Apocalisse
e sopravvivenza
Considerazioni
sul libro Critica dell’utopia capitale
di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in
Italia
1
Premessa
La
pubblicazione delle Opere complete di
Giorgio Cesarano, iniziata nell’estate del ’93 con l’uscita della prima
edizione integrale di Critica
dell’utopia capitale, è il risultato dell’attività di un gruppo di
individui che s’ispirano direttamente a quella «critica radicale», di cui
Cesarano stesso fu uno dei protagonisti.
Nell’83
un gruppo di compagni, provenienti dalla «corrente radicale», fondarono
l’Accademia dei Testardi, che pubblicò, tra l’altro, tre numeri della
rivista «Maelström». Questo nucleo, tuttora esistente, intraprese un bilancio
della propria esperienza rivoluzionaria (portato a termine solo in parte), che
costituisce un precedente ideale dell’attività che portiamo avanti,
ripubblicando le opere di Giorgio Cesarano e accompagnandole con la discussione
che ha prodotto gli interventi riuniti nella presente raccolta[1].
In
questo testo ci proponiamo d’inquadrare l’attività di Cesarano nel suo
periodo storico, contribuendo a una delimitazione critica dell’ambiente
collettivo di cui egli faceva parte. Ciò al fine di collocare meglio noi stessi
nel presente, chiarendo il nostro rapporto con l’esperienza rivoluzionaria del
recente passato, arma teorica necessaria per affrontare la situazione che ci
circonda, che richiede la capacità di resistere e durare in condizioni
complessivamente ostili, in un modo per alcuni aspetti simile a quello dei
rivoluzionari dei primi anni Settanta.
La
riedizione di testi di quel periodo ha un peso ben preciso nella discussione che
stiamo attualmente conducendo nel Centro d’Iniziativa Luca Rossi e nella
dialettica che intendiamo stabilire con tutte le presenze rivoluzionarie
(peraltro assai circoscritte) che ci circondano. Da un lato, infatti, come
abbiamo detto, c’ispiriamo direttamente alle espressioni teoriche centrali
dell’ultimo periodo di conflitto sociale acuto nel nostro Paese (il decennio
del cosiddetto «Maggio strisciante» ’68-’78). Dall’altro non intendiamo
rivendicare una continuità storica inesistente: la «corrente radicale» ha
raggiunto l’apice della sua partecipazione diretta al movimento rivoluzionario
tra il ’68 e il ’70, successivamente ha tanto risentito del riflusso sociale
da indebolirsi al punto di non saper sfruttare l’occasione offertale
dall’imprevista esplosione del ’77 e da non potersi poi riprendere da questo
fallimento. Per cui, i contenuti che essa ha sviluppato nella sua breve storia
vanno studiati, integrati e approfonditi, anche allo scopo di dare una
delimitazione storica definitiva al suo apporto. Anche se il bilancio di questa
esperienza critica è per noi, ora, largamente positivo, i conti col passato
vanno chiusi. L’orizzonte storico che abbiamo davanti è talmente cambiato
rispetto agli anni Sessanta e Settanta, che l’esperienza rivoluzionaria di
allora è ormai «storica».
2
La «corrente radicale» e il suicidio di Giorgio Cesarano
Il
lettore di Critica dell’utopia capitale
non può non restare impressionato dal suicidio di Giorgio Cesarano, a
quarantasette anni, proprio quando stava lottando per produrre la sua opera
principale. All’epoca del suicidio, la sua attività teorica era in pieno
svolgimento. La sua ricerca era aperta e fu troncata di netto dalla morte,
mentre si svolgevano dure polemiche ed erano ancora possibili fruttuose
collaborazioni e nuovi incontri. Il ’77 era alle porte e Cesarano già
intravedeva la possibilità di un proprio impegno «pratico», che gli avrebbe
dischiuso le porte dell’azione, di cui sentiva un bisogno ancor più urgente
di quello della comunicazione teorica. Già da qualche tempo partecipava a «Puzz»
(giornale pubblicato dal nucleo informale Situazione Creativa di Quarto Oggiaro)
e intendeva continuare e approfondire la collaborazione.
Nella
primavera del ’75, i giovani di Quarto Oggiaro erano già impegnati nelle
piazze (insieme alla nascente Autonomia Operaia): a Milano riapparivano, anche
se solo per pochi giorni, le barricate. Per tutto il ’75, e il ’76, si
manifestarono, in vari episodi, aggregazioni spontanee di «radicali», che già
costituivano un punto di riferimento per numerosi giornalini apparsi in quel
periodo in varie città d’Italia. Ai reduci del lungo ciclo di lotte degli
anni Sessanta si sommava finalmente un buon numero di giovani; la «corrente
radicale» tornava a farsi sentire, attraeva inoltre parecchi scontenti
dell’Aut. Op., nelle università, nelle assemblee e nelle piazze; alla vigilia
del ’77 si apprestava a essere nuovamente una presenza critica centrale che
godeva di una diffusa rete di contatti.
In
questa situazione, nel complesso assai favorevole, la mancanza di Cesarano si
fece sentire: alla crescita numerica non corrispose una crescita
teorico-critica. Se fosse stato possibile concluderla e diffonderla in tempo, Critica
dell’utopia capitale avrebbe costituito un valido antidoto anche contro
molti dei veleni ideologici, soprattutto di provenienza transalpina (l’«ideologia
francese»), che impestarono fin dal primo momento la cosiddetta «ala creativa»
del movimento del ’77; inoltre la coerenza e la lucidità di Cesarano
avrebbero contribuito in modo determinante a risolvere gli equivoci in cui finì
per impantanarsi la «critica radicale».
Al
di là della sua vicenda individuale, questo atto disperato è radicato nei
limiti di una corrente che poco tempo dopo avrebbe dimostrato la propria crisi.
Uno
dei contenuti caratteristici sviluppati dall’autore del Manuale
di sopravvivenza è la necessità di sostenere la «prova» che, nei periodi
di scarsa tensione sociale, s’impone a ogni rivoluzionario: resistere nel «frattempo»
della rivoluzione all’assalto omicida dei fantasmi del senso di colpa, alla
solitudine che porta allo smarrimento, alle allucinazioni e ai traviamenti che
portano alla pazzia, al ritorno dei ruoli abitudinari, economici e familiari,
che si credeva di aver spazzato via. Giorgio Cesarano, profondamente colpito dal
suicidio del suo carissimo amico e compagno Eddie Ginosa, sottolinea il pericolo
che corre il rivoluzionario quando non può riconoscersi in un processo di lotta
sociale e si smarrisce nell’irrealtà allucinatoria e onnipervasiva del
processo di valorizzazione capitalista, rispetto al quale si percepisce come
irriducibilmente altro. In questo
frangente può sentire come aliena la realtà nel suo complesso e come esclusive
e singolari, e quindi patologiche, la propria rabbia e la propria rivolta. Per
questo l’isolamento può costituire un rischio mortale, di fronte al quale il
rivoluzionario deve avere la lucidità e il distacco necessari a ritrovare le
proprie ragioni e a capire che sono quelle di tutti: «[…] il compito
biologico della rivolta segregata nella dannazione individuale è quello di
riconoscersi come prassi generica alienata dalla teoria. Non manca agli uomini né
la forza né la lucidità della critica pratica; non esiste “persona” che
non conosca, tra sé e sé, i tratti dell’incubo che essa, con tutti, chiama
vita; ciò che sembra, finché sembra, mancare è il minimo scatto di uno
sguardo che sappia trapassare il finto muro dell’individualità sofferente,
cogliere tra il sé e il sé che si rimandano, dal sonno alla veglia, i segni
terribili dell’estirpazione della vita, lo spiraglio attraverso il quale
finalmente ravvisare ciò che da sempre è patente, visibile: l’identità
della mutilazione accettata paradossalmente da tutti in nome dell’identità di
ciascuno come diverso e come specifico, la verità banale d’essere tutti
spoliati d’identità reale – identità con il bisogno d’essere, con il
desiderio d’amare – in cambio di una identità assolutamente carceraria,
noumenica nella forma e numerica nella sostanza. Il bisogno d’essere è il
bisogno elementare, banale; la sofferenza di non essere è altrettanto
elementare e banale. La complicazione è “il resto”, il “regno”
labirintico di ciò che non è vita di nulla e di nessuno e pretende d’essere
la vita del tutto, e di tutti nel tutto»[2],
in modo di trarre dall’infelicità e dalla disperazione stesse, la forza
incommensurabile di un’iniziazione rivoluzionaria alla passione e alla vita.
Nel
suo insieme, ponendo al centro dei suoi interessi la critica della vita
quotidiana e la sperimentazione di possibilità che conducessero in modo diretto
all’estasi, la corrente radicale ha dovuto pagare un prezzo altissimo alla
controrivoluzione, subendo inesorabilmente l’autodistruzione degli individui
più appassionati, che più autenticamente avevano assaporato la vita e meno
potevano adeguarsi al grigiore senza speranza della quotidianità del capitale.
A differenza di altre correnti coeve, e allora nostre «nemiche», la tendenza
comunista radicale non è stata massacrata dalla repressione, né ha annoverato
nelle sue file infami e dissociati, nel complesso non ha rinnegato se stessa. A
parte pochissimi che hanno «tradito», passando anche formalmente a collaborare
con le ideologie e le organizzazioni politiche del capitale, la maggior parte di
noi ha abbandonato la prospettiva rivoluzionaria per inerzia e conformismo, o
per risentimento accumulato (verso il proletariato che non vuole diventare
rivoluzionario o verso i compagni più brillanti e ammirati in cui si riponeva
fiducia e che troppo spesso non hanno saputo far seguire alla propria critica
intransigente, a volte spietata, dell’esistente, fatti
adeguati ad armare di efficacia la loro rabbia). Ma tutti coloro per i quali la
passione rivoluzionaria era una forza «biologica», un’energia radicata
profondamente nel loro essere, hanno continuato a tessere la tela di Penelope
della teoria, e a sperimentare le precarie soluzioni che consentissero di
sopravvivere e sottrarsi comunque all’invadenza del presente, appiattito e
mistificante. Alcuni si sono buttati in «romantiche» peripezie in Paesi
esotici – anche lì tallonati dall’ideologia dell’«avventura» turistica
– altri hanno soddisfatto la propria nostalgia col crimine. Molti sono morti,
altri in carcere, quasi tutti comunque «finiti male», come doveva
succedere a individui non dotati di ricchezze patrimoniali né di «saper vivere»
accumulato, e comunque mai interessati
ad aver successo in questo mondo.
Per
la corrente radicale il peso della repressione diretta è stato relativamente
secondario, rispetto all’autentico massacro causato dall’autodistruzione o
da forme poco appariscenti di liquidazione sociale (routine poliziesca e
terapeutica; regolamenti di conti in seno alla famiglia; emarginazione coatta e
omologazione alla malavita; assassinio della passione). Da questa vicenda c’è
una lezione di vitale importanza da estrarre, tanto più in un’epoca
spietatamente cinica e nichilista come l’attuale, che esalta in modo brutale e
diretto i valori del capitale, in cui i rivoluzionari sono sottoposti a un
martellamento ideologico ossessivo che li spinge a considerare con amarezza e
pessimismo la propria inattualità.
3
Bordighisti e anarchici
In
Italia non è mai esistita una componente storica che si rifacesse alla corrente
ultrasinistra classica[3].
Ciò perché fu lo stesso Partito Comunista d’Italia a costituirsi su
posizioni «estremiste»[4], entrando subito in
conflitto con Lenin e poi con la direzione Zinov’ev dell’Internazionale
Comunista. Benché il contrasto con gli onnipotenti bolscevichi portasse ben
presto all’estromissione dei vari Bordiga, Repossi, Fortichiari, Damen ecc.
– che pure rappresentavano il 90% degli iscritti – da tutte le cariche di
partito, gli esponenti della sinistra del PCd’I si rifiutarono di rompere con
l’Internazionale, come avevano fatto invece i consiliaristi tedeschi e
olandesi, e si adattarono all’opposizione disciplinata e frazionista
all’interno del partito mondiale, conclusasi con la loro espulsione solo in
epoca staliniana.
La
Sinistra italiana di Bordiga, pur ritenendo illusoria e controproducente la
creazione di un nuovo partito al di fuori dell’Internazionale Comunista,
condivideva il contenuto essenziale dell’ultrasinistra, sintetizzabile nel
rifiuto di farsi riassorbire dalla socialdemocrazia centrista per dare vita al
partito di massa imposto da Lenin e Zinov’ev e poi da Stalin. Con tutto
questo, la Sinistra italiana si differenziava nettamente dalla corrente
consiliare internazionale non solo sul piano organizzativo ma anche perché
rimase sostanzialmente più fedele al nucleo centrale dell’opera marxiana,
criticando sempre ferocemente l’utopia autogestionaria (che invece ebbe una
certa importanza nelle altre correnti «estremiste») e ponendo sempre al centro
della propria critica la legge del valore, il processo di valorizzazione
capitalista, la cui abolizione costituisce il contenuto della rivoluzione
comunista.
Nel
secondo dopoguerra, la Sinistra italiana fondò il Partito Comunista
Internazionalista, e produsse un’inestimabile mole di teoria critica (tra
l’altro disvelò con dovizia di analisi la natura sociale capitalista dell’urss).
Rigidamente fedele allo schema rivoluzionario del passato, ignorò totalmente
l’importanza del ’68, continuando a esistere fino a oggi, senza mai
incontrarsi con la «corrente radicale» (che tuttavia influenzò profondamente,
soprattutto attraverso la rivista francese «Invariance»).
L’altro
motivo per cui in Italia nel primo dopoguerra non poteva manifestarsi la
tendenza ultrasinistra consiliare, era l’esistenza di un formidabile movimento
anarchico e anarcosindacalista (fai-usi), estremamente vivo e radicale fino all’avvento del
fascismo. L’anarchismo emerse dalla Seconda Guerra mondiale ancora
numericamente consistente, ma assai più debole dal punto di vista teorico
dell’agguerrita pattuglia bordighista.
Il
movimento anarchico che affrontò la bufera del ’68 era incredibilmente
sclerotizzato e difendeva posizioni chiaramente «filo-democratiche». La sua
attività era puramente dimostrativa, in una logica tutta interna al movimento,
pesantemente condizionata dall’esperienza spagnola degli anni Trenta e dai «traumi»
del fascismo e del bolscevismo (manifestazioni contro la repressione dei
compagni spagnoli, commemorazioni rituali, anti-bolscevismo e anti-marxismo
esasperati, incubo del comunismo autoritario lenino-stalinista; adesione al «fronte
antifascista» ufficiale con dc e pci),
e la sua teoria era confusa e superficiale, sostanzialmente ferma al dibattito
sull’«organizzazione anti-autoritaria» risalente all’anteguerra. Il
movimento anarchico, a differenza dei bordighisti, non solo non poté ignorare
il ’68, ma ne fu addirittura travolto: dovette subire la gagliarda rivolta
della sua componente giovanile[5],
e in seguito di interi gruppi organizzati, che finirono presto o tardi per
staccarsene e confluire nella nascente avventura comunista radicale,
identificandovisi o adarendo a un’impostazione consiliar-operaista.
4
Precedenti internazionali
In
Italia non esistono dunque veri e propri precedenti all’esperienza radicale,
che può considerarsi in tutto e per tutto un frutto prodotto dal ciclo di lotte
del ’67-’70 (annunciato da un notevole risveglio della lotta di classe,
ancora in parte contenuto dal pci e dalla cgil,
a partire dal 1960).
I
precedenti delle lotte e della corrente italiana sono tutti internazionali.
Innanzitutto
la Francia, che esplodeva nel maggio-giugno ’68 contemporaneamente
all’Italia, ma che aveva conosciuto antesignani molto significativi dal punto
di vista teorico-organizzativo: «Socialisme ou Barbarie» e, soprattutto, l’«Internationale
Situationniste». In un primo momento i situazionisti vennero conosciuti in
Italia come protagonisti di alcuni episodi clamorosi di contestazione
dell’università[6]
che ebbero una certa eco in Italia, dove la teoria radicale si diffuse
inizialmente soprattutto all’interno delle occupazioni delle scuole e delle
università della fine ’67.
Ma
anche il movimento americano ’64-’67 ebbe un enorme peso nella situazione
italiana. Innanzitutto il movimento dei neri nelle due componenti fondamentali:
quella violenta – in parte espressa dal movimento di Black Power (Malcom x; lo
snic di Stokeley Carmichael e Rap
Brown) ma soprattutto incarnata dalla rivolta «muta» dei ghetti (Watts)[7] culminata nella vera e
propria insurrezione della metropoli operaia di Detroit, che vide impegnato lo
stesso esercito usa in una
settimana di combattimenti casa per casa –, e quella pacifista e
integrazionista, rappresentata da Martin Luther King.
Dalle
testimonianze e dai resoconti della rivolta di Detroit si ricava la sensazione
entusiasmante della rivoluzione: uno dei principali centri industriali e operai
dell’epoca – allora Detroit non era ancora precipitata nel pozzo senza fondo
della disperazione e della criminalità ove sarebbe stata gettata dalla
ristrutturazione e dalla deindustrializzazione degli anni Ottanta, ma era uno
dei centri pulsanti del capitale mondiale, come Torino e Milano – caduto nelle
mani dei desperados dei ghetti in armi, che avevano inflitto una sonora
sconfitta alle forze repressive locali e affrontato un formidabile spiegamento
di forze militari. Gli operai, occupate le fabbriche, erano stati però incapaci
di uscirne per partecipare in massa all’insurrezione, bloccati nella stessa
impasse, rivelatrice dei pregi e dei limiti dell’autogestione condotta dai
Consigli operai, che si sarebbe manifestata poi nel Maggio francese. La portata
di questa rivolta è dimostrata, in negativo, dalla disperazione, espressa poi
come violenza senza senso, seguìta alla repressione di questo grande
scatenamento di follia entusiasta.
L’estate
calda del ’67 accese la miccia del
movimento studentesco europeo. Di grande impatto emotivo furono anche le
manifestazioni del movimento per i diritti civili, che Martin Luther King, il
quale avrebbe pagato con la vita, cominciava a indirizzare verso tematiche
sociali (sostegno a scioperi e a rivendicazioni dei lavoratori neri che
costituivano la totalità della manodopera nei mestieri più duri e peggio
pagati).
Infine
il movimento degli hippies e degli studenti bianchi contro la guerra del Vietnam
– al cui interno si manifestavano componenti radicali – mise in pratica
senza mediazioni la critica pratica della vita quotidiana. Gli hippies e gli
studenti sperimentarono forme di vita comunitaria, liberazione sessuale, rifiuto
del lavoro, critica della famiglia e dei ruoli sociali, illegalità, uso delle
droghe che «allargano la coscienza», nomadismo, riutilizzo delle tradizioni
religiose per raggiungere l’estasi. L’originale potenza del movimento
giovanile nordamericano non va confusa con la successiva
importazione dei valori dell’underground, attuata in Italia da operatori più
o meno specializzati, sotto forma di ideologia «nuovissima», che ebbe uno
scopo essenzialmente smobilitante e destrutturante nei confronti di un movimento
che aveva già acquisito un ben preciso livello di coscienza e di radicalità.
Prima
del ’67 l’«underground» italiano era caratterizzato da poche e minoritarie
manifestazioni controculturali e comunitarie (Onda Verde, Barbonia city, case
occupate in campagna, diffusione delle «comuni» nelle metropoli), che ebbero
il merito d’incominciare a porre la questione della critica della vita
quotidiana (soprattutto la liberazione sessuale, il rifiuto del servizio
militare, le droghe leggere), ripresa poi in altri termini dai rivoluzionari che
la integrarono con l’apporto dell’Internazionale Situazionista, e di dare
inizio a quella rivoluzione dei costumi che, nella provincialissima e bigotta
Italia degli anni Sessanta, avrebbe finito per cambiare irreversibilmente la
vita di un’intera generazione e segnare tutta la società.
5
La corrente radicale italiana nasce nel movimento studentesco del ’68
La
corrente radicale italiana è un prodotto del movimento del ’67-’68. In
particolare i primi nuclei di comunismo radicale sorsero nella turbolenza delle
occupazioni scolastiche e universitarie. Alcuni erano già influenzati
dall’Internazionale Situazionista (che nell’occasione formò un’effimera
«sezione italiana»); una componente proveniva direttamente dall’anarchismo,
che, soprattutto dopo il Maggio, fu investito da una ventata rivitalizzante. Non
per questo il movimento anarchico riuscì a trattenere gli elementi più vivaci
e determinati, ai quali, nel fuoco delle lotte, pareva inaccettabile soprattutto
l’anti-marxismo di principio.
