contributo alla discussione sull'inasprimento (preventivo) della repressione
Il presente scritto – che inviamo a tutti i prigionieri detenuti in carcere – è un primo abbozzo di riflessione collettiva da noi compiuta su alcune tematiche inerenti la repressione condotta dallo stato. Il nostro contributo è perciò da considerarsi parte di un progetto più ampio finalizzato all'analisi degli strumenti repressivi e del contesto politico e sociale nel quale vengono impiegati. Ci riferiamo all'utilizzo sempre più frequente di "imputazioni" quali "devastazione", "concorso morale", "associazione sovversiva"; al sistematico ricorso alla carcerazione preventiva, all'isolamento in sezioni predisposte a tal scopo in ogni carcere e in quelle ad Elevato Indice di Vigilanza e all'isolamento feroce applicato nelle sezioni in cui vige l'articolo 41 bis; in ultimo, ma non meno importante, ci riferiamo al sistematico trasferimento dei prigionieri in carceri distanti dai luoghi dove essi vivono e lottano e senza alcuna possibilità di contatto fra loro. A tal proposito basti l'esempio del trattamento riservato alle compagne e ai compagni di Lecce.
Vorremmo anche stimolare la discussione attorno ad un'altra questione che la repressione ci mette davanti: il processo. Con ciò non abbiamo detto ancora nulla poiché, aperta questa pagina, ci si trova di fronte ad un ventaglio di possibili forme processuali estremamente variegate. Non entriamo più nella semplice bottega del fruttivendolo ma in un ipermercato dalle scaffalature immense e lucenti in cui sono poste in bella vista merci già preconfezionate per ogni gusto e per ogni tasca, con relativi sconti e promozioni per le merci in scadenza.
Le forme processuali sostanzialmente sono tre: patteggiamento, rito abbreviato e rito ordinario. La scelta dell'una piuttosto che dell'altra non è, di per sé, determinante ma lo diventa in relazione all'atteggiamento di chi è processato e agli obiettivi politici che vuole raggiungere.
Obiettivi, atteggiamenti e scelte sono determinate dal contesto storico in cui si svolge la lotta fra le classi e dal rapporto di forza che si determina fra di esse. Tuttavia, come in tutte le cose, vi sono delle linee generali che sono diventate patrimonio di lotta e che però vanno costantemente verificate nella pratica.
La strategia processuale non è data una volta per tutte
Prendiamo come punto di partenza il lavoro di Jacques Vérgés, Strategia del processo politico del 1969 in cui sono sviluppati i concetti di processo "di rottura" e "di connivenza" necessari per uscire dalla sterile contrapposizione fra difesa "tecnica" e "politica".
La distinzione fondamentale che determina lo stile del processo è l'atteggiamento dell'accusato di fronte all'ordine pubblico. Se lo accetta, il processo è possibile e costituisce un dialogo fra l'accusato che spiega il proprio comportamento e il giudice i cui valori vengono rispettati. Se invece lo rifiuta, l'apparato giudiziario si disintegra: siamo allora al processo di rottura.
Dall'assenza di processo per assenza di problemi – il grado zero nella scala della giustizia – all'ebollizione del processo di rottura, vi è certo posto per cento sfumature, cento gradi differenti.
Processo di rottura, processo di connivenza non rappresentano che schemi: la rottura non è mai totale, raramente perfetta è la connivenza, la rassegnazione mai esente di rivolta […].
Tutti i caratteri del processo di connivenza sono condizionati dal loro bisogno fondamentale di rispettare l'ordine stabilito sia che l'imputato, dichiarandosi innocente, neghi i fatti, sia che, riconoscendosi colpevole, ne illumini le circostanze eccezionali.
Nel caso generale che l'accusato contesti i fatti, il processo si impernia attorno alle seguenti questioni: il delitto è accertato? L'istruttoria e l'inchiesta da parte della polizia sono probanti? L'accusato aveva ragioni personali per commettere l'infrazione a lui attribuita?
Per mezzo di una critica delle testimonianza, delle perizie e delle inchieste, vale a dire di errori oggettivi o soggettivi degli inquisitori – e, in questo campo, il progresso scientifico porta ogni giorno nuovi elementi di certezza come di dubbio –, l'imputato, non potendo dimostrare la sua innocenza, tenta almeno di provare la mancanza di prove della propria colpevolezza; il che dovrebbe essergli di vantaggio perché, in una società in pace con se stessa, un errore giudiziario che provochi la condanna di un innocente costituisce una causa potenziale di disordine più grave dell'assoluzione di un colpevole.
