Il governo italiano partecipa alla guerra imperialista e mantiene in Iraq truppe di occupazione: ogni atto di resistenza è un atto legittimo di difesa della sovranità e dell'autodeterminazione
Le compagnie petrolifere italiane avevano già contratti per lo sfruttamento dei giacimenti iracheni di Halfaya (Agip) e Nasirya (Eni); in cambio della sua partecipazione all’aggressione all’Iraq, l’Italia che conta otterrà in primo luogo il mantenimento dei contratti, che senza l’adesione alla guerra avrebbe perso (e che grazie all’alleanza con gli occupanti potranno essere rinegoziati a condizioni ancora più svantaggiose per l’Iraq), e in secondo luogo la partecipazione agli affari della ricostruzione.
Le ammissioni in merito riportate dalla stampa ufficiale sono numerose: “Il rovesciamento di Saddam con un’azione militare a guida USA potrebbe porre le basi di una ripresa del processo di industrializzazione dell’Iraq, di cui l’Italia sarebbe tra i principali beneficiari. Il nostro Paese, secondo un dossier del ministero delle Attività Produttive, potrebbe esportare nel Paese mediorientale beni e servizi per un valore annuo di 2 miliardi di euro.” (Il Sole 24 Ore – Focus, 22-2-’03)
“Come altri Paesi che sono contrari alla guerra preventiva, l’Italia ha una sua presenza in quell’area dove incombe Saddam Hussein. Non avrebbe perciò interesse a turbare la situazione attuale. Ma potrebbe trarre qualche vantaggio da un dopo-Saddam che fosse più attento e favorevole ai suoi interessi. E’ un ragionamento troppo cinico? Certo. Ma, parafrasando Humphrey Bogart […] diremo che ‘è l’economia, bellezza!’ “ (O.M. Petracca, Il Sole 24 Ore, 7-2-’03)
Affermare che l’Italia non ha partecipato all’aggressione militare e che le sue truppe svolgono compiti umanitari è palesemente falso.
L'Italia è stata parte ativa nell'aggressione militare in Iraq: il suo governo ha offerto determinante supporto logistico alla guerra USA (le basi, il diritto di sorvolo), le sue imprese vendono servizi (rete dei trasporti, telecomunicazioni) al dipartimento della Difesa USA, la sua TV promuove consenso razzista al rovesciamento del sistema politico iracheno. L’impiego degli aerei Tornado per la protezione della Turchia e l’invio di truppe nella fase “postbellica” di occupazione militare del Paese sono stati assicurati già nel gennaio 2003. Porti, aeroporti e ferrovie sono stati riprogrammati in funzione militare: dall’aeroporto di Ciampino transitano da e per il Golfo aerei cargo statunitensi Atlas Air, i porti di La Spezia, Livorno, Salerno, Talamone, Gioia Tauro ospitano - per sosta e carico - navi al servizio dell’esercito USA dirette al Golfo. Grandi e piccole imprese (Alenia, Finmeccanica, Marconi, Fiat Avio, Meteor, ma anche una quantità di marchi dell’elettronica) vivono di commesse militari; compagnie di navigazione come Levantina Trasporti e Industrie Armamento Meridionale (ambedue legate al gruppo Grimaldi) effettuano trasporti militari per gli USA.
Il governo italiano ha mandato in Iraq truppe di occupazione che operano sotto comando dell’esercito aggressore inglese, con compiti di polizia militare, di addestramento della polizia locale (pagata e armata da USA e GB) e di intelligence, cioè spionaggio. Come è ormai chiaro per tutti, la vera guerra guerra è cominciata proprio a partire dall’occupazione di Bagdad, cioè quando gli americani ne hanno proclamato la fine. Gli italiani non prendono parte, per ora, ad azioni di bombardamento, ma eseguono rastrellamenti, “arresti” (cioè cattura di oppositori) e pattugliamenti ai check-point. Gli elicotteri italiani compiono missioni di ricognizione e appoggio alle truppe. Ma è prezioso in particolare il ruolo dei servizi segreti italiani per identificare obiettivi degli attacchi e denunciare strutture e reti di appoggio alla resistenza.