A
Genova, per esempio, il movimento trovò un punto di riferimento nel
preesistente «Circolo Rosa Luxemburg» – un gruppo proveniente dal pci,
molti dei cui aderenti erano passati, come anche Cesarano, per «Classe Operaia»,
staccandosene su posizioni antileniniste –, e che era molto aperto alle nuove
idee antiburocratiche. Ma la caratteristica più autentica di questo movimento
stava nella sua spontaneità (incarnata a Genova dalla Lega Studenti-Operai).
Nel
’68 venne percepita da tutti – tranne naturalmente da parte di coloro che la
negavano per fedeltà a uno schema ideologico, come i tre piccoli partiti
bordighisti[8]
– la forza della grande ondata rivoluzionaria, che trascinava con sé
individui, gruppi e masse, spingendoli a entrare in azione e ad abbandonare le
precedenti affiliazioni politiche e ideologiche di qualunque genere.
Al
di là della loro origine e formazione, gli elementi più radicali del ’68
erano quelli più pronti a mettere in discussione innanzitutto se stessi e poi
l’organizzazione globale della vita, perché, più di ogni altra cosa,
desideravano vivere, esperimentare, godere, sottrarsi a un avvenire senza
speranza, perché senza avventura, già deciso per loro dagli adulti e da un
meccanismo sociale in cui non volevano inserirsi.
Il
’68 fornì l’occasione per attaccare prima di tutto l’istituzione
scolastico-universitaria, svelandone il funzionamento antidemocratico (l’«autoritarismo»)
e l’ingiustizia (la «selezione di classe»), la natura classista.
L’esigenza
teorica sorse come conseguenza, per la necessità di crearsi strumenti con i
quali esprimersi, scrivere, continuare a combattere con maggiore lucidità e
coerenza.
L’opera
di Marx finì con l’emergere come lo strumento teorico più adeguato a
criticare in profondità la natura della società capitalista, mentre le
organizzazioni marxiste dimostrarono di essere macchine burocratiche, votate
alla mediazione, alla trattativa, al compromesso, e quindi vennero scartate a
favore di forme organizzative assembleari, o meglio, inconsapevolmente
consiliari, comunque tendenti verso una messa in pratica dell’anarchismo.
Ecco
come nel ’68 molti anarchici potevano continuare a sentirsi tali senza
partecipare in alcun modo alla vita dello sclerotizzato movimento ufficiale,
dando vita a gruppi estemporanei, a leghe di studenti, a comitati libertari e
così via.
Si
realizzava nella pratica la fine dell’opposizione tra Marx e Bakunin,
teorizzata dai situazionisti.
Naturalmente
nel corso del ’68 gli avvenimenti francesi imposero un ulteriore slancio al
movimento italiano e favorirono la penetrazione di idee più nuove e radicali.
Lo
stesso «Movimento XXII marzo» di Cohn-Bendit, spettacolarizzato dai mass media
come il non plus ultra dell’«estremismo» (è bene ricordare comunque che lo
spazio dell’informazione-spettacolo di
allora era minimo rispetto alla
pervasività ch’esso ha raggiunto nell’attuale società tele-dipendente),
aveva al suo interno una componente libertaria, e il solo fatto di vedere al
telegiornale le bandiere nere dei cortei parigini smentiva lo spettacolo
politico nostrano, occupato per tutta l’ampiezza dello schermo dallo
stalinismo picista (già allora modernizzato dallo «strappo» con l’urss),
dalle sue filiazioni terzomondiste, e dalle invasate sètte marxiste-leniniste,
già in attività da qualche anno.
Il
gruppo libertario che editava la rivista «Noir et Rouge» aveva peraltro
contatti diretti con i giovani contestatori del movimento anarchico italiano, e
lo stesso Cohn-Bendit partecipò nell’estate al congresso anarchico di
Carrara.
S’iniziava
a conoscere l’«Internationale Situationniste», del cui complesso work in
progress venne dapprima presa in considerazione soprattutto la «critica della
vita quotidiana». Questa dimensione della lotta andava esplicitamente fuori dai
limiti della politica e coincideva con il feeling che più di ogni altro
caratterizzò il ’68: la sensazione che tutto
fosse in discussione.
6
Studenti e operai
Sul
’68 Giorgio Cesarano ha lasciato un romanzo, I
giorni del dissenso, in cui descrive in modo delicato e sensibile
l’atmosfera della «primavera degli studenti». Benché quando scrisse questo
libro, che narra da un punto di vista autobiografico alcuni episodi del ’68 a
Milano, egli non fosse ancora un rivoluzionario, dalle sue pagine traspare
l’incontro che di lì a poco lo avrebbe portato fino al cuore di quel
movimento, ancora osservato con il distacco e la simpatia dell’intellettuale
di sinistra che si sente maledettamente più adulto degli studenti al cui fianco
partecipa alle marce di protesta.
Anche
dalle pagine di questo libro emerge l’inconfondibile impressione di ampiezza e
grandiosità di quel movimento, che stava scuotendo il mondo. Gli operai
trovarono ben presto ispirazione nel movimento studentesco e giovanile. I
rivoluzionari in quella situazione riuscirono a collocarsi al punto
d’intersezione dei due movimenti, in generale ancora separati dal fatto che la
massa degli operai accettava provvisoriamente l’«appoggio esterno» del pci
alla propria autonomia. Ovunque nascevano i «Comitati di base operai-studenti»,
di fatto aperti a tutti i rivoluzionari[9].
La
partecipazione attiva e autonoma al movimento, sotto le più varie sigle, ma in
generale anonima, senza organizzazione né partito, contraddistinse
l’esperienza radicale in Italia, situandola al centro degli avvenimenti e dei
momenti cruciali.
Il
movimento italiano ebbe, rispetto a quello francese estremamente più radicale,
il pregio della durata: infatti continuò, in un coerente crescendo, per tutto
il 1969, ricevendo l’apporto decisivo delle masse del proletariato meridionale
impegnate in clamorosi scontri con l’apparato repressivo, che produssero una
formidabile ripercussione in tutto il Paese, e culminò nelle grandi lotte delle
fabbriche del Nord dell’«autunno caldo».
Nel
’69 comparve Ludd (cui aderì fin dall’inizio Giorgio Cesarano), che
partecipò attivamente al movimento, soprattutto a Genova, città in cui
raggiunse anche una notevole consistenza. Nell’ultima parte dell’anno, le
componenti del movimento ancora legate al corpo della sinistra e contraddistinte
dalle varie gradazioni dell’ideologia marxista-leninista od operaista si
organizzarono e si strutturarono in gruppi politici formalizzati. Ludd dovette
perciò iniziare a contrapporsi, a distinguersi, a condurre una battaglia in
fondo di retroguardia, che in quel momento non era essenziale ma che avrebbe
segnato poi profondamente l’esperienza della corrente radicale negli anni
successivi.
Alla
fine dell’anno lo Stato per imporsi dovette ricorrere alle bombe. Da allora
tutta la vicenda italiana fu segnata dagli attentati e dalle azioni armate,
costringendo i rivoluzionari ad aprire un altro fronte, anch’esso difensivo,
per demistificare la violenza di Stato, cui si sarebbe aggiunta in seguito
quella della componente armata autonomizzatasi dal movimento proletario.
Tutto
questo avrebbe pesato in modo determinante sull’attività dei rivoluzionari
negli anni successivi, impegnandone le energie contro la repressione e in tutta
un’attività di smascheramento e distinguo, e finendo per costituire un freno
allo sviluppo della potenzialità rivoluzionaria.
Ciò
tuttavia sarebbe stato avvertito solo qualche tempo dopo. Per un anno o due si
stentò a riconoscere il dato di fatto del riflusso e dell’aprirsi di una fase
di ripiegamento.
7
I contenuti del comunismo radicale
Il
punto centrale nel quale si possono identificare i contenuti caratteristici
della corrente comunista radicale è la convinzione di essere entrati in
un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive è tale da consentire
un’affermazione diretta del comunismo, finalmente al di là dei problemi della
transizione e del socialismo: lo sviluppo della scienza, della tecnica, del
macchinismo e dell’automazione sono tali da consentire una radicale
liberazione dal lavoro. La ricchezza accumulata dal capitale rende possibile una
realizzazione immediata del comunismo.
Questo
contenuto centrale ben corrisponde al senso generale del movimento che «rivoluziona
i rivoluzionari», scuote i limiti della loro vita e li apre a una prassi che
non segue più in alcun punto gli schemi tradizionali di tattica/strategia,
lotta economica/lotta politica, sindacato/partito. Per esempio a partire
dall’astratta rivendicazione del diritto di fare assemblee nelle scuole, si
metteva a soqquadro tutta la vita scolastica, con scioperi, occupazioni,
interruzioni delle lezioni, sabotaggi, pratica della libertà amorosa e rivolta
contro le famiglie.
Questo
ribaltamento ben si rispecchiava a sua volta nella coscienza che ormai ci si
doveva porre solo l’obiettivo distruttivo di fermare la
macchina capitalista ovunque possibile; che non si trattava di ricostruire, di
trasformare, di riformare alcunché, ma essenzialmente di abbattere,
irreversibilmente, tutti gli aspetti dello stato delle cose: la struttura
produttiva e di classe così come i costumi e le mentalità. Il nuovo sorgeva
spontaneamente proprio come esigenza di esistere nella lotta, cioè in una
condizione di antagonismo permanente che imponeva, di per sé, un uso
radicalmente diverso degli spazi e delle risorse.
Tutto
ciò implicava anche una riattualizzazione dei contenuti dell’ultrasinistra ma
essenzialmente sul piano pratico, dal momento che allora non esisteva una
conoscenza precisa del consiliarismo storico (non a caso una delle
preoccupazioni di Ludd fu appunto il chiarimento sulla «ideologia consiliarista»).
La
critica della democrazia – tematica di origine bordighiana – si esprimeva
praticamente nella convinzione che nell’«agibilità politica» conquistata da
operai e studenti l’importante era il rapporto di forza, il contenuto che si
riusciva a dare alla lotta, la sua capacità di distruzione dei rapporti
esistenti e, al contempo, di affermazione del comunismo nell’immediato.
Altrimenti assemblee e lotte sarebbero cadute nelle grinfie dei conciliatori
riformisti o dei militanti ideologici m-l, che le isterilivano e le conducevano
verso la cogestione o l’asfissia.
La
concezione unitaria dell’organizzazione richiamava le aau-e
tedesche e la lotta storica degli anarcosindacalisti e degli anarchici: non a
caso, come già detto, nel ’68 appariva caduca la contrapposizione
anarchismo-marxismo.
Allo
stesso modo ridiventavano attuali le critiche al leninismo e alla degenerazione
burocratica del movimento rivoluzionario, che includevano premesse e conseguenze
della Rivoluzione d’Ottobre. La denuncia del carattere sociale capitalista
dell’urss così
come della Cina e del Vietnam, distinse subito i «radicali» da tutte le
correnti gruppettare in formazione, incluse quelle trotzkiste (queste ultime
peraltro in Italia non trovarono mai uno spazio paragonabile, ad esempio, a
quello francese: la specifica «ideologia italiana» infatti fu sempre
nettamente contraddistinta dallo stalinismo).
Allo
stesso modo fu immediato per i «radicali» identificarsi con una serie di
contenuti e di pratiche – tra cui: l’azione diretta; l’autonomia della
lotta; la denuncia dei partiti e dei sindacati quali rappresentanti del
capitale; i Consigli operai, l’intransigenza verso ogni mediazione operata dai
riformisti e dai progressisti – che a suo tempo erano stati tipici della
corrente ultrasinistra tedesco-olandese e in parte anche della Sinistra
italiana.
8
Ludd e il consiliarismo
Nel 1969, Cesarano,
ormai personalmente impegnato nelle battaglie di prima linea del movimento –
dal cub Pirelli all’occupazione
dell’Hotel Commercio nel centro di Milano, all’autogestione della casa
editrice il Saggiatore – aderì a Ludd.
Al di là delle
differenziazioni interne (il gruppo era infatti tutt’altro che omogeneo), la
partecipazione di Cesarano andò indubbiamente nel senso di sottolineare i
caratteri originali e nuovi
di questa formazione, che infatti si qualificava – fin dalla scelta del nome,
Ludd – come prodotto di un inizio,
di una svolta che non aveva più niente in comune con il movimento operaio,
defunto per lo meno a partire dal Maggio ’68.
Ludd si pose bensì
il problema del precedente storico cui veniva inevitabilmente ricondotta la sua
critica, e aveva ben chiaro il problema: la teoria consiliarista era quasi del
tutto sconosciuta in Italia.
Nelle convulsioni
rivoluzionarie seguite alla fine della Prima Guerra mondiale, infatti, l’«estremismo»,
caratterizzato dal rifiuto dell’elettoralismo e del fronte unico con i
socialisti, si manifestò in Italia nella corrente bordighiana, che però era
nettamente ostile al consiliarismo, a favore di una distinzione molto chiara tra
partito politico e organizzazioni economico-sindacali e di gestione. L’istanza
consiliare era allora rappresentata dal gruppo torinese dell’Ordine Nuovo (Gramsci,
Terracini, Togliatti, Tasca) che emerse come forza consistente, insieme agli
anarchici, durante l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Al
contrario, come avrebbe egli stesso ricordato al termine della sua vita, la
posizione di Bordiga era: «Non bisognava occupare gli stabilimenti e le
officine, bisognava occupare lo Stato e tutte le sue propaggini». Tuttavia,
malgrado la sua formazione indubbiamente rivoluzionaria (anche se, secondo
Bordiga, a-marxista) e le posizioni marcatamente «estremiste» sostenute in un
primo momento, in seguito, la corrente dell’Ordine Nuovo divenne lo strumento
della riunificazione con la maggioranza socialista «centrista», imposta da
Lenin e dalla direzione cominternista di Zinov’ev, e fornì poi i quadri alla
«bolscevizzazione» del partito e a tutte le «svolte» dello stalinismo.
Per questo, in
Italia, non è mai esistita una tradizione consiliare affine a quella
tedesco-olandese (se si escludono minuscole minoranze nell’emigrazione tra le
due guerre quali quella costituita da Michele Pappalardi, Piero Corradi e le
loro riviste: «Réveil Communiste» e «l’Ouvrier Communiste»). La
rivalutazione della rivoluzione tedesca e del comunismo dei Consigli fu
posteriore al ’68, e legata in buona parte all’attività che la Vieille
Taupe stava svolgendo già da alcuni anni in Francia[10].
Il primo numero di
«Ludd» pubblicò gli atti della riunione organizzata a Bruxelles da
Information Correspondence Ouvrière nel luglio ’69 alla quale partecipò un
po’ tutto lo schieramento consiliare, includendo anche i testi dei gruppi «immediatisti»,
che ponevano al centro della loro prassi forme di realizzazione immediata della critica
della vita quotidiana (illegalismo, rifiuto immediatista del lavoro,
edonismo), e avevano perciò duramente contestato gli altri partecipanti alla
riunione di Bruxelles. Fin dall’inizio una componente di Ludd simpatizzava
chiaramente con questo tipo di atteggiamento. Sicuramente il gruppo milanese, di
cui faceva parte Cesarano, metteva al centro dei propri interessi la critica
della vita quotidiana nella forma di una ricerca di coerenza estrema nei
rapporti personali e di disvelamento dei «bisogni reali».
Su «Ludd» venne
pubblicato anche Critica dell’ideologia ultrasinistra di Jean Barrot che faceva
propria la critica sostenuta dalla Sinistra italiana di Bordiga alla corrente
ultrasinistra. Barrot, criticando l’ideologia consiliarista, ne respingeva le
tendenze gestionarie in favore di una difesa dell’essenziale dell’opera di
Marx, cioè la critica del valore, del processo di valorizzazione capitalista,
la cui rottura e la cui abolizione costituiscono il contenuto della rivoluzione
comunista.
Ludd non può
essere ricondotto al filone consiliarista: perché prendendo subito le distanze
dal progetto dell’autogestione nel suo complesso, respingeva anche l’eredità
del consiliarismo storico.
Ludd non si
sentiva erede di alcuna corrente storica, affermava anzi che il proletariato non
ha alcun programma da realizzare.
Questa
connotazione negativa della critica
(fine della politica, del militantismo, del movimento operaio e sindacale,
dell’attivismo) avrebbe assunto un peso determinante nella fase successiva a
quella di maggiore attività e influenza della tendenza comunista radicale
(’67-’71).
Il riflusso
infatti venne all’inizio percepito soprattutto come ritorno delle
organizzazioni politiche staliniste o neo-staliniste: alla fine del ’69 vi fu
un vero e proprio boom delle organizzazioni (tra l’altro nacquero Lotta
Continua, Potere Operaio e l’infame Movimento Studentesco di Capanna e Toscano
che si distinse per la selvaggia repressione dei «provocatori»), e ai
rivoluzionari s’impose l’esigenza di distinguersi, di tracciare bene la
linea della separazione.
Questa esigenza
tese a manifestarsi in negativo, soprattutto come rifiuto del militantismo,
ripudio della politica e del proselitismo, e come vera e propria messa in
discussione «nichilista» di ogni tipo d’intervento pubblico al di fuori del
ristretto ambito dei compagni, se non per mezzo di «azioni esemplari», o al
massimo sfruttando le occasioni offerte dagli scontri con la polizia per sfogare
la rabbia accumulata. I tempi stavano cambiando. Nel ciclo successivo
–’71-’76 – l’influenza dei rivoluzionari sarebbe stata molto ridotta.
Iniziò un
processo di «autoconsumazione» della corrente radicale, che l’avrebbe
portata a trovarsi in ginocchio alla riapertura di un altro ciclo di lotta tra
il ’77 e il ’79.
9
Il riflusso. Azione Libertaria e «Invariance»
Tradizionalmente,
abbiamo sempre considerato il 12 dicembre 1969 come la data che conclude il
ciclo del ’68 e apre il primo ciclo di riflusso. Tuttavia, come tutte le date
storiche, anche questa ha un valore relativo. Innanzitutto sul piano
internazionale l’ultima grande manifestazione di lotta, la grande rivolta
polacca, esplose alla fine del 1970. In quell’anno si verificò anche
l’invasione americana della Cambogia e il movimento usa
raggiunse un vertice di mobilitazione contro la guerra, in seguito ai famosi
fatti dell’Ohio, concludendo vittoriosamente il suo ciclo, mentre le truppe e
soprattutto la flotta statunitensi in Vietnam conoscevano un crescendo di
ammutinamenti e d’insubordinazione. Anche in Italia il ’70 fu ancora un anno
di grande agitazione sociale, malgrado la repressione, e la chiusura dell’«autunno
caldo». Le università e le scuole continuavano a essere occupate, mentre
nuclei di operai che sfuggivano al recupero dei gruppi «extraparlamentari»
creavano reti di contatto autonome. A Milano un’aggregazione anarchica
influenzata direttamente da elementi «radicali», Azione Libertaria, riuscì a
mobilitare fino a 3.000 persone in un paio di manifestazioni di piazza. In una
di queste, in occasione del primo anniversario della strage di Piazza Fontana,
organizzata dalla sola Azione Libertaria, in rotta con tutto il movimento
anarchico, che non ne voleva sapere a causa del divieto della questura, si
accesero duri scontri nel centro cittadino, nel corso dei quali Saverio
Saltarelli, un giovane militante di Rivoluzione Comunista, venne ucciso dalla
polizia.
Azione Libertaria
nel corso dell’anno si staccò dal movimento libertario e, pur senza stabilire
rapporti organici con Ludd, realizzò un notevole approfondimento del concetto e
della prassi dell’autonomia operaia, in modo simile a Information
Correspondence Ouvrière.
L’ipotesi
centrale era quella di sviluppare il contenuto dell’autonomia operaia,
collegando tra loro i nuclei di fabbrica che non avevano accettato di farsi
assorbire dai gruppi extraparlamentari; venne quindi approfondita soprattutto la
tematica del conflitto nei luoghi di lavoro e vennero pubblicate varie riviste
di cui una, nel ’71, dal profetico nome «Autonomia Operaia» [le altre sono
«Azione Libertaria» (1970) e «Proletari Autonomi» (1971)]. Va detto che
rispetto alla successiva e celebre tendenza omonima del periodo ’75-’79,
questa esperienza era qualitativamente superiore non essendo inquinata dalle
ideologie staliniste e militariste di cui l’Autonomia del ’77 non seppe mai
liberarsi del tutto. In seguito si verificò una rottura tra coloro che volevano
limitarsi a collegare i gruppi di fabbrica e i comunisti radicali che
percepivano già l’annunciarsi del riflusso e intendevano quindi, da una parte
sviluppare un’attività teorica e dall’altra «chiudere» a gruppi come
Lotta Continua, Potere Operaio e Collettivo Politico Metropolitano, fino al
’71 occasionali alleati dei radicali e degli anarchici.