La scelta della rottura non è né una scelta puramente soggettiva né, tantomeno, un colpo di testa. Questa si sviluppa dialetticamente con l'andamento dello scontro di classe e con i livelli di coscienza che esso genera. Certo, posta così, pare un'affermazione troppo generica e quindi inutile, proseguiamo perciò nella lettura di Vérgés, per coglierne il senso concreto, riportando, a titolo di esempio, quelle parti in cui i combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale (dell'Algeria) fanno raggiungere ai processi il "grado di ebollizione".
Socrate si rifiuta di evadere; Gesù, pur proclamando la sua regalità, porta la croce. Del resto, quale altro tribunale avrebbero potuto invocare contro quello che li giudicava? Ma dal 1917 ai nostri giorni, e specialmente dopo la fine della seconda guerra mondiale, sta avvenendo un approfondimento accelerato dei processi di rottura. Si affrontano su scala mondiale due concezioni irriducibili, sostenute l'una e l'altra da uomini, Stati, organizzazioni.
Anche stretto in catene, l'accusato si presenta in nome di un altro ordine e di un altro mondo. "Tutta una concezione del mondo ci separa. Tra noi si apre un abisso", dichiarava Edgar André, dirigente comunista di Amburgo, ai giudici nazisti […].
Bisogna aspettare i processi del FLN per vedere gli imputati algerini in Francia opporre eccezioni d'incompetenza ai tribunali francesi e accusarne i giudici in nome di un'altra legalità. Il processo di rottura raggiunge qui il suo punto limite.
Abbinando la rottura totale – contestazione della competenze dei giudici – a una grandissima mobilità e tali da combinare gli improvvisi mutamenti del campo di battaglia giudiziario con l'appello alle immense riserve di simpatia attraverso il mondo e da riunire tutti i processi, grazie all'estendersi della lotta collettiva di tutti gli imputati, in una sola battaglia prolungata, i processi del FLN hanno dimostrato in modo scandaloso la disintegrazione della giustizia e, in mezzo ai clamori, il suo passaggio qualitativo alla guerra rivoluzionaria […].
Sul piano giuridico, infatti, le tesi francesi successive erano viziate da contraddizioni fondamentali:
Diventando la rivendicazione delle libertà democratiche un semplice tema di polemica, in cui non crede più alcuno, emerge un tema positivo centrale: l'affermazione di una nazionalità algerina indipendente. Lo scopo del dibattito giudiziario si apparenta con quello della rivoluzione. Il processo diviene apertamente un processo di rottura […]. Portati in giudizio sotto l'accusa di assassinio, distruzione di immobili per mezzo di esplosivi, associazione a delinquere e attentato contro la sicurezza dello Stato, i prigionieri algerini reclamano dai tribunali francesi di essere considerati come belligeranti. Fin dall'inizio sollevano, l'eccezione di incompetenza contro l'intera giustizia francese […].
Siamo di fronte a una maturazione avvenuta progressivamente, di pari passo, con l'evolversi della la guerra di liberazione […].
Nacque così una difesa collettiva. Forma estrema della difesa di rottura nelle condizioni della rivoluzione coloniale nel secolo XX […].
L'accusato passa da imputato a nemico, il processo si adegua
Concludiamo questa sintetica panoramica del testo di Vérgés con un'ultima citazione che ci porterà a porre, anzitutto a noi stessi, e crediamo a tutti, una domanda.
Il lato paradossale dei processi di rottura sta nel fatto che l'individuo fa di tutto per tenersi nell'ombra ma, nello stesso tempo, per dare significato alla sua impresa, non deve mai riuscirvi interamente. Attraverso lui, l'ideologia di cui è portavoce, l'azione di cui è vettore, prendono lineamenti umani e valore di esempio; attraverso lui, il processo può esprimere la dialettica dei rapporti fra individui e società: e a questo è appunto destinato.
La pratica di rottura, per essere esercitata, presuppone alcuni requisiti di base, il principale è la presenza fisica dell'accusato nell'aula dove si svolge il processo.
