma di
tortura legalizzata (e anche questo richiama l’unanimità con cui furono votate
le cosiddette leggi antiterrorismo): il 41 bis è ormai un presidio della
cosiddetta legalità da cui non si torna indietro. Ci sono solo due modi per
uscire dal circuito del regime cosiddetto speciale: la morte (come è avvenuto
per Diana) o la scelta di rinnegare la propria identità politica e collaborare
con la giustizia.
Oggi,
come nel periodo fascista, come nel periodo dell’emergenza mai finita degli
anni 70 e 80, per quanto riguarda i prigionieri politici uno degli imperativi
degli apparati di repressione e controllo è quello di impedire il flusso di
comunicazioni e di scambi culturali, umani, politici e solidali con l’esterno e
tra prigionieri per annichilire e distruggere questi ultimi, ma anche per
impedire che si tessano fili che ricongiungano esperienze di ieri e di oggi e
che la memoria storica venga anche per tale via ricostruita.
Non
a caso anche ai circa 20 prigionieri detenuti da oltre 25 anni, molti
addirittura da oltre 30 anni, nelle sezioni di alta sicurezza di Terni, Siano e
Latina viene ancora censurata la posta ed impedito di
avere contatti con chi non sia un familiare stretto.
***
Le questioni accennate meritano indubbiamente maggiore approfondimento e
necessità di confronto, credo però si possa intanto affermare che le misure
repressive contro i movimenti di lotta, oggi come ieri, così come le condizioni
imposte ai prigionieri rivoluzionari sono una scelta obbligata finalizzata a
mantenere in vita un sistema di potere che nel divenire della crisi non può che
accentuare la propria vocazione autoritaria e reazionaria.
Gli
scenari di guerra che si intravedono all’orizzonte necessitano di una pace
sociale che lo stato democratico dovrà garantire con ogni mezzo, anche con
quelli più cruenti.
Quanto
sta accadendo in medio-oriente deve farci riflettere su quale sarà il livello
dello scontro, anche qui in Europa, negli anni a venire e su quanto oggi sia importante ogni iniziativa tesa a ricostruire la memoria
della lotta di classe perché solo conoscendo il proprio passato si può tentare
di orientare e determinare il futuro.