Si faceva sentire
l’influenza teorica bordighiana. Come in altre situazioni, quali Ludd e la
Libreria La Vecchia Talpa, il punto di riferimento teorico principale diventò
«Invariance», ancor più che l’«Internationale Situationniste», del resto
conosciuta solo fino a un certo punto (i principali riferimenti erano
soprattutto il Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni di Raoul
Vaneigem e l’unico numero apparso dell’edizione italiana dell’«Internazionale
Situazionista», mentre La società dello
spettacolo fu in genere letto poco e male)[11].
«Invariance»
traeva origine da una scissione della sezione francese del Partito Comunista
Internazionale («Programme Communiste»), che rivendicava il ruolo della teoria
contro il partito accusato di attivismo e assimilato alle sètte trotzkiste (per
la verità piuttosto ingenerosamente).
«Invariance»
fondamentalmente contestava l’utilità di un partito organizzato con tanto di
attività sindacale ecc., e contrapponeva all’organizzazione formale dei
militanti il «partito storico», cioè l’insieme della teoria e del programma
marxiani, che solo nei periodi rivoluzionari si struttura come formazione
militante, mentre nelle epoche controrivoluzionarie si dissolve per evitare di
farsi coinvolgere nella degenerazione opportunistica: così Marx provocò il
dissolvimento della Prima Internazionale; così Bordiga non ricostruì un vero
partito nel dopoguerra, ma si servì del Partito Comunista Internazionale solo
come di uno strumento per continuare il suo lavoro teorico, senza nemmeno
prenderne la tessera.
«Invariance»
diffuse soprattutto l’immensa opera di Bordiga, traducendola in francese, si
avvicinò positivamente alla corrente ultrasinistra (tradizionalmente messa
all’indice dall’ultra-leninismo bordighista) e produsse dei testi originali
notevoli, in particolare Il capitolo VI inedito e l’opera economica di Karl Marx, scritto
da Jacques Camatte quand’era ancora nel partito, e rivisto dallo stesso
Bordiga.
Indubbiamente
l’accostamento a una tale prospettiva era contraddittorio da parte di una
corrente – e soprattutto da parte di un gruppo come Ludd – che aveva fatto
del ’68 un nuovo inizio, l’apertura di un’epoca rivoluzionaria del tutto
nuova.
Ma questa
contraddizione scompariva davanti allo smarrimento generale portato con sé dal
riflusso del ciclo di lotte ’67-’70: non ci si ritrovava, non ci si adattava
alla nuova realtà. La teoria, in precedenza solo orecchiata, prese tutto il suo
rilievo. Con avidità ci si gettò su Marx e su Bordiga, riscoprendo le armi
della critica in tutta la loro potenza.
Il modello del
partito bordighiano, piccola setta braccata dagli stalinisti, che negli anni
Cinquanta aveva sostenuto posizioni anticonformiste (come la famosa sezione di
Asti che faceva opera di crumiraggio in occasione degli scioperi staliniani),
sembrava corrispondere alla situazione della nostra corrente all’inizio degli
anni Settanta: le lotte rifluivano, l’orizzonte era occupato dai vocianti
gruppi maoisti, che espellevano sistematicamente i comunisti radicali dalle
assemblee.
Il «partito
storico» di Marx non era la struttura burocratica e terroristica dei
bolscevichi, e assumeva un fascino esoterico di fronte alla nostra reale
indigenza: era un partito che poteva ridursi allo scaffale di una biblioteca, a
una casella postale, alla corrispondenza e agli incontri di due o tre amici. Ma
nello stesso tempo era un’entità che, per quanto disincarnata, si estendeva
al di là dello spazio e del tempo unificando le generazioni e i continenti
nell’invarianza del programma
comunista, stabilito una volta per tutte da un’illuminazione
storica (affine a quella dei grandi profeti delle religioni rivelate) che tra il
1844 (Manoscritti economico-filosofici)
e il 1848 (rivoluzione) aveva permesso di percepire la prospettiva di tutta
l’epoca successiva. Effettivamente il contatto con «Invariance» stimolò
l’accostamento alla ricchissima produzione bordighiana e lo studio
dell’opera di Karl Marx; l’isolamento cessò di essere considerato un
problema, anzi venne valorizzato: ogni forma di attivismo era d’intralcio
all’attività teorica. L’egemonia tra i nostri interessi passò agli
opuscoli, alle riviste, ai ciclostilati.
Lo schema logico
era il seguente: il movimento proletario internazionale è ricomparso sulla
scena storica tra il ’65 e il ’70; l’epicentro della rivoluzione si è
spostato negli Stati Uniti; l’ondata rivoluzionaria ha spazzato l’Europa
arrivando fino all’Est; dal 1971 questo periodo si è chiuso, e si è aperta
una fase di riflusso in cui non si tratta più d’intervenire attivamente, per
non venire riassorbiti nella realtà dominata totalitariamente dal capitale;
durante il riflusso vi è da compiere un’immensa attività teorica: assimilare
l’opera di Marx e Bordiga, la rivoluzione tedesca e la corrente ultrasinistra,
la Scuola di Francoforte e utilizzarle per passare all’affermazione del
comunismo; comunismo che dev’essere dimostrato sulla base dei movimenti
recenti e dei teorici che li hanno meglio descritti (oltre all’Internazionale
Situazionista, a seguito dell’interesse per il movimento americano vennero
riscoperti anche Norman O. Brown ed Herbert Marcuse[12]).
Questo implicava
il rigetto definitivo della politica con la quale si trattava di chiudere i
conti: nessuna delle varianti estremiste o militariste offriva niente
d’interessante per noi, anzi, anche l’Autonomia Operaia andava respinta
perché non faceva che appiattirsi sui limiti di una situazione bloccata e
asfittica. Solo la prossima ripresa del movimento avrebbe riproposto le
questioni dinamicamente nella loro reale dimensione. Nel frattempo si trattava
d’investire con la critica l’interiorità che tendeva a essere colonizzata
dal capitale, e tutte le sfere discrete e private, sequestrate dal capitale
totale che si stava impossessando degli individui. Di fronte al prossimo
riapparire della rivoluzione, era necessario essere pronti avendo forgiato le
armi teoriche non più della negatività, ma dell’affermazione e della
fondazione teorica del comunismo.
La possibilità
concreta era quella di arricchire immensamente le nostre armi con l’apporto
della tradizione marxiana e bordighiana. Ma da una parte la tendenza
immediatista si sarebbe ostinata nella sua utopia, creando Comontismo;
dall’altra Cesarano avrebbe prodotto lo sforzo teorico più intenso, assumendo
su di sé, vivendole nel suo percorso teorico-pratico, le contraddizioni di
tutta la corrente.
10
Lo scioglimento di Ludd e il revival dell’immediatismo
Se il riflusso
comportò anche una crescita teorica e un’immersione più o meno fruttuosa
negli studi secondo il nuovo modello bordighiano-invariantista, esso significò
però la fine dei gruppi che, come Ludd, si erano identificati con i contenuti
nuovi del movimento, traendone tutta la loro forza.
La natura
eterogenea di Ludd rese la sua dissoluzione un fatto spontaneo e quasi indolore.
Il problema di come resistere a un’ondata controrivoluzionaria non era stato
nemmeno posto. Non c’era stato nessun tentativo di darsi un’organizzazione
che potesse durare. Anzi lo scioglimento del gruppo poteva persino essere un
fatto positivo perché evitava il recupero ideologico, il riassorbimento
nell’essere del capitale.
Tuttavia con
l’esaurirsi di Ludd, non si bruciò con esso il residuo dell’immediatismo,
che continuò a influenzare anche la produzione teorica successiva.
Troppo facilmente
i rivoluzionari genuini (all’opposto dei cultori settari di un’ideologia che
li valorizza), stretti tra la schiacciante superiorità del capitale e
l’apparente inconsistenza della loro presenza di antagonisti, non appena non
trovano più riscontro in un movimento reale che incarni socialmente la loro
prospettiva, tendono a non prendersi sul serio.
Lo scioglimento «spontaneo»
di un’aggregazione è sempre il prodotto di una debolezza, tende a essere
rimosso in fretta dai rivoluzionari, a causa dell’insicurezza sulla reale
portata di ciò a cui si è partecipato e di un inconscio senso di modestia.
Negli anni Settanta questa fretta era aggravata dall’ansia di passare a una
sfera di attività superiore o comunque più coerente, fondata sull’illusione
che in quanto individui, non solo si sarebbe stati meno impediti, ma addirittura potenziati
nella propria ricerca di radicalità. (Peraltro, allora, questa scelta poteva
trovare conferma in un ambiente sociale molto più interessante e praticabile
per un esploratore avventuroso rispetto a quello attuale.)
Può essere del
tutto giustificato, e anzi prova di una profonda esigenza di radicalità, il
fatto che un gruppo, in un periodo di riflusso, si sciolga per rifiutare di
cadere in una ripetizione rituale dei propri gesti, che sostanzia il perpetuarsi
dell’organizzazione come fine in sé, e quindi autonomizza l’attività degli
individui che la compongono, trasformandoli in militanti. Abbiamo tanti esempi
della miseria di quei gruppetti che si ostinano a fare del proselitismo con lo
scopo di reclutare qualche militante che tenga in vita il lumicino
dell’organizzazione.
Ciò non significa
però che la scissione e lo scioglimento di un gruppo, ancorché numericamente
inconsistente – e questo non era il caso di Ludd – non siano dei fatti
estremamente importante per ciò che verrà dopo, e non debbano essere
affrontati molto seriamente.
La vicenda di Ludd
è esemplare perché da un lato testimonia dell’essenza rivoluzionaria del
gruppo, che non aveva nulla da guadagnare a perpetuarsi come «azienda»
autonomizzata nel momento in cui né il movimento immediato né la tensione
teorica erano tali da tenerlo in vita, ma dall’altro testimonia anche della
superficialità con cui fu «lasciato perdere».
Dal punto di vista
del movimento rivoluzionario le rotture, le scissioni, gli scioglimenti devono
avere una funzione di arricchimento, di chiarezza per gli altri. Per questo
quando si chiude un’esperienza è decisivo che si facciano i conti con essa, e
che questi conti vengano chiusi coscientemente ed esplicitamente. Altrimenti
rimangono residui confusi, che poi continuano a produrre conseguenze non volute.
Così, nel caso di
Ludd, vi furono degli strascichi, assolutamente deleteri.
Vi fu innanzitutto
lo strascico della delusione e del risentimento, che si sviluppò anche ad anni
di distanza, nella tendenza a sostituirsi
alla classe operaia. Questa fu la tendenza dell’immediatismo «armato», che
prese varie forme nel movimento degli anni Settanta, e nella multiforme
Autonomia Operaia, per avere il suo sbocco più regressivo e catastrofico nella
drammatica esperienza di Azione Rivoluzionaria.
Inoltre non
vennero fatti fino in fondo i conti con l’ideologia della vita quotidiana,
dogmatismo immediatista, che diede vita a gerarchie occulte che trovavano
corrispondenza nell’automortificazione dei militanti più deboli. Cesarano fu
chiaramente sensibile a questa degenerazione e ne produsse una critica molto
dura e precisa. Ma, sorprendentemente, questa critica restò nell’ambito «privato»,
degli intimi, degli amici. Nelle opere, Cesarano diede per scontata questa
critica, come se fosse stata già portata a termine in altre occasioni. In realtà
il problema venne liquidato senza essere mai chiarito fino in fondo. Comontismo,
erede dichiarato di questa «ideologia della vita quotidiana», spinse l’immediatismo
fino al paradosso di denominare «comunità umana» la cerchia dei compagni
(appunto, Comontismo = Gemeinwesen). Cesarano, benché molte volte avesse
dichiarato la propria profonda estraneità verso la teoria, la pratica e la
prospettiva comontiste, non arrivò mai a una vera resa dei conti teorica che
chiarisse esaurientemente la questione. La «critica della vita quotidiana» era
stata ridotta a odiosa precettistica inquisitoria, concretizzandosi in
un’organizzazione ben viva e concreta, verso cui si può provare tutta la
simpatia personale e umana di questo mondo, ma di cui non si può negare il
carattere teoricamente regressivo rispetto a Ludd.
Il fatto è che il
lascito immediatista di Ludd andò al di là delle ingenue e grossolane
manifestazioni di Comontismo e della sua rozza ed enfatica «ideologia della
criminalità». È, in generale, in tutto l’orizzonte radicale che il
quotidianismo continuò ad attecchire. Al rifiuto della politica, del
militantismo, della continuità organizzativa, del valore della durata nel tempo
dell’attività comune facevano da pendant da un lato la chiusura esclusiva
nella teoria (che, di per sé, non fa male a nessuno) dall’altro la scelta di
modelli di azione non più nella classe – o in nuclei autorganizzati della
classe – ma nell’ambito della disgregazione sociale e psichica. (Lo stesso
rifiuto dell’organizzazione oggi va rivisto criticamente, perché in assenza
degli invadenti gruppuscoli gauchisti ha perso gran parte della sua pregnanza, e
a un rivoluzionario di oggi può apparire una incomprensibile fobia, soprattutto
perché ha un effetto d’inibizione, genera impotenza, depriva di efficacia e
di strumenti validi di comunicazione che si possono forgiare solo nel tempo,
nega l’esperienza acquisita.)
Le manifestazioni
rivoluzionarie di punta, vennero ricercate nella follia, nel delirio, nella
criminalità, nelle esplosioni inconsulte e senza senso di violenza, o, al
massimo, come ultimo legame con l’ideale dell’azione collettiva, nelle
rivolte dei ghetti neri negli Stati Uniti e persino nelle rivolte fascistoidi e
a sfondo clientelare delle città dell’Italia meridionale (Reggio Calabria,
Caserta). «L’esplosione “selvaggia” (la parola è delle gerarchie del
sapere, che infatti sanno) dell’estraniazione contro l’alienazione, della
passione contro il patire, là dove il proletariato moderno si palesa
all’attacco, nei ghetti già impraticabili a borghesi e poliziotti isolati di
Detroit e di New York – come di Reggio Calabria e di Caserta e del Quartiere
Latino, quando per “futili motivi” la rabbia è scaturita –, mostra con
quali tratti la lotta per la vita contro il “progresso” della necrosi deve,
perché vuole, apparire. Sono i tratti, appunto, belluini, dell’inselvatichimento,
della violenza selvaggia. […] il selvaggio conquista nelle notti lo spazio che
di giorno battono padroni e servi, i borghesi non s’avventurano per le
medesime vie dove si aprono gli uffici delle loro rappresentanze che, in quel
tempo-spazio riconquistato dal loro nemico, non li rappresentano più. E anche
di giorno, il selvaggio appare in scorrerie disperate e fulminee, i mitra si
affacciano agli sportelli dei cassieri, sotto l’occhio elettronico della Tv
poliziesca.»[13].
Questo punto è
molto importante per comprendere la «svolta» della corrente radicale agli
inizi degli anni Settanta, che avrebbe portato al suo successivo isterilirsi. In
special modo è fondamentale se si vuole comprendere Critica
dell’utopia capitale che si trovò proprio di fronte al compito di dare
uno sbocco teorico a questo momento storico cruciale.
Anche nell’opera
più importante di Cesarano si può trovare la radice di questo immediatismo: le
rivolte dei ghetti neri, ma anche le espressioni individuali di violenza
immotivata, le bande criminali, o le crisi interiori che dilagano nella nevrosi
e nella pazzia non più contenibili da nessuna struttura repressiva o
terapeutica vengono valutate già nella loro immediatezza come manifestazioni
del movimento comunista, della prassi rivoluzionaria che sopprime lo stato delle
cose.
Cesarano inserì
questi atti di rivolta in un discorso teorico generale che tendeva a dimostrare
il carattere «biologico» della rivoluzione, il suo radicarsi nel corpo
vivente della specie umana che attacca simultaneamente l’universo inorganico,
l’Ego-persona e il linguaggio prodotto della «razionalità» dominante. «Ogni
volta che un uomo “impazzisce”, ribalta violentemente la gabbia che lo
imprigiona e dichiara inesistente e menzognero l’esistente, l’immaginazione
si realizza. “Ogni volta” sta per diventare sempre.
Negli indici crescenti di criminalità, di nevrosi e follia, nella frequenza
crescente delle esplosioni collettive di collera “immotivata”,
nell’insubordinazione, l’estraniazione, l’assenteismo striscianti, sono
visibili le tappe intermedie del cammino dell’immaginazione verso il
rovesciamento definitivo della realtà come organizzazione dell’irreale e
verso la conquista di una totalità organica che realizzi la fine dell’utopia
inorganica capitalista, la fine della preistoria e l’inizio della storia come
equilibrio raggiunto dell’esserci con l’essere, congiunzione finalmente
raggiunta della volontà di vivere con la vita.»[14]
Ma l’apologia dei momenti di disgregazione sociale e psichica e delle
improvvise esplosioni di vitalità mortifera era preesistente e aveva
caratterizzato il periodo di dissolvimento di Ludd e dei prodromi di Comontismo.
Era parte di un tentativo di cooptare nel «movimento reale» tutte quelle forme
di ribellione inconsulta, in sostituzione del proletariato che in quel periodo
era costretto a rifluire in vertenze particolari all’interno delle fabbriche o
sul problema della casa.
Per comprendere
meglio l’origine di questa prospettiva bisogna ritornare a «Invariance» che
in questo periodo fornì la fonte principale d’ispirazione a tutta l’area
comunista radicale italiana, anche se spesso con esiti diversi.
Infatti, questa
rivista affiancò alla ristampa dei testi di Bordiga e agli studi marxiani degli
interventi originali, che ebbero una notevole influenza sulla nostra corrente, e
in particolare su Cesarano.
In seguito nella
sua seconda serie «Invariance» iniziò il distacco a marce forzate dalla
teoria marxiana che l’avrebbe portata poi – pur mantenendo il nome, ormai
contraddittorio – a numerose svolte di 180° su tutte le questioni
fondamentali, fino ad arrivare nel 1977 – data cruciale anche per il distacco
dalla teoria rivoluzionaria di numerose mosche cocchiere – all’abbandono
della problematica rivoluzione-controrivoluzione.
In Critica
dell’utopia capitale si ritrovano due contenuti tipici d’«Invariance».
Il primo è il
concetto di «classe universale»: la condizione proletaria tende a
generalizzarsi, le nuove classi medie (quelle che oggi si chiamano comunemente
«terziario») tendono a vivere una condizione di sfruttamento e di alienazione
analoga a quella del proletariato. Nel corso di una crisi rivoluzionaria, il
proletariato ha così la possibilità di dislocare sul proprio terreno di
scontro la grande maggioranza dell’umanità, unificata appunto come «classe
universale»[15].
Questo concetto venne inserito da Cesarano nella sua prospettiva di rivoluzione
biologica, in cui ogni distinzione di classe diviene obsoleta, giacché ormai
l’«utopia capitale» si contrappone all’intera specie umana.
Il secondo
concetto è quello che vede nelle rivolte delle metropoli americane
l’affermazione concreta del comunismo. Questo concetto venne amplificato dalla
concezione di una rivoluzione «muta», caratterizzata da Cesarano solo
per la sua opera distruttrice,
negatrice del capitale, che trova una continuità nella violenza senza senso,
incluse le sue manifestazioni più sporadiche e individuali. «Mentre il sipario
sta calando sullo spettacolo delle guerre d’ideologia, combattute fuori dai
confini, la guerra è davvero, come dice Marcuse, dappertutto e in ogni istante,
ma è dappertutto e in ogni istante di
ciascuno, non c’è confine che la escluda, è inseparabile dai processi di
produzione. Questa guerra è la critica pratica che si esprime, nient’altro
che questo. Le ottiche di comodo della politica e della sociologia prestano alla
critica maschere e panni di ricambio ogni volta che essa si affaccia – ma si
affaccia sempre – nello sforzo
patente di esorcizzarla. Il criminale, la teppa, i drogati, i dropouts, i
settari di religioni e di ideologie aliene, i disadattati, i “giovani”, i
sottoproletari, i “nevrotici”, gli alienati mentali (!): il nemico
originale, l’anticristo, coloro che con la loro stessa esistenza negano
l’insieme hanno troppi connotati per non vedere, semplicemente, che sono tutti.
La critica è latente in ciascuno.»[16]
Le manifestazioni
visibili del proletariato sono sempre e solo o manifestazioni individuali delle
crisi dell’Ego-persona, o esplosioni indifferenziate e cieche: non si pone il
problema d’identificarle storicamente né in un settore di classe in lotta né
in un insieme di princìpi né, tanto meno, in una prassi collettiva e coerente.
Scompare il concetto di comunismo, incluso in quello di «totalità organica
naturante», più ampio ma ancor più astratto e generico. Per questo la sua
opera contiene il pericolo di venire intesa come una critica disperata, che trae
la sua indiscutibile forza solo dal dolore e dalla follia.