In Italia, il regime di carcerazione attuato con l'applicazione dell'articolo 41 bis, a fianco delle altre misure vessatorie finalizzate all'isolamento e all'annientamento dei prigionieri, impone il processo in videoconferenza, cioè l'assenza fisica dell'accusato in aula, il quale potrà seguire il processo, a fianco del suo avvocato, in una stanza del carcere munita di videocamera e monitor, comandata dal giudice, in aula, e dalle guardie, in carcere.
Come è possibile praticare un atteggiamento di rottura in un processo dove la voce, gli sguardi, la gestualità, la tempestività degli interventi vivono solo virtualmente, mai in atto, solo in potenza? C'è una bella differenza fra il dialogo al telefono e il parlarsi guardandosi negli occhi!
Il processo in videoconferenza non è una trovata dell'ultim'ora ma ha radici lontane. Con le forme processuali "alternative", introdotte con la riforma del Codice di Procedura Penale nel 1989, cui abbiamo già accennato, rappresenta la risposta dello stato ai processi di rottura degli anni '70 dove la fisicità dello scontro era visibile, comprensibile e riproducibile da tutti. Al "grado di ebollizione" si era giunti in seguito alle lotte operaie studentesche, operaie e sociali esplose nel 1968-69 e maturate negli anni successivi.
La risposta dello stato si è articolata su più piani, in particolare, nell'inasprimento delle leggi e nella diversificazione delle forme processuali, caratterizzata dalla premialità, e tesa a rendere compartecipe l'accusato facendogli scegliere il rito col quale verrà processato.
Per quanto riguarda questi aspetti, citiamo stralci di un intervento di un compagno avvocato ad un dibattito promosso all'interno della "Campagna nazionale contro l'art. 270" nell'ottobre 2001.
Man mano che cresce questa esigenza di repressione si modifica complessivamente anche il meccanismo penale, attraverso un rinnovamento della forma del processo. Prima il processo era finalizzato ad accertare delle responsabilità in base ai fatti e a dare delle pene, dalla fine degli anni '70 in poi, il primo esempio è il decreto Cossiga della fine del '79 e tradotto in legge nell'80, si sposta il processo sul controllo dell'identità di colui che viene processato, infatti il decreto Cossiga prevede la prima grossa attenuante per chi collabora con la polizia o con i giudici per andare ad individuare altri soggetti che si sono resi colpevoli di reato contro la personalità dello Stato. In quegli anni c'è un vasto movimento che viene accusato di insurrezione e di guerra civile dalla magistratura romana. Poi nell'82 questo aspetto legato all'attenzione verso l'individuo e a quanto questo è disposto a cambiare della sua identità politica, a cambiare schieramento, trova legittimità nella legge sui pentiti che prevede attenuanti di pena clamorosi, per cui rei confessi di numerosi omicidi, sulla base della quantità di gente che fanno arrestare, sulla base magari di fatti infondati, a Milano abbiamo ad esempio lo scambio tra Marco Barbone, reo confesso dell'omicidio di Walter Tobagi, al quale per garantire una pena molto bassa si deve configurare un'area politica molto vasta, come quella dell'autonomia milanese, che gravitava intorno alla rivista "Rosso", si deve configurare come banda armata, cioè un movimento di massa che si occupava degli espropri proletari, dei lavoro nero, delle incursioni nelle sedi delle radio di C.L., cose che avvenivano nei cortei, alla luce del sole, si configura questo movimento come banda armata in modo tale che il pentimento di Barbone possa acquisire i caratteri del pentimento eccezionale e quindi si possa garantirgli una pena irrisoria ed una sostanziale impunità. Questo aspetto viene ancora sviluppato con la legge dell'86 sulla dissociazione e diventa il centro anche del processo comune, con la riforma del codice di procedura penale. Nel processo penale attuale, infatti, tutto tende ad essere spostato sui riti alternativi, il "nuovo" processo, cioè, può funzionare solo se il patteggiamento ha un grosso sviluppo, e patteggiamento significa che l'imputato concorda col pubblico ministero quella pena che ritiene giusto di dover scontare. C'è quindi, vedete, un meccanismo complicato di omologazione rispetto ai valori dello Stato e si inseriscono nella legge dei meccanismi che spingono all'abiura, al tradimento, alla negazione di sé rispetto al passato.
