Dalla legge n. 354 del '75 alla Gozzini
qualche osservazione a ruota libera sulla situazione carceraria
da Senza Censura n. 5 - giugno 2001
Prima degli anni 70 il carcere
era avvolto dal più pesante dei silenzi: era un luogo di segregazione ove veniva
espiata la pena vista come colpa verso la società. Tra il 1970 e il 1971 si
verificano circa ottanta rivolte carcerarie che impongono l'attenzione al
problema. Denunce, scioperi della fame, suicidi, contribuiscono, a loro volta, a
rompere la barriera del silenzio.
Le lotte carcerarie ricevono molta solidarietà dall'esterno, e si assiste al
superamento di quella distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni che
trova le proprie radici nell'epoca fascista. Numerosi sono i casi di detenuti
comuni "politicizzatisi" in carcere e, nello stesso tempo, i detenuti politici
non sono più un corpo separato: la repressione carceraria appare unica e
classista.
A cavallo di quegli anni, e in quel contesto, si avviano i disegni di legge di
riforma penitenziaria (progetti del 1968, 1971, 1972), che poi confluiranno
nella legge approvata nel 1975 (legge 24 luglio 1975 n. 354). Si moltiplicano,
inoltre, le inchieste e gli scritti sul carcere, anche dall'interno ("l'evasione
impossibile" di Sante Notarnicola; "Il carcere in Italia" di Ricci e Salierno).
Sul piano normativo, a quell'epoca, esisteva, a completamento delle scarne
disposizioni del codice penale del 1930, solo il Regolamento Carcerario del
1931: tale Regolamento, al di la di alcune enunciazioni di principio
(individualizzazione del trattamento, rieducazione attraverso il lavoro ecc),
era incentrato essenzialmente sull'esigenza del mantenimento dell'ordine:
separazione degli stabilimenti penali secondo "tipologie" delinquenziali,
previsione di innumerevoli infrazioni disciplinari (circa cinquanta infrazioni -
dal riposo sul letto senza giustificato motivo, al canto, alla bestemmia - con
le relative punizioni - da pane e acqua, al letto di contenzione al blocco di
visite e pacchi). A vigilare sull 'esecuzione della pena era prevista la figura
di un giudice di sorveglianza; in astratto era prevista anche una sorta di rozzo
meccanismo premiale (ma, come si comprenderà, del tutto privo di incidenza):
lode del direttore, due francobolli al mese, più visite dei famigliari.
Grande è, pertanto, l'impatto della riforma del 1975, che introduce alcuni
istituti giuridici di significativa rilevanza: l'affidamento in prova al
servizio sociale, che consente di uscire dal carcere, dopo tre mesi di
osservazione, nel caso di condanna inferiore ai due anni e mezzo; la
semilibertà, una volta espiata metà pena; la liberazione anticipata (40 giorni
di riduzione pena per buona condotta in relazione ad ogni anno espiato); i
permessi per gravi ragioni famigliari. Il regolamento del 1976, introduce, poi
il lavoro esterno, ma solo sotto scorta.
Ovviamente in questo quadro cresce in modo significativo il ruolo della
magistratura di Sorveglianza (sono istituite le sezioni di sorveglianza)
competente a decidere sulle indicate riduzioni di pena e sulle forme di
controllo alternative alla detenzione. Teoricamente il giudice di sorveglianza è
anche "il garante" dei diritti del detenuto, ma certamente si trova direttamente
coinvolto nella gestione della pena, unitamente al personale amministrativo e di
custodia, e del controllo sociale, unitamente ai servizi sociali ed alle forze
di polizia. Ciò non toglie che, soprattutto nel primo periodo, si guadagnino un
qualche spazio anche figure di giudici di sorveglianza effettivamente
"garantisti", capaci di entrare in contrasto con le Direzioni dei Carceri o con
l'apparato ministeriale. Ma questo fenomeno è destinato a scomparire: la
concreta applicazione del diritto, infatti, dipende in gran parte dai rapporti
di forza esistenti nella società. E, man mano che sulla società si stenderà il
velo dell'"omologazione" ai (dis)valori capitalistici, anche questo tipo di
magistratura - come la magistratura più in generale, del resto - si farà garante
e custode di tale omologazione.
D'altra parte, in linea con la svolta che caratterizza, all'inizio degli anni
'80, il sistema penale, nel 1986 entrerà in vigore la cosiddetta legge "Gozzini".