Ma non è
possibile comprenderla se non la si considera come il prodotto di tutta la
corrente storica di cui faceva parte e della sua impasse teorica, che a sua
volta era il riflesso esatto della situazione di blocco pratico in cui si
trovarono i comunisti radicali alla chiusura del ciclo di lotte ’67-’70. In
quel frangente, la corrente radicale cercò di sostituire altre manifestazioni
«nuove», che fossero irrecuperabili dagli apparati capitalisti, all’azione
generalizzata e offensiva del proletariato, che stava rifluendo, e ai diffusi
valori «giovanili», che venivano rapidamente cooptati dall’industria
culturale in grado di trasformare la stessa liberazione sessuale, il
comunitarismo, la critica della famiglia, le droghe psichedeliche e il rock in
altrettante nuove merci.
La forza e i
limiti di Cesarano stanno nell’aver prodotto una sintesi potente e unitaria
della teoria di tutta un’epoca, creando una complessa macchina critica,
contenente però anche le contraddizioni di fondo del movimento di cui era
espressione. Egli stesso rimase profondamente coinvolto nell’impasse generale.
Bruciandosi tutti i ponti alle spalle abbandonò anche la prospettiva collettiva
che sarebbe stata necessaria proprio in quel momento. Rinviando a un movimento
futuro impregiudicato la soluzione dei problemi incombenti – benché Critica
dell’utopia capitale fosse il prodotto e il rispecchiamento di quella
situazione –, Cesarano non si pose in modo esplicito e dichiarato il problema
dell’attraversamento di una fase di riflusso.
L’astrattezza di
certe conclusioni di Cesarano è dunque da ricercarsi nella crisi dei comunisti
radicali di fronte alla nuova fase di arretramento. La stessa profondità e
ricchezza, per contro, del suo pensiero possono offrire gli elementi per
spiegare e demistificare il crollo di tutta la corrente, di fronte alle
possibilità e alle prove del ciclo di lotte successivo.
10
bis Due punti di vista opposti sull’organizzazione
Nel ’71 si
costituì Comontismo e si sciolse il gruppo che si era raccolto attorno a «Invariance».
È il caso di ricordare questi due atteggiamenti diametralmente opposti sul «problema
dell’organizzazione», il secondo dei quali fu fatto proprio da Cesarano e da
gran parte della corrente. Il primo, quello di Comontismo, identificò tout
court il gruppo-ambiente di compagni che lo costituivano (in gran parte reduci
dell’analoga Organizzazione Consiliare di Torino) con il partito storico del
proletariato, o meglio con la «comunità umana». Creò così
un’organizzazione, diffusa in varie città italiane (cfr. «Maelström», n.
2), che abbatteva ogni distinzione tra attività teorica e pratica, vita
pubblica e privata, individuo e organizzazione. Comontismo pretese di dar vita a
un comunismo concreto tra i suoi componenti i cui fondamenti erano:
1)
collettivizzazione di tutte le risorse per la sopravvivenza;
2) convivenza «totale»;
3) pratica
costante della «critica della vita quotidiana» per evitare di cedere alla
pressione ambientale-familiare-giuridica ecc. della società.
L’illusione
immediatistica del gruppo consistette nella dimenticanza di un dato fondamentale
e cioè che fra capitalismo – quindi fra i rapporti personali dominati dalla
valorizzazione – e comunismo c’è di mezzo una rivoluzione che, secondo
Marx, serve tra l’altro a «liberarsi di tutta la vecchia merda». Per
Comontismo la Gemeinwesen veniva messa in pratica sui due piedi: si trattava di
passare al comunismo, anche in venti o in trenta, e di comunistizzare subito i
rapporti: questo rese inevitabile il passaggio immediato alla produzione
ideologica: all’immediatismo si affiancò subito la produzione di una serie di
corollari «teorici».
Retrospettivamente
proviamo simpatia verso Comontismo: si trattò di un gruppo coraggioso, che
rimase sempre all’interno del fronte rivoluzionario, affrontando con valore
una dura repressione, battendosi contro i gruppuscoli maoisti-operaisti tutti
dotati di strutture militari specializzate create allo scopo di mantenere
assemblee e manifestazioni in un ambito accettabile per il loro padre-padrone pci
(con l’unica eccezione – oltre naturalmente ai gruppuscoli di ascendenza
bordighista che conoscevano anch’essi la repressione armata degli «extraparlamentari»
stalinisti – di Potere Operaio, gruppo di vocazione guerrigliera, che, pur
senza difendere i rivoluzionari pubblicamente, fu sempre estraneo alle
persecuzioni). L’atteggiamento provocatorio e ripugnante di Comontismo (che
brillò per umorismo macabro il 12 dicembre 1972 devastando la Banca
dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano) dovette tra l’altro far fronte
alla calunnia sistematica della sinistra per la quale, fino a pochi anni fa,
valeva l’equazione situazionisti = fascisti. È indiscutibile, invece, che
Comontismo fosse un gruppo rivoluzionario, che giustamente Cronaca di un ballo mascherato citava come una parte integrante
della corrente comunista radicale. Non priva di fondamento fu la sua pretesa di
essere rimasto sul terreno pratico rivoluzionario, mentre molti altri ex
luddisti avevano accettato la separazione tra vita pubblica «militante» e vita
privata, che doveva ben presto condurli al nichilismo passivo e, in molti casi,
al rinnegamento della scelta rivoluzionaria, a favore della carriera o
semplicemente del quieto vivere.
D’altra parte
non possiamo fare a meno di denunciare ancora oggi il regresso di Comontismo
rispetto al livello raggiunto da Ludd. L’immediatismo comontista altro non è
che sostituzionismo del proletariato spinto all’estremo. Da questo punto di
vista Comontismo costituì un vero e proprio modello di ideologia, basato su di
una gerarchia, non dichiarata ma facilmente visibile, che sottoponeva le reclute
a prove iniziatiche e a esami di radicalità. Si trattava dell’aspetto funesto
di Ludd, cui abbiamo già accennato a proposito della critica rivoltagli da
Cesarano, assurto a ideologia, applicato sistematicamente senza un attimo di
respiro. Tra i suoi corollari ideologici troviamo: l’apologia della criminalità
(unico modo sopravvivere che in realtà fosse ammesso e rispettato); l’elogio,
non pubblico ma costante all’interno del gruppo, della droga pesante come
strumento di destrutturazione e liberazione dai rapporti familiari e repressivi;
l’atteggiamento settario, di superiorità, verso tutto ciò ch’era esterno
all’organizzazione; l’ostilità del gruppo contro il proletariato,
lavoratore e pecorone, colpevole come tutti coloro che non entravano
nell’organizzazione, che si trasformava così in una banda in guerra con
l’umanità intera, secondo il modello criminale accettato acriticamente. Non a
caso parliamo d’ideologia: la teorizzazione di questi atteggiamenti pratici
infatti sfuggiva a un procedimento critico che ne mettesse in luce le basi
materiali: si trattava di dogmi che stavano essi stessi alla base
dell’esperienza estremamente coattiva di chi entrasse nel gruppo.
L’esistenza di questa forma d’immediatismo fu certo uno dei motivi che
resero così ardua per Cesarano l’indicazione di un qualsiasi sbocco pratico,
perdendosi a volte in un’astrattezza disarmante.
Ma alla base di
questa e di altre impasse di Cesarano stavano piuttosto le prese di posizione
diametralmente opposte a quella comontista: quelle d’«Invariance»
La questione
dell’organizzazione venne «risolta» da «Invariance» studiando le misure
prese da Marx per evitare che nei periodi di riflusso controrivoluzionario il
partito cadesse nel riformismo borghese. Tale analisi era estremamente parziale,
perché prescindeva da tutta l’attività marxiana volta a costruire
il partito comunista, e costituì una forzatura della tradizione rivoluzionaria
che tra l’altro evitava di valutare criticamente l’attività strettamente
politica di Marx nel suo complesso. Tale atteggiamento è esplicito in un testo
del ’69, pubblicato tre anni dopo da «Invariance» col titolo Sur l’organisation a firma di Camatte-Collu, che si può così
sintetizzare:
1) nel dominio
reale del capitale ogni organizzazione tende a divenire un racket o una setta;
2) «Invariance»
ha evitato questo pericolo sciogliendo l’embrione di gruppo che si stava
costituendo attorno alla rivista;
3) ogni
aggregazione organizzativa è esclusa a priori perché si trasformerebbe in
racket;
4) i rapporti tra
rivoluzionari sono utili solo al livello più alto della teoria, che ciascuno
deve conseguire in modo autonomo e personale, pena la caduta nel suivisme.
Secondo Camatte e
Collu, il pericolo dell’individualismo sarebbe stato evitato perché era già
in corso – nel 1972 – la «produzione dei rivoluzionari»: la portata del
processo rivoluzionario era tale che una rete di contatti interpersonali al
livello «più alto» della teoria era garantita e anzi data per scontata. In
maniera molto precisa Camatte e Collu esprimevano un errore tipico di tutta la
corrente e di Cesarano stesso. In realtà nel ’72 non si stava affatto aprendo
una fase prerivoluzionaria sul piano internazionale (semmai il movimento
resisteva ma solo in Italia), non stava per verificarsi un’inesauribile
produzione di rivoluzionari (gli stessi Camatte e Collu diserteranno), e quindi
il rifiuto dell’individualismo era un’illusione. Non c’era nulla di
glorioso nell’aver disciolto i piccoli gruppi costituitisi attorno alle
riviste, anzi si accelerava soltanto ciò che stava già succedendo: la
dispersione delle poche forze rivoluzionarie che rimanevano dal ’68 e che non
si sarebbero più ricostituite (in Francia non si verificarono più rotture
sociali di grande portata, e in Italia la corrente rivoluzionaria arrivò al
’77 così debilitata dall’individualismo che non fu in grado di produrre
alcun intervento rilevante). Anzi l’individualismo favorì lo sganciamento
dalla dimensione rivoluzionaria: o perché la vita nell’isolamento produce un
senso di smarrimento – al quale si sfugge solo col confronto con i propri pari
– in cui il movimento non viene più percepito e quindi genera delusione e
depressione, perdita delle difese di fronte all’«esterno» invadente e
cedimento all’andazzo dominante, o perché nasconde il personalismo,
l’elitarismo, e quindi sgombra il terreno da imbarazzanti rapporti che
potrebbero danneggiare il reinserimento opportunistico nell’ideologia
borghese. Negli anni Settanta e Ottanta l’accentuazione dell’opera di
liquidazione dei residui organizzativi (peraltro già informali e fragilissimi)
e la paura immotivata del riflusso nella politica o nell’«operaismo» o nel
gauchismo sono sempre state le premesse del passaggio «dall’altra parte della
barricata» da parte di qualche esponente dell’«élite» che aveva fatto un
feticcio della teoria e che mostrava schizzinosità verso un presunto pericolo
di suivisme (in realtà assolutamente inventato e inesistente: in Italia nessun
gruppo e nessun personaggio, e in Francia non certo «Invariance», hanno mai
esercitato un fascino paragonabile a quello dell’I.S. oltralpe, e tali da
procurare loro seguaci passivi.
Abbiamo qui
esposto due modi di vedere l’organizzazione tipici dell’inizio degli anni
Settanta, che possono essere respinti senza rimpianti, a maggior ragione senza
alcuna mitizzazione da parte di elementi più giovani.
Il primo, quello
comontista, è il modello della comunità umana-partito storico-banda di
delinquenti. Benché stimabile su di un piano umano (come lo è il suo attuale
epigono: il gruppo francese Os Cangaceiros), e sovente interessante per le
soluzioni pratico-organizzative-abitative che propose (i rivoluzionari devono
vivere «come se» il comunismo fosse già realizzato e possono affrontare
solidalmente la terribile lotta per la sopravvivenza, per loro doppiamente dura)
è fondato sul risentimento: il proletariato non è rivoluzionario, perciò «noi»
(piccolo gruppetto) siamo il proletariato; siamo la comunità umana già
realizzata. Ciò porta a valutare dogmaticamente e ideologicamente il proprio
operato di setta e a offrire gli sbocchi più disastrosi: dal terrorismo sempre
incombente dell’autocritica imposta a ogni gesto e parola, al feticcio della
coerenza; dalla sempre possibile regressione politica, causata soprattutto dal
fascino dell’azione, alla trasformazione pura e semplice in banda di
delinquenti. Il tutto fondato sul ricattatorio feticcio-totem della «pratica»,
sul disprezzo ideologico per la teoria e l’azione lucida.
L’altro, quello
invariantista, estesosi poi a gran parte della corrente radicale, è il modello
dei rapporti tra «teorici». In questo caso l’enorme feticcio-totem della
teoria nasconde l’unilateralità di rapporti limitati a una ridottissima élite
di «critici».
Questo
atteggiamento, ora che sono scomparse le illusioni sulla rapida e abbondante «produzione
dei rivoluzionari», sarebbe puro e semplice individualismo.
In compenso non
farebbe altro che appiattirsi sulla realtà in cui i rivoluzionari sono già
isolati. Aumentare ancor più la loro attuale impotenza
con una tale presa di posizione contro l’organizzazione non avrebbe
senso. Il possibile sbocco di chi continuasse ancor oggi, in piena e angosciante
atomizzazione dei rivoluzionari, a insistere nella fobia anti-rackettistica o
nella esclusività dei rapporti tra pochi eletti (sempre che riuscisse ancora a
trovare qualcuno) al livello più alto
(e poi: più alto di che?) della teoria, non sarebbe particolarmente stimabile.
Mentre oggi è
palese che ogni rinascenza dell’attivismo e del militantismo conduce di volata
al ritorno nella politica, d’altra parte dev’essere chiaro che il feticcio
della teoria separata dall’efficacia e dalla pratica collettiva, se possibile
organizzata, non offre una prospettiva per niente allettante. I princìpi
comunisti, unitamente a una teoria critica vivificata dal confronto con la
produzione teorica dell’ultimo ventennio e al principale risultato del recente
passato – e cioè l’istanza di una rivoluzione della e per la vita, la messa
in discussione dei limiti dell’Ego e dell’identità personale (di cui
l’opera di Cesarano costituisce un’esauriente ed entusiasmante denuncia),
l’esperienza vissuta della
rivoluzione nella rivoluzione –, sono le uniche garanzie contro la
degenerazione rackettistica, cui non si sfugge con l’isolamento
autovalorizzante e tantomeno attraverso vie originali e personali a una presunta
creatività.
È evidente che
nel ’70 non esisteva il pericolo di creare un gruppuscolo attivista-militante
attorno a «Invariance» o a un nucleo di «teorici». Anzi, il pericolo era
esattamente opposto: la disgregazione e l’abbandono delle questioni più
importanti da affrontare:
1) la
riproposizione dell’apporto delle ultrasinistre storiche (Bordiga + il nucleo
portante della Rivoluzione tedesca, decisiva per tutta le rivoluzione mondiale);
2) un bilancio
dell’apporto nuovo degli anni Sessanta;
3) la necessità
di creare un insieme di rapporti che resistessero nel tempo e fossero in grado
di affrontare le possibilità rivoluzionarie che si presentavano negli anni
Settanta.
Secondo Camatte e
Collu la «produzione dei rivoluzionari» risolveva magicamente ogni difficoltà,
mentre ciò che stava per accadere era la dispersione dei rivoluzionari, e la
dimostrazione della loro incapacità di cogliere l’occasione che ancora, e
solo in Italia, si presentava.
In anni successivi
venne posta, ancora in termini capovolti rispetto alla realtà, la questione del
nichilismo: in realtà manifestazioni nichiliste furono l’abbandono della
tradizione rivoluzionaria, la fine della tensione verso rapporti
comunisti tra i sovversivi, il rinnegamento del bisogno
di divenire una collettività operante, la sottovalutazione della necessità di
non farsi spazzare via dalla controrivoluzione.
Comontismo costituì
una caricatura dei rapporti tra rivoluzionari, e l’illusione che tutti i
problemi potessero essere magicamente risolti da un’ideologia bell’e pronta,
che pretendeva di essere il concentrato della teoria degli anni Sessanta, già
completa, che si trattava di applicare nella pratica, senza tante storie.
Per quanto
aberrante e insostenibile su di un piano teorico, nondimeno questa
semplificazione si basava su esigenze profondamente vere: la teoria non può
essere un’attività separata e specialistica, è tutt’uno con la coerenza
quotidiana dei rivoluzionari e con il bisogno di cambiare le cose nella realtà
di tutti, d’incidere nella società e nella storia.
Comontismo ebbe un
risultato doppiamente controproducente:
1) perché creò
una banda che si voleva nemica della società e del proletariato, precludendosi
ogni possibilità di aggregazione e di efficacia;
2) perché in
seguito fu agevolmente recuperato dall’ideologia più tipica degli anni
Settanta – l’apologia, esemplificata da Toni Negri, dei gruppi prodotti
dalla disgregazione sociale, invece della loro critica radicale –, e fu quindi
incapace di fornire una prospettiva a un’area, piuttosto consistente nel
’77, di giovani che si staccavano dalla pratica armata strumentale e
gerarchica dell’Autonomia Organizzata, e cercavano di muoversi in prima
persona, coraggiosamente, ma con poche e confuse idee.
Ma Comontismo
aveva ragione nel respingere l’elitarismo dei pochi che si muovevano «al
livello più alto della teoria». Ciò non poteva che portare alla creazione di
rapporti fondati solo sul piano intellettuale.
Cesarano fu l’unico
a muoversi davvero al più alto livello, producendo una teoria chiara
ed esplicita del tutto anti-esoterica, cercando vanamente uno sbocco
umano in questo ambiente pseudo-intellettuale, contraddistinto da una fragilità
assoluta e da una formidabile incoerenza (se si escludono Piero Coppo e Joe
Fallisi, gli unici tra i suoi collaboratori ad aver mantenuto la coerenza
rivoluzionaria, senza peraltro aver mai nutrito pretese di superiorità
derivanti dal possesso della teoria).
11
Il comunismo profetico
Un altro aspetto
caratteristico della nostra corrente negli anni Settanta fu la diffusione delle
profezie.
Secondo la
periodizzazione da noi adottata, con il 1971 si chiuse il ciclo aperto nel ’64
dalle rivolte dei neri e dal movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.
Si aprì una nuova fase di attesa, che tuttavia nella percezione dei
rivoluzionari avrebbe dovuto essere breve: il ’68 aveva riaperto l’èra
delle rivoluzioni. Soprattutto Detroit (’67) dimostrava che gli Stati Uniti
erano il nuovo epicentro della rivoluzione mondiale (contro la previsione di
Bordiga), anche se Danzica e Stettino (’70) confermavano l’importanza
dell’«area tedesca» (con Bordiga). Poiché la teoria è previsione o non ha
ragione di essere, le profezie, fondate su calcoli accurati dei cicli di crisi,
formulate da Bordiga negli anni Cinquanta, divennero spontaneamente tra di noi
un «articolo di fede» semiserio, in quanto risolvevano tutti i dubbi teorici:
una profezia faceva riferimento al ’75, un’altra, maggiormente precisa e
specifica, indicava nel ’77 la data di una crisi e di una violenta convulsione
del capitalismo: per noi, tout court, la data della rivoluzione.
Tutto l’alone di
setta esoterica, che circondava il Partito Comunista Internazionale, derisorio
come organizzazione formale, ma fascinosa incarnazione del partito storico, era
confermato dai mitici Bordiga e Vercesi (Ottorino Perrone), membri del Comitato
centrale ma non iscritti al partito formale, puro espediente e strumento del
partito storico, ovvero della formidabile attività teorica del profeta
partenopeo.
Altre forti
interpretazioni profetiche venivano estratte da Norman O. Brown e da Herbert
Marcuse: dal primo si traeva una interpretazione di Freud che prevedeva
l’acuirsi del conflitto inconscio tra l’istinto di vita e quello di morte
sino a un’esplosione finale distruttivo-vitale o autodistruttivo-narcotizzata;
nel secondo si coglieva l’avvento di una nuova èra che spostava
definitivamente l’orizzonte rivoluzionario verso il trionfo dell’Eros, la
nuova sensibilità e i nuovi valori inaugurati dal movimento hippy americano.
Tutte le profezie esoteriche e astrologiche sentenziavano l’approssimarsi
della crisi finale e dell’età dell’Acquario. Tutto all’alba degli anni
Settanta poteva, non senza una certa dignità teorica e una certa coerenza nella
dimostrazione, venire letto in questo senso.
In questo clima «teorico»,
che esprimeva la disperazione e il rifiuto di accettare veramente, con il cuore,
il ripiegamento sui libri (rifiuto di cui abbiamo visto il riflesso ideologico
in Comontismo), la diffusione de I limiti
dello sviluppo del Massachusetts Institute of Technology (mit)
era benvenuta, giacché costituiva una conferma indiscutibile proprio in quanto
proveniva dal centro pensante del nemico.