L'emergenza diventa norma
Per comprendere appieno la portata dell'azione repressiva non è possibile prescindere dal ruolo assunto dallo stato italiano nelle guerre imperialiste. A nessuno Stato è possibile condurre una guerra imperialista se il paese in cui esercita il potere è paralizzato da scioperi nei trasporti e nella produzione, nel commercio e nelle scuole, da carceri in sommovimento, ecc. In tal caso lo Stato sarebbe chiamato a rifondere cure, a tenere lo sguardo e l'attenzione su diversi fronti ed a perdere così capacità offensiva e lucidità nel proprio agire complessivo. Da qui la necessità di inasprire le leggi, soprattutto nel loro aspetto di prevenzione.
In particolare, sulla questione dell'inasprimento delle leggi, citando ancora dall'intervento precedente:
I reati associativi essenzialmente […] hanno una funzione di intimidazione, di raccolta di informazioni, questo proliferare di indagini come quella anche verso Iniziativa Comunista (l'imputazione in questo caso è un 270 semplice, del vecchio codice Rocco, ed è stata messa sotto processo la pretesa intenzione di volersi dialettizzare con le Br ed il Pcc), si rende anche un crimine il voler avere un confronto politico con qualcuno con il quale magari non si concorda, il confronto politico non può essere un crimine. Manca addirittura oggi, non diciamo una concezione vagamente di sinistra, ma anche una concezione che si rifà all'illuminismo, a Voltaire. Se il tabù deve essere quello della violenza, allora mi si deve spiegare se non sia gravissimo confrontarsi con D'Alema che si è reso autore di massacri in Serbia, nel Kosovo.
Da una parte c'è la volontà di usare lo strumento per colpire chi non ha fatto nulla di concreto ma è ritenuto socialmente pericoloso per le intenzioni che ha, forme di reato che negli altri paesi europei non esistono, dall'altra parte si dice che bisogna recuperare il tempo perso perché abbiamo abbandonato questo terreno ed allora ecco le intercettazioni telefoniche, ambientali.
Ormai le indagini per il 270 e 270bis riguardano centinaia di persone, spesso anche per acquisire informazioni o riprendere vecchie piste e cercare di rimettere insieme le cose. Ci sono indagini anche sui centri sociali, soprattutto per tenerli sotto controllo, e ci sono degli atti curiosi ad esempio quello relativo ad un ordigno messo nella sede dell'intendenza di finanza nel '99 per il quale erano assurdamente indagati i centri sociali: il procedimento è stato poi archiviato, ma intanto ha permesso di sottoporre diversi soggetti ad intercettazioni telefoniche ed ambientali, di prendere nota di chi applaudiva nelle assemblee e si mostrava d'accordo con le posizioni più estreme. Vengono intercettati i commenti stessi alle perquisizioni fatte. Possiamo sorridere, ma occorre anche riflettere su come si vada nel dettaglio. Presso le questure ci sono in pianta stabile tecnici informatici che fanno funzionare degli apparati che intercettano i cellulari, intercettando alcune anomalie.
Quindi io direi che questo aspetto del 270 è stato approfondito.
I controlli invece dei movimenti di massa costituiscono un ulteriore passaggio a cui stiamo assistendo proprio in questi mesi; c'è una dilatazione possibile dello strumento del reato associativo, ci sarà, c'è già stata, riguardo a Genova dove si incomincia a parlare di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione ed al saccheggio per alcuni, per altri c'è la dilatazione dell'istituto giuridico ad esempio del concorso morale, per cui uno pur non avendo una responsabilità diretta nel commettere quel fatto può esserne moralmente corresponsabile; la sola presenza fisica in piazza può aver aiutato chi ha tirato la bottiglia o il sasso. Al di là dell'aspetto giudiziario in corso, occorre tenere presente che il movimento dovrebbe tenere unito l'aspetto politico con l'aspetto giudiziario; garantire ai compagni che erano a Genova una difesa legale non basta, occorre arrivare al processo con una linea politica. Nei processi, ognuno non può andare per conto proprio, chi patteggia, chi avrà il rito abbreviato; occorre chiarire che linea di difesa assumere, uno vuole riconoscere il poliziotto che lo ha picchiato o denunciare una catena di comando precisa che arriva fino al Ministro degli Interni ed al capo della polizia? Sono aspetti giuridici ma anche politici. Controllo e gestione a Genova ci sono stati, c'è stata una sperimentazione di una forma repressiva senza nessuna mediazione giudiziaria, con l'avvallo di quelli che dovevano invece svolgere la mediazione giudiziaria. E' clamoroso che ci sia stato quel provvedimento della Procura della Repubblica di Genova che stabiliva che erano vietati i colloqui, tra arrestati e difensori finché non venivano portati in carcere. Questo voleva dire mano libera ai poliziotti di fare quello che poi hanno fatto nelle caserme, nelle varie Bolzaneto.