“Ammiro gli italiani per l’aiuto che ci hanno dato e per quel che hanno fatto in Iraq. Ho lavorato per molto tempo al fianco degli italiani nella preparazione della guerra” (ha dichiarato il generale Tommy Franks, che ha condotto la guerra in Iraq, intervistato da M. Platero per Il Sole 24 Ore del 14-11-03). Il gen. Franks non si riferisce all’appoggio logistico offerto dal governo Berlusconi alla guerra (diritto di sorvolo, concessione di basi, reti di trasporto e telecomunicazioni per le operazioni belliche) né all’invio di truppe di occupazione (già promesse nel gennaio ’03): il generale parla della collaborazione sul terreno offerta dal SISMI, il servizio segreto militare italiano, prima dell’inizio dell’offensiva americana sull’Iraq.
“In Iraq, l'Italia ha combattuto la sua guerra. Per ventidue giorni, infiltrati nelle aree metropolitane di Bassora, Baghdad e Kirkuk, una ventina di uomini del Sismi, il nostro servizio segreto militare, hanno condotto operazioni coperte di intelligence in appoggio alle forze militari anglo-americane.” come scrive La Repubblica del 23 aprile 2003. Lo stesso articolo continua: ”Annota l’ANSA: ’Hanno lavorato alacremente prima del conflitto in contatto con i servizi dei paesi alleati e stanno preparando la strada al contingente italiano in partenza per l'Iraq.’ […] Il 17 gennaio, il capo di stato maggiore della difesa statunitense, il generale Richard B. Myers, è a Roma. Incontra il ministro della difesa Antonio Martino e, con lui, il capo di stato maggiore della difesa italiano Rolando Mosca Moschini, il generale Filiberto Cecchi, capo del Comando operativo di vertice interforze, la struttura che coordina le missioni militari degli italiani all'estero. I piani operativi del Pentagono prevedono che le attività belliche sul terreno siano ‘orientate’ dalle informazioni che le intelligence militari di tutti i paesi della ‘coalizione’ saranno in grado di rubare in Iraq, oltre la linea del fronte. Informazioni che verranno raccolte dal Comando unificato anglo-americano in tempo reale, incrociate, elaborate e quindi trasformate in istruzioni alle unità combattenti […]. Nicolò Pollari, direttore del Sismi, ottiene dunque il via libera dal governo e avvia in Iraq la più imponente operazione di intelligence e coinvolgimento militare sul terreno che il servizio abbia conosciuto nella sua storia recente.”
L'ONU porta la responsabilità di aver avvallato la prima guerra del Golfo e il successivo embargo che ha causato un grande numero di vittime. Di fronte, invece, alla seconda campagna militare scatenata dagli anglo-americani contro l’Iraq, non ha autorizzato l’aggressione: di conseguenza, avrebbe dovuto impedire le operazioni militari contro un Paese sovrano che non aveva dichiarato guerra a nessuno, rifiutandosi di ritirare i suoi ispettori e di legittimare l’occupazione dell’Iraq. Ha, al contrario, accettato lo stato di fatto legittimando così l’occupazione.
L’ONU, che avrebbe comunque titolo per dirimere conflitti tra stati e non per intervenire nelle questioni interne di una nazione, viene candidato a gestire il passaggio di poteri in Iraq perché si dimostra essere lo strumento e il rappresentante di una coalizione di potenze imperialiste.
Appellarsi all’ONU perchè sovrintenda all’insediamento “pacifico” di un nuovo governo in Iraq significa legittimare il colpo di stato che realizzi quella vittoria che gli eserciti non sono riusciti ad ottenere sul campo, vale a dire sostituire il legittimo governo iracheno (che non ha mai firmato un trattato di resa e non ha abdicato alle proprie prerogative e responsabilità) con un governo composto di fazioni filoccidentali. A queste fazioni sarà demandato il compito di agevolare la rapina delle risorse del Paese e la privatizzazione dei beni e delle infrastrutture realizzate dopo la nazionalizzazione del petrolio, cioè dopo quell’atto - compiuto dal governo baathista - che aveva segnato l’avvio della effettiva decolonizzazione e che l’assalto delle potenze capitaliste-imperialiste vuole ora cancellare.