Critica dell’utopia capitale
non si limitava a questa ingenua religiosità rivoluzionaria. Il rapporto mit
vi occupa un posto centrale. Il concetto di «utopia capitale» è assolutamente
chiaro: di fronte alla realtà della crisi ultimativa, il capitale appronta
anche degli sbocchi nettamente utopici – la cui sola realtà è la
mistificazione ideologica –, tra i quali quello di una società a crescita
zero, tenuta insieme da surrogati comunitari e da una quasi completa liberazione
dal lavoro; questi progetti, secondo Cesarano, verranno vanificati dalla
catastrofica crisi e dall’insorgere del proletariato rivoluzionario.
L’incombere di questa esplosione finale liberatrice rafforzò moltissimo il
senso di attesa e previsione profetica che permeava tutta l’atmosfera della
nostra corrente. Questa tensione pervade le conclusioni dei lunghi aforismi di Critica
dell’utopia capitale, la cui struttura, nella prima parte dell’opera[17],
tende a essere la seguente: 1) un attacco, violento come un saccheggio armato,
in cui si mettono a ferro e fuoco le tesi di biologi, fisici, genetisti,
antropologi, psicanalisti, linguisti ecc. che devono invariabilmente mostrare la
corda ideologica, con cui intendono nascondere, non potendola strangolare,
l’esplodere della contraddizione ormai cosmica con la vita biologica della
specie e del pianeta; 2) il disvelamento della natura utopica dei loro orizzonti
e la loro inconsistenza di fronte all’imminente insorgere del proletariato
rivoluzionario.
In questo schema
non vi è alcuna concessione al misticismo, nutrito di droghe e di esoterismo,
dei piccoli gruppi che si lanciavano nel frattempo della rivoluzione,
sperimentando ogni sorta di combinazioni «estatiche», comunitarie, sessuali e
amorose; vi era al contrario il tono rigoroso di chi confuta inesorabilmente gli
specialisti del capitale sul loro stesso terreno, saccheggiandone le conoscenze
e il linguaggio; tuttavia, non solo il richiamo esplicito all’lsd
è ripetuto varie volte, ma il sapore,
la tensione stessa dell’acido circolano tra quelle righe, riconducendo il
lettore all’eredità profetica degli anni Sessanta, trasmettendogli la durezza
e la drammaticità di una teoria temprata, appunto, nell’acido
dell’esperienza reale e personale.
12
Il «caso» Cesarano
«La partenza non
può essere che l’intuizione folgorante, e in questo senso concretamente e
vitalmente iniziatica, del punto di vista della totalità.»[18] Questa frase sorprendente
balza fuori dalle pagine del libro e dà la dimensione dell’esperienza di
Cesarano. Se nelle restanti pagine di questo nostro scritto, per scelta, non si
parla di lui se non come singola molecola di un movimento storico e,
all’interno di quest’ultimo, come esponente della corrente più radicale e
portatrice del più ricco e innovativo apporto teorico, per un momento vogliamo
sottolineare la singolarità di Cesarano. «Intuizione folgorante […] del
punto di vista della totalità»! Come non pensare, immediatamente all’lsd?
E folgorante è il suo procedere critico, in coerenza con la sterzata radicale
data alla sua vita dal ’69 in poi, che gli imprime il senso
di marcia, mantenuto implacabilmente fino alla fine.
Prima
l’esperienza collettiva, pubblica, di Ludd. Poi dal ’71 inizia la stesura
dell’opera della sua vita, quella Critica dell’utopia capitale – già anticipata da L’utopia
capitalista, in «Ludd», Milano, n. 3, 1969 –, con cui fa definitivamente
i conti con il mondo della cultura e dell’intellettualità ufficiale, da cui
si allontana sempre più, inesorabilmente, nella pratica.
Nelle prime pagine
del libro si hanno gli enunciati fondamentali: 1) lo sviluppo della specie fin
dalla più remota origine è la storia della sottomissione al lavoro e alla
produzione di utensili-protesi, che sempre più prendono il sopravvento sul
corpo vivente, ridotto ad appendice alienata; 2) lo sviluppo della psiche
individuale, separata dal corpo, come pensiero che si pensa, diviene la storia
dell’Ego colonizzato dal capitale come «persona», interiorizzazione del «valore»
in processo; 3) la produzione del linguaggio, come insieme di segni
autonomizzato, si accumula come il lavoro morto, e finisce per acquisire un peso
determinante sulla comunicazione umana, giungendo a dominare il soggetto, che è
ormai parlato dalla lingua.
Queste tre sfere
costituiscono un unico processo, visto da angolazioni (e discipline) differenti,
attraverso il quale la specie, a partire da una propria carenza istintuale
originaria, si è separata dal corpo vivente del mondo (e dal proprio corpo
biologico), estraniandosene fino al punto di minacciarlo, oggi, di estinzione
come un nemico esterno. E il corpo, dopo i millenni di sopravvivenza
irriducibile, carcerata da sempre nell’inconscio, nel rimosso, nell’altro,
reagisce alla minaccia di estinzione con la critica armata, con la follia, con
la rivoluzione «biologica».
Mentre tutto
l’esistente non è che un deserto dominato dal capitale, la passione «muta»
dei corpi si appresta a esplodere, affermandosi come «totalità naturante»,
battendo in breccia i progetti cibernetici o di clonazione – che chiuderebbero
per sempre la partita –, e rivelandone il carattere utopistico.
A questo enunciato
segue l’attacco. Un saccheggio disordinato e passionale degli scienziati e dei
teorici del capitale (e anche di vari pensatori critici come Horkheimer e
Adorno, ma anche la lezione di Freud e Reich è tenuta ben presente).
La teoria è usata
come strumento di effrazione per confutare le conclusioni spietate che i teorici
del capitale riservano alla vita, e per strappare loro i dati che dimostrano la
vitalità incoercibile della specie biologica di fronte al fallimento
catastrofico della società del capitale, che si riproduce ormai solo più come
cancro del mondo.
Procedendo sullo
stesso terreno dei propri avversari, sul filo dell’astrazione
scientifico-filosofica, impadronendosi di materiali teorici via via che irrompe
nei vari campi del pensiero separato, Cesarano riesce a chiudere i conti col
mondo della cultura e delle mode intellettuali, imperversanti allora e negli
anni seguenti, anche nel movement del ’77, riservando pagine spietate
all’arte, agli psicoanalisti, ai terapeuti, agli esperti di linguistica e di
linguaggi, ai futurologi propugnanti soluzioni «indolori» per un mondo votato
alla catastrofe.
Nello stesso tempo
riesce a comunicarci con drammaticità la propria vicenda individuale. Da una
parte l’assedio subìto dall’individuo isolato, immerso nella quotidianità
allucinatoria in cui viaggia incarnando via via i vari ruoli economico-sociali
cui deve piegarsi la «personalità», impossibilitata all’incontro con gli
altri dall’equivoco sociale della circolazione degli uomini ridotti a «quanta»
di capitale (almeno finché la passione, rischio e prova iniziatica, non apra la
strada al riconoscimento di un altro,
e per questo passaggio a quello degli
altri). Dall’altra, il percorso che lo porta a rompere col mondo della cultura
e dell’arte, in cui egli stesso aveva vissuto fino al ’68, a cui ritorna, da
nemico, per chiudere i conti in sospeso, per mezzo della critica e della lotta,
le uniche espressioni possibili non immediatamente asservite e incorporate dal
capitale totale.
Varie volte
rimanda all’esperienza-prova dell’acido lisergico.
La violenza e la
drammaticità del suo linguaggio, che pure è rigidamente astratto e non
abbandona mai il terreno dell’avversario, traducono la condizione «segregata»
del rivoluzionario, rimasto isolato alla fine del ciclo ’67-’70, ma deciso a
utilizzare la propria condizione disperata per produrre la propria grande
sintesi teorica che saluta come una certezza la prossima ricomparsa, definitiva,
ultimativa, del proletariato rivoluzionario. O saprà essere e vincere o il
capitale lo trascinerà con sé nella catastrofe. L’irriducibilità del
fondamento biologico della rivoluzione garantisce l’invincibilità della
specie.
Forza e limite
della sua opera sono la convinzione che la crisi del capitale, annunciata dal
rapporto del mit, così come dai
sintomi che denunciano la crisi psichica della persona – follia, nevrosi,
ormai incontenibili da ogni controllo e da ogni struttura repressiva – e della
società – rivolte immotivate, saccheggi e violenza collettiva, criminalità
–, è irreversibile e ultimativa, e costringerà la specie a vivere,
finalmente, se non vorrà scomparire ed estinguersi.
Nei primi anni
Settanta, la consapevolezza che la catastrofe del capitale minaccia realmente la
sopravvivenza dell’umanità e del pianeta, e la scommessa disperata e
passionale sulla vitalità della specie che ha dato già prova di sé nel ciclo
di lotte appena conclusosi, è una caratteristica forte, di fondo, che può
giustamente costituire una sintesi delle posizioni, pur diversificate, di tutta
la corrente radicale all’alba della nuova epoca.
La forza
dell’alternativa, la vita contro la morte, invece che proletariato contro capitale, è segno della relativa vitalità
teorica, ma è anche segno di difficoltà a fondare le proprie ragioni nella
contraddizione specificamente sociale.
Nel
disconoscimento del dato di fatto che a produrla è stato un ben preciso
movimento sociale, si annuncia anche
l’isterilirsi di tutta la corrente, che, illusoriamente, allucinatoriamente,
«alza la posta» delle proprie affermazioni, ma si appresta a vivere il proprio
declino e tramonto nel giro di pochi anni.
13
Bruciare le navi
Riferimenti come
quelli all’lsd imprimono su
questa teoria il marchio di ciò che non sarà mai assimilabile dalla cultura.
Il mondo degli intellettuali, degli scrittori, dei poeti, degli artisti, degli
accademici italiani non è stato capace di rispondere, se non con
l’emarginazione e il silenzio, a un uomo come Cesarano, che non si limitava a
compiacersi del generalizzarsi della rivolta altrui bensì faceva combutta non
con gli studenti ma con i «provocatori», non con la sinistra ma con i gruppi
più «ambigui» (accusati, come sempre allora in Italia, di «fascismo»), e
che non proponeva disquisizioni masturbatorie sulla «droga» ma si temprava con
l’acido lisergico.
La forza e la
drammaticità della teoria di Cesarano sono così palesemente espressione
diretta della vita e dell’esperienza da essere letteralmente «intoccabili»
per tutti gli ambienti culturali, ancorché «rivoluzionari» degli anni
Settanta. «Per denaro si “vive” morendo asserragliati nelle case, per
vivere si spende sangue sui marciapiedi del denaro. Di stupefacenti sarebbero,
secondo i sapienti, avvelenati i selvaggi. Infatti, la droga guadagna spazio,
mentre sulla droga guadagna il capitale. Ma la droga allucinogena, quella per
intenderci che libera dall’allucinazione della “vita”, con l’abbassare
la soglia che filtra cioè economizza le percezioni, attacca direttamente
l’economia che impoverisce ciascuno inchiodandolo alla scheda perforata delle
percezioni programmate per lui dalle gerarchie del sapere, e, con il
consentirgli finalmente di vedere ciò che non aveva mai visto prima, lo dischioda dal
“reale”, gli restituisce la verità che gli pertiene. Non può essere, tale
verità, che atroce: umiliante e terrifica. Ma definitiva, indimenticabile. Lo
strappo non è reversibile, si lamentano i sapienti. Terrorizza, sgomenta,
inselvatichisce. Ciò che terrorizza, ciò che sgomenta e ciò che, nei migliori
dei casi, inselvatichisce non è, al contrario, che la visione della loro
“verità”, di colpo denudata.»[19]
14
Si apre una nuova fase
Nei primi anni
Settanta vi fu un grande allargamento della prospettiva e delle fonti teoriche
dei rivoluzionari, corrispondente anche a una notevole ricchezza esistenziale e
alla sperimentazione di nuove dimensioni.
La volontà di
realizzazione pratica immediata non trovava più sbocco nelle lotte sociali, e
vi era il tentativo di mantenere una dimensione radicale nella vita quotidiana.
Le teorie
immediatiste trovavano un vasto terreno di applicazione: criminalità, follia,
sperimentazioni sessuali corrispondevano alla verità pratica di molti di noi.
Sotto forme
comunitarie o come avventure individuali, esclusa ormai totalmente dai nostri
interessi la «politica», si cercò di passare a una dimensione creativa,
affermativa, che corrispondesse alla esigenza teorica prevalente: quella di
fondare il comunismo.
La ricchezza di
queste esperienze sfugge in gran parte alla ricostruzione a posteriori, giacché
si tratterebbe di discutere peripezie individuali che non sono state mai
raccontate.
Un notevole peso
ebbero anche i movimenti di liberazione sessuale, femministi, omosessuali.
Nell’insieme,
malgrado i rischi, e le cadute, la portata dell’esperienza complessiva di
quegli anni ci pare molto ricca e nel complesso degna del movimento che l’ha
preceduta, tanto da meritare, all’occasione, una trattazione a parte. Nel suo
insieme esprime già l’esigenza di uscire dai limiti di un’esperienza
storica che invece, nei suoi connotati più specifici – che possono essere
identificati attraverso le espressioni teoriche – tende a perdere un po’ il
contatto con il reale.
Sicuramente
Cesarano avrebbe vissuto positivamente l’inserimento nel movimento della
seconda metà degli anni Settanta. Il suo entusiasmo per gli scontri
dell’aprile ’75, in cui inizia la storia dell’Autonomia Operaia, era stato
notevole.
In molti altri
individui e gruppi vi fu invece una tendenza a staccarsi sempre più dalla realtà,
facendo tra l’altro un pessimo uso dell’opera dello stesso Cesarano.
Il ’75 e ancor
più il ’76 produssero, insieme a un apparente accentuarsi del riflusso, anche
decisi sintomi di un risveglio, soprattutto nel settore giovanile che non aveva
conosciuto niente delle lotte del ciclo precedente.
Gli anni Settanta
sono spezzati in due dal suicidio di Giorgio Cesarano. Abbiamo già detto che si
trattò di una sconfitta collettiva. L’apporto di Cesarano non sarebbe stato
affatto indifferente nella nuova fase. Egli stesso aveva percepito con molta
lucidità i nuovi spiragli che si aprivano. Si trovò da solo di fronte a
pesanti difficoltà. Aveva lasciato la situazione rassicurante della famiglia e
della casa di campagna in Toscana, non riuscendo a sopportare
quell’isolamento.
«Invariance»
aveva accolto alcuni punti fondamentali del lavoro di Cesarano, in particolare
l’antropomorfosi del capitale[20],
e stava passando da un lato alla pubblicazione di testi che avrebbero dovuto
fondare in positivo l’affermazione del comunismo, dall’altro a una vasta
descrizione dell’«erranza dell’umanità», una sintesi della storia che
aveva punti di contatto con quella di Cesarano. Ma, nel caso d’«Invariance»,
si trattava di una fase di passaggio: l’abbandono della stretta ortodossia
marxiana doveva portare a un superamento della questione «rivoluzione-controrivoluzione»
e allo spostamento dell’interesse verso un immediatismo realizzativo, che, al
di là di tutte le sue peculiarità, può essere sintetizzato come un vero e
proprio ritorno alle concezioni «naturiste» di certi hippies del decennio
precedente, applicate, è giusto dirlo, alla lettera, dal fondatore e principale
esponente della rivista ex-bordighista.
Il fatto è che
per molti la «teoria radicale» si rivelò in questi anni uno strumento per
liberarsi dalla tradizione marxiana, o ultrasinistra, o rivoluzionaria in genere
e per incanalarsi nei percorsi opportunistici e carrieristici o nelle varie
riautentificazioni della religione, dell’arte, della famiglia repressiva ecc.,
che abbiamo visto poi «fiorire» negli anni Ottanta.
15
Comunismo-individuo solo e alienato
Durante il
riflusso degli anni Settanta era data per scontata l’impossibilità di
sopravvivere a lungo nella società del capitale senza integrarvisi. Era
inaccettabile cercare di resistere come organizzazione durante una fase
controrivoluzionaria. Implacabile era la critica dei gruppuscoli
extraparlamentari – le bande-racket in cui tende a trasformarsi qualsiasi
organizzazione che cerchi di perpetuarsi nella sfera della politica (oppure nei
circuiti economici «alternativi», nell’arte, o comunque in una qualsiasi
dimensione estetica come «stile di vita»). La stessa critica venne
spietatamente applicata a noi stessi, a quel po’ di organizzazione che avevamo
creato, ed estesa alle forme di aggregazione autonome di fabbrica e di quartiere
che stavano nascendo in quegli anni, tutte rifiutate in quanto manifestazioni «gestionarie»,
che finivano per far parte di quella miseria che si trattava di criticare e di
abbattere.
In questo senso la
linea di tendenza di Cesarano è paradigmatica: scioglimento di Ludd; rottura
delle ultime illusioni ideologiche (le ideologie quotidianiste e l’apologia
del crimine); isolamento, anche geografico (nella campagna toscana)
consacrazione a un’attività teorica, dagli orizzonti pressoché sconfinati.
Per noi il
riflusso negava la possibilità di realizzazioni formali, organizzative, attivistiche.
Tuttavia il ’68 aveva effettivamente riaperto l’epoca delle rivoluzioni e
quindi si trattava di forgiare la teoria per affrontare l’estrema crisi del
capitalismo. Veniva fortemente sottolineato il contenuto del comunismo. Mentre
tutte le ragioni d’essere storiche delle fasi intermedie, del socialismo e
della transizione erano cadute, si affermava il comunismo quale superamento di
tutte le rivoluzioni precedenti, liberazione del rimosso delle epoche storiche
passate e all’interno della psicologia dell’intera specie. Si trattava di
liberarsi di tutta la vecchia merda, di affrontare con lucidità e nel profondo
quella rivoluzione nella rivoluzione che era stata una caratteristica così
determinante del biennio ’68-’69, e che continuava a essere la dimensione,
affatto particolare, in cui vivevano e agivano i rivoluzionari.
Al rifiuto netto e
reciso di continuare la lotta nei modi della «politica rivoluzionaria», che
inevitabilmente ci avrebbe integrati all’essere del capitale, non
corrispondeva alcun cedimento sul piano individuale.
La critica
dell’ideologia quotidianista, dell’«ideologia della critica della vita
quotidiana», non deve trarre in inganno. Essa non corrispondeva affatto a un
ripiegamento nel «privato» o nella dimensione dimessa del «teorico»
rivoluzionario. La tensione individuale restava fortissima.
Anzi. La «pratica
dell’isolamento» costituì una radicalizzazione estrema della dimensione
rivoluzionaria, che si sottraeva a ogni compromesso. E continuava a sperimentare
l’avventura della passione individuale, del sovvertimento dei rapporti
familiari e borghesi, dell’ampliamento in ogni direzione e con ogni mezzo
della coscienza.
Di questa
dimensione Critica dell’utopia capitale
costituisce un’esemplificazione cristallina. Nell’opera di Cesarano è
assolutamente evidente la tensione cui si sottopone l’individualità stessa
del rivoluzionario: il tono drammatico esprime come non si tratti certo «solo»
di «teoria». L’attacco contro l’identità fittizia è portato a fondo. La
critica mette in discussione l’Ego «rivoluzionario» stesso, le sue maschere
autovalorizzanti, e i diversi ruoli che deve forzatamente interpretare nella
dimensione irreale della
sopravvivenza. La vera guerra è una
dimensione di cui, sottolineando la natura «biologica» della rivoluzione, si
chiarisce, al di là di ogni possibile equivoco, la materialità.
È «guerra d’amore»:
di carne, sangue, sofferenza ed estasi.
Ciò che, di
questa dimensione soggettiva specifica, può, dopo tanti anni, e tante disfatte,
sfuggire al rivoluzionario che legga oggi Critica
dell’utopia capitale è l’esigenza, quasi preliminare, di Cesarano di
sfuggire a ogni nuova ideologia.
Infatti, mentre
lottava a fondo contro la riconciliazione, sotto qualsiasi forma, con la società
del capitale, egli doveva mantenere una critica intransigente di quella
neo-precettistica rivoluzionaria, di quei nuovi modelli di «stile di vita»,
che proprio in quegli anni erano ben presenti nell’ambiente a lui più vicino.