Allora è saltata questa mediazione giudiziaria che adesso si cercherà di recuperare per dare nuova credibilità, una facciata pulita al meccanismo della repressione statale.
Quando diciamo "inasprimento delle leggi" dobbiamo averne presente la conseguenza immediata, ossia l'aggravamento dei "capi d'imputazione" e infine delle condanne. Ad esempio, ancora a metà degli anni '90 una seggiola rotta in strada dai manifestanti era tale e tale rimaneva; da qualche anno invece quel semplice "danneggiamento" viene immediatamente elevato a "devastazione"; anni fa un incendio di un locale chiuso rimaneva un incendio, oggi viene trasformato in "tentata strage" e un bullone che avesse raggiunto il casco di uno sbirro non sarebbe mai diventato motivo per affibbiare l'accusa di "tentato omicidio". Per chiarirci su questo citiamo da un volantino diffuso nel gennaio 2006 da alcuni compagni di Torino:
Oggi poi siamo in una nuova fase, quella della carcerazione facile e continua, giustificata da un reato, come quello di devastazione e saccheggio, che ha ormai preso il posto di qualsiasi danneggiamento. E’ intorno a questo reato che oggi è costruita la tesi della procura, lo stesso reato che venne usato per la manifestazione del 1998 al palazzo di Giustizia e per i fatti di Genova del G8, e che da quest’estate viene contestato per qualsiasi fatto di piazza, dalla manifestazione antifascista ai cortei degli ultras. L’impianto accusatorio rimane lo stesso, come lo sono gli arresti e le prove a carico: testimonianze confuse di agenti della Digos, filmati e foto che non provano nulla, schede di supporto della questura confuse, gonfiate e nella maggioranza dei casi sbagliate. La devastazione contestata a seguito delle manifestazioni di piazza nulla ha a che vedere con la vera devastazione; quella che il potere statuale commette ogni giorno, quella dello sfruttamento, del dominio, della negazione di qualsiasi affermazione dei bisogni personali e collettivi, quella dei territori devastati in nome del profitto, come per il progetto TAV/TAC in Val di Susa, quella della nostra città cantierizzata per un evento di cui nessuno usufruirà e che il tessuto urbano mai riassorbirà.
Nell’ultima motivazione emessa infine, insieme al rifiuto di concedere misure alternative agli arresti domiciliari, ci viene chiaramente spiegato come siano le personalità dei soggetti a essere messe sotto processo, quelle personalità giudicate pericolose perché segnalate dalla Digos come attive in decine e decine di manifestazioni e iniziative del movimento antagonista. Ad essere messi sotto accusa non sono i fatti compiuti, ma l’appartenenza degli imputati ad ambiti di lotta antagonisti, l’essere sempre presenti ad ogni momento d’iniziativa politica e sociale, dai volantinaggi ai convegni, dai presidi alle manifestazioni.
Lo stesso vale ancor più dunque per i "reati associativi" connessi o meno a reati specifici e gravi nelle conseguenze, come spiega sempre un volantino diffuso a Torino il 10 giugno 2006, che qui riportiamo in parte. Esso è stato diffuso in occasione della manifestazione nazionale a sostegno dei compagni contro i quali sta per aprirsi un processo molto simile a quello per i fatti dell'11 marzo 2006 a Milano.
In tutta Italia oggi sono aperte inchieste nei confronti di realtà che hanno posto la questione sociale (casa, reddito, accoglienza degli stranieri), tutte inchieste accomunate dalla contestazione degli artt. 270 e 270bis del codice penale, associazione sovversiva e associazione finalizzata all’eversione dell’ordine democratico.
Spicca nel panorama repressivo il caso di Torino, dove la procura della repubblica sta ricorrendo all’imputazione di devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.) per fatti relativi a manifestazioni di piazza.
Nelle lotte sociali, i reati che possono essere al limite contestati (dalla resistenza al blocco stradale al danneggiamento all’occupazione di edificio ecc.) non portano con sé pene particolarmente alte. Naturalmente l’apparato repressivo cerca di inquadrare le proteste all’interno di fattispecie penali punite più gravemente. Questo è il motivo del ricorso, ad esempio, ai reati previsti dagli artt. 270 e 270bis c.p.