Il disegno è infatti quello di indire elezioni sotto occupazione, con l’esclusione delle organizzazioni resistenti - cioè il partito Baath insieme a parte consistente del Partito Comunista e ad alcune formazioni di fede (religiosa) sciita. Si vuole così accollare ad uno (o più) governi pagati e armati dagli imperialisti, i costi in perdite umane di una guerra civile artificiosamente provocata per perseguire, attraverso la distruzione di un modello sociale e politico indipendente quale quello iracheno, l’imposizione della democrazia mercantile propria degli stati imperialisti e, con questa, l’annientamento della resistenza sostenuta, con ogni possibile evidenza, dalla popolazione. Si vuole riportare indietro nel tempo la società irachena attivando un ritorno alla condizione tribale in vista della divisione del Paese.
L’ONU è sempre stato espressione dei rapporti di forza esistenti: oggi la superpotenza statunitense è l’unica in grado di controllarli e condizionarli. L’ONU si avvia quindi a diventare garante del Nuovo Ordine Mondiale.
Il diritto all'autodeterminazione, una delle rivendicazioni fondamentali espresse dai paesi non allineati durante il processo di decolonizzazione, è stato radicalmente stravolto - con il consenso delle sinistre occidentali - e attribuito su base etnica a minoranze egemonizzate da dirigenze asservite, per interesse di classe e privato, agli interessi capitalistici. L’autodeterminazione era invece ed è, nel sentire collettivo oltre che nelle teorizzazioni dei popoli usciti dalla colonizzazione, diritto alla sovranità sulle risorse e diritto allo sviluppo secondo vie proprie e, per quanto possibile all’interno di relazioni internazionali con gli stati capitalisti, indipendenti (non ingerenza).
Ingerenza democratica è il nuovo nome della guerra imperialista e riassume tutte le opzioni, dalla colonizzazione economica e culturale alla guerra: tutti gli apparati del capitale e dello stato vengono mobilitati al fine di imporre la sottomissione di ogni forma di esistenza societaria al modo di produzione capitalista e l’integrazione al suo modello politico. La guerra si fa con forze armate e disarmate, con le armi e con la propaganda. Gli eserciti non muovono solo aerei, navi, mezzi corazzati, soldati, ma anche viveri e ospedali, operatori “umanitari”, ONG (Organizzazioni Non Governative), preti e giornalisti. Lo scopo è prevenire e inibire lo sviluppo di movimenti socio-politici autodeterminati impiantando invece un sistema sociale controllato che si sviluppi entro i canali precostituiti della “società civile” dell’Occidente capitalista: rappresentanze separate e corporative (le etnie, le donne, le minoranze religiose, i gay ecc., portatori di diritti non contradditori all’ordinamento privatistico della società). Investimenti e ONG precedono e seguono l’aggressione armata perché sono parte integrante del progetto imperialistico di nuova colonizzazione. L’esportazione della “democrazia” implica l’annientamento di ogni resistenza, armata e non: ne è esempio il rastrellamento compiuto dai carabinieri italiani nella sede del Partito Comunista Operaio di Iraq e Iran a Nasiryia (21 luglio ’03), partito che ha scelto il terreno delle lotte sociali e sindacali, non partecipa alla guerriglia ma è schierato contro l’occupazione militare. L’esportazione della “democrazia” implica la soppressione delle strutture civili nel Paese occupato: ne è esempio l’allestimento dell’ospedale italiano a Baghdad, città che conta più di 40 ospedali che, privati di apparecchiature e farmaci da 12 anni di embargo e danneggiati dai bombardamenti, sono tuttora attivi. Esportare la “democrazia” significa sovvenzionare le ONG occidentali perché contribuiscano (senza violenza materiale) a smobilitare i movimenti popolari e canalizzino la protesta in contenuti e forme di collaborazionismo: gli operatori di queste ONG sono destinati a diventare la classe dirigente intermedia, la burocrazia della colonizzazione. Sono alcune di queste stesse ONG a denunciare la deriva inevitabile verso l’asservimento agli interessi capitalistici e a mettere in discussione la reale possibilità di un agire autonomo.
La sinistra - istituzionale, alternativa, antagonista - ha accettato di farsi veicolo dell’istanza borghese e capitalista dell’esportazione della “democrazia”: per interesse diretto (accesso alle leve del potere) o per subalternità culturale in favore del patteggiamento opportunista. Accetta come fattore di progresso l’intervento soggettivo del capitale armato e della sua propaganda, si accorda ai suoi progetti coloniali, si fa complice dei suoi piani di illecita ingerenza. E accetta il giudizio delle armi: difende, in linea di principio, la popolazione disarmata fino a che non oppone alla potenza delle armi imperialiste la ribellione delle armi proletarie, la guerra partigiana come la violenza organizzata di massa, la Resistenza irachena come l’Intifada palestinese.