Essa si colloca nel filone della produzione legislativa che esalta il momento
della valutazione dell'identità "politica" (anche in senso lato) del soggetto
imputato e condannato, lasciando solo sullo sfondo le condotte concrete che sono
oggetto dei processi: del 1980 è la legge di conversione del decreto Cossiga,
che introduce nelle indagini e nei processi per fatti di lotta armata, la figura
del "collaboratore"; del 1982 è la organica legge sui pentiti; del 1987 è la
legge sulla dissociazione.
Se questo è il quadro, la legge Gozzini interviene sul carcere allargando la
forbice punizione-premio. Del resto il principio fondamentale della
"differenziazione" era già passato nella "materialità" della costruzione - al di
fuori di ogni norma di legge - del circuito carcerario speciale o di massima
sicurezza, al quale era applicato l'art. 90 della legge del 1975, che eliminava
- di fatto - i principi della riforma. Quando poi, alla fine del 1984, era stata
ridotta l'area di applicazione dell'art. 90 attraverso la mancata proroga dei
decreti attuativi (limitati a soli cinque istituti penitenziari), la Circolare
Ministeriale del 31 ottobre aveva, in sostanza, disposto che i detenuti prima
"specializzati" avrebbero continuato a essere custoditi nelle sezioni nelle
quali si trovavano, dove non sarebbero stati inseriti detenuti prima non
differenziati; inoltre, essi sarebbero stati ammessi al godimento dei diritti
previsti dalla generale normativa solo "secondo le possibilità esistenti e
valutando le situazioni concrete e, nei limiti consentiti, in particolare il
grado di pericolosità" e, in ogni caso, in completa separazione dagli altri
detenuti.
La legge Gozzini, a questo punto, sistematizza la situazione: è formalmente
previsto il carcere più duro in determinate situazioni soggettive e/o oggettive
(artt. 14 bis, 41 bis), pur non riconoscendosi ancora, sul piano formale,
l'esistenza di una differenziazione dei circuiti carcerari (i carceri di massima
sicurezza ci sono ma non si deve dire che esistono). Sul piano premiale è
previsto un aumento della liberazione anticipata,(portata da 40 a 90 giorni per
anno di buona condotta): un'estensione dell'affidamento in prova al servizio
sociale anche per le pene tra i due anni e mezzo e i tre anni, anche se parte
residua di pena maggiore, e con possibilità, nel caso di pregressa custodia
cautelare, di non rientrare in carcere; l'introduzione dei permessi premio sino
a 45 giorni all'anno; il lavoro esterno senza scorta.
L'aspetto punitivo-premiale sarà rafforzato dalla legge 203/1991; che vieterà la
concessione di pressoché tutti i benefici previsti dalla legge Gozzini a chi è
detenuto per gravi reati comuni e non è collaboratore di giustizia.
La successiva legge 356/1992, introducendo nella Gozzini l'art 18 bis, dimostra,
sul piano della concretezza delle dinamiche processuali, come l'aula giudiziaria
diventi sempre più una succursale del carcere e come il carcere influenzi sempre
più le vicende giudiziarie: tale articolo, infatti, prevede i colloqui
investigativi, e cioè autorizza personale della Direzione Investigativa
Antimafia a svolgere colloqui riservati non verbalizzati (consentendo così ogni
tipo di trattativa). L'art. 41 bis 2° comma (aggiunto anch'esso da tale ultima
legge e ricalcante il vecchio art. 90) prevede tali e tante restrizioni ai
diritti carcerari (limitazione della socialità interna, delle visite dei
famigliari, della corrispondenza ecc), che appare legittimo il sospetto che sia
finalizzato a favorire il "pentimento" dei detenuti più che ad attenuarne la
pericolosità sociale. Il trattamento derivante dall'art. 41 bis, inoltre, lede
gravemente il diritto di difesa, dal momento che l'imputato non può essere
fisicamente presente al processo, ma vi può, per modo di dire, partecipare solo
in videoconferenza dal carcere.
Una prima lettura, infine, del nuovo Regolamento (DPR 230/2000) ci fa rilevare
una interessante connessione tra carcere e mercato del lavoro
"particolare"(quello dei "non garantiti"). Se, infatti, in precedenza le
lavorazioni penitenziarie dovevano essere organizzate e gestite dalle Direzioni,
ora l'art. 47 prevede che possano essere organizzate e gestite direttamente da
imprese pubbliche e private, che avranno perfino voce in capitolo nell'adozione
del provvedimento amministrativo di esclusione dell'attività lavorativa (art.
53). E la commistione col mondo dell'impresa (piccolo assaggio di
privatizzazione?) si estende con la possibilità di appaltare loro "servizi
interni, come quello di somministrazione del vitto, di pulizia e di manutenzione
dei fabbricati" (art. 47 n. 3).