Da un lato il fatto che venga punita la mera associazione rende queste fattispecie utilizzabili in modo ampio e ed esse possono colpire anche soggetti che non abbiano commesso alcun reato; l’applicazione di queste fattispecie presuppone però la dimostrazione della sussistenza appunto di un’associazione, di una stabile struttura, e della finalità politica che va oltre i singoli fatti eventualmente commessi dagli associati.
Da un reato di organizzazione, la magistratura torinese cerca oggi di passare all’utilizzo di un reato di piazza, come quello di devastazione e saccheggio. La valenza repressiva di questa fattispecie è ancora maggiore per una serie di motivi. La prima è che può colpire in astratto tutti i soggetti partecipanti ad una manifestazione, indipendentemente dal fatto che abbiano commesso specifiche condotte di danneggiamento o furto avvenuti durante la manifestazione stessa. Il passaggio da danneggiamento a devastazione e da furto a saccheggio fa sì che la fattispecie divenga collettiva, venga cioè imputata una sorta di responsabilità collettiva a tutti i soggetti che, partecipando alla manifestazione, avrebbero consentito gli specifici fatti di reato di alcuni.
Questo nostro contributo, per certi versi, si conclude e si apre qui
Questo contributo è stato soprattutto stimolato dall'imminenza del processo per i fatti dell'11 marzo a Milano. Siamo coscienti di una certa mancanza di tempestività che speriamo venga superata da un dibattito e da un confronto collettivi che, del resto, sono già in moto, come dimostrano i contributi scritti ai quali abbiamo fatto riferimento.
In gioco c'é un processo che racchiude in sé gran parte degli aspetti fin qui toccati, in particolare l'utilizzo di "capi d'imputazione", quali "devastazione e saccheggio" e "concorso morale", che non trovano nessuna ragion d'essere se non nella logica repressiva che li ha partoriti con l'evidente finalità di tenere il più possibile, fin da subito, tant* compagn* in carcere. L'obiettivo, non dichiarato ma evidente, è quello di colpire sul nascere tutti quei percorsi e quelle pratiche di lotta che rompono con la concertazione e col dialogo istituzionale ed è perciò fondamentale lottare affinché quell'obiettivo non venga raggiunto.
Nella lotta per sostenere la giustezza di pratiche connesse a prospettive di rottura rivoluzionaria già messe sotto processo in molte città (Lecce, Pisa, ecc), a Torino (27/6) e a Milano (28/6), sono importanti tanto la mobilitazione esterna, nelle sue varie forme, quanto la scelta dell'atteggiamento processuale. Naturalmente, tra questi due momenti, deve esistere un rapporto cooperativo, costruttivo e reciproco.
In specifico, l'atteggiamento processuale è direttamente connesso agli obiettivi politici che ci si pone, complessivamente, fra interno ed esterno. Di per sé, una forma processuale (rito abbreviato, rito ordinario) vale quanto l'altra se non è posta in relazione alla scelta dell'obiettivo politico che si è deciso di sostenere e da cui discende, ovviamente, l'atteggiamento processuale. Come già sappiamo, fra un processo di connivenza ed uno di rottura, sono tante le sfumature possibili, le quali dipendono dalla forza, dalla determinazione e dal grado di coesione che riusciamo ad esprimere, dentro e fuori.
Ciò che cementa il rapporto, fra l'interno e l'esterno, è la solidarietà di classe, che vive e si alimenta nelle lotte e che lo stato cerca di spezzare proprio attraverso la repressione, di cui il carcere, come ben sappiamo, è l'arma principale.
Invitiamo tutti ad entrare nel merito dei temi e dei contributi qui esposti, anche succintamente, anche sulle questioni che appaiono più spinose, per costruire momenti di lotta maggiormente condivisi e quindi più efficaci.
L’antifascismo non si processa
chiudere i CPT e le sezioni del 41bis
Per l’unità nella lotta, qui, fra i proletari di tutti i paesi
Con la resistenza dei popoli che combattono l'imperialismo
Liberi tutti, Libere tutte subito
rilanciare la solidarietà di classe
Milano, giugno 2006
OLGa – è Ora di Liberarsi dalle Galere
olga2005@autistici.org