L'ambiguo solidarismo espresso da questa sinistra intende negare legittimità alla guerra di liberazione nazionale irachena sostituendo al soggetto storico che la esprime (la resistenza armata) una entità giuridica estranea (l’ONU) che ratifichi il cambio di regime voluto dalle potenze occidentali - e non solo dagli USA - con metodi accettabili per le coscienze individuali ma che non mettano in discussione l’assetto attuale delle relazioni internazionali fondate sull’egemonia proprietaria dell’Occidente capitalista sopra le risorse dei popoli e, conseguentemente, fondata sulla subordinazione delle nazioni alla democrazia mercantile.
Nel difendere l'indipendenza nazionale gli iracheni difendono la sovranità sulle risorse del Paese minacciate di esproprio tanto dall’aggressione diretta delle potenze occupanti, Italia compresa, e da quella indiretta dei governi che hanno opportunisticamente legittimato lo stato di fatto, quanto dagli attori nascosti della finanza internazionale interessati ad impadronirsi dei capitali arabi. Difendono la proprietà pubblica delle risorse strategiche dalla rapina privata, difendono uno stato sociale che era il più avanzato del mondo arabo, e, forse, del mondo.
Gli interventi e le minacce delle potenze capitaliste da una parte e le ingerenze derivanti dai rapporti con l’URSS dall’altra hanno più volte pesantemente condizionato l’evoluzione politica dell’Iraq senza riuscire a deviarne del tutto la direzione laica e, rispetto alle nazioni dell’area, progressista. L’intervento militare, costringendo il governo alla clandestinità e distruggendo le forme organizzate della vita sociale (insieme alle sue strutture materiali) ha cancellato ogni prospettiva per lo sviluppo delle contraddizioni in seno alla società. Non è possibile “predire” se e quali rappresentanze proprie produrrà il popolo e il proletariato iracheno in un assetto futuro, ma è evidente che nessuna futura legittimazione potrà rivendicare chi non ha sostenuto la guerra di liberazione nazionale.
Nessuna legittimità può essere attribuita a governi collaborazionisti o collusi comunque insediati.
Nessuna delega gli iracheni hanno conferito ad istituzioni internazionali per approdare ad un cambio di regime: l’unica realtà espressa dal popolo iracheno è la resistenza a tutti i livelli all’occupazione militare in tutte le sue componenti, militari e civili.
La solidarietà internazionalista si confronta con il processo storico delle lotte proletarie e di quelle dei popoli oppressi per l’emancipazione e vede nell’unità di classe degli sfruttati contro gli sfruttatori e nell’unità tra il proletariato dei paesi occidentali e i popoli aggrediti contro l’imperialismo l’unico terreno di riconoscimento reciproco e di iniziativa politica.
Non spetta a noi il giudizio sul regime iracheno (mentre ci spetta demistificare le menzogne dei media costruite per calunniare e delegittimare la resistenza): compito storico dei proletari consapevoli è quello di contrastare l’imperialismo e le politiche coloniali e di guerra nel proprio paese, oltre che promuovere e sviluppare forme di solidarietà diretta smascherando i progetti di controllo sociale messi in atto attraverso la cooperazione.
Riconoscendo il pieno diritto del popolo iracheno all'autodifesa, riconosciamo la legittimità della Resistenza e della guerra partigiana (nelle forme e con la direzione che si è data) contro l’invasione e l’occupazione militare, la conseguente svendita delle risorse e il probabile smembramento del Paese. La Resistenza rivendica all’Iraq il diritto ad uno sviluppo economico, sociale e politico proprio, in linea con i principi già affermati dal movimento dei paesi non allineati (non ingerenza, parità politica tra nazioni, coesistenza) contrapponendosi all’espansione imperialista in Medioriente.
Pensiamo che ogni confronto critico con le formazioni politiche resistenti irachene non possa prescindere dalla solidarietà su questi assunti fondamentali e dall’impegno nella lotta per ottenere il ritiro delle forze occupanti italiane dal Medioriente e dell’esercito nazionale da tutte le missioni all’estero, oltre che per la caduta di tutti i governi italiani che hanno firmato e firmeranno la guerra.
25 novembre 2003
COMITATI CONTRO LA GUERRA - MILANO