Ancora, questo Regolamento fa un piccolo, ulteriore, passo verso la
formalizzazione dell'esistenza di diversi circuiti carcerari, prevedendo
l'attuazione "in istituti autonomi o in sezioni di istituto, (di) regimi a
custodia attenuata".
Coerentemente è iniziata, nell'ultimo periodo, la classificazione dei detenuti
in AS (alta sicurezza), media sicurezza, attenuata sicurezza, con condizioni di
vita diversissime: quelli in AS fanno socialità solo sezione per sezione,
subiscono perquisizione a ogni uscita di cella, non hanno lavoro, non hanno
contatti con i detenuti di altre sezioni e/o di altra classificazione; quelli in
media sicurezza hanno la cella sempre aperta, possono circolare nella sezione,
non hanno polizia penitenziaria in sezione, spesso trovano lavoro; quelli in
attenuata sicurezza (una esigua minoranza) fanno colloqui con i familiari in
appositi spazi all'aperto, beneficiano spesso di permessi, hanno sempre
possibilità di lavoro.
La pena varia quindi, non solo nella quantità ma anche nella qualità con un
duplice effetto: la minore afflittività, oltre ad alleviare le condizioni di
segregazione, favorisce un maggior numero di benefici e, naturalmente,
viceversa.
Se si aggiunge che i criteri di assegnazione non sono noti, soprattutto per la
distinzione tra alta e media sicurezza, e che l'assegnazione è fatta dal
Ministero o dalla Direzione, è facile capire come l'arbitrio, finalizzato a
raggiungere i non dichiarati scopi dell'Amministrazione, regni sovrano. Un
capitolo a sé, poi, è rappresentato dai malati (privi di cure)e dai malati di
Aids (molti sono terminali e ciononostante detenuti) e dagli stranieri (quasi
sempre privi di soldi, di difesa, di sostegni esterni e così impossibilitati
anche ad ottenere misure alternative).
A questo punto si può conclusivamente dire che il percorso di ristrutturazione
del sistema carcerario, passato prima attraverso l'introduzione di fatto delle
carceri speciali, con anche i braccetti della morte, della fine anni 70 / primi
anni 80, poi attraverso la successiva risistemazione organica di un meccanismo
differenziante punitivo/premiale, ha portato ad una sostanziale
"normalizzazione" (rotta, però, nella primavera scorsa da una serie di
iniziative di lotta per indulto, depenalizzazioni, automatismo nell'applicazione
dei benefici) del mondo carcerario, dove tende a passare stabilmente (fatte,
naturalmente le debite eccezioni) una completa desolidarizzazione, essendo, la
vita dei detenuti, tutta incentrata - appunto - sui meccanismi individualistici
del premio e della punizione. Del resto il carcere riflette la situazione
sociale generale, e, nella società, nel suo complesso, si è assistito ad un
pesante rimodellamento, anche sul piano ideologico e dei valori-disvalori, teso
a costruire, anche qui, un soggetto individualista, competitivo, desolidarizzato.
Ma, si sa (e ci dà speranza) che non tutte le ciambelle riescono col buco.
Sul tema, resta ancora da dire che la presenza del carcere non è stata intaccata
dalle misure alternative alla detenzione, che non hanno avuto un effetto di
"sostituzione", bensì di "affiancamento" e di allargamento, sul territorio, del
controllo.
I segnali, d'altra parte, sono nel senso di un ulteriore aumento di tale
diversificato controllo: ancora più carcere, determinato dalle recenti leggi
quali il pacchetto sicurezza, che incentiva l'adozione di misure cautelari dopo
la sentenza di appello; o quali le successive leggi sull'aumento e sul diverso
computo della custodia cautelare; ancora più controllo sul territorio, delegato,
questo (sempre dal "pacchetto sicurezza"), anche alle Forze Armate, con poteri
di fermo al di fuori di ogni controllo dell'autorità giudiziaria, e
spettacolarizzato dall'introduzione del cosiddetti "braccialetti elettronici"
per gli arresti domiciliari.
In un breve scritto sul carcere, infine, non può non citarsi la realtà dei campi
di detenzione amministrativa per stranieri, che riguardano migliaia e migliaia
di persone per le quali (in una ancor più generale logica di differenziazione)
viene man mano scritto un diritto penale (o comunque attinente i diritti di
libertà) del tutto particolare, perché differenziato sulla base
dell'appartenenza etnica.
Ulteriori elementi, dunque, per costruire un quadro assai fosco, ma (evviva la
dialettica) anche segnali di movimento e perfino di qualche forma organizzata da
parte di questi stessi cittadini/non cittadini.
Milano, maggio 2001