Ricapitolando, la
lotta di Cesarano doveva svolgersi simultaneamente su vari piani: da una parte
la critica concreta, la vera guerra,
l’affermazione della dimensione più profonda del comunismo, risoluzione di
tutte le contraddizioni dello sviluppo della preistoria, «affermazione della
specie umana», della vera Gemeinwesen dell’uomo, affermazione «a titolo
umano», ma che non prescinde assolutamente dalla contraddizione vivente che la sostanzia: l’individuo
rivoluzionario, «sospeso» sull’ignoto, ma in movimento con una direzione ben
precisa verso l’estasi, l’avventura, la passione, messo alla frusta dalla
sua fame di nuovo e di autentico: armato solo di capacità critiche e di
creatività, privo di esperienze storiche prefabbricate, incontrava sul suo
cammino trappole sempre più numerose. Per cui Cesarano doveva evitare ogni
possibile ricaduta in una precettistica della radicalità, in
quell’intransigenza formalizzata di cui aveva già potuto constatare gli
effetti. Nello stesso tempo aveva ben presente lo stemperarsi del movimento
rivoluzionario nella sua dimensione più ampia, mondiale, nelle nuove ideologie
fornite dal recupero dello «stile dei Sixties».
Se, per esempio, fino al ’67, l’esperienza degli hippies statunitensi aveva
costituito un aspetto nuovo e autentico del movimento rivoluzionario, già
all’inizio degli anni Settanta il capitale aveva fatto saldamente propria
l’ideologia «trasgressiva» degli «alternativi» californiani, e la stava
diffondendo su tutti i mercati dell’ideologia.
Cesarano affermava
il profondo contenuto «individuale» della rivoluzione, la critica implacabile
di tutte le forme della quotidianità alienata incorporata definitivamente dalla
rivoluzione a partire dagli anni Sessanta; negava l’autonomizzarsi della
teoria in dogmatismo terroristico, in quella sorta di falloforia del negativo
che aveva preso, attorno a lui, la forma di ideologia dell’«illegalità», di
elogio del teppismo e del furto; e attaccava la diffusione ormai generalizzata
di frammenti di critica della vita quotidiana da parte delle centrali culturali
direttamente sottoposte al capitale, che coinvolgeva ampi settori di movimento
giovanile già contestatari.
Negli anni
Novanta, il capitale diffonde i propri messaggi in modo estremamente più
diretto e non ha alcun problema a propagandare le ideologie più reazionarie e
decrepite. Perciò oggi può sfuggire la necessità dei veri e propri tour de
force critici che Cesarano dovette effettuare per non rischiare di riproporre un
modello ideologico di radicalità immediatistica, o un ammiccamento
giovanilistico à la Marcuse, nel mentre in cui faceva riferimenti chiarissimi
all’lsd e, più in generale,
all’abbattimento dei confini dell’Ego.
In Critica
dell’utopia capitale Cesarano spiega chiaramente come nel delirio
schizofrenico cada il muro con cui il linguaggio prodotto imprigiona la
comunicazione, e quindi cada la barriera percettiva che traccia il confine tra
Ego e mondo, aprendo la possibilità esplosiva di un rapporto dialettico tra
individuo e altro. Nello stesso tempo
deve denunciare il rischio della «dannazione privata» che attende «chi
nell’esplosione del senso vivo vissuto come peripezia individuale ha voluto
bruciare tutt’insieme la totalità del proprio senso»[21],
e nel Manuale di sopravvivenza sente
l’esigenza di mettere in guardia contro nuove forme di autovalorizzazione che
trasformino l’esperienza «psicotica» o «nevrotica» in un nuovo ruolo
spettacolare.
Effettivamente, da
tanti punti di vista, oggi le cose si
sono semplificate. Il capitale ha superato la fase in cui estraeva
dall’esperienza psichedelica nuove forme culturali e artistiche o, su di un
altro piano, si annetteva vasti settori di nuove generazioni tendenzialmente e
spontaneamente ribelli. Oggi è attualissimo l’individuo tratteggiato in Critica
dell’utopia capitale che percepisce con una vertigine il proprio
appartenere a un mondo Altro da sé, e l’impossibilità di comunicare con le
altre persone che, fuori dall’allucinazione, gli appaiono come maschere. È,
tra l’altro, proprio nella descrizione della realtà allucinatoria del flusso
continuo di rapporti alienati costituente la quotidianità del capitale, in cui
l’individuo impersona via via i ruoli del suo ciclo di valorizzazione – al
lavoro, in famiglia, nei rapporti «sentimentali» codificati –, che Cesarano
scrive alcune delle sue pagine più forti, che possono essere immediatamente
fatte proprie dal rivoluzionario «perso» nella realtà di oggi.
Adesso, ancor più
presente di allora è il rischio di sradicamento e di smarrimento completi,
poiché manca il rapporto con un passato recente di rivolta generalizzata.
16
L’attività del Centro d’Iniziativa Luca Rossi
Per questo,
acquista rilievo un’attività quale quella intrapresa dal Centro
d’Iniziativa Luca Rossi che sintetizziamo come segue:
1) chiarificazione
della tradizione rivoluzionaria, necessaria per stabilire dei princìpi che
siano al di là delle vere e proprie ondate di barbarie con cui il capitale
investe il mondo che ha colonizzato (razzismo, guerra, riproporsi sanguinoso di
problematiche nazionali anteriori al primo conflitto mondiale, espansionismo
guerrafondaio delle religioni del passato), con particolare riguardo alle
correnti ultrasinistre nell’epoca del fascismo e dello stalinismo.
Questo lavoro
implica la ripresa dei progetti iniziati ma non portati a termine negli anni
Settanta: affermazione del comunismo e sua descrizione positiva. Perché bisogna
far fronte alla mistificazione che accompagna il crollo di ciò che
settant’anni di controrivoluzione hanno contrabbandato come «comunismo», e,
nel contempo, fascismo e razzismo non sono più spauracchi spettacolari ma
giganteschi zombies armati di tutto punto;
2) realizzare un
bilancio della corrente radicale italiana, perché la fretta rivoluzionaria di
quegli anni ha «bruciato» una serie di questioni senza risolverle, e ha
incontrato una clamorosa impasse nel momento potenzialmente più favorevole (il
’77), per cui tutta quella esperienza storica va delimitata, traendone le
dovute lezioni. Vi è la precisa esigenza, tra l’altro, di rendere disponibili
i risultati di quella vicenda, ma non è pensabile riproporli separatamente da
una discussione che li renda comprensibili e criticabili anche dai rivoluzionari
di oggi. Si tratta perciò di affrontare il duplice compito di diffondere i
principali testi radicali degli anni Settanta e di tentarne un bilancio critico;
3)
nell’immediato, evitare di ripetere quello che già allora era un errore e
oggi sarebbe del tutto improponibile: cioè la valorizzazione dell’isolamento
(che rende astratta e inverificabile l’attività teorica). Al contrario, vanno
valutate con estrema cura e senza alcuna trascuratezza le esperienze dei
rivoluzionari nei luoghi di lavoro, negli organismi di base del proletariato,
nei Centri sociali, giacché esse sono una linfa vitale, senza la quale oggi non
sono realizzabili nemmeno i compiti preparatori riguardo la tradizione
rivoluzionaria.
Una lezione che si
può trarre immediatamente dalla teoria radicale degli anni Settanta è che i
rivoluzionari non possono separarsi da concreti rapporti con le lotte sociali
senza imboccare le tangenti che già abbiamo visto percorrere da tanti geniali
pensatori ex-rivoluzionari; e, nello stesso tempo, non possono rinunciare alla
concreta e vissuta critica della vita quotidiana senza penose ricadute nel
nichilismo passivo;
4) non avere paura
di tutte le soluzioni organizzative e organizzate che possano servirci per
raggiungere la piena efficacia operativa.
Nelle condizioni
attuali di profonda crisi del capitalismo, da cui non sboccia però il fiore del
proletariato internazionale rivoluzionario, e nemmeno un chiaro movimento di
classe in grado di autodifendersi, i rivoluzionari vivono tutti i rischi tipici
delle fasi precedenti di riflusso, ma non hanno più alcun rapporto storico con
un movimento di lotta globale recente. Quindi in un certo senso, ben più che
negli anni Settanta, si trovano a procedere sull’orlo dell’abisso, insidiati
dalle trappole della disperazione, della delusione, della crisi «catastrofica»
di devalorizzazione, in cui è però sempre più difficile trovare una via
d’uscita di attacco e di rivolta, che, in fondo, rispetto a oggi, era allora a
portata di mano. Perciò nessuno può più permettersi alcuna indulgenza sul
terreno dell’isolamento. Comunità, organizzazione e solidarietà
rivoluzionaria sono esigenze urgenti, di cui si avverte drammaticamente la
mancanza, ma la cui realizzazione è terribilmente lontana. Tutto ciò va nel
senso di un forte legame tra i rivoluzionari, da realizzare senza riproporre
alcun settarismo. Lo stadio attuale di lavoro «preparatorio», di
chiarificazione dei princìpi, richiede oltre che coerenza e intransigenza,
anche un grande arricchimento di contatti, di fonti, di discussione.
L’ambiente rivoluzionario in quanto tale è troppo asfittico, è una parodia
«nostalgica» di quello che fu, per potere costituire da sé solo un valido
punto di riferimento. Per questo ci servono tutti gli apporti, per creare un
po’ di circolazione di idee, di ricerche, di studi, che pongano almeno le
condizioni minime di una ripresa.
Non ci potrà più
essere movimento senza princìpi e senza teoria, ma non riprodurremo la chiusura
mentale tipica del tramonto dei radicali.
17
Esaurimento della corrente radicale nel periodo di riflusso
Viviamo un
presente tragico e sanguinoso. La crisi attuale manifesta simultaneamente i
classici tratti di una battuta d’arresto dell’economia in senso stretto
(disoccupazione, sovrapproduzione, supersfruttamento, concorrenza sfrenata,
esportazione del disastro in Africa e in America Latina) e in senso lato
(incapacità di controllo della situazione mondiale[22], tracollo finanziario,
carestie, guerre, distruzione forsennata dell’ambiente e delle risorse).
Insieme agli
aspetti della bancarotta generale denunciati dalla teoria radicale negli anni
Settanta con la demistificazione dell’«apocalittica» del capitale, tornano
sulla scena storica tutti i conflitti interetnici, razziali e religiosi, in
apparenza propri di fasi precedenti dello sviluppo capitalista. Il capitale non
ha risolto nessuno dei problemi che ha iniziato a creare dall’epoca della sua
espansione planetaria alla fine dell’Ottocento. All’interno delle cittadelle
dell’iper-sviluppo capitalista le patologie irrisolte della società
(criminalità, violenza cieca, e psicosi), sintomi di una crisi profonda, si
sono stabilizzate come incubo quotidiano di milioni di proletari.
Si fa più che mai
pressante l’esigenza di armi teoriche atte a distruggere le trappole delle
false alternative riattualizzate e attivate dai conflitti e dal caos che
circonda da Sud e da Est l’Europa «civilizzata», e che ormai s’insinua nei
suoi ghetti coi lineamenti del razzismo, dell’integralismo islamico e
dell’orrendo fascismo, di tutto ciò che all’inizio della nostra vicenda ci
sembrava un residuo del passato, ormai condannato senza speranza. Per analizzare
e combattere, servono i princìpi del
programma comunista, punti di riferimento che non possiamo trarre solo dal
nostro presente, dal museo degli orrori che ci assedia. La posizione comunista
rivoluzionaria di fronte alle guerre mondiali, all’internazionalismo, alle
questioni di razza e nazione è perfettamente attuale; al di fuori di essa non
si danno prospettive che non conducano a guerre e a pogrom. Accanto a essa la
complessa e variegata «critica radicale» costituisce la sintesi più completa
dei movimenti rivoluzionari recenti nelle metropoli del capitalismo. Nel loro
insieme, globalmente più ricco e vasto della prospettiva comunista radicale
propriamente detta – che ne costituisce solo una componente, per di più
limitata nel tempo –, questi movimenti esprimono anche delle caratteristiche
nuove e che hanno arricchito la prospettiva comunista. Con grande coerenza
Giorgio Cesarano, traendo la propria prospettiva storica dal movimento del
’68, quando parlava di «critica radicale» faceva riferimento ai precedenti
dell’Internationale Situationniste – e, in misura minore, di «Socialisme ou
Barbarie» – in Francia, e a Ludd – e, in minore misura,
all’Organizzazione Consiliare e a Comontismo – in Italia. A Cesarano
interessava ciò che si stava manifestando di nuovo e di diverso
rispetto al movimento operaio e alla tradizione
rivoluzionaria. Le nostre esigenze attuali sono altre. Oggi noi dobbiamo
ricercare un maggiore radicamento storico di fronte alla tempesta del presente e
perciò situarci più profondamente nello spazio e nel tempo, riprendere lo
studio (allora arenatosi su conclusioni provvisorie) della teoria di Marx e
della sua parziale ripresa attorno al 1920 (negli anni Settanta era impensabile,
p. es., che la questione balcanica o il conflitto turco-armeno trovassero
quotidianamente spazio sulle prime pagine e nei telegiornali).
Chiarite le
proprie premesse storiche, la teoria di Cesarano si apriva all’infinito verso
il futuro, verso la prospettiva rivoluzionaria, e si accingeva all’immane
compito di fornire le sue ragioni e i suoi strumenti alla futura rivoluzione,
presentita certo ben più prossima di quanto non sia percepibile a noi, ora. In
questo lavoro illimitato egli pensava si stessero già coinvolgendo le riviste e
i gruppi radicali di allora («Invariance», «Errata», «Négation») e tutta
una serie di individui e di situazioni – al cui centro stava Puzz-Situazione
Creativa – che sembrava si stessero mettendo in moto alla metà degli anni
Settanta. Per questo non ci si deve ingannare, traditi da una rappresentazione
anacronistica, sul carattere della sua opera: una ricerca aperta, inconclusa,
ansiosa di confrontarsi con altri apporti. Invece, Cesarano rimase
sostanzialmente isolato. La corrente teorica cui faceva riferimento s’inaridì.
Il periodo del riflusso post-’68 indebolì gravemente la corrente radicale,
che verso la fine del decennio divenne quasi del tutto incapace di produrre
analisi critiche, e negli anni Ottanta fornì solo apporti sporadici, isolati,
non più, a nostro avviso, riconducibili a un punto di vista comune.
Il progressivo
sgretolarsi della teoria radicale fu segnato da due debolezze principali:
l’innovazione teorica a ogni costo; la mancanza di sbocchi pratici, sociali,
che generò l’atteggiamento nichilista-passivo.
Lo stesso Cesarano,
e con lui buona parte di Ludd, percepiva il movimento rivoluzionario come
qualcosa di completamente nuovo, in nessun modo erede della tradizione
rivoluzionaria precedente. Questo atteggiamento produsse in lui l’esigenza di
una nuova grande sintesi, che andasse nettamente al di là dei limiti
contingenti del momento, e a cui si dedicò con spirito appassionato di
ricercatore, buttandosi a capofitto in una grande battaglia teorica che
attaccasse simultaneamente i fronti nemici dell’economia, della psicoanalisi,
della linguistica ecc. Tuttavia Cesarano, anche quando usciva dai confini della
teoria rivoluzionaria classica – che peraltro riteneva in buona parte superata
e da superarsi da parte della «nuova» teoria che inevitabilmente avrebbe fatto
la sua comparsa con la nuova rivoluzione –, tuttavia non l’abbandonò mai
per arretrare sul terreno del riformismo, del pacifismo o di qualsiasi altra
ideologia «conciliatoria» del capitale.
Da parte di molti
altri l’innovazione teorica fu invece sostanzialmente lo strumento da scasso
non delle scienze del capitale ma degli stessi princìpi rivoluzionari.
Su questa linea
molti rivoluzionari si misero a inseguire una novità teorica dopo l’altra,
una scoperta dopo l’altra, fino al rinnegamento completo delle premesse e
all’abbandono definitivo della prospettiva rivoluzionaria. Tra coloro che
erano più vicini a Cesarano abbiamo già accennato alle svolte di 180° d’«Invariance»;
potremmo citare anche il caso di Gianni-Emilio Simonetti, più nettamente
opportunista nella ricerca di uno sbocco dalla
teoria rivoluzionaria, ottenuto attraverso un approfondimento «critico» di
tutte le varie mode culturali e filosofiche del momento.
L’esaurirsi del
movimento nella società, favorì invece il riflusso di molti dei nostri
compagni nel nichilismo passivo. Si è già sottolineato come in Cesarano la
critica dell’ideologia quotidianista non corrispose mai ad alcun rilassamento
della tensione individuale, ad alcun abbassamento del livello della critica
sempre rivolta alla «vita» alienata. In molti casi invece la perdita
dell’impegno sociale significò semplicemente un cedimento anche nella vita
quotidiana, un ritorno di tutte le abitudini precedenti, della formidabile forza
d’inerzia della struttura provinciale e familiarista tipica della società
italiana.
Molto spesso al
terrorismo ideologico dei comontisti si contrappose un puro e semplice
atteggiamento specularmente opposto, cioè legalitario e conformista, passivo,
incapace di ritrovare le ragioni della propria rivolta, nel momento in cui
veniva meno l’atmosfera calda, viva, della lotta e della critica sociale
collettiva. Per molti lo scioglimento di Ludd, p. es., significò solo un
ritorno a una condizione di vita in qualche modo precedente, o un inserimento
nelle istituzioni universitarie ecc.
In alcuni casi pesò
negativamente in questo senso uno dei riferimenti teorici principali di Cesarano,
cioè Adorno e la Scuola di Francoforte. Mentre in Cesarano fu sempre ben chiara
la tensione dialettica che lo distingueva dai teorici «critici» tedeschi,
separati dal movimento rivoluzionario, da altri fu parodisticamente imitato il
loro atteggiamento di distacco critico, che finiva per produrre un riflusso
nell’accettazione del presente e della sopravvivenza. Si potrebbero
ripercorrere tante vicende individuali, ma sostanzialmente quel che importa
sottolineare è l’indebolimento generale della corrente rivoluzionaria. In
questo senso fu possibile fare un uso «controrivoluzionario» dello stesso
Cesarano. Tipica fu la cantonata di coloro che pervennero alla «critica della
politica» proprio nel momento in cui – dal ’75 in poi – la situazione
sociale cominciava a riaprirsi. Il sabotaggio di «Puzz» fa parte di questo
percorso (cfr. i due numeri pubblicati di «Provocazione»). In parte anche come
reazione al cripto-gruppo comontista che collaborava con «Puzz» (Comontismo,
benché sciolto, continuò a esistere informalmente fino al 1977)[23]
alcuni degli animatori della rivista imitarono l’atteggiamento d’«Invariance»:
distruzione di ogni forma organizzativa, ancorché informale, nonché di ogni
espressione collettiva, per non parlare di azione pratica o d’intervento a
fianco dei movimento sociali di più ampia portata che cominciavano a
manifestarsi. Proprio quel rinascere dell’effervescenza sociale che aveva
tanto appassionato Cesarano alla fine della sua vita, fu liquidato in quanto «politica»
o «nichilismo», una tipica scoperta dei neofiti della teoria radicale[24]. E la fragilissima
aggregazione di Quarto Oggiaro, formata da ragazzi molto giovani (che si stava
ramificando in altre città) venne sabotata, al fine di sviluppare la «soggettività
critica»[25].
Effettivamente in Cesarano il concetto di «autogenesi creativa» esiste, ma non
è contrapposto all’attività collettiva e coerente di una comunità o di un
gruppo. Invece questo concetto venne diffuso come soggettivismo, individualismo,
elogio dell’isolamento (contro cui Cesarano aveva condotto la sua battaglia
estrema), realizzando dei classici esempi di «autovalorizzazione dell’Ego»
permessa dai ruoli di intellettuale creativo e critico cólto, che dovevano
evidentemente essere affascinanti per dei giovani con lo spirito del parvenu
della critica radicale. Ovviamente alcuni di costoro andarono poi a parare nella
vecchissima solfa dell’autovalorizzazione artistica e delle regressione
filosofica. Peggior uso possibile di Cesarano. La sua teoria venne tradita
sfruttando quel senso di vuoto che deriva dall’eccessiva ampiezza della sua
visione, che rende troppo astratta la sua esposizione, che a tratti pare
sconfinare nella filosofia. Proprio ciò che sconcerta il lettore rivoluzionario
che fatica a comprendere Cesarano in modo equilibrato diventò un punto di forza
per chi voleva crearsi un ruolo come autore di aforismi moralistici. Fu compiuta
così la regressione verso i campi della filosofia, dell’intellettualità,
dell’arte, che Cesarano pensava di avere devastato irrimediabilmente.
In Cesarano
l’atteggiamento intrepido che privilegia il gesto inconsulto di violenza e
rivolta, la follia, era forzatamente meno sviluppato dell’analisi delle teorie
del nemico. Fu facile perciò, magari col condimento di un po’ di critica del
nichilismo contemporaneo, considerare caduche le poche formulazioni che
chiaramente difendono la rivolta dei pazzi o dei criminali, ed estrapolare tutta
la parte che prendeva le distanze dalle manifestazioni del movement esistente, o
che metteva in luce la parzialità dei conflitti particolari o il loro recupero,
per fondare la ritirata in una critica distaccata, ostile al reale, ma senza
nemmeno un briciola dell’autentica passione distruttiva propria di Cesarano,
che a tratti ne armava la critica di un eroico furore. Le caricature di Adorno
che continuavano l’esercizio critico come una sorta di hobby snobistico non si
accorgevano nemmeno della rozza rabbia degli Autonomi che cacciavano a bastonate
Luciano Lama dall’università di Roma, o dei bassi bisogni che portavano i
disoccupati delle metropoli a occupare le case, a saccheggiare i supermercati, a
sfruttare la contraddizione momentaneamente riapertasi nella riproduzione
sociale per sbarcare la sopravvivenza con i furti, a scagliarsi negli scontri
contro la polizia con la gioia derivante dalla rabbia lungamente repressa e
dall’accumulo delle frustrazioni. Il problema non stava certo nel fatto che ci
fosse troppa violenza o che nel movimento circolassero con estrema frequenza le
armi da fuoco. Eppure anche queste critiche da educande vennero fuori dalla
corrente radicale in via di putrefazione nel ’77.
Giocò anche un
equivoco intorno alla questione del «capitale totale»[26].
Questo punto, effettivamente centrale per esempio in Critica dell’utopia capitale, se bevuto sine grano salis dallo
zelante neo-critico radicale, gli faceva credere che il processo rivoluzionario
fosse un fatto strettamente interiore, che si trattasse di lottare solo per
espellere da sé l’armatura capitalistica. Questa ottica intendeva realizzare
quei rapporti tra individui autonomi «al livello più alto della teoria»
auspicati a suo tempo da «Invariance».
L’isolamento
diveniva un fattore autovalorizzante: ciascuno degli eletti teorici portava il
suo granello di valore, rispecchiando l’autocompiacimento altrui. Nel pieno
del ’77 questo atteggiamento significava nichilismo passivo, neutralismo,
abbandono del campo rivoluzionario, ormai svuotato di ogni senso. Questo iper
soggettivismo portò proprio all’abbandono puro e semplice del fronte
individuale dello scontro (la critica della vita quotidiana); il risultato
finale fu sempre nichilista passivo.
18
la grande occasione del ’77
Verso la fine del
’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città
d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li
rese incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano
occasioni d’incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente
Autonomia.
Per limitarci a
fornire un solo esempio di questo atteggiamento, abbiamo considerato
l’infelice esito di «Provocazione», la rivista succeduta a «Puzz», con
maggiori ambizioni teoriche.
A partire dalla
fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato Giovanile,
preannunciata dagli scontri della primavera del ’75, la situazione italiana si
riaprì rapidamente, e tornò a offrire ai rivoluzionari ricche occasioni di
comunicazione col sociale.
La comparsa sul
palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in sé una
novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata solo una
forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo
dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta della pratica
dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico
dai gruppi autonomi aprì un varco nel quale poterono irrompere i selvaggi delle
metropoli.
Verso la fine del
’76 si susseguirono a tambur battente gli espropri proletari di massa. I
Circoli del Proletariato Giovanile condussero i giovani delle periferie a
diffuse occupazioni di case nei centri metropolitani. A Milano l’Università
Statale, tempio dello stalinismo, venne duramente devastata.
I grandi movimenti
di Roma e Bologna dei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno delle grandi
rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato dai radicali
per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale e la durata
del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una situazione
ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto questa
volta la politica militante dei gruppettari che per tanti anni aveva costituito
un freno e un blocco, con cui volenti o nolenti i rivoluzionari avevano dovuto
fare i conti, fu investita subito dalla critica feroce e irridente di un
movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di lottare per sé,
per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il lavoro, per cambiare
immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso aperto l’assedio del
mondo delle merci.
Inoltre stavolta
il blocco staliniano pci-cgil venne
identificato come il nemico: si schierò subito apertamente contro il movimento,
e per la prima volta perse completamente il controllo della piazza.
La situazione
bolognese, estremamente ricca ai suoi inizi, vide l’entrata in scena di Radio
Alice-A/traverso, che con la formula del neo-dadaismo si cimentò addirittura
nel recupero dei situazionisti. Ciò – al di là dell’estrema ambiguità di
questa formazione[27],
rientrata nei ranghi di fronte alla repressione seguita al fatti di marzo –
dimostra l’enorme potenzialità che si apriva al movimento rivoluzionario, e
che quest’ultimo non seppe sfruttare.
L’Autonomia
Operaia romana, che metteva in campo un’eccellente organizzazione, sorretta da
un radicamento sociale ben articolato e assai profondo, pose i suoi notevoli
mezzi tecnici, innanzitutto Radio Onda Rossa, a disposizione dei «radicali»,
tanto erano grandi la sua fame di teoria e il suo bisogno di idee e di
prospettive di fronte al tentativo d’isolamento e di accerchiamento successivo
alle battaglie di marzo. Gli autonomi di Via dei Volsci erano troppo barbarici e
schietti per riuscire digeribili anche agli stomaci di ferro dei recuperatori di
professione. Mancava loro qualsiasi attitudine alla riconversione in
intellettuali, e il loro protervo militantismo da anni Cinquanta li rendeva
inadatti a introdurre qualsiasi nuova moda nel movimento, entrando nel ruolo per
eccellenza moderno degli operatori culturali. Per forza di cose non restava loro
che opporsi tenacemente a tutto ciò
che non rientrava nel loro scopo principale: mettere a ferro e fuoco la città
di Roma un paio di volte al mese, nel corso di scontri con la polizia gestiti
con grande intelligenza e un perfetto senso tattico della misura. Si trattava di
gente che non aveva assolutamente niente a che vedere con la teoria radicale:
puntavano al sodo con grandi capacità organizzative; il loro incontro con gli
epigoni della teoria radicale fu positivo e costituisce un’eccezione in quegli
anni di demissione vergognosa.
In queste
circostanze molto favorevoli l’unico sbocco concreto dei radicali fu la
rivista «Insurrezione», la cui produzione, tra l’altro, fu per i pochissimi
elementi che la realizzarono estremamente secondaria rispetto
all’entusiasmante peripezia che si apriva tra le belle città italiane in
lotta.
È vero che un
prezzo pesante fu pagato anche al «nichilismo attivo»: proprio mentre i
giovani dell’Autonomia continuavano a staccarsi dalle organizzazioni, stanchi
di essere usati come strumenti dalla leadership opportunistica di Toni Negri, vi
fu una componente di origine radicale che fraintese tutto e, invece di
soddisfare l’esigenza diffusa di un supporto teorico, di esperienza e di
consapevolezza – che mancavano a un movimento estremamente disarmato
da questo punto di vista –, si fece prendere dal complesso d’inferiorità
verso i militari del terrorismo politico e tentò di far loro concorrenza sullo
stesso terreno. Il caso di Azione Rivoluzionaria fu l’esempio più eclatante
di questa ondata autocolpevolizzante, e il suo esito disastroso rasentò
l’autodistruzione. Ma vi furono altri casi – per fortuna non altrettanto
spettacolari – d’imitazione grottesca e impotente di quel militarismo che
costituiva uno degli aspetti più deboli del ’77.
Il movimento di
quell’anno era composto quasi interamente da elementi molto giovani. Il
manifestarsi di un’«ala creativa» fu espressione dell’esigenza profonda di
staccarsi dall’orbita della politica per cercare nuovi strumenti teorici
adatti al deturnamento di tutti i ruoli della sopravvivenza. In assenza della
corrente radicale, scioltasi come neve al sole dopo i primi mesi del ’77 di
fronte alle prime concrete difficoltà del movimento, colpito assai
efficacemente dalla repressione statale (che allora aveva il pieno sostegno di
tutta la sinistra picista ed extraparlamentare), ciò che si espresse
effettivamente nell’«ala creativa» fu la tendenza più debole e
opportunistica, che tese a contrapporsi a una condotta coerente e intransigente,
divenendo uno dei tanti «freni» del movimento.
Si dovette
constatare che l’esperienza collettiva di cui avevamo fatto parte, si era
esaurita, non aveva retto al logoramento del quinquennio precedente.
In alcuni aveva
prevalso un atteggiamento risentito verso la classe che non aveva «voluto»
essere rivoluzionaria. Da cui l’analisi che rinnegava totalmente la concezione
della lotta di classe, considerava il proletariato come controrivoluzionario, ed
elogiava l’immediatismo, purché aggressivo, violento, folle. Grosso modo è
questo atteggiamento psicologico-teorico che avrebbe dato il via al nichilismo
attivo, armato. La sfiducia nella classe rivoluzionaria – non più tradita ma
traditrice – produsse la sostituzione del proletariato da parte
dell’avanguardia rivoluzionaria stessa, che provvedeva a prendere direttamente
le armi in prima persona. Questa tendenza provò a ricattare tutti col senso di
colpa verso le vittime che ben presto la repressione statale fece nelle sue
fila, diffondendosi nelle metropoli dove lo scontro era più duro. Ma ebbe breve
durata, dato il suo scarso respiro organizzativo. Più che altro brillò di luce
riflessa delle imprese degli stalinisti delle Brigate Rosse.
In altri, invece,
il ruolo privilegiato assunto dalla teoria generò l’equivoco d’identificare
la rivoluzione con la produzione di qualche pamphlet in cui criticare tutto e
tutti. Questa tendenza, che aveva i suoi precedenti nel nichilismo passivo già
descritto prima, ebbe l’effetto più disastroso: alla passione rivoluzionaria
si sostituirono grottesche ambizioni intellettualistiche. Tale atteggiamento
ebbe la sua più tipica diffusione in paciose realtà di provincia, dove un
certo atteggiamento saputo poteva produrre risultati autovalorizzanti. Oppure in
altre realtà, al primo affievolirsi del movimento, mancando le occasioni per
criticare il gauchisme degli autonomi, la «teoria» dei radicali finì con
l’isterilirsi da sola per mancanza di oggetto, e la pratica con l’esaurirsi
nel solito isolamento compiaciuto dalla realtà della volgare plebaglia rossa.
Entrambe queste
tendenze avrebbero potuto trovare il loro antidoto nelle opere di Cesarano, se
lo avessero capito. Tra l’altro egli aveva fornito tutti i dati per una
critica dei processi di autovalorizzazione dell’Ego e per il rifiuto senza
appello delle putride piste dell’arte e della cultura, e in Cronaca
di un ballo mascherato – testo scritto insieme a Piero Coppo e Joe Fallisi
– aveva prodotto per tempo una critica esauriente dello sviluppo e del destino
del lottarmatismo.
19
Conclusioni
Naturalmente
quando parliamo di fine dell’esperienza radicale, vogliamo esprimere una
valutazione storica, delimitare una corrente per superarla. Ciò non significa
certo dire che gli individui che la componevano non abbiano continuato ad agire
e a sviluppare la stessa prospettiva; anzi proprio l’assoluta intransigenza
tipica della corrente comunista radicale nei confronti di tutti i tentativi di
recupero ha permesso che una tendenza rivoluzionaria abbia continuato a
esprimersi fino a oggi[28].
«Insurrezione» produsse in tutto cinque pubblicazioni tra il ’77 e l’81. A
Milano un’aggregazione di «radicali», riunificata nell’occasione con il
nucleo di «Collegamenti», tentò fra il ’79 e l’81 di dare vita a una
radio (contemporaneamente «Rosso» dava vita a Radio Black-out). Abbiamo già
ricordato l’esperienza di «Maelström». Vanno segnalati almeno i due
notevoli interventi di Mario Lippolis: Teoria
radicale, lotta di classe (e terrorismo)[29]
e Ben venga Maggio e ’l gonfalon
selvaggio[30] (quest’ultimo, tra
l’altro, fornisce un’ampia analisi della corrente radicale, che la delimita
storicamente secondo una periodizzazione che ha evidentemente influito anche su
questo nostro intervento).
Tuttavia queste
manifestazioni appartengono già alla nuova epoca, quella del grande
riflusso successivo al ’77: le ultime due pubblicazioni d’«Insurrezione»
sono dedicate quasi interamente a un’analisi del riflusso; «Maelström»,
come noi, intendeva tracciare un bilancio critico degli anni Settanta, da cui
far scaturire una nuova prospettiva.
Nelle condizioni
attuali si ripropongono in tutto il loro tragico peso le «questioni di razza e
nazione» e questo sarà certamente un caposaldo della critica del prossimo
futuro. La prospettiva internazionalista, la necessità del superamento delle
nazioni, delle religioni, del razzismo si ripropongono in tutta la loro attualità
in un momento in cui il mondo è devastato dal nazionalismo, dal razzismo e dai
nuovi integralismi religiosi. La stessa situazione italiana è oggi segnata dal
localismo e dal razzismo, che c’impongono non solo le tematiche con cui
dovremo inevitabilmente confrontarci, ma anche il taglio con cui affrontare la
questione del comunismo, che va fondato proprio in quanto antitesi dei
particolarismi rivitalizzati dal capitalismo decrepito della nostra epoca.
Vi è stato un
lungo momento storico in cui tali questioni apparivano ormai superate da un
capitale totalitario arrivato a omogeneizzare tutte le classi sociali e a
unificare tutto il globo sotto il suo dominio, lasciando ai conflitti etnici e
religiosi, circoscritti all’Asia e all’Africa un ruolo di spauracchio
nell’informazione-spettacolo. Si è trattato di un’illusione, indubbiamente
condivisa dalla teoria radicale (e dallo stesso Cesarano fin dai tempi de L’utopia
capitalista), che ha trascurato l’analisi di contraddizioni apparentemente
superate per spingersi a volte, alla ricerca di una sintesi superiore, lontano
dal campo insanguinato della storia sfuggendo in parte alla contraddittorietà
del presente. Questa debolezza dell’analisi è stata il prodotto delle
illusioni generate dal movimento sovversivo del ’68: a tratti la teoria
radicale è stata quasi affascinata dal «capitale totale» in grado di
assorbire e riprodurre a propria immagine tutti i conflitti lasciati irrisolti
dalle epoche delle guerre e dei colonialismi.
Il movimento
rivoluzionario degli ultimi decenni non deve tuttavia essere sottovalutato, in
favore della tradizione rivoluzionaria classica, che pure sta trovando tante
conferme negli eventi contemporanei. Questo perché esso ha portato dei
cambiamenti irreversibili nella coscienza collettiva del superamento necessario.
In particolare
l’esperienza del movimento «controculturale» del passato, se è stata per
parecchio tempo rimasticata dalle ganasce del mercato e diffusa sotto forme
merceologiche, nondimeno ha portato alla luce una consapevolezza fondamentale,
un dato centrale, sviluppato in tutta la sua portata dalla critica radicale e in
particolare proprio da Cesarano, ma manifestatosi anche nel femminismo, nel
movimento giovanile, soprattutto americano, e in tutti coloro che hanno
esplorato le peripezie della follia, della ricerca dell’allargamento della
coscienza e delle potenzialità umane: la rivoluzione moderna mette
profondamente in discussione il principio d’identità personale e collettivo,
l’Ego come sede separata e gerarchicamente dominante, il pensiero che si
pensa. La rivoluzione moderna si affaccia sull’abisso degli istinti,
dell’inconscio, del rimosso, per spiccare il volo alla ricerca dell’estasi,
del superamento dell’individualità nella dialettica coi mondi che sono
attorno a noi. Il decennio ’67-’77 ha modificato irreversibilmente la
soggettività rivoluzionaria e il suo modo di percepirsi. In questo senso torna
sul cammino delle tradizioni religiose e della magia, per svelare conoscenze che
nei secoli sono state sequestrate dall’esoterismo delle caste dominanti
precapitaliste.
Queste conclusioni
ci portano nettamente al di fuori dei confini di questa trattazione, ma Cesarano
nella sua opera sa porre un possibile approccio a quest’avventura conoscitiva,
escludendo l’impossibile ritorno delle tradizioni ma senza negarne il profondo
nucleo di verità. Il superamento del capitale implica il superamento delle
tradizioni arcaiche, che si stanno estinguendo sotto la riduzione di tutto a
mera funzione dell’economia. La rivitalizzazione odierna della religione e
delle tradizioni profonde di popoli e razze, costituisce solo il travestimento
di conflitti interni al capitalismo e in realtà sempre agiti contro il
proletariato, che non ha più, da molto tempo, alcun tratto nazionale o
religioso da difendere. Quelle che oggi si presentano come forze tradizionali
sono solo le frazioni più guerrafondaie e sanguinarie del capitale mondiale,
che inquadrano il proletariato in mostruose comunità sottoposte a ideologie
totalitarie. Nessuna delle moderne ideologie nazional-religiose grottescamente
comunitarie[31]
ha più nulla a che vedere con i contenuti delle tradizioni: si tratta solo di
manifestazione della «modernità» decrepita
del capitale contemporaneo.
Il nucleo del
superamento presente delle tradizioni – il superamento dei limiti del Sé
individuale – sta tutto altrove e può essere ritrovato: anche di questa
ricerca Critica dell’utopia capitale
fornisce valide basi. Nei suoi punti di forza e nei suoi limiti, questa
prospettiva costituisce un ulteriore livello di lettura, forse il più profondo
e autentico, dell’opera che abbiamo riproposto.
luglio 1994
[1] Quest’attività si colloca in un momento che vede, finalmente, la reperibilità dei principali testi di riferimento della «corrente radicale». In particolare va segnala la prima traduzione italiana integrale dell’«Internationale Situationniste», comparsa quest’anno presso Nautilus, Torino.
[2] Giorgio Cesarano, Critica dell’utopia capitale (Opere complete, vol. III), Colibri, Paderno Dugnano, 1993, pp. 125-26.
[3]
Col termine “ultrasinistra” definiamo l’opposizione internazionale «estremista»
alla «sinistra» (bolscevichi-kpd),
contrapposta al «centro» pacifista (Kautsky-Bernstein-psi) e alla «destra» socialpatriota (Ebert-Scheidemann-Noske-Kerenskij-Bissolati),
che si manifestò nel corso del movimento rivoluzionario che coinvolse tutta
l’Europa capitalista tra il 1917 e il 1923. Questa corrente si diffuse
potentemente anche in Russia come opposizione al potere bolscevico, e pose
al centro della sua attività la difesa dei Consigli operai (da cui la
denominazione di «comunisti dei consigli» o «consiliari» con cui gli
ultrasinistri sono designati).
A mo’ di
excursus introduttivo alle problematiche dell’ultrasinistra storica
riproduciamo qui un brano di Pierre Nashua (Pierre Guillaume) del 1974, che
rappresenta un esempio tipico di come questa esperienza storica sia stata
analizzata dalla corrente radicale dopo il Maggio: «Uno degli aspetti più
notevoli è che la rivoluzione tedesca fu fatta sulla parola d’ordine:
“Usciamo dai sindacati!”. Mentre nessuno si era autonomizzato rispetto
ai sindacati e alla socialdemocrazia prima della guerra, le organizzazioni
ultrasinistre raggrupparono centinaia di migliaia e persino milioni di
lavoratori su posizioni rivoluzionarie. Le organizzazioni politiche quali il
kapd [Partito
Operaio Comunista di Germania] furono in certi momenti strutture di
massa più potenti del Partito comunista legato all’Internazionale
Comunista.
Da una parte,
i sindacati si erano completamente integrati alla guerra, come d’altronde
negli altri Paesi, a gradi diversi. Luddendorff doveva rendere loro omaggio
dichiarando che giammai lo sforzo bellico sarebbe stato possibile senza la
collaborazione dei sindacati e del Partito socialdemocratico. Dall’altra,
i comunisti di sinistra non raccomandavano di uscire dai sindacati per
formarne altri. Questa parola d’ordine corrispondeva a un rifiuto totale
delle forme sindacali di organizzazione, e si accompagnava alla creazione
pratica da parte del proletariato di organismi assai differenti: le
“Unioni” controllate alla base. Una delle acquisizioni di questo periodo
è del resto il rigetto della separazione tra organizzazioni politiche ed
economiche (partito/sindacato). […]
I gruppi come
il kapd fecero fin
dall’inizio un’analisi profondamente giusta della Russia e del ciclo
della rivoluzione mondiale. Bisogna dire che furono egualmente i soli a
sostenere militarmente ed efficacemente, con insurrezioni, attacchi a
convogli militari eccetera, la Rivoluzione russa, malgrado la loro severa
critica dell’orientamento dei bolscevichi e dell’Internazionale
Comunista. L’evoluzione di questi gruppi illustra tutto il problema delle
organizzazioni rivoluzionarie. Queste formazioni scomparvero
rapidissimamente, man mano che la rivoluzione veniva vinta e che il
proletariato rifluiva verso posizioni disperate o difensive (puramente
riformiste: integrazione alla società capitalista). L’arrivo di nuovi
problemi le fece scoppiare su quasi tutti i punti con le reazioni abituali:
terrorismo generato dalla disperazione, attivismo… Non dimentichiamo che
la rivoluzione tedesca fu schiacciata dalla socialdemocrazia: l’intera
storia tedesca tra le due guerre, compresa la nascita del fascismo, non si
comprende se non in relazione a questo annientamento. Tutta l’evoluzione
del fascismo non ha senso se non la si lega alla rivoluzione tedesca, giacché
esso ne fu in gran parte l’esecutore testamentario. I rivoluzionari e le
frazioni più radicali della classe operaia (in particolare i disoccupati)
erano stati battuti, ma nondimeno la Repubblica di Weimar (1919-1933),
inizialmente creata e animata dalla socialdemocrazia e dai sindacati, era
stata incapace di mettere ordine nell’economia e di soddisfare le
rivendicazioni dei disoccupati, unificando il capitale nazionale tedesco:
solo il fascismo poté ridare lavoro a tutti, ricuperare l’aspirazione
alla “comunità” apportandovi una soluzione (alla sua maniera), e
disciplinare tutti i gruppi sociali dietro gli interessi del capitale
nazionale veramente unificato. Il fascismo soddisfò in modo mistificato le
rivendicazioni (materiali e ideologiche) della rivoluzione del 1919, che la
socialdemocrazia aveva schiacciato, ma le cui aspirazioni non poteva
soddisfare durevolmente, essendo incapace di unificare politicamente la
Germania. Di fronte a questa situazione, dall’inizio degli anni Venti, i
rivoluzionari furono a poco a poco ridotti allo stato di setta, e solo
quelli che accettarono la prospettiva di una controrivoluzione molto lunga
furono in grado di resistere teoricamente. […]
Nella rivoluzione tedesca, le minoranze radicali colsero il problema rivoluzionario, ma l’insieme della classe rimase prigioniera di un atteggiamento rivendicativo. La Sinistra tedesca è al fondo l’espressione teorica di quel che i rivoluzionari – sovente operai senza formazione teorica pregressa – avevano vissuto. Questa espressione deriva al contempo da tutta l’esperienza, e dalla sconfitta, della rivoluzione più significativa dell’epoca moderna, e dai limiti della situazione tedesca. Questa doppia eredità si esprime nei gruppi che sopravvissero, generalmente riuniti attorno a uno o due emigrati. Le uniche aggregazioni rilevanti sono la Sinistra comunista olandese (gik-h [Gruppe Internationaler Kommunisten-Holland: Gruppo dei Comunisti Internazionali-Olanda]) e Paul Mattick, in diverse riviste statunitensi («International Council Correspondence», «Living Marxism», «New Essays»). Bisogna distinguere tra i testi contemporanei alla rivoluzione e quelli posteriori. I primi sono assai ricchi, a causa dell’esperienza concreta di cui sono il prodotto. Molto spesso quegli stessi che giungevano a queste «scoperte» teoriche uscite dalla lotta non vi erano preparati. Per esempio, la critica della rivoluzione russa fu fatta a seguito di una quantità di esperienze concrete, di rapporti con delegati dell’Internazionale Comunista, di misure pratiche prese dalla Russia e dall’Internazionale eccetera. Numericamente molto deboli, i gruppi sopravvissuti non hanno avuto, per così dire, influenza su alcuna lotta importante; malgrado contatti periodici con degli operai, sono restati per l’essenziale in un profondo isolamento. Ma, al pari della “Sinistra italiana”, grazie a una rete di relazioni poco numerose ma complesse ed estese, hanno potuto giocare un ruolo teorico assolutamente fondamentale. Nei gruppi e nelle tendenze (anche non direttamente legati a questa tradizione) che sono esistiti (per esempio Socialisme ou Barbarie in Francia), si ritrova generalmente la traccia di uno o due membri della Sinistra tedesca. Vi è una continuità tra questa, la Sinistra italiana, e l’insieme delle “Sinistre”» (Pierre Nashua, Perspectives sur les Conseils, la gestion ouvrière et la Gauche allemande, Éditions de l’Oubli, Paris, 1977, pp. 7-9).
[4] V. I. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo [mettere citazione].
[5] La fagi fu costituita nel XXXX e sciolta nel XXXX. Ne faceva parte Eddie Ginosa, che al congresso di Carrara del novembre 1969, insieme a Cesarano, Gallieri e Fallisi, presentò Tattica e strategia del capitalismo avanzato nelle sue linee di tendenza, provocando vivaci polemiche (questo testo, dopo essere stato discusso e rielaborato all’interno di Ludd, venne pubblicato sul n. 3 di «Ludd-Consigli Proletari).
[6] Nota sullo scandalo di Strasburgo e Della miseria nell’ambiente studentesco di Mustapha Khayati.
[7] Cfr. Caduta e declino dell’economia mercantil-spettacolare, «Internazionale Situazionista», Milano, n. 1, luglio 1969.
[8] Partito Comunista Internazionale (Il Programma comunista); Partito Comunista Internazionale (La Rivoluzione comunista); Partito Comunista Internazionalista (Battaglia comunista).
[9] Dobbiamo distinguere i Comitati Unitari di Base (cub) totalmente autogestiti del ’68-’69 e gli organismi omonimi della prima metà degli anni Settanta, egemonizzati da Avanguardia Operaia (gruppo radicato soprattutto a Milano, di provenienza trotzkista ma convertitosi poi al maoismo, che avrebbe successivamente dato vita a Democrazia Proletaria, per confluire infine nel Partito della Rifondazione Comunista).
[10]
«Nel 1965, Pierre Guillaume, membro di Socialisme
ou Barbarie e poi di Pouvoir
Ouvrier, fondò la libreria La Vieille Taupe, rue del Fossés-Saint-Jacques
a Parigi. Attorno a essa si aggregò un polo di riflessione e di attività
in cui ci si interessava all’Internationale Situationniste – che per
qualche tempo intrattenne rapporti con La Vieille Taupe –, tanto quanto
alla Sinistra italiana, conosciuta allora quasi unicamente attraverso il
filtro del Partito Comunista Internazionale («Programme Communiste»).
Pierre Guillaume prese parte, per esempio, all’edizione inglese del testo
dell’I.S. sulla sommossa di Watts. […]
Fin dalle sue origini, la libreria rifiutò un’etichetta dottrinale.
Non era né la sede di Pouvoir Ouvrier
(fintanto che Guillaume ne fu membro), né la sua libreria. In un’epoca in
cui era difficile procurarsi i testi rivoluzionari essenziali, poco numerosi
“sul mercato”, esauriti eccetera, essa volle innanzitutto facilitarne il
reperimento. Il semplice fatto di selezionare testi di Marx, di Bakunin,
dell’I.S., di «Programme Communiste», dell’ultrasinistra nel 1965
aveva un senso teorico e politico. A modo suo La Vieille Taupe partecipò
alla sintesi teorica indispensabile in tutte le epoche. Superò le sètte
senza radunare tutto ciò che era “a sinistra del Partito comunista”
[…].
Nel 1967, la
libreria ricomprò le considerevoli giacenze dei fondi Costes, il solo vero
editore di Marx nella Francia dell’anteguerra, quando il Partito Comunista
Francese si preoccupava più di pubblicare Thorez e Stalin. All’inizio del
1968, essendo esaurito presso le Éditions Sociales, il solo posto ove ci si
poteva procurare Il Capitale era
La Vieille Taupe. La libreria diffuse l’invenduto di «Socialisme ou
Barbarie», ma anche i «Chaiers Spartacus», che dopo la guerra avevano
pubblicato parecchi titoli sull’insieme del movimento operaio
dall’estrema sinistra all’estrema destra. Migliaia di esemplari della
Luxemburg, di Prudhommeaux…, che dormivano da anni in una cantina del
municipio del V arrondissement furono così di nuovo offerti al pubblico.
La Vieille
Taupe non negava il bisogno di coerenza. Riteneva solamente che non la si
potesse raggiungere né a partire da una sola delle correnti radicali (tutte
unilaterali) di allora, né mettendosi all’ascolto degli operai (come ico),
né studiando le forme assunte dal capitalismo moderno (come auspicato da
Souyri, che si tenne lontano dalle polemiche provocate dalla scissione di Pouvoir
Ouvrier), ma attraverso un’appropriazione teorica delle correnti della
sinistra comunista (e dunque anche del terreno storico sul quale avevano
visto la luce), dell’Internazionale Situazionista e una riflessione sul
comunismo e in particolare sull’apporto di Marx.
Il piccolo gruppo eterogeneo uscito da Pouvoir Ouvrier fece poco o nulla di «pubblico» nei mesi che precedettero il Maggio ’68. Per l’essenziale lesse collettivamente Il Capitale e cominciò ad assimilare l’apporto teorico delle diverse componenti della Sinistra comunista, così come dell’Internazionale Situazionista. La Vieille Taupe non era un gruppo; era piuttosto il luogo di passaggio di diversi fili, con una dominante antileninista in cui l’arrivo d’«Invariance» creava una problematica nuova» (Le roman des nos origines, in «La Banquise», Paris, n. 2, 1984).
[11] Guy Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di Paolo Salvadori, Vallecchi, Firenze, 1979 (ripubblicata, insieme ai Commentari alla Società dello spettacolo, da SugarCo, Milano, 1989); Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni, trad. it. di Paolo Salvadori, Vallecchi, Firenze, 1973 (nel 1972 ne era uscita una traduzione di Mario Lippolis, ciclostilata a Genova, con il titolo Saper vivere. Trattato ad uso delle giovani generazioni).
[12] Norman O. Brown, La vita contro la morte, Adelphi, Milano, 1964 e Corpo d’amore, il Saggiatore, Milano, 1969 (ora disponibile per i tipi dello Studio Editoriale, Milano, 1990). In quegli anni di Marcuse leggevamo soprattutto Saggio sulla liberazione (Einaudi, Torino, 1969) e Controrivoluzione e rivolta (Mondadori, Milano, 1973).
[13] Giorgio Cesarano, Critica…, cit., pp. 30-1.
[14] Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p. 52.
[15] Cit. Transizione.
[16] Giorgio Cesarano, Critica…, cit., pp. 48-9.
[17] Cioè la parte portata a termine e rivista dall’Autore. Il resto del libro è costituito dal materiale di lavoro di Cesarano, dai suoi appunti e schede.
[18] Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p. 389.
[19] Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p. 31.
[20] Giorgio Cesarano, Critica…, cit., p. 121.
[21] Alcune aree del continente africano sono ormai abbandonate al caos (Zaire, Uganda, Burundi, Liberia, Angola, Ruanda). Il fallimento del «Nuovo Ordine» americano in Somalia è evidente. Altrove in Africa il collasso economico è completo. Il disastro dell’Algeria minaccia direttamente l’Europa. In America Latina la guerriglia persiste in vaste zone. È dubbio che la Russia sia in grado di controllare le guerre nelle Repubbliche dell’ex-urss.
[22]
Tra l’altro, se vogliamo demistificare il recente passato in Italia, non
possiamo certo trovare granché nella declinante produzione teorica degli
ultimi comunisti radicali. A tutt’oggi non esiste nessun tentativo di
bilancio della vera guerra degli anni ’77-’79 (dalla cacciata di Lama
all’Università di Roma alla lotta dei lavoratori ospedalieri). La
mistificazione dominante anche nella cultura di sinistra tende a occultare o
rimuovere tutti i caratteri profondi e tipici di quel momento e a riproporne
una lettura profondamente falsificata come «anni di piombo», che
sottolinea unicamente la falsa guerra
spettacolare tra Stato e gruppi politici militarizzati. Un tipico aspetto di
questa interpretazione ufficiale è la versione della «sconfitta» di quel
movimento, fornita tra gli altri da parecchi esponenti dell’Aut. Op.
e dei gruppi militari, presentata come se fosse stata la conclusione di una
guerra civile o di un movimento rivoluzionario in grado di prendere il
potere. Sconfitta si dette, non certo in una battaglia in campo aperto, ma
fu sociale, e dovuta alla profonda debolezza e fragilità di quel movimento.
Manca inoltre completamente da parte degli stessi Autonomi una seria
valutazione storica dell’Autonomia, che ebbe una parte così importante
nella realtà di quel movimento.
Esiste una «critica
radicale» della tendenza militare delle Brigate Rosse, aperta da Cesarano e
Collu in Apocalisse e rivoluzione,
e completata abbastanza esaurientemente da parecchi altri dei nostri, e
anche da molti esponenti di primo piano dell’Autonomia Operaia. Manca però
del tutto una critica radicale dei contenuti espressi e difesi dalle
organizzazioni armate come le Brigate Rosse, Azione Rivoluzionaria, Prima
Linea; per trovare qualcosa del genere ci si può rifare solo a qualche
testo degli Autonomi.
Gli avvenimenti del triennio ’77-’79 sono stati decisivi per tutto il quindicennio successivo ’80-’94, e sono per forza di cose totalmente ignorati oggi dai giovani che non possono reperire facilmente nemmeno le riviste e i libri dell’Autonomia che godevano allora di notevole diffusione. Questa mancanza, insieme alle mistificazioni grossolane delle ricostruzioni della cultura e dell’intellettualità – che a differenza del ’68, giudicò subito intoccabile il movimento del ’77, a causa della sua contrapposizione violenta al pci – contribuisce pesantemente allo smarrimento, e alla conseguente timidezza, dell’ambiente sovversivo giovanile attuale.
[23]
A metà degli anni Settanta l’ideologia della criminalità propria di
Comontismo, che in precedenza costituiva una provocazione rivoltante per la
sinistra – donde le incredibili calunnie, reiterate poi in altre
occasioni, che nel ’75, due anni dopo lo scioglimento del gruppo, avevano
colpito i comontisti, in occasione dell’incendio di una sede milanese del psdi
– era ormai diventata pratica diffusa dei selvaggi delle periferie
metropolitane.
Lo zoccolo
duro di Comontismo continuò a esistere anche dopo lo scioglimento formale
del gruppo, contribuendo moltissimo, tra l’altro, a quella crescita
teorica di «Puzz», che finì per convincere anche Cesarano, il quale nei
mesi precedenti il suicidio era in cerca di uno sbocco umano operativo e di
diffusione delle sue idee.
Toni Negri fu il solerte recuperatore di Comontismo, sfornando la teoria nuova di zecca dell’«autovalorizzazione (sic!) proletaria», che costituì il cavallo di battaglia suo e di «Rosso» negli anni di maggior successo dell’Aut. Op. Il recupero tardo comontista operato da Negri – che pure in altre occasioni non aveva difeso Riccardo d’Este dalla calunnia di essere un fascista, nonostante lo conoscesse fin dai tempi di «Classe Operaia» – produsse un’apologia delle bande giovanili illegali e violente dell’epoca degli espropri proletari. Usiamo il termine apologia per chiarire che manca del tutto nella visione negriana il concetto della necessità di «liberarsi della vecchia merda» tipico della teoria rivoluzionaria e di Comontismo, l’idea cioè che la rivoluzione implichi la critica e l’abolizione del proletariato.
[24]
Con questo non vogliamo dire che non avessero fondamento la riscoperta della
teoria nietzschiana del nichilismo e la sua applicazione a tanti fenomeni
della vita sociale contemporanea. Caratteristica della rivista «Provocazione»
e dei suoi precedenti fu però di usare la categoria «nichilismo» per
designare tutte le manifestazioni
del movimento del ’77: Brigate Rosse, Autonomia Operaia, movimenti
giovanili generici, violenza (battezzata invariabilmente «aggressività»,
perché la vera violenza era un
concetto «buono»), scontro sociale (anch’esso sempre «falso» e
qualificato come «assenza di scontro»)…
Questo tipo di posizione si può così riassumere: ogni lotta pratica è ridotta a nichilismo attivo; la «teoria» consiste nella liquidazione di tutto e nella scelta dei termini «giusti» (anche se molto spesso non se ne conosceva il significato: gli strafalcioni tipici di «Provocazione» sarebbero stati pure divertenti se non avessero fatto parte di una tendenza che ebbe un’influenza disarmante).
[25]
In fondo la stessa cosa successe nella sinistra politica, al cui interno,
appena ci fu sentore che il ’77 era una cosa seria e comportava il rischio
di bruciarsi anni di preparazione alla carriera politica, si verificò un
massiccio esodo verso il pacifismo, il legalitarismo, il riformismo, il
Partito Radicale: della tempestività di questa fuga si è accorto chiunque
in questi anni abbia acceso la televisione, trovando invariabilmente le
facce di bronzo di Lotta Continua nelle vesti di conduttori dei più
svariati programmi d’intrattenimento culturale. Scalzone e Piperno (ex
Pot. Op.) hanno a lungo recriminato, convinti di aver subìto
un’ingiustizia non essendo stati premiati per anzianità di servizio nel
campo del gauchisme. In fondo tutti, ma proprio tutti
gli altri hanno ottenuto posti di lavoro ben pagati! Ma occorreva aver
chiarito – entro il marzo ’77
– da che parte si stava per aver titolo a concorrere. Le domande di
ammissione all’albo degli ideologi professionali presentate fuori termine
non sono state ritenute valide.
Per restare nel campo dell’umorismo macabro, ricordiamo che proprio «Re Nudo», l’acerrimo nemico di Max Capa, appena il clima del ’77 si scaldò di qualche grado centigrado fu anch’esso illuminato dalla «soggettività creativa», non facendone però una iper-critica come il pur sempre rivoluzionario Capa, ma ancorandola alla religiosità eclettica di Bhagwan Shree Rajneesh, come via per la demissione. Nell’insieme, tutto, da John Travolta a Brahma, fu utilizzato per smobilitare il violento e trucido movimento giovanile del ’77 e per mettere al sicuro le proprie sante chiappe (tutto ciò venne denunciato a suo tempo da «Insurrezione», nell’opuscolo Proletari se voi sapeste…, Milano, 1980).
[26] Il capitale ormai non è più identificabile con una sfera separata, economica o strutturale, ma è identico al sociale, essendo divenuto soggettività alienata della specie.
[27] Questo gruppo, rappresentante dell’«ala creativa» dell’Autonomia, aveva avuto a varie riprese contatti diretti con i pochi comunisti radicali che ancora s’interessavano di problemi triviali come il movimento reale. Ma il materiale umano che lo componeva era interessato al proprio ruolo d’intellettuale e alla possibilità di usarlo in futuro per integrarsi nell’industria culturale. La loro prospettiva non andava al di là della sopravvivenza. Sorprendentemente, perché la rivista «A/traverso», almeno prima del ’77, aveva saputo descrivere criticamente il movimento con interventi nel complesso eccellenti, almeno rispetto al livello teorico del resto degli Autonomi. Radio Alice, poi, era stata semplicemente geniale, il vero centro propulsore del movimento bolognese. Si trattava evidentemente di un gruppo, che aveva saputo rappresentare l’esigenza dell’enorme massa di studenti e di sbandati di ogni risma gravitante nell’ambiente universitario di Bologna, contribuendo a innescare una vera e propria reazione a catena. Da quel momento in poi ebbero paura dell’incendio che avevano tanto contribuito ad alimentare. Caddero così in pieno nella categoria di «autovalorizzazione» di Cesarano: cercarono esclusivamente di utilizzare la loro identità di rivoluzionari per accedere a quella, da loro ben più ambita, di operatori culturali, finendo per la verità nella categoria della più prosaica «autovalorizzazione» di Toni Negri. Stando così le cose, i loro incontri con i «radicali», che da questo orecchio non ci sentivano, non furono che dialoghi tra sordi.
[28] Segnaliamo, come riferimenti recenti fuori dall’Italia, le seguenti riviste: «Encyclopédie des Nuisances», «Les mauvais Jours finiront…», «La Guerre sociale», «La Banquise», «Le Brise-Glace», «Mordicus», «Théorie Communiste», «Temps Critiques».
[29] In Raoul Vaneigem, Terrorismo o rivoluzione, seguito da Wolf Woland, Teoria radicale, lotta di classe (e terrorismo). Appunti per il bilancio di un’epoca, Nautilus, Torino, 1982.
[30] Edito dall’Accademia dei Testardi, Milano, 1987.
[31] A titolo di curiosità, giacché ben presto si dimostrò una solenne cantonata, va citato il tentativo di «recupero» della pseudo-comunità religiosa operato nel ’79 da Lotta Continua, che si scatenò in una sfrenata apologia del movimento sciita di Khomeini, ben presto rivelatosi non solo un rigoroso suddito della ratio capitalista internazionale ma anche un vampiro, eccezionalmente sadico, del proletariato e delle nazionalità oppresse dell’Iran, ben peggiore degli stessi aguzzini cosacchi Pahlevi e figlio.